Fondamentale post "fenomenologico" di Arturo.
Inutile dire che nella lettura occorre prendersi il dovuto tempo di riflessione. E non trascurare i links. Neppure uno.
1.
Continuano a moltiplicarsi, in forme anche grottesche, le accuse di fascismo
rivolte al governo, alla maggioranza, ai suoi elettori ma anche agli italiani
in generale.
Visto
che il fascismo storico fu un impasto confuso di filoni politici diversi –
sindacalismo, nazionalismo, combattentismo, idealismo, elitismo, eccetera – esso
si presta bene ad analisi che si concentrino sul coté ideologico, individuino
questo o quell’elemento astrattamente ritenuto essenziale per ricostruire una
genealogia in grado di isolare il virus malefico e formulare atti d’accusa.
Con
l’impiego di metodologie siffatte si è riusciti nella notevole impresa di identificare
le origini del fascismo nell’opera di De Maistre (Isaiah Berlin), come in
quella di Marx (Settembrini). Risultati tanto disparati dovrebbero però far
sorgere qualche perplessità sul metodo.
Di
puro buon senso mi paiono quindi le riserve in proposito formulate dal più noto
storico dell’ideologia fascista, Emilio Gentile: “Nessuno può prevedere a quali altri
esiti potrebbe condurre questo modo di studiare le origini dell’ideologia
fascista su un piano esclusivamente teorico-intellettualistico, accentuando ora
l’uno ora l’altro degli elementi - o dosando in proporzione differente gli
elementi - che si reputano essenziali per definire l’essenza di un «fascismo idealtipico».” (Le origini dell’ideologia fascista
(1918-1925), Il Mulino, Bologna, 1996, pag. 19).
2. Da parte nostra, abbiamo provato a ricollocare
il fascismo sul terreno dei rapporti materiali e del conflitto sociale. Un approccio che, se non può vantare l’appeal della novità, mi pare ancora fornito di un certo potere
esplicativo.
In generale, comunque, ogni spiegazione storica
presuppone necessariamente una certa immagine della società, cioè dei fattori
causali che vi operano e della loro interazione. L’unica alternativa è quella
che Labriola chiamava “empirismo
del racconto”, “mettere, cioè,
assieme come vien viene, uomini e cose, le necessità di fatto e gl’influssi
subiettivi.”, lasciandosi influenzare dalle mode e dalle egemonie del momento.
Non molto promettente, direi.
3. Qui vorrei fare con
voi un piccolo esperimento: anziché proporvi una qualche ricostruzione del
fascismo vorrei provare a lasciar
parlare le fonti.
A scanso di equivoci:
è ovvio che le fonti *non* parlano mai da sole, ma penso che uno dei
(pochissimi) vantaggi della disastrosa situazione che stiamo vivendo in questi
anni sia la possibilità di approfittare della verità contenuta nel famoso detto
crociano che vuole la storia sia sempre “contemporanea”.
Ovvero sono convinto
che i teorici della durezza del vivere, dello Stato che è come una famiglia, del
pareggio di bilancio, dello stampar moneta e dei dolorosi ma necessari
sacrifici, involontariamente ci abbiano obbligati a perforare il velo del feticismo economico, offrendoci anche la
possibilità di usare questa consapevolezza, pagata a caro prezzo, per (ri)leggere
la storia passata pesandone in modo abbastanza plausibile i fatti e le idee.
(Sia chiaro: mi riferisco alla storia di società capitaliste e solo di quelle).
La mia chiosa si limiterà alla spiegazione di fatti poco noti e a suggerire
qualche analogia col presente; alla fine proverò a cavare qualche riflessione.
Come fonte userò quasi
esclusivamente articoli e dichiarazioni di Mussolini, l’importanza del cui
ruolo non ha bisogno di particolari giustificazioni.
La raccolta che userò è ovviamente l’Opera omnia di Benito Mussolini, La Fenice, Firenze, 1951-1963, voll. 1-35, curata da Elio e Duilio Susmel (d’ora in avanti, OO con indicazione del volume e della pagina), ma indicherò sempre anche la fonte originale.
La raccolta che userò è ovviamente l’Opera omnia di Benito Mussolini, La Fenice, Firenze, 1951-1963, voll. 1-35, curata da Elio e Duilio Susmel (d’ora in avanti, OO con indicazione del volume e della pagina), ma indicherò sempre anche la fonte originale.
Vogliamo provare?
Partiamo!
4. “Nel voto che dovremo emettere a chiusura di questo convegno, la riaffermazione della nostra ostilità al ministero Nitti deve dominare su ogni altro pensiero. Si deve soprattutto a quest’uomo se l’Italia ogni giorno di più vede diminuito il suo prestigio all’estero e se all’interno la situazione è sempre più caotica e sconfortante. L’insuccesso dell’ora legale e l’occupazione delle fabbriche (sebbene in definitiva questi gesti siano apparsi inconcludenti ed artificiosi) sono le cause principali dello svalutamento della nostra moneta.” (Sulla situazione interna, discorso pronunciato a Milano, nella sede dell’Alleanza industriale e commerciale sita in piazza San Sepolcro 9, la mattina dell’11 aprile 1920, nel corso dell’assemblea del comitato centrale dei Fasci Italiani di Combattimento. Il Popolo d’Italia, n. 89, 13 aprile 1920, OO, vol. 14, pag. 406).
Il riferimento all’ora legale si riferisce al c.d. “sciopero delle lancette”. La svalutazione, notoriamente una sciagura, in particolare negli
anni Venti (o no?), sarebbe causata
da rivendicazioni operaie. Non so voi, io un odore di fatepresto e di
giustificazione di metodi spicci antioperai la sento…
E infatti, pochi giorni dopo:
5. “Caro Mussolini,
nella ricorrenza della
vittoria antibolscevica del 15 aprile 1919, a nome degli arditi che vi
parteciparono insieme ai fascisti ed al popolo milanese, vi mando i saluti più
sinceri.
Con la demolizione dell'Avanti! fu stroncata in quel
giorno la presunta forza armata bolscevica italiana e a Orlando,— allora
mendicante a Parigi — ne
venne un giovamento morale non trascurabile, che valorizzò maggiormente la
nostra moneta.”
(Fonogramma a mano, Il Popolo d’Italia, n. 91, 15 aprile 1920, OO,
vol. 14, pag. 408).
L’autore della missiva è Ferruccio
Vecchi; l’episodio a cui si riferisce è l’assalto alla sede dell’Avanti: se è per difendere la moneta, anche un attacco squadrista diventa più
che giustificato. Imercati, si sa, sono esigenti.
6. Proseguiamo. Il titolo dell’articolo già dice tutto: Basta col
torchio!
“Gli avvenimenti che si svolgono sulle rive del Carnaro non devono
far passare sotto silenzio un delitto che si sta commettendo in questi giorni a
Roma: un delitto terribile, che avrà conseguenze disastrose sulla vita della
nazione. Si è deciso di stampare tremila milioni di nuova carta moneta. Perché?
Dai « mugugnamenti » di Giovanni Giolitti e dei suoi ministri, si è arrivati a
capire la ragione di questa funestissima torchiata. Ci sono le industrie
siderurgiche che stanno male e dovrebbero chiudere. Ora il Governo ha
autorizzato le Banche di emissione a stampare tanta carta straccia quanta ne
occorre per tenere in piedi la baracca siderurgica. Occorre la spaventévole
cifra di tremila milioni. C’è da rabbrividire! Ancora un passo su questa strada
e siamo agli «assegnati», cioè alla carta che non ha più valore alcuno, cioè
alla catastrofe totale ed irreparabile.
Aumentare invece che
ridurre la massa della valuta, significa volere deliberatamente piombare
nell’abisso. Secondo le
norme elementari dell’economia, fra massa di beni reali e massa di beni
simbolici, ci dovrebbe essere un rapporto di equilibrio. Quando
aumentano i beni simbolici — carta-valuta — e diminuiscono gli altri, si ha il
fenomeno dell’inflazione cartacea, con relative conseguenze tangibili a
chiunque.
Durante la guerra, il
fenomeno dell’inflazione, cioè dell’emissione a getto perenne di carta-moneta,
si poteva anche spiegare come una necessità dovuta all’eccezionale regime
economico e politico imposto alla nazione. Ma dopo la guerra bisognava obbedire
a questo imperativo categorico: non aumentare di una sola lira la massa
cartacea circolante e provocare il fenomeno inverso della « deflazione ».” (Il Popolo d’Italia, n. 293, 8 dicembre 1920, OO, vol. 16, pag. 47).
Non c’è bisogno di particolari commenti, direi. Sennonché abbiamo
finalmente la prova che pure Mussolini, come Hitler: vd. n. 7, era un
seguace della teoria quantitativa della moneta; in più caldeggiava apertamente la deflazione, naturalmente per
evitare la solita catastrofe. Che sorpresa.
Merita di essere segnalata l’illogicità dell’argomentazione secondo cui
la monetizzazione del fabbisogno sarebbe nefasta, ma in guerra invece si
potrebbe fare: e perché mai? (Una risposta parziale è l’esistenza durante la
guerra di forme di razionamento – peraltro utilizzabili anche in pace per
salvaguardare l’occupazione: vedi il solito Caffè – ma l’implicita ammissione di un qualche effetto espansivo della
domanda pubblica monetizzata è evidente).
7. Pochi giorni dopo, eccolo tornare alla carica: “Da tutto ciò
risulta che il ministro Meda, pur avendo l’aria di smentire, ha pienamente
confermato. Ora noi ci dichiariamo nemici acerrimi di questo come di qualsiasi
altro ministero che aumenti o tolleri che sia aumentata, anche nella proporzione
di una cartina da una lira, la quantità della nostra valuta cartacea. Se tutto ciò che dicono gli
economisti di professione sulle conseguenze dell’inflazione cartacea è vero, le
prospettive per il nostro domani sono tali da giustificare la richiesta e fors’anco
l’applicazione della pena capitale contro i ministri responsabili.”
(Basta col torchio! L’on. Meda ciurla nel manico!, Il Popolo d’Italia, n. 298,
14 dicembre 1920, OO, vol. 16, pag. 55).
Niente meno. D’altra parte, se lo dicono gliesperti…
8. Facciamo un salto di due anni per arrivare al clou:
“Due cose occorrono. Anzitutto che il ministro del Tesoro parli chiaro. Non perifrasi vaghe, per nascondere il male, ma la schiettezza dei numeri. Chiediamo, insomma, una esposizione sincera, che abbia l’effetto — sui signori deputati e sul paese — di un poderoso pugno nello stomaco. Dopo l’esposizione finanziaria, è necessario esaminare il problema dal punto di vista esecutivo: quale organo occorra creare per effettuare il più inesorabile regime della lesina. Il Parlamento è inadatto allo scopo. I signori deputati non sanno mai dire di no. Il Governo subisce le pressioni dei deputati.
“Due cose occorrono. Anzitutto che il ministro del Tesoro parli chiaro. Non perifrasi vaghe, per nascondere il male, ma la schiettezza dei numeri. Chiediamo, insomma, una esposizione sincera, che abbia l’effetto — sui signori deputati e sul paese — di un poderoso pugno nello stomaco. Dopo l’esposizione finanziaria, è necessario esaminare il problema dal punto di vista esecutivo: quale organo occorra creare per effettuare il più inesorabile regime della lesina. Il Parlamento è inadatto allo scopo. I signori deputati non sanno mai dire di no. Il Governo subisce le pressioni dei deputati.
Dopo il pietoso e
miserando risultato della riforma burocratica — conclusosi non in una falcidia,
ma in un grosso aumento di personale e di spese — è illusorio sperare nella
Camera o nel Governo. Bisogna istituire, sia pure come loro emanazione, ma al disopra delle fluttuazioni
degli ambienti governativi e parlamentari, una vera e propria dittatura della
lesina, con poteri assoluti e coll’obiettivo preciso: affrettare il pareggio
del bilancio. Non si sono costituite all’infuori del Governo e del
Parlamento, commissioni speciali, munite di poteri sovrani, per la liquidazione
del materiale di guerra? Si nomini un’altra commissione che liquidi al più
presto il deficit nel bilancio dello Stato. E’ necessario che tutti i cittadini
si convincano della realtà di questo dilemma: o la lesina o il fallimento.” (Lesina, Il Popolo d’Italia, n. 155, 30 giugno 1922, OO, vol.
18, pagg. 264-5).
(Lesina vuol dire ovviamente “austerità”.)
C’è tutto: il tremendismo economico, come l’ho sentito definire da un
economista spagnolo, che giustifica la sottrazione della politica fiscale al
parlamento, troppo sensibile al miope egoismo del popolo-lemming per poter conseguire
il salvifico pareggio di bilancio, in nome del raggiungimento del quale tutto
diventa lecito.
Che certe posizioni le sostenesse Benito Mussolini in fondo non
stupisce; qualche perplessità in più suscitano proposte di segno non proprio opposto provenienti da istituzioni autoproclamatesi depositarie dell’antidoto
agli orrori del Novecento.
10. Il famoso “discorso del bivacco” è già stato riportato in un commento e anch’esso non ha bisogno di ulteriori esegesi.
11. Dalle parole passiamo ai fatti, entrando nel regime, con un
discorso molto importante:
“Qualcuno potrebbe domandare: perché tanto clamore, perché tanti armati per una cerimonia che si potrebbe chiamare di ordine puramente amministrativo, quale è la consegna dei miei due bilanci al Ministero delle Finanze? A questo punto interrogativo conviene rispondere: per diversi motivi, uno più plausibile dell’altro.
“Qualcuno potrebbe domandare: perché tanto clamore, perché tanti armati per una cerimonia che si potrebbe chiamare di ordine puramente amministrativo, quale è la consegna dei miei due bilanci al Ministero delle Finanze? A questo punto interrogativo conviene rispondere: per diversi motivi, uno più plausibile dell’altro.
La solennità che
accompagna questo gesto sta a dimostrare l’importanza enorme che il Governo
annette ad un rapido ripristino della normalità finanziaria.
Noi abbiamo
solennemente promesso di avviare
il bilancio dello Stato verso il pareggio e a questa promessa noi
vogliamo tener fede a
qualunque costo. Bisogna
persuadersi che se il tutto crolla, crolla anche la parte; e che se l’economia
della Nazione va al precipizio, tutto quello che è dentro la Nazione,
istituzioni, uomini, classi, è destinato a subire l’identica sorte.
E perché questi armati?
Per dimostrare che il Governo ha delle forze.
Io dichiaro che voglio governare, se possibile, col
consenso del maggior numero di cittadini; ma nell’attesa che questo consenso si
formi, si alimenti e si fortifichi, io accantono il massimo delle forze
disponibili.
Perché può darsi per
avventura che la forza faccia ritrovare il consenso e in ogni caso, quando
mancasse il consenso, c’è la forza. Per tutti i provvedimenti anche i più duri che il Governo
prenderà, metteremo i cittadini davanti a questo dilemma: o accettarli per alto
spirito di patriottismo o subirli.
Cosi io concepisco lo
Stato e così comprendo l’arte di governare la Nazione.”
Questo passaggio conferisce una certa concretezza ai termini un po’
vaghi del famoso trilemma (più realisticamente un dilemma) di
Rodrik.
Così si conclude il pezzo:
“Bisogna portare nel nostro spirito un senso di severità assoluta. Bisogna considerare
che il denaro dell’erario è sacro sopra ogni altra cosa. Esso non piove dal
cielo e non può essere nemmeno fatto col giro del torchio che, se potessi, io
vorrei spezzare. E tratto dal sudore e, si può dire, dal sangue del popolo italiano,
che lavora oggi, che lavorerà di più domani. Ogni lira, ogni soldo, ogni centesimo di questo denaro
deve essere considerato sacro e non deve essere speso se non quando ragioni di
stretta e documentata necessità lo impongano.
La storia dei popoli
dice che la severa finanza
ha condotto le nazioni alla salvezza. Penso che ognuno di voi sia
partecipe di questa verità ampiamente documentata dalla storia. Con questa
convinzione vi porgo il mio cordiale e fraterno saluto.” (Risposta al ministro delle finanze, Il Popolo d’Italia n. 57,
8 marzo 1923, OO, vol. 19, pagg. 163-4)
12. Il “duce” colse la drammatica (per gli italiani) occasione per
riflessioni generali di carattere teorico. Ora che ne abbiamo visti i
presupposti materiali può essere interessante affrontarle: dobbiamo consultare
“Gerarchia”.
“Per approfondire e chiarificare le idee del fascismo, Mussolini fondò nel gennaio del
1922 la rivista «Gerarchia», con l’ambizioso proposito - analogo a
quello che lo aveva spinto a creare dieci anni prima, e in tutt’altro
contesto, la rivista «Utopia» - di svolgere «un’opera culturale di critica e di scelta più vasta, più
complessa e ben altrimenti delicata e profonda di quella che può compiere
un quotidiano». Nel Breve preludio, Mussolini spiegava il
significato del titolo, chiarendo il suo concetto fondamentale di gerarchia. Gerarchia,
egli affermava, significava scala di valori umani, di responsabilità e di
doveri. Le gerarchie erano necessarie a qualsiasi sistema, ma nessuna di esse
poteva ritenersi eterna. Lo scopo di questa definizione era duplice, mirando
a giustificare e ad accreditare, contemporaneamente, sia l’immagine del
fascismo come movimento restauratore dell’ordine sia la sua
volontà rivoluzionaria, in quanto espressione di una nuova gerarchia,
e quindi di una nuova concezione dello Stato.
Mussolini, certamente, voleva suscitare attorno al fascismo il consenso della borghesia presentandolo come una forza equilibratrice, che avrebbe ristabilito l’ordine e rinnovato la società nel quadro della tradizione dello Stato nazionale. Ma, nello stesso tempo, egli voleva anche distanziare il fascismo dalle posizioni ideologiche troppo tradizionaliste e conservatrici, per esaltarne la novità e la modernità come movimento politico di avanguardia. Così, pur riconoscendo il grande valore spirituale della tradizione come «creazione successiva e costante» dell’anima di un popolo, Mussolini respingeva l’idea della tradizione, in senso metapolitico, come qualcosa di assoluto, di immutabile e di definito, un’idea che, dal suo punto di vista, serviva solo a legittimare l’inamovibilità della vecchia gerarchia al potere. Il fascismo rispettava la tradizione che costituiva patrimonio storico di un popolo, ma non poteva certo arrestare la sua azione di fronte a gerarchie tradizionali in declino perché incapaci di esercitare la loro funzione dirigente: erano gerarchie che avevano compiuto il loro ciclo storico e dovevano, perciò, cedere le redini del comando alle nuove gerarchie in ascesa, espresse dal fascismo.”
Mussolini, certamente, voleva suscitare attorno al fascismo il consenso della borghesia presentandolo come una forza equilibratrice, che avrebbe ristabilito l’ordine e rinnovato la società nel quadro della tradizione dello Stato nazionale. Ma, nello stesso tempo, egli voleva anche distanziare il fascismo dalle posizioni ideologiche troppo tradizionaliste e conservatrici, per esaltarne la novità e la modernità come movimento politico di avanguardia. Così, pur riconoscendo il grande valore spirituale della tradizione come «creazione successiva e costante» dell’anima di un popolo, Mussolini respingeva l’idea della tradizione, in senso metapolitico, come qualcosa di assoluto, di immutabile e di definito, un’idea che, dal suo punto di vista, serviva solo a legittimare l’inamovibilità della vecchia gerarchia al potere. Il fascismo rispettava la tradizione che costituiva patrimonio storico di un popolo, ma non poteva certo arrestare la sua azione di fronte a gerarchie tradizionali in declino perché incapaci di esercitare la loro funzione dirigente: erano gerarchie che avevano compiuto il loro ciclo storico e dovevano, perciò, cedere le redini del comando alle nuove gerarchie in ascesa, espresse dal fascismo.”
“Documenti significativi, a questo proposito, sono l’articolo Forza
e consenso, del 1923, e il saggio Preludio al Machiavelli del 1924.
In essi Mussolini espone con una certa sistematicità le sue idee sulla
crisi dello Stato liberale, la funzione del potere statale, la natura
degli uomini e il ruolo del capo.” (E. Gentile, op. cit., pagg. 314-5
e 478).
12.1 Vediamo dunque la critica al liberalismo contenuta in “Forza e
consenso”, uscito su Gerarchia esattamente nel marzo del ’23 (OO, vol. 19,
pagg. 195-6):
“Ma insomma, in che cosa consiste questo liberalismo per il quale
più o meno obliquamente si infiammano oggi tutti i nemici del fascismo?
Liberalismo significa suffragio universale e generi affini? Significa tenere
aperta in permanenza la Camera, perché offra l’indecente spettacolo che aveva
sollevato la nausea generale? Significa in nome della libertà lasciare ai pochi
la libertà di uccidere la libertà di tutti? Significa fare largo a coloro che
dichiarano la loro ostilità allo Stato e lavorano attivamente per demolirlo? È
questo il liberalismo? Ebbene,
se questo è il liberalismo, esso è una teoria e una pratica di abbiezione e di
rovina. La libertà non è un fine; è un mezzo. Come mezzo deve essere
controllato e dominato. Qui cade il discorso della « forza ».”
Mi pare abbastanza chiaro: il rimprovero al liberalismo è di non essere
abbastanza autoritario. Confesso che di tutte le critiche possibili al
liberalismo, questa proprio non mi sarebbe mai venuta in mente.
Ovvero l’opposizione al liberalismo in sé non garantisce proprio nulla:
dipende dalle ragioni che la sostengono.
“Posto come assiomatico che qualsiasi provvedimento di governo crea
dei malcontenti, come eviterete che questo malcontento dilaghi e costituisca un
pericolo per la solidità dello Stato? Lo eviterete colla forza.
Coll’accantonare il massimo di forza. Coll’impiegare questa forza,
inesorabilmente, quando si renda necessario. Togliete a un Governo qualsiasi la forza — e si intende
forza fisica, forza armata — e lanciategli soltanto i suoi immortali principi,
e quel Governo sarà alla mercè del primo gruppo organizzato e deciso ad
abbatterlo. Ora il fascismo getta al macero queste teorie antivitali.
Quando un gruppo o un partito è al potere, esso ha l’obbligo di fortificarvisi e di difendersi contro tutti. La verità palese oramai agli occhi di chiunque non li abbia bendati dal dogmatismo, è che gli uomini sono forse stanchi di libertà. Ne hanno fatto un’orgia. La libertà non è oggi più la vergine casta e severa per la quale combatterono e morirono le generazioni della prima metà del secolo scorso. Per le giovinezze intrepide, inquiete ed aspre che si affacciano al crepuscolo mattinale della nuova storia ci sono altre parole che esercitano un fascino molto maggiore, e sono: ordine, gerarchia, disciplina. Questo povero liberalismo italiano, che va gemendo e battagliando per una più grande libertà, è singolarmente in ritardo. È completamente al di fuori di ogni comprensione e possibilità.”
Quando un gruppo o un partito è al potere, esso ha l’obbligo di fortificarvisi e di difendersi contro tutti. La verità palese oramai agli occhi di chiunque non li abbia bendati dal dogmatismo, è che gli uomini sono forse stanchi di libertà. Ne hanno fatto un’orgia. La libertà non è oggi più la vergine casta e severa per la quale combatterono e morirono le generazioni della prima metà del secolo scorso. Per le giovinezze intrepide, inquiete ed aspre che si affacciano al crepuscolo mattinale della nuova storia ci sono altre parole che esercitano un fascino molto maggiore, e sono: ordine, gerarchia, disciplina. Questo povero liberalismo italiano, che va gemendo e battagliando per una più grande libertà, è singolarmente in ritardo. È completamente al di fuori di ogni comprensione e possibilità.”
12.1.1. Di là dalla pretesa di incarnare una svolta epocale, mi pare
che la sostanza di questa retorica truculenta l’abbia colta perfettamente il
solito Pareto in un articolo di poco successivo:
“Si è detto che parecchie economie del fascismo stanno più sulla carta che nei fatti. C’è forse un poco di vero in ciò, specialmente per le ferrovie. Ma da prima, il solo porle sulla carta è avviamento a compierle, e poi molte già sono recate in atto. Se ne persuade agevolmente chi studia le relazioni del De Stefani, nonché l'ampio ed importante articolo: Sei mesi di politica finanziaria del governo fascista1, di Lello Gangemi. E impossibile, se si vuole tenere conto dei fatti, negare che siamo proprio sulla via di un prospero successo. La fede dei gregari concede di recare in opera i provvedimenti che il senno dei capi fa utili al paese. Seguiterà questo andamento? Speriamolo, poiché da esso dipende la salvezza della Nazione." (In margine al bilancio di De Stefani, « Il Giornale Economico », 10 giugno 1923, pp. 161-163, e poi ne « Il Giornale di Roma », 14 giugno 1923, ora in Scritti sociologici, vol. II, UTET, Torino, 1974, pag. 1203).
“Si è detto che parecchie economie del fascismo stanno più sulla carta che nei fatti. C’è forse un poco di vero in ciò, specialmente per le ferrovie. Ma da prima, il solo porle sulla carta è avviamento a compierle, e poi molte già sono recate in atto. Se ne persuade agevolmente chi studia le relazioni del De Stefani, nonché l'ampio ed importante articolo: Sei mesi di politica finanziaria del governo fascista1, di Lello Gangemi. E impossibile, se si vuole tenere conto dei fatti, negare che siamo proprio sulla via di un prospero successo. La fede dei gregari concede di recare in opera i provvedimenti che il senno dei capi fa utili al paese. Seguiterà questo andamento? Speriamolo, poiché da esso dipende la salvezza della Nazione." (In margine al bilancio di De Stefani, « Il Giornale Economico », 10 giugno 1923, pp. 161-163, e poi ne « Il Giornale di Roma », 14 giugno 1923, ora in Scritti sociologici, vol. II, UTET, Torino, 1974, pag. 1203).
Ricondotta a quella che è la sua funzione nell’ambito del conflitto
sociale e analizzata nel suo rapporto col feticismo, anche lo studio
dell’ideologia può ritrovare ovviamente tutto il suo spazio e la sua
importanza.
Senza questo tipo di contestualizzazione, però, diventa, nella migliore
delle ipotesi, un esercizio di erudizione, interessante proporzionalmente alla
preparazione dello studioso (ma di Del Noce ce n’è stato uno); nella peggiore,
un’arma polemica, buona magari per sostenere, con un grottesco rovesciamento
della realtà storica, che il fascismo sarebbe una manifestazione di irrazionalità delle masse, sempre pericolose e da tenere quindi al guinzaglio corto. Cornuti e
mazziati, mi verrebbe da dire.
Sorvoliamo pietosamente.
Sorvoliamo pietosamente.
12.2. Passiamo dunque al Preludio al Machiavelli (Gerarchia, n.
4, aprile 1924, OO, vol. 20, pagg. 253-4):
“Mentre gli individui tendono, sospinti dai loro egoismi,
all’atomismo sociale, lo Stato rappresenta una organizzazione e una
limitazione. L’individuo
tende a evadere continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non
pagare i tributi, a non fare la guerra. Pochi sono coloro — eroi o santi — che
sacrificano il proprio io sull’altare dello Stato. Tutti gli altri sono in
istato di rivolta potenziale contro lo Stato. Le rivoluzioni dei secoli XVII e
XVIII hanno tentato di risolvere questo dissidio che è alla base di ogni
organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come una emanazione
della libera volontà del popolo. C’è una finzione e una illusione di più. Prima
di tutto il popolo non fu mai definito. È una entità meramente astratta, come
entità politica. Non si sa dove cominci esattamente, né dove finisca. L’aggettivo di sovrano applicato
al popolo è una tragica burla. Il popolo tutto al più, delega, ma non può certo
esercitare sovranità alcuna. I sistemi rappresentativi appartengono più
alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi meccanismi sono in
più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui non si domanda più
nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli si
strappano le corone cartacee della sovranità — buone per i tempi normali — e
gli si ordina senz’altro o di accettare una Rivoluzione o una pace o di
marciare verso l’ignoto di una guerra. Al popolo non resta che un monosillabo
per affermare e obbedire. Voi
vedete che la sovranità elargita graziosamente al popolo gli viene sottratta
nei momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo
quando è innocua o è reputata tale, cioè nei momenti di ordinaria
amministrazione.”
Questo passaggio è molto importante: vi si trova il classico repertorio
elitistico, risalente a Mosca e Pareto, che di ampia circolazione ha sempre
goduto anche e prima di tutto in campo liberale (vedi per esempio l’Einaudi che
abbiamo riportato qui, n. 2.3. D’altra
parte gli stessi Mosca e Pareto hanno oscillato fra liberalismo e fascismo); la
negazione della soggettività politica del popolo (con buona pace di chi
fantastica essere popolo e sovranità concetti fascisti); la naturalizzazione del conflitto e dell’egoismo asociale, altro
topos liberale.
Particolarmente interessante, e altra mancanza di distanza dalla
visione del mondo liberale, è che il conflitto non dipende dall’egoismo: guerre
e crisi si presentano come inspiegate fatalità a cui l’egoismo individuale
tenderebbe semmai ad *opporsi*. Ovvero si stigmatizza come asociale un
elementare desiderio di conservazione di beni essenziali, la vita innanzitutto.
Se appena si dubita del fatalismo catastrofista, tale “egoismo” sembra andare
di conserva, più che opporsi, all’interesse sociale e l’indispensabilità, almeno katechontica, della democrazia risplende in tutto il suo fulgore.
13. Su questo discorso agli industriali del ’28 ha già detto l’essenziale Quarantotto nel
commento sotto. Ora risulterà chiaro che tutto era meno che un fulmine a ciel
sereno.
14. Un ultimo commento di Emilio Gentile (op. cit., pag. 480) per
avviarci alle conclusioni: “Il problema della sovranità, nel pensiero di Mussolini, era
risolto riaffermando il ruolo assoluto del potere esecutivo. Del
resto, secondo Mussolini - ed anche in questo è evidente un riflesso delle idee
di Le Bon - tutta la storia della civiltà era una continua
limitazione della libertà dell’individuo. La critica di Mussolini al
liberalismo e al parlamentarismo non era originata da convinzioni ideologiche
reazionarie; non era una critica dottrinaria di principio, come per i
nazionalisti o i tradizionalisti nostalgici dell'ancien régime, ma una critica
alla funzionalità sociale del sistema e dell’ideologia liberale per
la conquista e per la conservazione del potere nella società di massa e
nei tempi moderni.”
Ossia, laddove il liberalismo manteneva un certo grado di consenso, fin
quando poteva filtrarlo politicamente con gli “infiniti modi” di cui parlava
Pareto (qui, n. 1),
riservandosi di aprire alla bisogna stati di eccezione proprio nei momenti in cui di sovranità popolare più “potrebbe
sentirsene il bisogno” - qui non si può negare che Mussolini ci abbia preso in
pieno – un non limitabile ingresso delle masse nella vita pubblica obbliga a
trasformare l’eccezione in regola e rimuovere una volta per tutte il rischio
del mancato consenso, organizzandolo totalitariamente dall’alto e reprimendo il
dissenso, sostituendolo però col rischio pretoriani, che in effetti ha amplificato fino al parossismo le tendenze
distruttive della società capitalistica.
(Naturalmente questa interpretazione presuppone un certo peso assegnato
al conflitto sociale, in particolare alla sua risoluzione in chiave
deflazionista: sta a voi decidere, sulla base di una lettura dei documenti che
vi ho proposto nutrita dall’esperienza di questi anni, se condividete tale
ponderazione).
Finora il riproporsi di analogo dilemma è stato rinviato dalla novità
costituita dai mass-media e dal benessere accumulato nel “trentennio d’oro”;
come verrà affrontata la congiuntura legata allo screditamento dei primi e all’esaurirsi
del secondo sarà senz’altro interessante (nel senso in cui la parola viene
impiegata in una nota maledizione cinese).
"Finora il riproporsi di analogo dilemma è stato rinviato dalla novità costituita dai mass-media e dal benessere accumulato nel “trentennio d’oro”; come verrà affrontata la congiuntura legata allo screditamento dei primi e all’esaurirsi del secondo sarà senz’altro interessante (nel senso in cui la parola viene impiegata in una nota maledizione cinese)."
RispondiEliminaQueste cose però Benito le scriveva prima del 29.
Dopo si auto-contraddisse in maniera abbastanza vistosa.
Mutatis mutandis, all'arrivo dell'ormai prevedibilissimo shock esterno, ci sarà un probabile intervento in stile Beneduce-Menichella. Show must go on!
https://it.wikipedia.org/wiki/Alberto_Beneduce
D'altronde, passato il tempo delle prefiche, si ritorna sempre alle naturali occupazioni con quelle senza il pre (e non c'è teoria gender che possa impedirlo).
Come ricordava Bazaar pochi post fa (citando Engels):
“il momento determinante della storia, in ultima istanza, è la produzione e la riproduzione della vita immediata. Ma questa è a sua volta di duplice specie. Da un lato, la produzione di mezzi di sussistenza, di generi per l'alimentazione, di oggetti di vestiario, di abitazione e di strumenti necessari per queste cose; dall'altro, la produzione degli uomini stessi: la riproduzione della specie. Le istituzioni sociali entro le quali gli uomini di una determinata epoca storica e di un determinato paese vivono, sono condizionate da entrambe le specie della produzione; dallo stadio di sviluppo del lavoro, da una parte, e della famiglia, dall'altra.”
Siccome la fase di peggioramento delle condizioni di lavoro/occupazione e del matrimonio a fini riproduttivi sembra aver toccato il fondo, non credo che saranno ancora molti a voler continuare a scavare.
Hai fatto bene ad evidenziare questo aspetto: la posizione prima e dopo la crisi del 1929 è il vero appiglio su cui si misura il giudizio complessivo sulle politiche economico-sociali del regime fascista.
EliminaDa questo punto di vista, sarebbe interessante, - come da parte di taluni proposto (senza però aver dato seguito)- la verifica delle serie storiche degli indicatori macroeconomici italiani nel complesso del ventennio, e, ovviamente, delle poste nel bilancio pubblico che attestino i "volumi!" e di conseguenza, inevitabilmente, la natura redistributiva o, invece, "sedativa" (di un malcontento potenzialmente destabilizzante) del mitico welfare.
Incentrarsi sul Mussolini della fase "De Stefani" non consente cioè una definizione sufficientemente esauriente del fenomeno.
A onor del vero, però, dati sulla crescita dei salari reali e sulla prosecuzione post 1929 delle politiche di controllo corporativo delle relative dinamiche, Arturo li ha già forniti in precedenti occasioni (v. antifascismo su Marte).
Rimaniamo in attesa di una più organica analisi dei dati di crescita (di consumi e investimenti, privati e pubblici) e di distribuzione del reddito, in un mercato del lavoro "autoritario" (quindi di para-piena occupazione), lungo tutto il periodo in esame.
Certamente se il mio scopo fosse stato una definizione esaustiva delle politiche economiche del fascismo l’osservazione sarebbe pertinente; io però volevo concentrarmi solo sul prima e dopo della presa del potere, perché è questo lo spettro che viene continuamente agitato. Se era quindi indispensabile una verifica puntuale delle politiche anticrisi del nazismo, lo è molto meno per il fascismo, visto che, vivaddio, non è possibile scaricare su un popolo privato dei diritti politici la responsabilità di quel che fa un regime totalitario. Naturalmente la curiosità però è legittima. :-)
EliminaCome dice Quarantotto, avevo riportato i dati sia dei salari che dei consumi: l’insieme taglia per quanto mi riguarda la proverbiale testa al toro.
Non mi pare che serie storiche e analisi più recenti alterino il quadro, se mai il contrario.
Quanto alla distribuzione del reddito, i risultati si commentano da soli: mentre in epoca liberale “sono soprattutto le classi di reddito intermedie ad aver beneficiato della crescita economica: un risultato coerente con i numeri presentati nella tabella 8.3 che mostrano come, durante questo periodo, nonostante la consistente riduzione della povertà, la componente della disuguaglianza abbia ≪remato contro≫ mitigando gli effetti benefici della crescita”, “nell’epoca fascista la situazione cambia radicalmente: la curva di incidenza della crescita è, con l’eccezione del tratto finale, decisamente crescente. La metà più povera della popolazione raccoglie i frutti più modesti della crescita. Sono invece le famiglie più ricche, in particolare quelle comprese tra il settantesimo e l’ottantesimo percentile, a godere dei maggiori benefici della crescita economica. Il ventennio si configura dunque come un periodo storico in cui al tabù della povertà si aggiungono vistosi effetti redistributivi regressivi.” (G. Vecchi (a cura di), In ricchezza e in povertà, Il Mulino, Bologna, 2011, pagg. 306-7).
Quanto all’impatto della crisi del ’29, non bisogna pensare che il fascismo abbia affrontato la disoccupazione con lo stesso piglio del nazismo: tutt’altro. Da quel che si può dire, pur nelle incertezze notevoli dalle serie storiche, “l’altra economia fascista era in una situazione molto peggiore. I dati sulla disoccupazione in Italia sono inaffidabili. Secondo i più recenti tentativi, il tasso di disoccupazione nel settore industriale nel 1935 fu compreso tra l’11, 5% (l’estremo inferiore della stima) e il 23, 2% (l’estremo superiore). Se prendiamo la media (17, 4), ciò significa che dopo 13 anni di governo fascista, il tasso di disoccupazione in Italia era analogo a quello delle economie non fasciste con disoccupazione più elevata.” (P. Bairoch, Economia e storia mondiale, Milano, Garzanti, 2003, pag. 28)
Alla fine “Fu solo con il concretizzarsi di un programma operativo per la guerra in Etiopia che l'economia italiana ricevette lo stimolo necessario alla ripresa della produzione e dell'occupazione.”
EliminaMa pensa.
Tuttavia, come ho già detto sopra, “ciò che colpisce, a parte le distorsioni settoriali e territoriali, è il fatto che i risultati non siano stati, nel complesso, migliori e più duraturi dal punto di vista della crescita aggregata. Le responsabilità del non eccezionale successo dell'economia di guerra italiana vanno attribuite, come si vedrà, in parte alle caratteristiche strutturali del sistema e in parte alle inefficienze e incertezze della politica economica. Ciononostante quest'ultima ebbe almeno il merito di far uscire l'Italia dal ristagno comune agli altri paesi del « blocco aureo », per farle seguire un sentiero di crescita somigliante a quello imboccato circa due anni prima, e con ben maggiore efficienza e determinatezza, dalla Germania.” (G. Toniolo, L’economia dell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari, 1980, pagg. 272 e 273-4).
Pur al netto dell’aumento considerevole della spesa sociale, grazie all’introduzione del sistema pensionistico, e alla modernizzazione industriale legata a iniziative come l’IRI, non mi pare che si delinei un bilancio esaltante, anche facendo finta che non sia indispensabile inserirvi la guerra ed escludendo la soppressione della libertà politica, che è senza contropartite possibili.
L'unico vero fatto positivo della politica economica del ventennio fu la nazionalizzazione del credito (non a caso "irizzata" da Beneduce che fascista non fu mai).
EliminaNon va dimenticato poi che ante-29 il regime, da perfetto modello liberista, fece default sul debito mascherandolo con il famigerato "prestito del Littorio" e con il prestito di 100 milioni di usd da parte di Morgan dopo ricalcolo del debito di guerra verso gli USA: nel 1934 un'ulteriore operazione di consolidamento fu tale da bloccare l'emissione dei BOT fino a guerra inoltrata.
Comunque il keynesismo ed il socialismo sono fondati sull'attenzione alla domanda aggregata e, questa, dipende in primis dalla distribuzione del reddito.
EliminaLe capacità "personali" di chi gestì la politica in epoca fascista, o in Germania sotto il nazismo, per quello che interessa in questi spazi, dovrebbero essere secondarie.
Anche Mario Draghi è un ottimo banchiere, rispetto alla sua missione: ma ha contribuito ad affamare le famiglie dei Paesi dell'unione monetaria.
L'evidenza dei dati che più dovrebbero interessare è la correlazione tra democrazia economica e democrazia politica.
La democrazia economica non garantisce la democrazia politica. (Basti pensare alla gestione politica di conflitti interni ed esterni, che possono necessitare forme di accentramento del potere politico).
Ma la mancanza di democrazia politica esclude la democrazia economica.
Che un elitista voglia masse di servi straccione ed ignoranti può essere considerato un enunciato epistemico del materialismo storico.
Se le volesse ricche ed istruite, o è un tiranno cretino o è un democratico.
Capire che il tiranno illuminato o il dittatore benevole sono falsa coscienza ad uso del popolino, sarebbe già un bel passo verso la coscienza democratica.
Bazaar, ma che differenza c'è tra keynesismo e socialismo?
EliminaNell’analisi del fascismo ci sono molte trappole ideologiche, che negli ultimi trent’anni, non casualmente, s’è lavorato alacramente per infittire. Nel post ho provato a giocare sulla sponda fornita dai sostenitori del TINA per rimettere qualche puntino sulle i.
EliminaIn effetti uno dei primi salti sulla sedia me l’avevano fatto fare le conclusioni del vertice dei capi di Stato e di governo dell’eurozona del 21 luglio 2011, richiamato nella famigerata letterina di Trichet e Draghi, in cui “tutti i Paesi dell'euro riaffermano solennemente la loro determinazione inflessibile a onorare pienamente la loro individuale firma sovrana e tutti i loro impegni per condizioni di bilancio sostenibili e per le riforme strutturali.”.
Bene, e se il consenso non c’è? Se comunque TINA, vorrei sapere quale risposta, anche sul piano logico, è possibile dare che sia diversa da quella di Mussolini. Infatti puntualmente stanno tentando di criminalizzare il dissenso; se l’accusa però è di fascismo, il rinvio al mittente è qualcosa più di una meccanica retorsio, come mi auguro risulti plausibile da quanto ho riportato.
L’altra, molto più vecchia e consolidata e di cui abbiamo già ripetutamente parlato, è accusare l’interventismo pubblico e il welfare di essere fascisti. Non bisogna però neanche cadere nell’eccesso opposto e negare che durante il fascismo siano stati presi provvedimenti di interesse generale, per quanto pesantemente, ancora più che negli altri paesi capitalisti (questo è il punto), distorti in senso classista.
Qui De Felice è stato impeccabile e lo riporto: "non si distingue a sufficienza tra ciò che è riconducibile alla radice, alla sostanza tipicamente, intrinsecamente fascista, e ciò che, invece, deve essere ricondotto alle obiettive necessità dei tempi, al sorgere e svilupparsi della società di massa, la cui realtà non poteva essere - fascismo o non fascismo - affrontata con gli strumenti, le tecniche, la mentalità anteriore ad essa. Per comprendere i regimi fascisti non si può prescindere dalla loro forma totalitaria. Questa, però, non deve essere confusa (e, quindi, si deve procedere ad una sua vivisezione che distingua le varie componenti) con la crescita e il mutamento delle funzioni dello Stato che - come opportunamente ha sottolineato Loewnthal - sono tipiche della moderna società pluralista capitalistica. [...] Se non si opera questa distinzione, non solo non si approfondisce bene la realtà del fascismo, ma si rischia di accreditare ad esso ciò che, invece, era il frutto di una tendenza generale in atto in tutti i paesi che avevano raggiunto un certo grado di sviluppo." (De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Laterza, Roma-Bari, 1995, pagg. 275-76).
Quanto al welfare, e in particolare alla previdenza di cui ho parlato, ancora una precisazione della Zamagni: "contrariamente a quanto la propaganda del regime tentò più volte di accreditare, gli interventi fascisti nel campo della sicurezza sociale non furono affatto numerosi. Furono, infatti, ancora i governi liberali dell'immediato dopoguerra che, mantenendo promesse fatte durante la guerra, nell'aprile 1919 resero obbligatoria l'assicurazione pensionistica e trasformarono un preesistente ente in Cassa Nazionale per le assicurazioni sociali (CNAS) con 37 Istituti Provinciali di previdenza sociale." (V. Zamagni, Dalla periferia al centro, Il Mulino, Bologna, 1993, pag. 403).
@Nicola
EliminaA livello di politica economica sì: banalmente il liberale sociale Keynes e il socialista marxista Kalecki arrivano alle medesime conclusioni "scientifiche". Ma sappiamo anche che l'economia non è solo una scienza: è una scienza che ha in nuce una pluralità di visioni del mondo, di prospettive etiche.
Non è banale che un liberale (sociale, ovvero "non classico") come Keynes arrivi a proporre e ad analizzare la realtà economica con la volontà di rendere effettivi i principi "formali" liberali: uguaglianza, libertà e solidarietà.
Ovvero gli interessa veramente la pace tra nazioni e veramente pensa di tirar fuori dall'indigenza le persone.
Ovvero vuole risolvere effettivamente il problema economicistico, non "far finta di volerlo risolvere" come i neoclassici, che sono pagati per sfornare supercazzole comode a giustificare che i ricchi diventino sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
Solo dei sociopatici - o quanto meno degli assetati di prestigio e potere - potevano inventarsi la macabra barzelletta dell'austerità: si sa, tutta l'economia marginalista/neoclassica non è altro che una sovrastruttura teoretica volta a garantire un assetto sociale ingiusto.
Keynes i milioni se li è fatti da sé ed il prestigio se lo è meritato: al di là del fatto che ci è anche nato, benestante, a differenza di Kalecki.
Sì, il keynesismo è in senso ampio una forma di socialismo, e, se universalmente e prolungatamente adottato, porta al socialismo in senso stretto. Da rivoluzionario teoricamente diventa rivoluzionario nella prassi (giusto per ricordarsi che la teoria è già prassi...)
Se per keynesismo si intendende "concessione borghese", socializzazione controllata tramite il controllo silenzioso delle più importanti istituzioni economiche (banche centrali e istituzioni internazionali mercatiste) al fine di rimbambire i subalterni tramite il consumismo, contrastare il comunismo e sedare la tensione sociopolitica, bè, direi proprio che è tutto fuorché anticapitalista come il socialismo non può non essere.
Ti ringrazio Bazaar per la risposta ben argomentata.
EliminaConcordo ovviamente con la tua critica ai neoclassici. Però sul consumismo non ho ancora le idee molto chiare.
Cioè se il keynesismo temporaneo "tattico anti URSS", è stato (semplifico) il supporto di una domanda aggregata che ha rimbambito i subalterni tramite il consumismo (con conseguente disgregazione della società), il keynesismo in funzione del socialismo in senso stretto, presuppone o può presupporre una domanda aggregata profondamente alternativa?
Perchè spesso la critica che i decrescisti fanno al socialismo, riguarda appunto il fatto che quest'ultimo, si occupi soltanto dell'aspetto distributivo e non qualitativo. Con conseguente appiattimento del lavoro all'occupazione.
Critica che eventualmente non troverei cosi campata in aria; detto che, non concordo assolutamente con la loro idea sulla frugalità, che presta soltanto il fianco all'ideologia deflattiva dominante.
Oltre al fatto che i descresciti - non conoscendo la macroeconomia - non considerano lo Stato Nazione come lo spazio fondamentale per l'emancipazione della classe subalterna.
Senza contare le esagerazioni sul riscaldamento globale causato dall'uomo, sulle risorse scarse.. ecc ecc
Scusate per l'OT e se mi sono dilungato troppo. Colgo l'occasione per fare a te Bazaar e a tutti voi, i complimenti per questo blog.
Le politiche volte alla piena occupazione e all'espansione della domanda aggregata non hanno nulla a che fare col consumismo.
EliminaTanto che siamo da lustri in deflazione e il consumismo vive e lotta tra noi, più in forma che mai.
Dove c'è ecologista c'è malthusiano.
Sarebbe da recuperare in questo caso la riflessione pasoliniana sulla critica al consumismo "italiano": una civiltà dei consumi può esistere a patto che prima e prioritariamente si pongano le condizioni effettive per il progresso (e non lo sviluppo ricollegandosi sempre a PPP) delle masse subalterne.
EliminaQuel progresso che, tramite i mezzi materiali "depurati" dal ricatto del profitto, riesca ad abbattere le barriere di classe che impediscono la piena realizzazione della persona secondo il notorio art. 3 comma secondo.
Tali condizioni, com'è noto, le può realizzare solo lo stato nazionale informato ai criteri fondamentali della giustizia sociale e della democrazia pluriclasse.
Senza questo discrimine, la stessa analisi pasoliniana può prestarsi a squallide manipolazioni da antifa-wuminghiani.
Unico in Italia, Gramsci aveva compreso già dalla primavera del 1920 che: "La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario... o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria e della casta governativa. Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il proletariato industriale e agricolo a un lavoro servile: si cercherà di spezzare inesorabilmente gli organismi di lotta politica della classe operaia, il Partito socialista, e di incorporare gli organismi di resistenza economica, sindacati e cooperative, negli ingranaggi dello Stato borghese".
RispondiEliminaIn località Fabbriche di Voltri, nell'estrema periferia del Ponente genovese, esiste un'emblematica targa di commemorazione. Essa ricorda due fatti distinti nel tempo, il primo fatto, avvenuto il 24 gennaio 1898, nelle fasi particolarmente tumultuose che precedettero i moti di Milano del maggio dello stesso anno e commemora la morte di due operai, uccisi dalle forze dell'Ordine, a seguito probabilmente di una manifestazione di protesta conto l'aumento del costo del pane e i salari da fame.
RispondiEliminaLa seconda parte dell'epigrafe, ricorda l'uccisione di un altro operaio, gettato dalla finestra da un gruppo di fascisti che , in difesa della classe padronale, usarono maniere spicce per riportare l'ordine in quelle zone ad alta densità di scontro sociale.
La targa fu messa lì dal locale Partito Socialista il 26 maggio del 1946, per "ricordare i tempi del disdoro ed assicurare un avvenire di giustizia".
In questa epigrafe abbiamo tutto: la comunanza tra liberismo e fascismo nelle politiche economiche (e nei metodi di persuasione) e la disperata volontà di alcune volenterose menti del Dopoguerra di imporre il ricordo, come antidoto, per le generazioni a venire.
Da quando scoprii l'esistenza di questa targa commemorativa, che mi aprì la mente su molte questioni di cui noi discutiamo e ci confrontiamo da anni, mi piace pensare che alla sua posa sia stato presente anche il nostro caro Lelio Basso.
sui salari industriali in epoca fascista è bene fare parlare i numeri... consiglio questo studio:
RispondiEliminahttps://www.researchgate.net/publication/223564706_Le_statistiche_dei_salari_industriali_in_periodo_fascista/download
Purtroppo non sono riuscito a scaricare il saggio, anche se dubito alteri in modo significativo il quadro delineato dalla Zamagni...se tu l'hai letto ce lo puoi dire. :-)
Eliminasull'andamento del PIL è molto utile questa pubblicazione della Banca d'Italia:
RispondiEliminahttp://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/collana-storica/pil-storia-italia/index.html
Certo, è utile, come lo sono tutte le pubblicazioni storiche delle Banca d'Italia. Il lavoro curato da Vecchi che ho citato sopra tiene già conto delle nuove elaborazioni di Giugliano, però questo aggiornamento (2015) mi mancava, e te ne ringrazio.
EliminaCitiamo: "In generale, se guardiamo ai movimenti del PIL, notiamo un sensibile calo dell’attività negli anni immediatamente successivi al 1929, non diversamente da stime precedenti. Tuttavia, in base ai nostri dati, cambiano significativamente i tempi e la persistenza della depressione in Italia: solo nel 1937, dopo un picco illusorio nel 1935, il PIL raggiunge lo stesso livello del 1929.
I consumi delle famiglie pro capite sembrano riflettere questo movimento nell’attività economica: dopo il 1929 calano persistentemente fino al 1936 (le uniche parziali eccezioni essendo il 1932 e il 1935), quando ha inizio una ripresa dell’attività, presto interrotta dallo scoppio della Seconda guerra mondiale (fig. 2.12). Gli investimenti in impianti e attrezzature seguirono un percorso simile, raggiungendo un picco nel 1929 e poi precipitando in misura consistente; solo nel 1939 si raggiunse un livello più alto di quello registrato nel 1929, l’ultimo anno prima della crisi (fig. 2.13).” (pagg. 36-7).
Ovvero direi che il mito di una miglior resistenza fascista alla Grande Depressione, l’obiettivo polemico di Bairoch, ne esce definitivamente distrutto.
@ Arturo
RispondiEliminaInnanzitutto Le debbo fare i miei complimenti per l'approfondita conoscenza del "Fascismo": credevo che i libri di Emilio Gentile rimanessero sugli scaffali ed invece non è così e ne sono parecchio felice (ci sarebbe anche Zeev Sternhell ma immagino lo conosca).
Non entro nel merito della questione dei salari o della disoccupazione perché noto con piacere che è già stata approfondita in maniera precisa ed esaustiva.
L'unico piccolo contributo che mi sento di portare alla discussione è una domanda che si trova all'inizio di un libro del Prof. McGregor Knox, uno dei pochi libri disponibili che analizza in maniera seria il rapporto tra le forze armate italiane e l'economia. Il libro è "Hitler's Italian Allies - Royal Armed Forces, Fascist Regime and the war of 1940/43 e la domanda è questa:
"This book tries to understand why the Italian armed forces and Fascist regime were so remarkably ineffectual at an activity, war, that was central to their existence"
La faccio breve: come Lei ben sa, la Prima Guerra Mondiale fu la prima grande guerra "totale" e fu anche la prima grande guerra su base industriale. L'industria, in tutte le sue forme, era diventata l'ago della bilancia se si voleva mettere in campo eserciti da milioni di uomini.
Contrariamente a quel che si pensa, le armi ed il livello tecnologico dell'Italia era sostanzialmente alla pari con quelle dei maggiori partecipanti al conflitto. Non entro, per non annoiarLa, nel merito delle singole armi ma Le posso assicurare che un qualsiasi fante italiano era equipaggiato più o meno come un qualsiasi fante francese o inglese. Un dato notevole fu la produzione di munizioni per l'artiglieria: tranne un breve momento iniziale alle artiglierie italiane non mancavano le munizioni (e siamo nell'ordine di MILIONI di proiettili di tutti i calibri per ciascuna offensiva).**
Dal punto di vista della Storia Militare, l'industria italiana regge bene la prova. Caporetto, casomai Le venga in mente, non fu un problema di armi ma di cervelli e quelli buoni nemmeno l'industria è in grado di produrli.
Dal 1922 al 1940 succede qualcosa. Io non sono un ecomista MA non serve una laurea per capire all'industria italiana capita qualcosa. Sul come e sul perché lascio la parola a chi ne sa più di me.
Una cosa però la posso dire ed è un dato molto oggettivo: l'Italia perde circa 20 anni di sviluppo industriale e tecnologico.
L'equipaggiamento di un esercito del 1940 dipende tutto da ciò che l'industria è in grado di produrre e da questo punto di vista, la qualità e la quantità delle forze armate italiana è drammatica. L'industria italiana produce poco e produce malissimo. La tecnologia è praticamente rimasta ferma al 1918.
Non mi dilungo nel merito degli esempi perché ci vorrebbe un libro (tra cui le consiglio quello del Prof. John Gooch, Mussolini and his generals) ma il dato essenziale credo che sia chiaro.
Un ultima cosa: se scorre i bilanci dedicati alle spese per l'esercito (sono contenuti nel libro di Gooch ma è facile reperirli) la cosa diventa ancora più interessante: come ha speso quelle montagne di soldi il mondo industriale italiano?
L'effetto di 20 anni di "economia fascista" sono questi: una vera e proria stagnazione a tutti i livelli, quale che sia il sistema d'arma preso in esame. E dato che in tutte le altre nazioni europee questo singolare fenomeno non è avvenuto, il risultato pratico è stato un ritardo clamoroso in tutti i settori industriali.
La fonte migliore per approfondire, chi volesse, sono i libri del decano degli storici militari italiani, Giorgio Rochat, quelli di Raimondo Luraghi e decisamente quelli di Lucio Ceva.
Cordialmente,
Chinacat
**
In Grecia, nel 1940, cono schierate batterie che hanno come disponibilità di fuoco 4 colpi al giorno. Si, al giorno.
Per costruire l'impero italiano il modello era probabilmente quello britannico.
EliminaInfatti l'Italia del liberalesimo prima (e del fascismo poi) mirava ad espandersi nei Balcani, nel Mediterraneo, nel Nord Africa (dopo aver perso la Tunisia per un colpo di mano francese), in Etiopia/Somalia/Eritrea ed anche in Cina (https://cronologia.leonardo.it/2005/disastr3.htm).
RIPETO - ANCHE IN CINA!
Nel nostro piccolo fogno imperialista direi che non ci siamo fatti mancare niente...
In poco più di un secolo abbiamo attaccato la Russia, l'impero Ottomano, l'Africa del nord, il Corno d'Africa e la Cina!
Ergo si investì pesantemente nella flotta (la quinta al mondo allo scoppio delle ostilità nel 1940).
https://it.wikipedia.org/wiki/Naviglio_militare_italiano_della_seconda_guerra_mondiale
Per espandersi allora si pensava che non servissero grandi risorse terrestri (oppure una aviazione numerosa).
Ti ringrazio per le parole gentili, sicuramente immeritate.
EliminaConosco Sternhell (ne avevamo pure parlato in passato), sul cui metodo e merito ho però alcune riserve. Non sono solo ubbie da dilettante, a quanto pare (ma già le critiche sollevate a suo tempo da Rapone su Studi Storici mi erano parse molto persuasive).
Sono tutte osservazioni interessanti e fondate quelle che fai. Alla valida bibliografia (una menzione speciale per il sempre ottimo Rochat: leggibilissimo anche per chi non è appassionato di storia militare) che indichi, aggiungerei, per interessi personali, oltre ovviamente a Minniti, pure alcuni lavori del compianto Massimo Legnani, che contengono osservazioni molto penetranti sull’imperialismo fascista, e i primi due saggi di Pier Giorgio Zunino nel suo La Repubblica e il suo passato (oltre a De Felice, ma non occorre menzionarlo).
Vorrei aggiungere un dato, riguardante l’industria meccanica, che salta veramente agli occhi: “Nel 1929, mentre gli Stati Uniti producevano oltre 5 milioni di automobili, in Gran Bretagna e Francia si era intorno alle 250.000, in Germania alle 130.000 e in Italia se ne produceva soltanto 55.000, di cui ven 23.700 erano esportate. I veicoli a motore in circolazione alla stessa data eccedevano di poco i 200.000!” (V. Zamagni, Dalla periferia al centro cit., pag. 370).
Ovvero mancò sempre quell’espansione orizzontale, come la chiamano Paggi e d’Angelillo, del mercato interno. Kaldor e Verdoorn potrebbero fornire quindi alcuni elementi per risolvere il mistero della scarsa produttività delle forniture di guerra…;-)
Ma c’è di più e hai fatto bene a parlarne, perché, mentre le responsabilità dei vertici politici e militari circa i disastri bellici è ben nota, quella degli industriali viene ricordata assai meno.
Pur nella mia ignoranza di storia militare, trovo persuasive queste pagine del sunnominato Zunino (La Repubblica e il suo passato, Il Mulino, Bologna, 2003, pagg. 94-6): “Gli attori e i corresponsabili della catastrofe maturata nell’estate del 1943 […] sembrerebbero, a prima vista, doversi annoverare solo all’interno del triangolo delimitato dal vertice politico, dalle gerarchie militari, dalla monarchia. C’è tuttavia una quarta sponda, un “quarto partito” ante litteram che non bisogna trascurare nel redigere il catologo dei fattori che provocarono la Finis Italiae: si tratta, nuovamente, della grande industria. E’ questo un aspetto della progressione verso il disastro di solito poco considerato, se non da un ristrettissimo ambito di studiosi. […] La politica aggressiva sul piano internazionale seguita dal fascismo aveva comportato spese eccezionali per lo stato che si erano tradotte in altrettanto eccezionali profitti finiti nelle casse dell’industria delle armi. Ma un tale cospicuo flusso di denaro si riversò nei bilanci di poche e bene individuate aziende, che, quale replica a una tale benigna sorte, risposero fornendo costosi, poco efficienti e spesso ridicolmente difettosi macchinari e ordigni bellici. Del resto, potendo contrattare col governo da una consolidata e indiscussa posizione di forza - una egemonia che è stata giudicata inimmaginabile anche negli altri e consimili regimi totalitari -, la progettazione e la realizzazione di strumenti bellici che si sarebbero rivelati nevralgici sui campi di battaglia avvenne in uno stato di fortissima arretratezza tecnologica, obsolescenza produttiva, staticità progettuale. […]
EliminaIl tema cruciale è, a questo proposito, quello della condizione di “esclusiva” goduto dal duopolio Ansaldo-Fiat nella produzione di carri da combattimento. La lettura delle carte rimaste a lungo lontane dagli sguardi indagatori - e molte delle quali, di origine non statale, sono certo destinate, ammesso che esistano ancora, a non essere mai rese di pubblica consultabilità - ha indotto a porre l’intera questione sotto la categoria dei “callidi approfittamenti” [l’espressione è di Lucio Ceva, nota mia], come si è già accennato. Si trattò di assai poco patriottiche inclinazioni che si tradussero nella fornitura all’esercito nazionale di veri e propri “ferrivecchi”. […] All’esercito la Fiat, da sola o in concorso con l’Ansaldo, fornì anno dopo anno gli stessi inutili biplani e i medesimi vetusti “carri veloci” (ai quali, è stato scoperto, venne di tempo in tempo cambiata denominazione rimanendo i medesimi antiquati modelli messi in cantiere alla fine degli anni Venti e accettati da un apparato statale posto in condizione di inalterabile “acquiescienza ai desideri industriali”). Quando pure accadde che alcuni rappresentanti della dirigenza militare mostrassero l’intenzione di attestarsi su posizioni di minore assoggettamentoai grandi fornitori essi andarono incontro all’ineluttabile destino della rimozione.”.
Col che completiamo il discorso sul rapporto tra fascismo e potere economico.
"C’è tuttavia una quarta sponda, un “quarto partito” ante litteram che non bisogna trascurare nel redigere il catologo dei fattori che provocarono la Finis Italiae: si tratta, nuovamente, della grande industria. E’ questo un aspetto della progressione verso il disastro di solito poco considerato, se non da un ristrettissimo ambito di studiosi. […]"
EliminaSenza voler trascurare le responsabilità della grande industria (per l'introduzione della telefonia il duce fu per esempio costretto ad affidarlo all'IRI/SIP perchè nessun industriale si mostrò interessato) osservo che le industrie e gli industriali furono però gli stessi della grande guerra.
Cosa cambiò allora nel ventennio successivo per giustificare il vistoso calo di rendimento riscontrato?
(N.B. Io non credo all'auto-razzismo, neanche se si tratta del quarto partito, e neppure nel caso del disprezzo di Lenin per i socialisti italiani per le loro presunte scarse capacità rivoluzionarie)
In fondo l'Italia rimase sempre un:
- paese agricolo senza neppure l'autosufficienza alimentare (che fu raggiunta a fatca solo a metà anni trenta);
- paese privo di una rete stradale decente (e dico almeno in macadam...) e con una rete ferroviaria solo sufficiente;
- importatore massiccio (ai tempi del gold standard) di tutte le principali materie prime necessarie all'industria (carbone, gomma, acciaio, petrolio);
- paese animato da velleità imperialistiche.
Ma osservo pure che al tempo della grande guerra l'Italia ebbe temporaneamente libero accesso ai prestiti ed alle risorse dell'impero britannico (e degli USA) mentre nel ventennio successivo fu impegnata a combattere le conseguenze nefaste delle politiche deflattive che si era autoinflitte per arricchire il quarto partito e per ripagare i debiti di guerra...
L'accordo Sykes-Picot del 1916 poi (come prima l'esclusione francese dell'Italia dalle quote della compagnia del canale di Suez) tagliò fuori a priori l'Italia dal petrolio del Medio Oriente ('costringendola' però all'invenzione dell'idroelettrico!) e l'Inghilterra usò in maniera molto accorta l'influenza diretta su Mussolini ('al soldo' di sua maestà almeno dal 1915, quando ricevette gran parte dei fondi per il Popolo d'Italia), sulla corte (che si compromise col patto di Londra dell'Aprile 1915), sullo stato maggiore (che si illuse di essere stato ammesso nel gotha militare degli imperi europei) ed il controllo di Suez per 'modulare' l'espansionismo italiano.
Siccome la linea guida della politica britannica fin dai tempi di Napoleone fu quella di impedire il sorgere di una potenza egemone in Europa, all'Italia fu permesso di eccellere nell'unica arma utile a questo scopo (ed alle limitate velleità imperiali): la flotta mediterranea in funzione anti-francese (tanto senza petrolio non avrebbe mai potuto operare negli oceani contro gli inglesi...).
In conclusione, l'arretratezza tecnologica dell'industria bellica italiana nel 1940 si deve molto di più all'ideologia deflazionista imperante non solo in Italia.
Mutatis mutandis, una simile arretratezza tecnologica fu pagata a caro prezzo sia dai britannici che dagli USA nei confronti del Giappone.
@ Luca Cellai
EliminaMi perdoni ma ci sono un paio di "inesattezze" dovute, a mio avviso, al fatto che gli studi militari insegnano a vedere le cose in una prospettiva diversa. Per esempio:
"Ergo si investì pesantemente nella flotta (la quinta al mondo allo scoppio delle ostilità nel 1940)."
Calma e gesso. Non investirono NELLA FLOTTA ma investirono NELLE NAVI che sono 2 cose diverse. se viste con gli occhi di un militare.
Una nave da guerra, nel 1940, NON E' UN'ARMA. E' un SISTEMA D'ARMA ovvero un'arma che funziona inseme ad altri elementi. Lo so che per il profano la cosa sembra strana ma è così.
Una FLOTTA nel 1940, per essere tale di nome e di fatto DEVE avere protezione ed integrazione con l'aviazione e quindi: ricognitori a lungo raggio, radar, sistemi di comunicazione veloci tra la flotta, gli aerei ed il comando, etc. etc.
E questo cambia anche a seconda del tipo di navi che costruisci (una corazzata non è un incrociatore) e delle navi di appoggio che intendi utilizzare.
Non la tedio con i dettagli tecnici ma l'idea che una flotta sia costituita solo dalle navi è molto ma molto "primitiva" e dimostra non solo l'arretratezza dell'industria italiana ma anche l'arretratezza di coloro (i militari) che di quella tecnologia ne debbono fare uso.
La flotta italiana del 1940 è una tigre di carta che esiste solo nella testa dei capi fascisti e dei militari che "sposano" le teorie fasciste (L'Italia non ha bisogno di portaerei perché è già una portaerei).
L'esempio più spettacolare lo offre il Giappone: il capolavoro tecnologico che va sotto il nome di YAMATO. La più grande, la più potente e la più modrena nave al mondo, un vero gioiello.
Affondata in meno di TRE ORE dall'aviazione statunitense.
E ancora:
"una simile arretratezza tecnologica fu pagata a caro prezzo sia dai britannici che dagli USA nei confronti del Giappone"
Guardi che gli "arretrati" dal punto di vista tecnologico sono i giapponesi, mica gli statunitensi!
Prenda il famoso ZERO. Nel 1941 è il miglior "caccia imbarcato" al mondo; nel 1944 non vale nulla e gli statunitensi si divertono a fare The Great Marianas Turkey Shooting. Il rapporto delle perdite è circa 100 caccia USA abbattuti contro circa 600 caccia giapponesi abbattuti. 1 a 6.
Cos'era successo? Facile: la tecnologia non è "fissa" e soprattutto in tempi di guerra si evolve molto ma molto veloce. L'arretratezza tecnologica gipponese non è stata in grado di tenere il passo con lo sviluppo, per cui nel 1944 gli USA hanno aerei imbarcati (ad es. Hellcat) completamente diversi da quelli del 1941.
L'esecutore di Pearl Harbour, Isoruke Yamamoto, fu abbattutto nel 1943 con un aereo (P-38 Lightning, "il diavolo a due code") che era entrato in servizio nel 1941 e che aveva prestazioni che i giapponesi non si immaginavo nemmeno! (da cui la trappola che fecer a Yamamoto grazie a lungo raggio di cui era dotato il P-38).
E non solo il Giappone NON aveva il radar ma era stato superato in fatto di "tecnologia delle comunicazioni" (Operation Magic).
La "tecnologia" giapponese era un gigante dai piedi d'argilla.
Chinacat
@ Arturo
EliminaLasciando da parte Sternhell& Co., Le faccio notare un paio di cose che sfuggono se non si è pratici di ars bellica.
La prima e la più importante ai fini del discorso è questa: la TECNOLOGIA, che si tratti di un aereo o di un cannone, presuppone due cose fondamentali: qualcuno che la costruisca E QUALCUNO CHE LA SAPPIA USARE.
L'altro "buco nero" del fascismo italiano è la scarsa istruzione del soldato medio perché il livello di istruzione TECNICA sotto il regime fascista, crolla miseramente. Si capisce meglio con un esempio:
nelle lettere scritte alla moglie, Rommel parla delle difficoltà dei soldati italiani ad utilizzare la tecnolgia tedesca. I tedeschi usano massicciamente il famoso "88 mm." (cannone antiaereo usato come anticarro) ma non serve a nulla avere un 88 mm. se poi non hai qualcuno che lo sappia usare: e gli italiani che sanno usare un telemetro Zeiss o leggere una tavola di tiro sono pochissimi.
C'è un rapporto molto stresso tra la tecnologia e chi poi deve utilizzarla: Giulio Cesare potè assediare Alesia perché si portava dietro degli ingegneri capaci di costruire elopoli.
C'è una foto che mi ha colpito molto in un libro inglese: prigionieri di guerra italiani in un campo in Sudan. Molti hanno un fazzoletto bianco legato ad un braccio. La didascalia spiega che quelli con il fazzoletto bianco sono quelli che non sanno distinguere la destra dalla sinistra.
Il ritardo tecnologico e industriale italiano durante il fascismo va letto assolutamente anche sotto questa luce: il rapporto tra tecnologia, industria e livello di istruzione medio.
@ ARTURO
EliminaUn ultima cosa ma importante. Nel testo da Lei citato c'è scritto:
" All’esercito la Fiat, da sola o in concorso con l’Ansaldo, fornì anno dopo anno gli stessi INUTILI BIPLANI".
Messa giù così sembra che le responsabilità siano solo della FIAT o dell'Ansaldo ma con gli occhi del "militare" la prospettiva cambia di molto. Mi spiego:
si, è vero, usavamo dei biplani... ma perchè?
1) MOTIVAZIONE IDEOLOGICA
Durante un discorso il sottosegretario all'aviazione Valle disse le testuali parole: "E' l'uomo che conta e non il mezzo".
Nell'ideologia fascista, come Lei ben sa, erano centrali il coraggio, lo sprezzo del pericolo e l'arditezza e quindi l'accento veniva sempre messo sulle doti UMANE e non sul mezzo utilizzato. A noi oggi sembra surreale, all'epoca era davvero così.
2) MOTIVAZIONE TECNICA
Alla maggior parte dei piloti italiani il biplano piaceva molto proprio perché, essendo BI-PLANO (con due ali) ha delle doti di maneggevolezza assolutamente uniche e puoi fare manovre del tutto impossibili ad un monoplano: il trucco è la distribuzione della pressione su 4 ali (sopra-sotto) anzichè due. Anche oggi gli aerei da esibizione sono... biplani!
Quindi furono anche i piloti a chiedere che restasse in servizio.
3) MOTIVAZIONE MILITARE
Non la annoio con i dettagli ma la figura chiave fu MECOZZI e le sua teoria dell'aviazione "d'assalto". Fu un dibattito interno all'aviazione sulla predilezione per gli attacchi a bassa quota che portò a sviluppare poco la "caccia".
Per non parlare dei militari "tradizionali" (da Badoglio in giù) che non avevano idea delle potenzialità dell'aviazione e che rimase sempre un corpo separato. Se non conosci un'arma non sai cosa può fare e quindi non sai nemmeno come utilizzarla. E quindi non la richiedi all'industria...
4) MOTIVAZIONE TECNOLOGICA
Come Lei ben sa, oltre una certa quota servono le maschere ad ossigeno... ma nessun aereo italiano DI SERIE arrivava a quelle quote perché non c'erano motori DI SERIE che portassero l'aereo a certe quote. A che pro fare maschere d'ossigeno se tanto lassù manco ci arriviamo, no?
Con un biplano o con aerei da bassa quota le maschere non servono... ma se vuoi attaccare DALL'ALTO un bombardiere che vola a 7 oppure 10 chilometri d'altezza... semplicemente non ci vai.
Un conto è fare il record in altezza (17 km., record italiano) e un conto è la produzione in serie.
Morale: la FIAT era "arretrata", non ci piove, ma è solo una parte della spiegazione.
Purtroppo la Storia Militare, in Italia, è una disciplina "morta" ed il fatto che il 90% dei libri disponibili sono in inglese la dice tutta.
Basterebbe leggere Omero (per non parlare di Tucidide) per sapere che un esercito è SEMPRE uno specchio dell'economia e della società che lo hanno assemblato.
Spero di essere stato utile.
Chinacat
PS
In Iraq ed Afghanistano c'erano, numeri alla mano, più "contractor" che soldati dell'esercito statunitene. Lo specchio della società, appunto: la "privatizzazione" della guerra.
Sono indubbiamente tutte precisazioni interessanti. Il post però non è di storia militare, né le mie osservazioni volevano spiegare esaustivamente le cause del disastro bellico, altrimenti bisognerebbe allargare molto il quadro, a partire, almeno stando a Rochat (Le guerre italiane 1935-1943, Einaudi, Torino, 2008, pag. 241), dalla “divaricazione che si era creata tre le loro capacità [delle forze armate] e gli obiettivi della politica di Mussolini”. Ma si andrebbe OT (oltre che di là dalle mie conoscenze :-)).
EliminaAncora pertinenti, invece, in quanto offrono elementi rilevanti sulla dinamica del rapporto fra poteri economici e regime, queste altre osservazioni di Rochat (pag. 307): “Perché una produzione bellica così ridotta? La prima causa è l’incapacità del governo fascista di mobilitare l’industria per la guerra da cui dipendeva la sua sopravvivenza”, con incisività assai inferiore rispetto al governo liberale durante la grande guerra. “Una questione su cui abbiamo molta documentazione e ciò nonostante difficile da accettare, tanto più se si considera che buona parte dell’industria bellica era di proprietà statale dai primi anni Trenta. I rapporti tra Mussolini e gli industriali sono a senso unico, le frequenti pressioni di costoro per ottenere commesse con la minaccia del licenziamento di operai (la dittatura fascista, basata sulla distruzione dei sindacati e sul controllo delle masse operaie, era assai più sensibile a questi ricatti che i governi liberali, per il timore di vedere incrinato il mito del suo consenso assoluto). Non ci sono invece interventi concreti di Mussolini verso gli industriali, tanto meno la sostituzione dei dirigenti che non riuscivano a garantire la produzione.”.
Il che mi fa venire in mente un’osservazione di Rosanvallon (Le libéralisme économique, Seuil, Parigi, 1989 [1979], pag. 211) - quando era ancora legato al socialismo cristiano, prima che si convertisse alle meraviglie del liberalismo-, con cui mi ricollego alla questione del “non intervento” di cui abbiamo parlato diverse volte: “La seule liberté qu'il [le capitalisme] revendique est celle du capital, il est indifféremment libre-échangiste ou protectionniste selon que l'un ou l'autre favorise cette liberté. Il est d'abord un pragmatisme de classe.”
Per diverse ragioni possiamo anche dire che non è corretto parlare di “indifferenza”, perché una ricorrente tendenza alla mondializzazione, e quindi al liberismo, deriva da caratteristiche strutturali del capitalismo (in primis realizzare un surplus senza dover alimentare la domanda, come ripete sempre Cesaratto), ma questa dimensione “pragmatica” mi pare utile ricordarla, soprattutto a beneficio di chi chiama “socialismo” ogni forma di intervento pubblico estraneo al liberismo.
@ Arturo
EliminaLasciando da parte la storia militare, che interessa solo gli addetti ai lavori, mi permetto di farLe notare una cosa.
" soprattutto a beneficio di chi chiama “socialismo” ogni forma di intervento pubblico estraneo al liberismo."
Sante parole! Ma questo deriva dal fatto che i "liberisti" sono molto ma molto ignoranti sul cosa può fare l'intervento pubblico (lo Stato) quando ci si mette sul serio.
L'esempio più spettacolare e meno noto in assoluto è il G.I. BILL.
Come Lei sa, l'accesso all'istruzione negli USA, soprattutto quella universitaria, è sempre stato limitato per via della struttura della loro società: se hai i soldi studi molto, se non li hai ti arrangi.
Se desidera Le posso fornire le cifre di chi studia negli USA tra il 1920 ed il 1940 ma si tratta di un numero estremamente basso, in rapporto alla popolazione.
Quando però gli USA entrano in guerra nel 1941 si accorgono che la cosa è preoccupante per due motivi:
1) le disastrose conseguenze della Grande Depressione, che hanno tarato la salute fisica di un gran numero di americani (il numero dei "respinti" è impressionante) e che la dice lunga su chi esprime il concetto che "si tratta SOLO di una crisi economica).
2) Per utilizzare in modo massiccio tutta la tecnologia disponibile, servivano milioni di uomini che la sapessero utilizzare... e non c'erano. Gli sforzi del governo USA in questa direzione furono notevoli, così come i risultati ma fu lo Stato ad "istruire" quei milioni di cittadini americani.
Quando termina il conflitto, oltre 10 milioni di uomini e donne hanno indossato la divisa. E qui entra in ballo il G.I. BILL, che alcuni, tra cui chi scrive, lo considerano il "motore" dell'economia e della società statunitense dopo la guerra.
Circa 8 MILIONI di cittadini americani ebbero accesso gratuito (o quanto meno facilitato) ai massimi gradi di istruzione; oltre 2 milioni finirono nei college.
Ecco la base del miracolo economico: istruzione di livello e di massa a spese dello Stato. E' un fatto poco conosciuto e ho idea che sia in parte "oscurato" proprio perché dimostra quale può essere l'impatto dello Stato quandi si mette dalla parte dei cittadini e non di una piccola élite.
Certo, se fosse stato per i "liberisti" il buon contadino del Nebraska (che ha imparato nel frattempo ad operare con una radio), sarebbe stato rispedito nel Nebraska... ma così non fu. E lo Stato gli diede la possibilità di studiare, con i risultati che sappiamo: il boom tecnologico, economico e sociale degli anni '50 e '60.
Se volesse poi approfondire, Le suggerisco la Liberation Trilogy di Rick Atckinson.
"With the Old Breed" invece lo ha scritto un Marines, Eugene B. Sledge, che dopo la campagna del Pacifico è tornato negli USA, è andato al college e qualche anno dopo diventa docente di biologia.
Sapere aude, no? :)
Chinacat
Per interessare la storia militare son sicuro che interessa a tanti, me per primo, però qui è OT. :-)
EliminaFosse un problema di audere: non basterebbero tre vite per leggere tutti i libri che si vorrebbe…però la memorialistica, non solo militare, mi interessa molto, quindi le (notevoli) memorie di “Sledgehammer” le conoscevo.
Quello di spacciare l’interventismo per socialismo è un vecchio imbroglio: “definire “socialismo” le intromissioni dello Stato nella libera concorrenza […] è una mera falsificazione voluta dalla borghesia di Manchester.”. Così scriveva Engels in una lettera a Bernstein del 1881, riportata in nota in M. Musto, L’ultimo Marx, Donzelli, Roma, 2016, pag. 38.
Oggi mi pare impossibile pensare che sia solo ignoranza e non ci sia una enorme dose di malafede. Ricordiamoci cosa disse quel vecchio marpione di Bob Lucas subito dopo la crisi del 2008: “I guess everyone is a Keynesian in a foxhole”. Bene intendenti…
Desidero ringraziare tutti per i preziosi spunti di riflessione e nello stesso tempo non riesco a tenere solo per me l'ansia che mi prende quando registro le nuove linee di sviluppo della 'difesa'.
RispondiEliminaDi AI, droni automatici e scenari alla Philp K. Dick ("Second variety") se ne è già accennato in passato ma questo video, alla luce delle osservazioni precedenti, mi fa sorgere una domanda ineludibile:
"Dobbiamo o no investire in questo tipo di armamenti?"
(perchè un domani non si possa dire che eravamo rimasti indietro...)
https://twitter.com/CellaiLuca/status/1060820503533887488