In effetti, l'unica che si preoccupa veramente, e non solo nel proprio esclusivo interesse, di aspetti del genere (eccesso di credito da squilibri delle partite correnti interni all'eurozona, che diventa un problema per lo stesso creditore), è una tedesca atipica: Frauke Petry
Tutti gli altri governanti, €-tecnocrati e responsabili dei dicasteri economici, sono in preda all'alibi del sogno: "ci vuole più €uropa". Salvo che, i tedeschi, con ciò, intendono politiche e misure esattamente opposte a quelle invocate da tutti gli altri partner, che peraltro di questa incomunicabilità non paiono affatto preoccupati.
Il fatto è che la solidarietà di classe tra i vari oligarchi filo-euristi, (sia pure nelle loro gerarchie, che rendono vassalli minori gli spaghetti-€-liberisti) funziona ancora molto bene: al punto che tutti sono sicuri che, comunque, vadano le cose, a pagare i debiti saranno sempre le "luride" masse di lavoratori, precari, pensionati, vedove, mutuatari, piccoli correntisti, piccoli imprenditori, artigiani, e proprietari delle case di abitazione.
Anzi, nella di ESSI visione, tutti costoro, più pagano, più vengono riportati alla miseria che gli si addice per legge naturale (liberista), e più si realizza una vera giustizia divina (naturalmente il dio è il mercato: con la legge dell'offerta...e dell'offerta)
1. Nonostante le polemiche sui toni usati dal segretario della Lega per criticarle, le dichiarazioni del Presidente della Repubblica a Vinitaly, meritano qualche precisazione.
Mattarella ha infatti affermato che "Da prodotto antico a chiave di modernità,
il vino italiano, col suo successo nell'export, conferma come il destino
dell'Italia sia legato al superamento delle frontiere e non al loro
ripristino".
Una prima lettura, basata sull'attribuzione di un senso logico alle parole del Capo dello Stato, porterebbe a individuare una serie di asserzioni intrecciate nell'unica dichiarazione:
a) il "superamento" delle frontiere ha portato al successo nell'export vinicolo;
b) assumendo in forma transitiva tale prima proposizione, il destino dell'Italia è estendere il successo del proprio export a tutti i possibili settori grazie all'abolizione delle frontiere.
2. Non è difficile scorgere una serie di contraddizioni concettuali di tipo tecnico-economico rispetto a queste implicazioni della dichiarazione del PdR.
L'esportazione, infatti, in sè, presuppone, necessariamente e indefettibilmente, l'esistenza delle frontiere: cioè in assenza di una distinzione tra diverse aree giuridicamente ed economicamente individuate proprio dalle frontiere, non sarebbe possibile effettuare un'operazione di esportazione, che consiste nella vendita di un bene o servizio prodotto all'interno di una certa "circoscrizione" territorialmente individuata dalle frontiere stesse, verso un'altra area individuata allo stesso modo.
Una volta che fossero abolite le frontiere, e quindi l'individuabilità di un territorio soggetto a un unico governo, costituzionalmente e economicamente legittimato a regolare tale territorio con le sue leggi, - quantomeno rispetto a uno o più altri territori che anch'essi rinuncino in condizioni di piena reciprocità alle proprie frontiere giuridico-economiche-, non solo verrebbe meno, rispetto a tali Stati coinvolti il concetto di esportazione, ma la stessa possibilità giuridico-economica di registrare una contabilità nazionale, che include il conto generale dell'insieme delle esportazioni (e importazioni) di beni e servizi all'interno delle partite correnti verso l'estero.
3. Sarebbe stato più esatto, da parte del Presidente della Repubblica, in tal senso, far riferimento al superamento delle "dogane", cioè a quella condizione per cui il passaggio attraverso la frontiera nazionale, in uscita verso le frontiere di un altro Stato "acquirente", non dà luogo a una tassazione specifica dell'operazione a titolo di dazio o altro diritto (posto a carico di quella stessa operazione di cessione che il paese acquirente classifica come "importazione" e che, a sua volta, presuppone il mantenimento delle frontiere rispettive e, dunque, il solo eliminare alcune delle conseguenze fiscali del flusso di esportazione e di corrispondente importazione).
Ma è difficile dimostrare che dalla stessa abolizione dei dazi doganali, tra paesi che si accordino per un'unione doganale, ma che rimangono politicamente distinti sul piano del diritto internazionale, derivi automaticamente, e immancabilmente, un aumento delle esportazioni nette per ogni singolo paese che sia coinvolto.
Da tale accordo, ancorchè esteso ad altri aspetti di apertura delle rispettive economie, (cioè ponendo obblighi giuridici di consentire anche la libera circolazione di capitali e forza lavoro, oltre che delle merci, rimuovendo, in quest'ultimo caso, anche ostacoli non tariffari, cioè non assimilabili ai dazi doganali, a tale libero reciproco commercio), non discende, nell'esperienza internazionale ed economica, un vantaggio univoco e simmetrico per tutti i paesi che lo concludano.
E parliamo di esportazioni nette, per significare che complessivamente, se non si verifica tale ipotesi, la maggior apertura dell'economia, sancita dai trattati di varia intensità liberoscambista, può condurre a (o aggravare) un saldo negativo che deprime la crescita del prodotto del paese che importi dall'estero più di quanto esporti; laddove tale situazione sia prolungata nel tempo, essa conduce a gravi problemi di crescita e di solvibilità finanziaria del paese stesso.
4. Anzi, è particolarmente facile dimostrare il contrario: e la prova molto concreta è che la reciproca apertura delle economie conseguente all'Unione economica e monetaria, (soprattutto monetaria), la cui coesione oggi così tanto discussa, proprio perché la si considera gravemente in pericolo, è inficiata esattamente dalla inevitabilità degli squilibri comerciali interni all'Unione, questi squilibri, infatti, a loro volta, implicano un continuo e ossessivo monitoraggio di quella contabilità nazionale, cioè degli squilibri negativi sia del settore dei conti con l'estero, sia del settore dei conti pubblici, che presuppone proprio il formale, e altrettanto ossessivo, mantenimento delle frontiere.
Lo abbiamo visto nell'ultimo post, che dimostra come tutte le forme di correzione degli squilibri commerciali e finanziari tra Stati aderenti all'Unione monetaria, e quindi le riforme strutturali e il paradigma del pareggio di bilancio, implichino più che mai, da parte delle istituzioni europee, il mantenimento delle frontiere.
Un mantenimento, in senso economico e giuridico (oggetto della parte più importante della normativa dei trattati e del conseguente fiscal compact), che è l'altra faccia della medaglia della sistema istituzionale UE improntato al divieto di ogni forma di trasferimenti a favore degli Stati che siano in deficit commerciale e, come tali, obbligati ad adottare all'interno delle proprie frontiere, politiche durissime di limitazione del costo del lavoro e di instaurazione di un'alta disoccupazione strutturale: questa negli stessi reiterati enunciati delle principali istituzioni europee, è considerata precondizione essenziale per il recupero della competitività verso l'estero, inclusi specialmente i partners europei.
5. E' poi chiaro, o dovrebbe esserlo, che il problema dell'immigrazione, ben lungi dall'essere un problema di frontiere, da ripristinare o da abolire, è un problema di come e a quali condizioni, (compatibilmente con il dettato della Costituzioni democratiche), si ritenga tollerabile, socialmente ma anche dal punto di vista occupazionale e industriale, l'aggiungere, a tale alta disoccupazione strutturale, una quantità crescente, e praticamente illimitata, di forza lavoro, essenzialmente e principalmente determinata da migrazione economica.
In passato, come abbiamo visto, la soluzione di questo tipo di problemi era regolato da trattati bilaterali con i paesi d'origine degli immigrati, in modo da coordinare stabilmente le reciproche esigenze di bisogno di manodopera ovvero di eccesso della medesima.
Questo sistema, pur espressamente previsto dai trattati (p.9), è ora incomprensibilmente abbandonato, e l'assalto alle frontiere esterne dell'€uropa è solo la testimonianza eloquente che alle frontiere non si voglia rinunciare, dato che, abbandonato qualsiasi strumento di diritto internazionale teso alla disciplina programmata (p.8) dei flussi di manodopera dall'estero, si vuol perpetuare il più incivile e disperato sistema di ricatti e di propagazione della miseria, sia dei migranti che degli stessi cittadini dei paesi di destinazione, entrambi coinvolti in un flusso che prescinde dalla possibilità dei singoli Stati di graduare e coordinare l'eventuale accoglienza con i propri effettivi bisogni sociali ed economici.
6. Questo meccanismo di super-enfatizzazione delle frontiere statali degli Stati aderenti all'eurozona, divenute, oggi più che mai, il criterio principale di individuazione delle correzioni relative del costo del lavoro e della produttività ad esso connessa, è il principale oggetto di ogni regolazione europea (inclusa la stessa unione bancaria).
Una cosa è dire "mercato unico", abolendo a certi fini, le conseguenze giuridico-economiche di frontiere che permangono, altra cosa è dire "Stato unico federale", che provveda indifferenziatamente per tutta l'area considerata ai diritti fondamentali di tutti i cittadini in esso residenti (area inclusiva di Stati che in precedenza disciplinavano da sè, essenzialmente in virtù della flessibilità del cambio, i proprio equilibri di conti con l'estero e, più ancora, gli squilibri sociali, occupazionali e produttivi interni al proprio territorio).
Ma quest'ultima soluzione è proprio quella che è vietata dai trattati.
E finché questa situazione permane, l'esigenza, considerata prioritaria, (fino a divenire fine a se stessa) del mantenimento della moneta unica, fa sì che i saldi della contabilità nazionale, (cioè quella resa possibile dalla irrinunciabile considerazione delle frontiere), continuino a contare tanto da essere, oggi, la "ragione sociale" residua di ogni intervento delle istituzioni dell'unione monetaria.
7. Governo dei mercati, cioè economia di mercato fortemente competitiva, come espresso nella norma fondamentale dei trattati (art.3, par.3 TUE), significa una fortissima competizione tra sistemi-Stato, che si gioca nell'appropriazione delle reciproca domanda, cioè nel conquistare ad ogni costo porzioni della domanda altrui.
Agli Stati, inseriti in questa realtà competitiva reciproca instaurata dall'eurozona, non rimane altro che perseguire le politiche deflazioniste che consentono, a costo dell'alta disoccupazione strutturale e della demolizione progressiva ma inesorabile dei diritti del welfare (pensioni, sanità pubblica e istruzione pubblica), di rimanere competitivi e di tentare (senza riuscirvi) di crescere esclusivamente a scapito degli altri Stati coinvolti in questo trattato che di cooperativo finisce per non avere nulla.
Come sovente il post richiederebbe molte riflessioni. La tedesca atipica Petry è della Linke ed è nota per queste sue posizioni, è una fiera oppositrice della Merkel. Le considerazione del PdR se non fossero tragiche sarebbero comiche perché in un'area definita la somma delle esportazioni tra i vari Paesi è per definizione uguale alle importazioni, quindi se quelle nette di un Paese sono positive ve ne devono essere altri che compensano con saldi negativi.A prevalenti considerazioni di tipo politico - giuridico non sarebbe male affianca valutazioni più spiccatamente economiche. Sappiamo che la sovranità monetaria è un elemento essenziale per lo Stato ed inoltre un'area valutaria non ottimale, come quella dell'euro, è destinata a creare squilibri che potrebbero essere sanati solo con trasferimenti dallo stato in surplus a quello in deficit cosa vietata dalle vessatorie regole UE. Il deficit di un Paese equivale a risorse sottratte al suo sistema produttivo, il pareggio di bilancio , e la riduzione del costo del lavoro vanno nella stessa direzione comprimono l'attività economica e peggiorano le condizioni generali ( vedi l'azione di Monti che pur beneficiando dell'aiuto dei " mercati" un eufemismo per indicare i padroni del vapore, è riuscito a far crescere debito, disoccupazione..) . Questi squilibri e problemi non si possono sanare certamente anche con la formazione dello Stato Federale, dovrebbe avere delle caratteristiche opposte a quelle per cui la UE è stata creata. Qualche dubbio sul concetto di lotta tra Stati personalmente vedo più l'azione di un'oligarchia finanziaria che spera di mantenere il controllo del gioco
RispondiElimina“Da prodotto antico a chiave di modernità, il vino italiano, col suo successo nell'export, conferma come il destino dell'Italia sia legato al superamento delle frontiere e non al loro ripristino”. Trovo che il Capo dello Stato abbia pericolosamente inoculato (di certo inconsciamente) forti dosi di mercantilismo (di cui, come sappiamo, l'ordoliberismo è storicamente la veste etico-teorica) che nel nostro Paese, sul piano economico e della struttura produttiva, è peraltro antistorico. L’Italia non è la Germania, paese in cui l’incidenza dell’export sul PIL pesa per più del 50% (mentre in Italia per meno di 1/3). Il PIL italiano si basa principalmente sul mercato interno, ovvero molte piccole e medie imprese (sia per tipologia merceologica sia per impossibilità di cercare e trovare mercati esteri, anche per carenze infrastrutturali come al sud) vivono di domanda interna. Tuttavia, se il “destino” dell’Italia è l’export (ottimizzazione dei costi finalizzati all'offerta, nel sacro nome di Say) e non vengono adottate politiche che rafforzano la domanda interna (perché la gente non ha soldi da spendere in mancanza di reddito, cioè per disoccupazione creata ad hoc o per occupazione precaria con salari da fame), gran parte delle nostre aziende continuerà inevitabilmente a chiudere o (per le eccellenze) ad essere acquisita da imprese estere. Di politiche tese a rafforzare la domanda interna (in linea con quanto prevederebbe la nostra Costituzione) l’Italia però non può farne, altrimenti la madonnina di Bruxelles comincia a piangere. Circostanze che la più alta carica istituzionale dello Stato non dovrebbe così clamorosamente ignorare
RispondiEliminaCon una immagine: nella moneta unica, in mancanza di trasferimenti, "Chianti vs Wolksvagen, 1-4"!!
RispondiEliminaAl di là della praticabilità politica della cosa, mi chiedo se ci sia davvero qualche italiano (non qui) che in buona fede vede come soluzione ai problemi intrinseci al mantenimento dell'Unione economica e monetaria l'eventualità dei trasferimenti automatici dalle zone più ricche del continente a quelle più povere: significherebbe l'assoggettamento permanente dei Paesi mediterranei (e alla lunga pure della Francia, diano un'occhiata alla loro bilancia dei pagamenti e non si facciano particolari illusioni gli eredi della Révolution) all'ex area del marco: comporterebbe, restando a noi, per gli italiani tutti (anche quelli del Nord) l'apprendimento obbligatorio del tedesco e la loro disponibilità, se del caso, al trasferimento senza reali prospettive di rientro in terra natia (cioè più o meno il destino che è toccato ai migliori talenti del Mezzogiorno nei confronti delle regioni ricche d'Italia dal 1861 in poi, salvo eccezioni). Può mai essere questa una prospettiva desiderabile? In nome di cosa? Del conferimento di una carta d'identità uguale a quella che avrebbero i lussemburghesi?
RispondiEliminaMi permetto di porre una domanda che non c'entra con il post e mi scuso per eventuali errori che invito a correggere (dato che non sono un costituzionalista).
RispondiEliminaRiguarda le ultime diatribe sulla astensione o meno al referendum.
Premettendo che:
- la Costituzione prevede il referendum per dare modo ai cittadini di 'correggere' l'operato dei propri rappresentanti. Assumendo quindi il rischio che un gruppo di persone elette come rappresentanti del popolo (che rimane sovrano) possano legiferare in modo non conformo alla volontà popolare;
- si prevede un quorum per dare autorevolezza alla volontà referendaria che si oppoune alla volontà parlamentare la cui autorevolezza deriva dall'elezione.
Sorvolo su fatto che il voto non è solo un diritto ma anche un dovere (come dicono certi esponenti del PD) e sorvolo sul fatto che l'astensione non è una determinata manifestazione di volontà, ma la scelta di non manifestare la propria volontà assumendo il risultato come accettabile in ogni caso.
Non sarebbe meglio togliere il quorum? In questo caso non ci sarebbe un vero dibattito sulle motivazioni del referendum e non sulla costituzionabilità dell'astensione. In questo il partito che dovesse protendere per il no, inviterebbe gli elettori a votare e votare no, invece di utilizzare un espediente tecnico per far valere la propria motiviazione. In questo caso non sarebbe una maggiore manifestazione di democrazia?
Grazie per chi volesse rispondere.
PS: la mia domanda non ha intenzioni polemiche, ma è data dal dubbio e dalla mia ignoranza.
Sarebbe certamente più aderente allo spirito di uno strumento di democrazia diretta che si voglia "effettivo", abolire il quorum.
EliminaEsso, oltretutto, non ha nulla a che fare con la possibile espressione emotiva e non meditata del voto: questo è un problema di trasparenza e imparzialità del sistema mediatico, evindentemente.