Fondamentale post "fenomenologico" di Arturo.
Inutile dire che nella lettura occorre prendersi il dovuto tempo di riflessione. E non trascurare i links. Neppure uno.
1.
Continuano a moltiplicarsi, in forme anche grottesche, le accuse di fascismo
rivolte al governo, alla maggioranza, ai suoi elettori ma anche agli italiani
in generale.
Visto
che il fascismo storico fu un impasto confuso di filoni politici diversi –
sindacalismo, nazionalismo, combattentismo, idealismo, elitismo, eccetera – esso
si presta bene ad analisi che si concentrino sul coté ideologico, individuino
questo o quell’elemento astrattamente ritenuto essenziale per ricostruire una
genealogia in grado di isolare il virus malefico e formulare atti d’accusa.
Con
l’impiego di metodologie siffatte si è riusciti nella notevole impresa di identificare
le origini del fascismo nell’opera di De Maistre (Isaiah Berlin), come in
quella di Marx (Settembrini). Risultati tanto disparati dovrebbero però far
sorgere qualche perplessità sul metodo.
Di
puro buon senso mi paiono quindi le riserve in proposito formulate dal più noto
storico dell’ideologia fascista, Emilio Gentile: “Nessuno può prevedere a quali altri
esiti potrebbe condurre questo modo di studiare le origini dell’ideologia
fascista su un piano esclusivamente teorico-intellettualistico, accentuando ora
l’uno ora l’altro degli elementi - o dosando in proporzione differente gli
elementi - che si reputano essenziali per definire l’essenza di un «fascismo idealtipico».” (Le origini dell’ideologia fascista
(1918-1925), Il Mulino, Bologna, 1996, pag. 19).
In generale, comunque, ogni spiegazione storica
presuppone necessariamente una certa immagine della società, cioè dei fattori
causali che vi operano e della loro interazione. L’unica alternativa è quella
che Labriola chiamava “empirismo
del racconto”, “mettere, cioè,
assieme come vien viene, uomini e cose, le necessità di fatto e gl’influssi
subiettivi.”, lasciandosi influenzare dalle mode e dalle egemonie del momento.
Non molto promettente, direi.
3. Qui vorrei fare con
voi un piccolo esperimento: anziché proporvi una qualche ricostruzione del
fascismo vorrei provare a lasciar
parlare le fonti.
A scanso di equivoci:
è ovvio che le fonti *non* parlano mai da sole, ma penso che uno dei
(pochissimi) vantaggi della disastrosa situazione che stiamo vivendo in questi
anni sia la possibilità di approfittare della verità contenuta nel famoso detto
crociano che vuole la storia sia sempre “contemporanea”.
Ovvero sono convinto
che i teorici della durezza del vivere, dello Stato che è come una famiglia, del
pareggio di bilancio, dello stampar moneta e dei dolorosi ma necessari
sacrifici, involontariamente ci abbiano obbligati a perforare il velo del feticismo economico, offrendoci anche la
possibilità di usare questa consapevolezza, pagata a caro prezzo, per (ri)leggere
la storia passata pesandone in modo abbastanza plausibile i fatti e le idee.
(Sia chiaro: mi riferisco alla storia di società capitaliste e solo di quelle).
La mia chiosa si limiterà alla spiegazione di fatti poco noti e a suggerire
qualche analogia col presente; alla fine proverò a cavare qualche riflessione.
Come fonte userò quasi
esclusivamente articoli e dichiarazioni di Mussolini, l’importanza del cui
ruolo non ha bisogno di particolari giustificazioni.
La raccolta che userò è ovviamente
l’Opera omnia di Benito Mussolini, La Fenice, Firenze, 1951-1963, voll. 1-35,
curata da Elio e Duilio Susmel (d’ora in avanti, OO con indicazione del
volume e della pagina), ma indicherò sempre anche la fonte originale.
Vogliamo provare?
Partiamo!
4. “Nel
voto che dovremo emettere a chiusura di questo convegno, la riaffermazione
della nostra ostilità al ministero Nitti deve dominare su ogni altro pensiero.
Si deve soprattutto a quest’uomo se l’Italia ogni giorno di più vede diminuito
il suo prestigio all’estero e se all’interno la situazione è sempre più caotica
e sconfortante. L’insuccesso
dell’ora legale e l’occupazione delle fabbriche (sebbene in definitiva questi
gesti siano apparsi inconcludenti ed artificiosi) sono le cause principali
dello svalutamento della nostra moneta.” (Sulla situazione interna, discorso pronunciato a Milano, nella sede
dell’Alleanza industriale e commerciale sita in piazza San Sepolcro 9, la
mattina dell’11 aprile 1920, nel corso dell’assemblea del comitato centrale dei
Fasci Italiani di Combattimento. Il Popolo d’Italia, n. 89, 13 aprile 1920, OO,
vol. 14, pag. 406).
Il riferimento all’ora legale si riferisce al c.d. “sciopero delle lancette”. La svalutazione, notoriamente una sciagura, in particolare negli
anni Venti (o no?), sarebbe causata
da rivendicazioni operaie. Non so voi, io un odore di fatepresto e di
giustificazione di metodi spicci antioperai la sento…
E infatti, pochi giorni dopo:
5. “Caro Mussolini,
nella ricorrenza della
vittoria antibolscevica del 15 aprile 1919, a nome degli arditi che vi
parteciparono insieme ai fascisti ed al popolo milanese, vi mando i saluti più
sinceri.
Con la demolizione dell'Avanti! fu stroncata in quel
giorno la presunta forza armata bolscevica italiana e a Orlando,— allora
mendicante a Parigi — ne
venne un giovamento morale non trascurabile, che valorizzò maggiormente la
nostra moneta.”
(Fonogramma a mano, Il Popolo d’Italia, n. 91, 15 aprile 1920, OO,
vol. 14, pag. 408).
L’autore della missiva è Ferruccio
Vecchi; l’episodio a cui si riferisce è l’assalto alla sede dell’Avanti: se è per difendere la moneta, anche un attacco squadrista diventa più
che giustificato. Imercati, si sa, sono esigenti.
6. Proseguiamo. Il titolo dell’articolo già dice tutto: Basta col
torchio!
“Gli avvenimenti che si svolgono sulle rive del Carnaro non devono
far passare sotto silenzio un delitto che si sta commettendo in questi giorni a
Roma: un delitto terribile, che avrà conseguenze disastrose sulla vita della
nazione. Si è deciso di stampare tremila milioni di nuova carta moneta. Perché?
Dai « mugugnamenti » di Giovanni Giolitti e dei suoi ministri, si è arrivati a
capire la ragione di questa funestissima torchiata. Ci sono le industrie
siderurgiche che stanno male e dovrebbero chiudere. Ora il Governo ha
autorizzato le Banche di emissione a stampare tanta carta straccia quanta ne
occorre per tenere in piedi la baracca siderurgica. Occorre la spaventévole
cifra di tremila milioni. C’è da rabbrividire! Ancora un passo su questa strada
e siamo agli «assegnati», cioè alla carta che non ha più valore alcuno, cioè
alla catastrofe totale ed irreparabile.
Aumentare invece che
ridurre la massa della valuta, significa volere deliberatamente piombare
nell’abisso. Secondo le
norme elementari dell’economia, fra massa di beni reali e massa di beni
simbolici, ci dovrebbe essere un rapporto di equilibrio. Quando
aumentano i beni simbolici — carta-valuta — e diminuiscono gli altri, si ha il
fenomeno dell’inflazione cartacea, con relative conseguenze tangibili a
chiunque.
Durante la guerra, il
fenomeno dell’inflazione, cioè dell’emissione a getto perenne di carta-moneta,
si poteva anche spiegare come una necessità dovuta all’eccezionale regime
economico e politico imposto alla nazione. Ma dopo la guerra bisognava obbedire
a questo imperativo categorico: non aumentare di una sola lira la massa
cartacea circolante e provocare il fenomeno inverso della « deflazione ».” (Il Popolo d’Italia, n. 293, 8 dicembre 1920, OO, vol. 16, pag. 47).
Non c’è bisogno di particolari commenti, direi. Sennonché abbiamo
finalmente la prova che pure Mussolini, come Hitler: vd. n. 7, era un
seguace della teoria quantitativa della moneta; in più caldeggiava apertamente la deflazione, naturalmente per
evitare la solita catastrofe. Che sorpresa.
Merita di essere segnalata l’illogicità dell’argomentazione secondo cui
la monetizzazione del fabbisogno sarebbe nefasta, ma in guerra invece si
potrebbe fare: e perché mai? (Una risposta parziale è l’esistenza durante la
guerra di forme di razionamento – peraltro utilizzabili anche in pace per
salvaguardare l’occupazione: vedi il solito Caffè – ma l’implicita ammissione di un qualche effetto espansivo della
domanda pubblica monetizzata è evidente).
7. Pochi giorni dopo, eccolo tornare alla carica: “Da tutto ciò
risulta che il ministro Meda, pur avendo l’aria di smentire, ha pienamente
confermato. Ora noi ci dichiariamo nemici acerrimi di questo come di qualsiasi
altro ministero che aumenti o tolleri che sia aumentata, anche nella proporzione
di una cartina da una lira, la quantità della nostra valuta cartacea. Se tutto ciò che dicono gli
economisti di professione sulle conseguenze dell’inflazione cartacea è vero, le
prospettive per il nostro domani sono tali da giustificare la richiesta e fors’anco
l’applicazione della pena capitale contro i ministri responsabili.”
(Basta col torchio! L’on. Meda ciurla nel manico!, Il Popolo d’Italia, n. 298,
14 dicembre 1920, OO, vol. 16, pag. 55).
Niente meno. D’altra parte, se lo dicono gliesperti…
8. Facciamo un salto di due anni per arrivare al clou:
“Due cose
occorrono. Anzitutto che il ministro del Tesoro parli chiaro. Non perifrasi
vaghe, per nascondere il male, ma la schiettezza dei numeri. Chiediamo,
insomma, una esposizione sincera, che abbia l’effetto — sui signori deputati e
sul paese — di un poderoso pugno nello stomaco. Dopo l’esposizione finanziaria,
è necessario esaminare il problema dal punto di vista esecutivo: quale organo
occorra creare per effettuare il più inesorabile regime della lesina. Il Parlamento è inadatto allo
scopo. I signori deputati non sanno mai dire di no. Il Governo subisce le
pressioni dei deputati.
Dopo il pietoso e
miserando risultato della riforma burocratica — conclusosi non in una falcidia,
ma in un grosso aumento di personale e di spese — è illusorio sperare nella
Camera o nel Governo. Bisogna istituire, sia pure come loro emanazione, ma al disopra delle fluttuazioni
degli ambienti governativi e parlamentari, una vera e propria dittatura della
lesina, con poteri assoluti e coll’obiettivo preciso: affrettare il pareggio
del bilancio. Non si sono costituite all’infuori del Governo e del
Parlamento, commissioni speciali, munite di poteri sovrani, per la liquidazione
del materiale di guerra? Si nomini un’altra commissione che liquidi al più
presto il deficit nel bilancio dello Stato. E’ necessario che tutti i cittadini
si convincano della realtà di questo dilemma: o la lesina o il fallimento.” (Lesina, Il Popolo d’Italia, n. 155, 30 giugno 1922, OO, vol.
18, pagg. 264-5).
(Lesina vuol dire ovviamente “austerità”.)
C’è tutto: il tremendismo economico, come l’ho sentito definire da un
economista spagnolo, che giustifica la sottrazione della politica fiscale al
parlamento, troppo sensibile al miope egoismo del popolo-lemming per poter conseguire
il salvifico pareggio di bilancio, in nome del raggiungimento del quale tutto
diventa lecito.
Che certe posizioni le sostenesse Benito Mussolini in fondo non
stupisce; qualche perplessità in più suscitano proposte di segno non proprio opposto provenienti da istituzioni autoproclamatesi depositarie dell’antidoto
agli orrori del Novecento.
10. Il famoso “discorso del bivacco” è già stato riportato in un commento e anch’esso non ha bisogno di ulteriori esegesi.
11. Dalle parole passiamo ai fatti, entrando nel regime, con un
discorso molto importante:
“Qualcuno potrebbe domandare: perché tanto
clamore, perché tanti armati per una cerimonia che si potrebbe chiamare di
ordine puramente amministrativo, quale è la consegna dei miei due bilanci al
Ministero delle Finanze? A questo punto interrogativo conviene rispondere: per
diversi motivi, uno più plausibile dell’altro.
La solennità che
accompagna questo gesto sta a dimostrare l’importanza enorme che il Governo
annette ad un rapido ripristino della normalità finanziaria.
Noi abbiamo
solennemente promesso di avviare
il bilancio dello Stato verso il pareggio e a questa promessa noi
vogliamo tener fede a
qualunque costo. Bisogna
persuadersi che se il tutto crolla, crolla anche la parte; e che se l’economia
della Nazione va al precipizio, tutto quello che è dentro la Nazione,
istituzioni, uomini, classi, è destinato a subire l’identica sorte.
E perché questi armati?
Per dimostrare che il Governo ha delle forze.
Io dichiaro che voglio governare, se possibile, col
consenso del maggior numero di cittadini; ma nell’attesa che questo consenso si
formi, si alimenti e si fortifichi, io accantono il massimo delle forze
disponibili.
Perché può darsi per
avventura che la forza faccia ritrovare il consenso e in ogni caso, quando
mancasse il consenso, c’è la forza. Per tutti i provvedimenti anche i più duri che il Governo
prenderà, metteremo i cittadini davanti a questo dilemma: o accettarli per alto
spirito di patriottismo o subirli.
Cosi io concepisco lo
Stato e così comprendo l’arte di governare la Nazione.”
Questo passaggio conferisce una certa concretezza ai termini un po’
vaghi del famoso trilemma (più realisticamente un dilemma) di
Rodrik.
Così si conclude il pezzo:
“Bisogna portare nel nostro spirito un senso di severità assoluta. Bisogna considerare
che il denaro dell’erario è sacro sopra ogni altra cosa. Esso non piove dal
cielo e non può essere nemmeno fatto col giro del torchio che, se potessi, io
vorrei spezzare. E tratto dal sudore e, si può dire, dal sangue del popolo italiano,
che lavora oggi, che lavorerà di più domani. Ogni lira, ogni soldo, ogni centesimo di questo denaro
deve essere considerato sacro e non deve essere speso se non quando ragioni di
stretta e documentata necessità lo impongano.
La storia dei popoli
dice che la severa finanza
ha condotto le nazioni alla salvezza. Penso che ognuno di voi sia
partecipe di questa verità ampiamente documentata dalla storia. Con questa
convinzione vi porgo il mio cordiale e fraterno saluto.” (Risposta al ministro delle finanze, Il Popolo d’Italia n. 57,
8 marzo 1923, OO, vol. 19, pagg. 163-4)
12. Il “duce” colse la drammatica (per gli italiani) occasione per
riflessioni generali di carattere teorico. Ora che ne abbiamo visti i
presupposti materiali può essere interessante affrontarle: dobbiamo consultare
“Gerarchia”.
“Per approfondire e chiarificare le idee del fascismo, Mussolini fondò nel gennaio del
1922 la rivista «Gerarchia», con l’ambizioso proposito - analogo a
quello che lo aveva spinto a creare dieci anni prima, e in tutt’altro
contesto, la rivista «Utopia» - di svolgere «un’opera culturale di critica e di scelta più vasta, più
complessa e ben altrimenti delicata e profonda di quella che può compiere
un quotidiano». Nel Breve preludio, Mussolini spiegava il
significato del titolo, chiarendo il suo concetto fondamentale di gerarchia. Gerarchia,
egli affermava, significava scala di valori umani, di responsabilità e di
doveri. Le gerarchie erano necessarie a qualsiasi sistema, ma nessuna di esse
poteva ritenersi eterna. Lo scopo di questa definizione era duplice, mirando
a giustificare e ad accreditare, contemporaneamente, sia l’immagine del
fascismo come movimento restauratore dell’ordine sia la sua
volontà rivoluzionaria, in quanto espressione di una nuova gerarchia,
e quindi di una nuova concezione dello Stato.
Mussolini, certamente,
voleva suscitare attorno al fascismo il consenso della
borghesia presentandolo come una forza equilibratrice, che avrebbe
ristabilito l’ordine e rinnovato la società nel quadro della
tradizione dello Stato nazionale. Ma, nello stesso tempo, egli voleva
anche distanziare il fascismo dalle posizioni ideologiche troppo
tradizionaliste e conservatrici, per esaltarne la novità e la modernità
come movimento politico di avanguardia. Così, pur riconoscendo
il grande valore spirituale della tradizione come «creazione successiva e
costante» dell’anima di un popolo, Mussolini respingeva l’idea della
tradizione, in senso metapolitico, come qualcosa di assoluto, di
immutabile e di definito, un’idea che, dal suo punto di vista, serviva
solo a legittimare l’inamovibilità della vecchia gerarchia al potere. Il
fascismo rispettava la tradizione che costituiva patrimonio storico di un
popolo, ma non poteva
certo arrestare la sua azione di fronte a gerarchie tradizionali in
declino perché incapaci di esercitare la loro funzione dirigente:
erano gerarchie che avevano compiuto il loro ciclo storico e
dovevano, perciò, cedere le redini del comando alle nuove gerarchie in
ascesa, espresse dal fascismo.”
“Documenti significativi, a questo proposito, sono l’articolo Forza
e consenso, del 1923, e il saggio Preludio al Machiavelli del 1924.
In essi Mussolini espone con una certa sistematicità le sue idee sulla
crisi dello Stato liberale, la funzione del potere statale, la natura
degli uomini e il ruolo del capo.” (E. Gentile, op. cit., pagg. 314-5
e 478).
12.1 Vediamo dunque la critica al liberalismo contenuta in “Forza e
consenso”, uscito su Gerarchia esattamente nel marzo del ’23 (OO, vol. 19,
pagg. 195-6):
“Ma insomma, in che cosa consiste questo liberalismo per il quale
più o meno obliquamente si infiammano oggi tutti i nemici del fascismo?
Liberalismo significa suffragio universale e generi affini? Significa tenere
aperta in permanenza la Camera, perché offra l’indecente spettacolo che aveva
sollevato la nausea generale? Significa in nome della libertà lasciare ai pochi
la libertà di uccidere la libertà di tutti? Significa fare largo a coloro che
dichiarano la loro ostilità allo Stato e lavorano attivamente per demolirlo? È
questo il liberalismo? Ebbene,
se questo è il liberalismo, esso è una teoria e una pratica di abbiezione e di
rovina. La libertà non è un fine; è un mezzo. Come mezzo deve essere
controllato e dominato. Qui cade il discorso della « forza ».”
Mi pare abbastanza chiaro: il rimprovero al liberalismo è di non essere
abbastanza autoritario. Confesso che di tutte le critiche possibili al
liberalismo, questa proprio non mi sarebbe mai venuta in mente.
Ovvero l’opposizione al liberalismo in sé non garantisce proprio nulla:
dipende dalle ragioni che la sostengono.
“Posto come assiomatico che qualsiasi provvedimento di governo crea
dei malcontenti, come eviterete che questo malcontento dilaghi e costituisca un
pericolo per la solidità dello Stato? Lo eviterete colla forza.
Coll’accantonare il massimo di forza. Coll’impiegare questa forza,
inesorabilmente, quando si renda necessario. Togliete a un Governo qualsiasi la forza — e si intende
forza fisica, forza armata — e lanciategli soltanto i suoi immortali principi,
e quel Governo sarà alla mercè del primo gruppo organizzato e deciso ad
abbatterlo. Ora il fascismo getta al macero queste teorie antivitali.
Quando un gruppo o un partito è al potere, esso ha l’obbligo di fortificarvisi
e di difendersi contro tutti. La verità palese oramai agli occhi di chiunque
non li abbia bendati dal dogmatismo, è che gli uomini sono forse stanchi di
libertà. Ne hanno fatto un’orgia. La libertà non è oggi più la vergine casta e
severa per la quale combatterono e morirono le generazioni della prima metà del
secolo scorso. Per le giovinezze intrepide, inquiete ed aspre che si affacciano
al crepuscolo mattinale della nuova storia ci sono altre parole che esercitano
un fascino molto maggiore, e sono: ordine, gerarchia, disciplina. Questo povero liberalismo
italiano, che va gemendo e battagliando per una più grande libertà, è
singolarmente in ritardo. È completamente al di fuori di ogni comprensione e
possibilità.”
12.1.1. Di là dalla pretesa di incarnare una svolta epocale, mi pare
che la sostanza di questa retorica truculenta l’abbia colta perfettamente il
solito Pareto in un articolo di poco successivo:
“Si è detto che parecchie
economie del fascismo stanno più sulla carta che nei fatti. C’è forse un poco
di vero in ciò, specialmente per le ferrovie. Ma da prima, il solo porle sulla
carta è avviamento a compierle, e poi molte già sono recate in atto. Se ne
persuade agevolmente chi studia le relazioni del De Stefani, nonché l'ampio ed
importante articolo: Sei mesi di politica finanziaria del governo fascista1, di
Lello Gangemi. E impossibile, se si vuole tenere conto dei fatti, negare che
siamo proprio sulla via di un prospero successo. La fede dei gregari concede di recare in opera i
provvedimenti che il senno dei capi fa utili al paese. Seguiterà
questo andamento? Speriamolo, poiché da esso dipende la salvezza della Nazione."
(In margine al bilancio di De Stefani, « Il Giornale Economico », 10 giugno
1923, pp. 161-163, e poi ne « Il Giornale di Roma », 14 giugno 1923, ora in
Scritti sociologici, vol. II, UTET, Torino, 1974, pag. 1203).
Ricondotta a quella che è la sua funzione nell’ambito del conflitto
sociale e analizzata nel suo rapporto col feticismo, anche lo studio
dell’ideologia può ritrovare ovviamente tutto il suo spazio e la sua
importanza.
Senza questo tipo di contestualizzazione, però, diventa, nella migliore
delle ipotesi, un esercizio di erudizione, interessante proporzionalmente alla
preparazione dello studioso (ma di Del Noce ce n’è stato uno); nella peggiore,
un’arma polemica, buona magari per sostenere, con un grottesco rovesciamento
della realtà storica, che il fascismo sarebbe una manifestazione di irrazionalità delle masse, sempre pericolose e da tenere quindi al guinzaglio corto. Cornuti e
mazziati, mi verrebbe da dire.
Sorvoliamo pietosamente.
12.2. Passiamo dunque al Preludio al Machiavelli (Gerarchia, n.
4, aprile 1924, OO, vol. 20, pagg. 253-4):
“Mentre gli individui tendono, sospinti dai loro egoismi,
all’atomismo sociale, lo Stato rappresenta una organizzazione e una
limitazione. L’individuo
tende a evadere continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non
pagare i tributi, a non fare la guerra. Pochi sono coloro — eroi o santi — che
sacrificano il proprio io sull’altare dello Stato. Tutti gli altri sono in
istato di rivolta potenziale contro lo Stato. Le rivoluzioni dei secoli XVII e
XVIII hanno tentato di risolvere questo dissidio che è alla base di ogni
organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come una emanazione
della libera volontà del popolo. C’è una finzione e una illusione di più. Prima
di tutto il popolo non fu mai definito. È una entità meramente astratta, come
entità politica. Non si sa dove cominci esattamente, né dove finisca. L’aggettivo di sovrano applicato
al popolo è una tragica burla. Il popolo tutto al più, delega, ma non può certo
esercitare sovranità alcuna. I sistemi rappresentativi appartengono più
alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi meccanismi sono in
più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui non si domanda più
nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli si
strappano le corone cartacee della sovranità — buone per i tempi normali — e
gli si ordina senz’altro o di accettare una Rivoluzione o una pace o di
marciare verso l’ignoto di una guerra. Al popolo non resta che un monosillabo
per affermare e obbedire. Voi
vedete che la sovranità elargita graziosamente al popolo gli viene sottratta
nei momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo
quando è innocua o è reputata tale, cioè nei momenti di ordinaria
amministrazione.”
Questo passaggio è molto importante: vi si trova il classico repertorio
elitistico, risalente a Mosca e Pareto, che di ampia circolazione ha sempre
goduto anche e prima di tutto in campo liberale (vedi per esempio l’Einaudi che
abbiamo riportato qui, n. 2.3. D’altra
parte gli stessi Mosca e Pareto hanno oscillato fra liberalismo e fascismo); la
negazione della soggettività politica del popolo (con buona pace di chi
fantastica essere popolo e sovranità concetti fascisti); la naturalizzazione del conflitto e dell’egoismo asociale, altro
topos liberale.
Particolarmente interessante, e altra mancanza di distanza dalla
visione del mondo liberale, è che il conflitto non dipende dall’egoismo: guerre
e crisi si presentano come inspiegate fatalità a cui l’egoismo individuale
tenderebbe semmai ad *opporsi*. Ovvero si stigmatizza come asociale un
elementare desiderio di conservazione di beni essenziali, la vita innanzitutto.
Se appena si dubita del fatalismo catastrofista, tale “egoismo” sembra andare
di conserva, più che opporsi, all’interesse sociale e l’indispensabilità, almeno katechontica, della democrazia risplende in tutto il suo fulgore.
13. Su questo discorso agli industriali del ’28 ha già detto l’essenziale Quarantotto nel
commento sotto. Ora risulterà chiaro che tutto era meno che un fulmine a ciel
sereno.
14. Un ultimo commento di Emilio Gentile (op. cit., pag. 480) per
avviarci alle conclusioni: “Il problema della sovranità, nel pensiero di Mussolini, era
risolto riaffermando il ruolo assoluto del potere esecutivo. Del
resto, secondo Mussolini - ed anche in questo è evidente un riflesso delle idee
di Le Bon - tutta la storia della civiltà era una continua
limitazione della libertà dell’individuo. La critica di Mussolini al
liberalismo e al parlamentarismo non era originata da convinzioni ideologiche
reazionarie; non era una critica dottrinaria di principio, come per i
nazionalisti o i tradizionalisti nostalgici dell'ancien régime, ma una critica
alla funzionalità sociale del sistema e dell’ideologia liberale per
la conquista e per la conservazione del potere nella società di massa e
nei tempi moderni.”
Ossia, laddove il liberalismo manteneva un certo grado di consenso, fin
quando poteva filtrarlo politicamente con gli “infiniti modi” di cui parlava
Pareto (qui, n. 1),
riservandosi di aprire alla bisogna stati di eccezione proprio nei momenti in cui di sovranità popolare più “potrebbe
sentirsene il bisogno” - qui non si può negare che Mussolini ci abbia preso in
pieno – un non limitabile ingresso delle masse nella vita pubblica obbliga a
trasformare l’eccezione in regola e rimuovere una volta per tutte il rischio
del mancato consenso, organizzandolo totalitariamente dall’alto e reprimendo il
dissenso, sostituendolo però col rischio pretoriani, che in effetti ha amplificato fino al parossismo le tendenze
distruttive della società capitalistica.
(Naturalmente questa interpretazione presuppone un certo peso assegnato
al conflitto sociale, in particolare alla sua risoluzione in chiave
deflazionista: sta a voi decidere, sulla base di una lettura dei documenti che
vi ho proposto nutrita dall’esperienza di questi anni, se condividete tale
ponderazione).
Finora il riproporsi di analogo dilemma è stato rinviato dalla novità
costituita dai mass-media e dal benessere accumulato nel “trentennio d’oro”;
come verrà affrontata la congiuntura legata allo screditamento dei primi e all’esaurirsi
del secondo sarà senz’altro interessante (nel senso in cui la parola viene
impiegata in una nota maledizione cinese).