martedì 1 dicembre 2015

DEMOCRAZIA. FEDERALISMO. INDIPENDENTISMO- 4. IL "BUONGOVERNO" DELLE ELITES SOVRANAZIONALI




Con questa quarta puntata giunge a compimento l'excursus di Arturo e Bazaar sulla connessione (sarebbe meglio dire "strategia di neutralizzazione") che intercorre tra federalismo e democrazia sostanziale, nel senso, come risulterà evidente, di "effettiva" e non di mera forma cosmetica di oligarchia, a suffragio universale ma "idraulico".
Mi limito a richiamare le precedenti introduzioni al tema linkando, per una più utile lettura completa, i post contenenti le precedenti puntate:

DEMOCRAZIA. FEDERALISMO. INDIPENDENTISMO. E ORDINE INTERNAZIONALE DEI MERCATI - 1 

DEMOCRAZIA. FEDERALISMO. INDIPENDENTISMO- 2. INTERESSI INDIPENDENTISTI: DEMOCRATICI O IMPERIALISTI?

DEMOCRAZIA. FEDERALISMO. INDIPENDENTISMO- 3. IL FALO' (federalista) DELLA DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE.


PREMESSA- In quest’ultima puntata, si vorrebbe provare a collocare il federalismo fra quell’armamentario di “modi”, come diceva Pareto (cfr. l’intestazione del primo post della serie), volti a scongiurare il peso politico delle classi popolari a vantaggio di un’élite “oggettivamente” migliore.


L’intento è quello di sostenere che si tratta di una variante tattica rispetto a precedenti forme di autoritarismo antidemocratico. I lettori valuteranno la persuasività dell’argomentazione.


1 – Popolo, nazione e Stato

1.1. Per iniziare, proviamo a focalizzare l’obiettivo sulla storia italiana, con l’aiuto del solito Albertini (op. cit., pag. 183-4): 

Secondo le previsioni dei moderati [con l’unificazione italiana] l’unità europea era destinata addirittura a rafforzarsi. Essi avevano infatti fiducia nella definitiva affermazione del liberismo internazionale, già valutato dal Conciliatore come il mezzo per la «santa fratellanza dei popoli». Tale fiducia li induceva a pensare che nel futuro gli impedimenti che ostacolavano i rapporti fra gli europei, a qualunque Stato appartenessero, sarebbero diminuiti e non aumentati. In sostanza i moderati si attendevano dalla futura Europa delle nazioni la continuazione di certi aspetti della vita del passato e di quella del presente.

Dato il loro atteggiamento mentale la cosa non può stupire.

Sul piano metafisico e religioso Gioberti cercò di accordare gli ideali e gli interessi della Chiesa cattolica — eminentemente supernazionali — con quelli nazionali senza prendere in considerazione, e forse celando intenzionalmente, il loro contrasto, che in seguito, venuto alla luce, divise i fedeli della Chiesa e quelli della nazione. Sul piano più specificamente politico i moderati concepirono l’unità nazionale come un mezzo per rinvigorire l ’Italia e unirla più attivamente all’Europa, da cui si era piuttosto estraniata nei secoli della decadenza. Essi misero infatti l’accento sul «diritto europeo» e sul liberismo internazionale, cioè su concezioni che subordinavano le nazioni, sia nel campo politico che in quello economico, ad un ordine unitario supernazionale.

In conclusione, anche nella corrente moderata i valori supernazionali ebbero gran parte nella formazione del programma nazionale.”



1.2. Non deve quindi stupire, in prospettiva storica, che il primo socialismo italiano considerasse la nazione una trappola (ivi, pag. 208):

La teoria socialista, che definiva la nazione come un trucco ideologico della borghesia per dividere e battere il proletariato, coincideva nel fatto con il modo di sentire nazionale delle masse lavoratrici (e poteva inoltre non sembrare campata in aria, stante il fatto che la borghesia, nazionale nella concezione dello Stato, era internazionale nella sfera degli affari.


E una trappola in effetti si rivelò, ma non per il proletariato (ivi, pag. 184):

Naturalmente si potrebbe rilevare l’utopismo dei moderati, che fu perlomeno pari a quello dei mazziniani. Nonostante il loro «realismo», essi non tenevano conto del fatto che le nazioni avrebbero sconvolto la situazione di potere sulla quale reggevano l’equilibrio europeo ed il liberismo internazionale. Una critica indiretta del loro europeismo la si trova nel pensiero di Cattaneo, e nella sua affermazione: «Avremo pace vera, quando avremo gli Stati Uniti d’Europa», affermazione che divenne sempre più esatta a grado a grado che il nazionalismo favorì in tutta Europa la diffusione della formula politica dello Stato unitario ed accentrato.


(En passant, si osservi come riviva qui sotto spoglie federaliste il mito liberale della “cospirazione collettivista” – di cui l’orrenda nazione costituirebbe la giustificazione ideologica – come la chiamava Polanyi e di cui si è accennato qui. L’abilità retorica consiste nel prendere a bersaglio lo stato interventista chiamandolo “unitario ed accentrato”).
1.3. Come arginare dunque l’avanzata delle classi popolari? 
Si è parlato del federalismo, ma per comprenderne il significato credo sia indispensabile allargare un po’ il quadro.

(Presteremo un’attenzione particolare all’Italia ma il fenomeno è di portata europea).
Le classi dirigenti, e gli intellettuali ad esse legati, a questo proposito hanno dato prova di un ricco armamentario.



Sul piano della dottrina giuridica, come s’è accennato nella scorsa puntata, la mossa consistette nel privare di qualsiasi concretezza sociale i concetti di “popolo” e “nazione”, riassorbendoli in quello di Stato: la sovranità venne attribuita “direttamente allo stato-persona, cioè alla macchina (presentata come anonima e obiettivamente necessaria) monopolizzatrice della forza. In ogni caso, comunque, il concreto legame intercorrente tra questo soggetto artificiale e il popolo “vero” è tenuto nascosto. Il suo rapporto con i “sudditi” in carne ed ossa (con quel popolo che costituisce “l’elemento personale dello stato”, come dicevano i vecchi manuali) è un legame vago, un postulato che resta sullo sfondo, privo di rilevanza costituzionale concreta. Il popolo appare in tutte queste teorie come una unità indifferenziata e neutra. Le tensioni politiche che lo dividono […] non entrano nel concetto di costituzione, ma pongono solo problemi “discendenti” di ordine pubblico (di polizia e di carceri, ed eventualmente di stato d’assedio e di cannoni). Le teorie della sovranità (soprattutto, per quel che ci interessa, della nazione o dello stato) operano dunque prima di tutto una sostituzione e poi un occultamento del “popolo” come realtà politica concreta”. (M. Dogliani, Introduzione al diritto costituzionale, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 237). 



1.4. Questa sostituzione/rimozione costituiva il tacito presupposto su cui poggiava la (oggi perduta) razionalità dello Stato borghese di diritto (che per la cronaca è un’espressione di Carl Schmitt, non di Marx) verso cui tanta nostalgia manifestava il povero Hayek e che, in quanto poggiante su una realtà politico-sociale, non aveva certo bisogno della garanzia offerta da una costituzione rigida (che, anzi, le sarebbe stata d’impaccio). Per dirla con Zagrebelsky (che quando scrive di storia costituzionale si ricorda di essere mortatiano :-)): 
il monopolio politico-legislativo di una classe sociale relativamente omogenea determinava di per sé le condizioni dell’unità della legislazione. La sua coerenza era assicurata fondamentalmente dalla coerenza della forza politica che la esprimeva, senza bisogno di strumenti costituzionali ad hoc. Essa era un presupposto che la scienza giuridica poteva considerare come un carattere logico dell’ordinamento, compattamente costruito sulla base di alcuni principi e valori essenziali e non contestati all’interno della classe politica, i principi e i valori dello stato nazional-liberale. […]  

La legge per eccellenza era allora il codice, il cui modello storico, per tutto l’Ottocento, sarà rappresentato dal Codice civile napoleonico. Nei codici si trovavano riunite ed esaltate tutte le caratteristiche della legge. Riassumiamole: la volontà positiva del legislatore capace di imporsi indifferenziatamente su tutto il territorio dello Stato e operante per la realizzazione di un progetto giuridico di ragione (la ragione della borghesia liberale, assunta come punto di partenza); il carattere deduttivo dello svolgimento delle norme, ex principiis derivationes; la generalità e l’astrattezza, la sistematicità e la completezza. […]

Non che i regimi liberali non conoscessero altro diritto che questo. Soprattutto nei confronti degli strati sociali esclusi, le costituzioni flessibili consentivano interventi d’eccezione (stato d’assedio, bandi militari, leggi eccezionali, ecc.) per contenere la contestazione politica e così salvaguardare il fondamento di omogeneità sostanziale del regime costituzionale liberale. Tali interventi, consistenti in misure ad hoc, irriducibili ai principi, temporanee e concrete – in contrasto quindi con i caratteri essenziali della legge, secondo i canoni giuridici liberali – si consideravano fuori dall’ordinamento, come atti episodici incapaci di contraddirne la fondamentale omogeneità di ispirazione”. (Il diritto mite, Torino, Einaudi, 1992, pp. 36-38). 

1.5. Insomma, quella che Polanyi chiamava la “sostanza della società”, impossibilità a trovare uno sbocco politico per uscire dalla gabbia del mercato, veniva in primo luogo semplicemente repressa con la forza
Se tonnellate di attenzione sono state dedicate all’autoritarismo collettivista, assai minore attenzione ha ricevuto, soprattutto in tempi recenti, l’autoritarismo “individualista”, cioè la repressione e la carcerazione di massa, che non a caso costituiscono una cifra caratteristica dell’odierna società americana. Come ha detto Richard Posner, «major function of criminal law in a capitalist society” is to prevent “market-bypassing"».

Questo ovviamente non risolveva il problema rispetto a forme organizzative ampiamente partecipate nell’ambito di quello che non era un regime totalitario. Il punctum dolens diventava quindi l’accesso al parlamento, la cui attività avrebbe potuto costituire un’inaccettabile interferenza nelle grandi categorie ordinanti:  
Oggi tutto ciò che stabilisce il Parlamento, o il suo equivalente, ha finito per chiamarsi legge.”, come diceva con raccapriccio il povero von Hayek al Mercurio. 

Einaudi, nell’ambito della polemica con Croce (Tema per gli storici dell’economia: dell’anacoretismo economico, già in Rivista di storia economica, a. II, n. 2 (giugno 1937), ora in B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, Milano, RCS, 2011, pag. 121) si esprime in termini altrettanto deprecatori, proponendo un fantasioso parallelismo tra democrazia parlamentare e stalinismo:  
“A far più vicino l’ideale di una società nella quale il massimo numero di uomini si senta o sia libero, ogni uomo entro i limiti stabiliti da vari gradi di perfezione della mente e della coscienza sua, non oserei dire, come pare affermare Benedetto Croce, che sia strumento di per sé efficace l’istituto parlamentare. Questo è davvero mero strumento privo di vita autonoma. In una società comunista “coercitiva”, il parlamento è l’espressione della burocrazia dominante organizzata, del piccolo segretario di Stalin, che ha saputo porsi al centro dei dominanti burocrati, ognuno dei quali è potente in virtù della forza che riceve dalla carica, non di quella che egli dà ad essa; ed ognuno perciò trema di sé e fa tremare altrui. In una società capitalistica “chiusa” [no, non è stato Popper a inventare la contrapposizione chiuso/aperto, tanto gradita a Blair e Renzi], il parlamento è la borsa nella quale gli avvocati dei grandi capi dell’industria, della finanza, del commercio, della navigazione, dell’agricoltura contrattano i privilegi rispettivi [mentre la banca centrale indipendente sì che è al riparo delle pressioni delle lobby :-)]. In ambo i tipi di assemblee le contrattazioni avvengono al suono di parole che Mosca chiamò formule politiche e Pareto disse miti o derivazioni, e tutte conducono alla schiavitù dei molti. [The Road to Serfdom, per dirla in parole povere].”


1.6. Il moltiplicarsi di questi “privilegi”, che era banalmente il frutto della “conversione" dello Stato "da struttura semplicissima a struttura complessa per il peso progressivo di forze sociali prima conculcate o, comunque, ignorate" (P. Grossi, Scienza giuridica italiana, Milano, Giuffrè, 2000, pag. 149), veniva interpretato dalla cultura giuridica, e non solo giuridica, liberale come decadenza, crisi dello Stato e della sua “autorità”.
Scriveva ad esempio Orlando nel 1910: "Individui e collettività premono, spingono, urgono"; individui follemente ribelli "collettività che pur di conseguire un proprio interesse, non esitano a ferire a morte quelle che sono condizioni essenziali per la salute e la vita dello Stato". (Sul concetto di Stato, in Pietro Costa, Lo Stato immaginario. Milano, Giuffrè, 1986, pag. 183).

Mi auguro non sfugga l’analogia con la crisi di “autorità” che avrebbe colpito lo Stato a causa dell’eccesso di domanda e partecipazione democratica (The Democratic Challenge to Authority, si intitola appunto un paragrafo del lavoro di Huntington) diagnosticata dalla Trilaterale nel celebre rapporto Crisis of Democracy.


Il logico rimedio a questa minaccia è un “alleggerimento” della domanda democratica. Come? Riporto qui una citazione di Basso (Il principe senza scettro, Milano, Feltrinelli, 1998 [1958], pag. 284) che fa da perfetto pendant a quella di Pareto presente all’inizio del primo post della serie (si parla dell’Italia, ma il discorso, in generale, vale per tutti i paesi democratici):  
Si può dire che ogni generazione abbia dovuto lottare per riconquistare, non diciamo un ordinamento democratico, ma le premesse di uno Stato liberale. La reazione umbertina nell’ultimo decennio del secolo scorso, il fascismo all’indomani della prima guerra mondiale e l’involuzione anticostituzionale che abbiamo illustrato nel corso delle precedenti pagine, rappresentano tre momenti di uno stesso processo storico: la resistenza delle classi dominanti all’avanzata delle classi popolari, la volontà di respingerle ai margini della vita sociale (miseria, disoccupazione, analfabetismo, arretratezza di intere regioni ecc.) e della vita politica (diniego delle fondamentali libertà), ricorrendo di volta in volta agli strumenti e alle tecniche consigliate dal momento storico.”


1.7. Un catalogo esaustivo di queste tecniche sarebbe impossibile. Mi limiterò a qualche esempio, che mi pare particolarmente rilevante e utile per il nostro discorso: 
a) la polemica antiparlamentare;
b) restrizioni e manipolazioni dei suffragio; 
c) attacchi legislativi e ideologici alle organizzazioni popolari, cioè sindacati e partiti; 
d) manipolazione mediatica del consenso. 
Anche per una selezione così limitata c’è solo l’imbarazzo della scelta delle fonti: sceglierò fior da fiore.


a) Polemica antiparlamentare
Prima di Mosca, altri teorici, quali Rocco De Zerbi, Giorgio Arcoleo, Camillo De Meis, si distinguono in affondi contro parlamenti e parlamentari, e dunque, contro il parlamentarismo, magari riprendendo le prime invettive del simpatico reazionario Petruccelli della Gattina che, con “I moribondi di Palazzo Carignano”, all’indomani dell’Unità, quando ancora la capitale del Regno d’Italia era la stessa del Ducato di Savoia, aveva fornito se non un modello, certo un eccellente impulso ad ogni futura polemica contro il poltronismo e la fannullaggine dei «rappresentanti del popolo». 
Non si parla di «casta», all’epoca, ma il livore contro i privilegiati, i «fannulloni», i «chiacchieroni», diventa merce corrente, nel discorso pubblico; e nasce anche una produzione letteraria in cui si condensano «umori deprecatori» del Parlamento. Nihil sub sole novi, si sarebbe tentati di aggiungere, sfogliando i giornali di oggi.” (A. D’Orsi, L’Italia delle idee, Milano-Torino, Pearson Italia, 2011, pag. 22).  Nihil davvero. 

La tirannia della maggioranza per Alexis de Tocqueville. Civiltà tra i "pericoli della Democrazia" e dell’accentramento politico

https://escogitur.files.wordpress.com/2013/05/c71e1-tocqueville.jpeg?w=300


b) Suffragio ristretto:  
Il liberale francese [de Tocqueville] è così lontano dall’idea di suffragio universale e di partecipazione democratica delle larghe masse alla vita politica che, in polemica trasparente contro l’agitazione dei banchetti, dichiara: «Non bisogna corteggiare il popolo e non bisogna conferirgli, con prodigalità e temerarietà, più diritti politici di quelli che è capace di esercitare». 
In compenso, nei confronti dei «bisogni del povero», gli organi legislativi, eletti su base censitaria, devono mostrare una sollecitudine «filantropica» tale che leghi il popolo alle istituzioni e «lo consoli del fatto di non fare la legge [chiamiamolo reddito di sudditanza?], facendogli incessantemente vedere che il legislatore pensa a lui» (Tocqueville, 1951 ,  vol. 3 , II,  p. 727). 
Sia chiaro: continua a essere considerato intollerabile, come sappiamo, ogni intervento legislativo nella sfera dell’economia e della proprietà privata. Non a caso si parla di «filantropia» ovvero di carità, sia pure di «carità pubblica» o di «carità cristiana applicata alla politica» (ibid. e. Tocqueville, 1864-67, vol. 9, pp. 337 e 551): se Robespierre sussume diritto di suffragio e diritto alla vita sotto la categoria generale di diritti dell’uomo, per il filosofo liberale il primo è una questione di opportunità politica e il secondo è semplicemente impensabile, dato che le «miserie umane» sono opera della «Provvidenza» e non già delle «leggi», per cui è assurdo pensare «che si potrebbe sopprimere la povertà cambiando l ’ordinamento sociale» [qualcuno pensava che Tina fosse figlia di Margareth Thatcher?] (Tocqueville, 1951,  vol. 12, p. 84).” (D. Losurdo, Democrazia o bonapartismo, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, pag. 17).
  

c) Quanto all’atteggiamento verso le organizzazioni popolari, valga quanto accaduto in Italia in occasione dell’ondata di scioperi di inizio anni ’70 (dell’Ottocento. Dopo la crisi finanziaria del ’66, il governo era impegnato al raggiungimento del pareggio di bilancio conseguito nel ’75, in un contesto in cui lo sciopero era un reato. Tale rimase fino al 1889, per tornare ad esserlo con la L. 563/1926, poi trasfusa nel Codice Rocco):  
“Il 25 giugno 1873 il guardasigilli dirama […] ai procuratori generali (il primo e unico caso) una circolare di cui conviene riferire il contenuto per comprendere in quale atmosfera di vera e propria persecuzione legale si svolgessero le azioni rivendicative e associative dei lavoratori: “nell’indagare le cagioni degli scioperi, che frequentemente accadono nelle diverse città del regno, si è notato che spesso hanno origine o sono fomentati da associazioni, le quali non pure con lettere circolari consigliano ed eccitano gli scioperi, ma compilano statuti con cui costituiscono casse di resistenza per dare sussidi a coloro che si porranno in isciopero, ovvero, dopo avvenuto, aprono sottoscrizioni e fanno deliberazioni a pro degli scioperanti”. 
Richiamate numerose norme di legge, la circolare stabilisce: “epperò sono, a norma dei citati articoli, soggetti ad azione penale gli statuti, le circolari, ed altri similanti scritti e stampati, che contengono provocazioni od eccitamento a commettere o continuare il resto di sciopero, quanto dannoso al commercio, altrettanto pericoloso all’ordine pubblico”; così sono punibili “le sottoscrizioni, le deliberazioni e le somministrazioni di sussidi”; contro i colpevoli si deve procedere “ne’ termini di legge, con sollecitudine e vigore”. (R. Zangheri, Storia del socialismo italiano, vol. I, Torino, Einaudi, 1993, p. 332) 

http://quotespictures.com/wp-content/uploads/2015/04/work-quote-by-gustave-le-bon-the-work-of-a-crowd-is-always-inferior-whatever-its-nature-to-that-of-an-isolated-individual.jpg

d) Quanto alla manipolazione mediatica, di cui s’è molto parlato in questo blog, vorrei qui proporre un piccolo tuffo nel passato parlando di un personaggio tanto citato quanto frainteso: Gustave Le Bon. Letto e apprezzato da Hitler e Mussolini, di solito presentato come il malefico teorico del plebiscitarismo totalitario, la manualistica omette spesso (direi praticamente sempre) di ricordare che il nostro era… liberista, guarda un po’ tu.

Leggere per credere:

"Come la tradizione liberale, ai cui rappresentanti (Tocqueville, Macaulay, Spencer) fa spesso riferimento, Le Bon mette in connessione l’estensione del suffragio e il diffondersi delle idee socialiste che, violando le “leggi economiche”, pretendono di “regolare le condizioni dell’impiego e del salario”, diffondendo la “fiducia superstiziosa nello Stato provvidenziale” e l’attesa della soluzione di una presunta questione sociale mercé l’intervento legislativo nei rapporti di proprietà. Tutto ciò ha già avuto e può ancora avere effetti rovinosi: “le fantasie di sovranità popolare ci costeranno di sicura ancora più care (Le Bon, 1980, pp. 34, 125 e 224)"


E poi: "Nella denuncia di questa «pericolosa chimera» che ha preso piede a partire dalla rivoluzione francese e di cui «invano filosofi e storici hanno tentato di dimostrare l'assurdità» (Le Bon, 1980, pp. 117 sg.), lo psicologo delle folle è d'accordo con Tocqueville (cfr. supra, cap. i, § 2), da lui più volte citato. Solo che ben diversamente si configura il rimedio suggerito, il quale ora è da ricercare non nel sistema elettorale di secondo grado o in qualche altro accorgimento per limitare o contenere il suffragio universale diretto.

Quest'ultimo dev'essere, al contrario, portato a compimento perché il capo, senza essere ostacolato da barriere e diaframmi, possa agire sulle masse ricorrendo a strumenti di persuasione che vengono così descritti: 
L'affermazione pura e semplice, svincolata da ogni ragionamento e da ogni prova, costituisce un mezzo sicuro per far penetrare un'idea nello spirito delle folle. 
Quanto più l'affermazione è concisa, sprovvista di prove e di dimostrazioni, tanto maggiore è la sua autorità. I testi sacri e i codici d'ogni tempo hanno sempre proceduto per affermazioni. Gli uomini di Stato chiamati a difendere una causa politica qualsiasi, gli industriali che difendono i prodotti con la pubblicità conoscono il valore dell’affermazione. Tuttavia quest’ultima acquista una reale influenza soltanto se viene ripetuta di continuo, il più possibile e sempre negli stessi termini.  
Napoleone diceva che esiste una sola figura retorica seria, la ripetizione. Ciò che si afferma finisce, grazie alla ripetizione, col penetrare nelle menti al punto da essere accettato come verità dimostrata”.


Per un verso, il sociologo e psicologo delle folle si richiama a Cesare o Napoleone, ai loro «pennacchi» e ai sogni di gloria imperiale cui aveva fatto riferimento anche Bagehot; per un altro verso, Le Bon pensa ormai sul modello della pubblicità commerciale la propaganda considerata adatta al regime cesaristico o bonapartistico da lui prospettato:

Così si spiega la forza straordinaria della pubblicità. Quando abbiamo letto cento volte che il miglior cioccolato è il cioccolato X... ci immaginiamo di averlo sentito dire spesso e finiamo con l'averne la certezza (...). A furia di veder ripetuto su uno stesso giornale che A... è un vero mascalzone e B... un onest'uomo, finiamo con l'esserne convinti, a patto, naturalmente, di non leggere spesso un altro giornale di opinione contraria, in cui tali definizioni sono capovolte (Le Bon, 1980, p. 160).”

(Losurdo, op. ult. cit., pagg. 81 e 83-84).

1.8. Sarà chiaro a questo punto che cosa intendevano le classi dirigenti, e intellettuali al seguito, fossero essi liberali, nazionalisti e poi anche fascisti, quando durante l’età giolittiana e poi, con ancora più forza, nel primo dopoguerra parlavano dell’esigenza di restaurare l’autorità dello Stato.

O cosa intendeva l’Idea Nazionale nel 1915 quando, caldeggiando l’entrata in guerra dell’Italia, scriveva «L'urto è mortale: o il parlamento abbatterà la Nazione... o la Nazione rovescerà il parlamento... se il parlamento italiano è putrido, l'Italia nuova lo spazzerà dal suo cammino». (F. Gaeta, Il nazionalismo italiano, Roma-Bari, Laterza, 1981, pag. 178).


Cosa c’entra tutto ciò col federalismo? Nazionalismo e restaurazione dell’autorità dello Stato sembrano formule opposte a quella federale. Eppure…


2. Einaudi, tra nazionalismo e internazionalismo

2.1. …eppure che si tratti di due tattiche diverse della medesima strategia antidemocratica lo dimostra in modo inconfutabile una figura pubblica che le ha usate, e contemporaneamente, entrambe: Luigi Einaudi.



Sì, perché, forse non lo sapete, ma questo maestro di pacifismo e federalismo internazionalista fu interventista. Eh, già: Lo scoppio della Grande guerra spinge […] Einaudi a schierarsi senza riserve a favore dell’ingresso dell’Italia nel conflitto, sposando le tesi dell’interventismo illuminato [!] di stampo liberal-conservatore, che aveva allora la massima espressione nella linea editoriale del Corriere della Sera di Luigi Albertini.”

Ohibò!

Sentite come continua (l’autore è ricercatore di storia a La Sapienza e il sito proprio malevolo non lo direi): 
In qualità di autorevole opinion maker del quotidiano milanese e di altre testate favorevoli all’intervento, Einaudi si impegnò su due direttrici: una rigorosa e puntuale analisi degli aspetti economico-finanziari del conflitto, diretta a influenzare e ad orientare le grandi opzioni di politica economica dei governi di guerra; e interventi di propaganda bellica con articoli e saggi (in particolare quelli confluiti nelle raccolte di scritti Gli ideali di un economista e le Lettere di Junius) a carattere prevalentemente etico-morale.

Giova osservare, a tale riguardo, che tra l’Einaudi scienziato-economista e l’intellettuale engagée [sic] al servizio della propaganda di stato non vi era contraddizione né soluzione di continuità. 
Egli poneva infatti in tutti i suoi scritti grande enfasi sulle “virtù non economiche” della guerra, vale a dire sulla importanza dei benefici morali e spirituali che essa sarebbe riuscita a portare se condotta a termine vittoriosamente. Riteneva infatti che solo la consapevolezza di tali benefici potesse rendere sopportabili gli immensi sacrifici economici imposti da un conflitto che aveva rivelato, nell’accezione di Ernst Jünger, una inedita, terrificante logica di “guerra totale”. 
Sia le Prediche che altri scritti einaudiani del tempo di guerra dovettero pertanto insistere sulla necessità che il popolo italiano prendesse parte al conflitto sacrificando ogni interesse privato al bene della nazione; perché solo in questo modo sarebbe riuscito a difendere e a promuovere per sé un più elevato ideale di convivenza civile.”


2.2. Certo che il privilegio di infallibilità di cui godono le élite è un gran vantaggio: invochino la soppressione della democrazia in nome della pace e contro il nazionalismo oppure la soppressione di centinaia di migliaia di giovani italiani (in grandissima maggioranza poveri) in nome della nazione e dei benefici morali e spirituali della guerra, han sempre ragione loro. Sono per il meglio, oggettivamente,  e infallibili guide morali di un popolo bue sì, ma un po’ recalcitrante davanti ai sempre indispensabili sacrifici. Meno male che ci sono loro a guidarci!


Trattenendo un moto di repulsione, andiamo avanti.


Del federalismo di Einaudi si è già parlato lungamente: non è necessario tornarci sopra. Vale invece la pena segnalare come tale orientamento non solo non gli abbia impedito di essere interventista, ma nemmeno, nel dopoguerra, di vedere, insieme a Croce e numerosi altri illustri leader politici e intellettuali liberali”,  “con favore l’emergere del fascismo e in seguito la sua ascesa al potere” e appoggiare “con convinzione il governo Mussolini da essi considerato -  si badi -  non soltanto in grado di adempiere al compito della «restaurazione dell’ autorità dello Stato» ma anche di svolgere il ruolo di una forza autenticamente liberale riportando il paese alla «normalità costituzionale».” (Massimo Salvadori, Liberalismo italiano, Roma, Donzelli, 2011, pag. XVI).



2.2. Parlando più specificamente degli economisti liberisti, non è certo che Einaudi fosse una mosca bianca, naturalmente:  
“La rassegna degli economici filofascisti nel periodo 1921-1924 comprende quasi tutto l’arcipelago marginalista, e comunque i suoi esponenti più significativi: Pareto, Barone, Ricci[1], Einaudi, Prato, Del Vecchio, Amoroso, Sensini e altri ancora. Se l’Ottobre italiano fu una rivoluzione (tesi che Pantaleoni negava recisamente in polemica con alcuni fascisti, sostenendo essere il fascismo restaurazione capitalistica), e se questa rivoluzione ebbe una coloritura culturale, esse furono entrambe all’insegna della scienza economica accademica, e di quella marginalista in particolare”. (Marco E.L. Guidi e Luca Michelini (a cura di), Marginalismo e socialismo nell’Italia liberale, 1870-1925, Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, vol. n. 35, Milano, Feltrinelli Editore, Milano, 2001, pag. LXXXVIII).


Ecco come si esprimeva il nostro: “Quanto allo Stato, esso aveva il dovere assoluto di resistere alle imposizioni. All’inizio del 1920, in relazione alle rivendicazioni dei ferrovieri, egli affermava solennemente: «Noi crediamo che sia giunto il momento di ricordarsi che esiste uno Stato in Italia e che la sua esistenza è necessaria», uno Stato che deve anche saper dire no”. (Salvadori, op. cit, pag. 97).


E in novembre:

Dietro ad un governo, dietro ad un parlamento decisi a restaurare la finanza e l’autorità dello stato insieme si schiererà la parte più sana e cosciente dell’opinione pubblica ed essa avrà ragione di ogni torbida manovra rivoluzionaria.”

 

Questo nello stesso anno in cui venivano pubblicate in una raccolta le lettere a firma Junius in cui, due anni prima sul solito “illuminato” Corrierone, aveva cantato il de profundis del “dogma della sovranità statale.” Naturalmente in nome della pace, all’indomani di una guerra spaventosa da lui appoggiata.


2.3. Se per Albertini s’è parlato di stranezze, qui siamo alla scissione della personalità. A meno ovviamente di non cercare la coerenza a un livello di lettura più profondo. Si vedrà così che anche in questo caso il problema non sono Stato e nazione in sé: la posta in gioco è la democrazia.


Salvadori (op. cit., pagg. 120 e ss.) lo chiarisce in modo efficace, lasciando la parola allo stesso Einaudi. È quindi sufficiente procedere ad ampie citazioni:

Non si nega» - osserva Einaudi esprimendo una posizione che in passato respingeva - che la volontà della maggioranza «debba da ultimo prevalere», ma occorre che essa venga temperata e difesa dalla «sua propria intemperante frettolosità», dalle passioni che spingono alla sopraffazione degli avversari, che essa non tocchi «i principi fondamentali della vita politica e sociale».

Questi principi possono essere salvaguardati a condizione che non si scateni la lotta tra parti estreme, prevalga lo spirito di compromesso e si persegua il «superamento degli opposti in una unità superiore», se «la maggioranza degli uomini», la quale «non pensa con la propria testa» e «aderisce al pensiero e alla volontà altrui», si dispone ad essere persuasa e guidata dai «pochi uomini» che «posseggono un proprio sistema di idee, una ferma convinzione intorno ai problemi fondamentali della convivenza sociale».

Tirando le somme, per Einaudi la democrazia diventa accettabile se diventa liberale respingendo la tentazione della tirannide della maggioranza ed essa può diventare liberale quando la sanior pars [sic!], ottenuto il riconoscimento del proprio primato politico e sociale, sappia a sua volta agire come anima e guida della major pars
Egli non accetta che si parli di un «nuovo liberalismo» in relazione all’innesto prodotto dal principio elettorale democratico. 
Tra il vecchio e il nuovo liberalismo - dichiara - «non esiste alcuna differenza sostanziale». Il liberalismo «è uno e si perpetua nel tempo», anche se «ogni generazione deve risolvere problemi suoi, che sono diversi da quelli di ieri e saranno superati e rinnovati dai problemi di domani».

Resta sempre e dovunque il fatto che al popolo non spetta altra funzione se non quella di scegliere i suoi capi.”

[…]

Tra il 1946 e il 1947 Einaudi manifestò il suo pensiero sulla questione della sovranità popolare con toni che possiamo considerare conclusivi della sua parabola in tema di rapporti tra democrazia e liberalismo.  
Disse che «l’argomentazione tratta dal principio della sovranità o volontà popolare» lo lasciava «indifferente»; che siffatto principio, di matrice rousseauiana, «non appartiene alla categoria delle verità scientifiche», che l’esperienza di tutti i tempi e paesi dimostra che il governo sta necessariamente nelle mani dei pochi che guidano i più; che il principio della sovranità popolare appartiene «all’ordine dei miti, delle formule politiche»; che d’altra parte esso è bensì «utilissimo mito, del quale nessun ceto politico governante in un Paese libero può fare a meno»: ma utile nella misura in cui esso si innesti sui principi del liberalismo

[…]

Il «dogma» della sovranità popolare era dunque da accettarsi in forza del suo radicamento in quanto «formula» che «nei tempi moderni è più universalmente compresa»: semplice formula perciò, «strumento” di governo  [Il sistema idraulico sanitario] utile al raggiungimento di quel bene comune [in una democrazia costituzionale si parla di interessi generali]  il quale solo sta dinnanzi ai nostri occhi», che si è infine imposta essendo cadute formule obsolete come «il principio del diritto divino dei re, della grazia di Dio, perché non fanno più presa sulla mente e sulla immaginazione degli uomini»

[…] Nel messaggio pronunciato dopo la sua elezione a presidente della Repubblica, Einaudi rivolse parole rassicuranti a proposito del fatto che appariva superato il pericolo, ispirato a pessimismo, che il suffragio universale potesse essere incompatibile, come era parso a molti (e a lui stesso) «con la libertà» e - aggiunse con un lapsus concettuale - «con la democrazia».

Ma ciò non cambiava la sostanza della sua convinzione, che ebbe modo di ribadire anche in seguito secondo cui la sovranità popolare era e restava un mito, certo un mito ormai necessario, insostituibile, ma che non poteva e non doveva sostituire il dato che il buongoverno è il governo di un’élite distillata, per così dire, dai frutti migliori della vigna coltivata e protetta da un ceto minoritario di uomini prudenti e sapienti, disposti al conseguimento del bene comune e capaci sia di interpretare le esigenze di tutte le forze vive che operano fattivamente nel seno del corpo sociale sia di guidarle.



Mi pare tanto eloquente da rendere superfluo ogni commento.


2.4. Vale però la pena, tanto per tirare le somme e dimostrare che statualismo autoritario e federalismo sono due varianti tattiche della medesima strategia, attirare l’attenzione su una parola chiave che percorre entrambe le vicende: stabilità.

Della stabilizzazione della lira nel primo dopoguerra, si sa; è forse meno nota la vicenda americana (T. Bouton, Taming Democracy, N.Y., Oxford University Press, 2007, pag. 173):

«Durante gli anni '80 del '700, gli europei facoltosi dissero che non avrebbero più investito in America, perché erano convinti che i loro soldi non sarebbero stati al sicuro in un paese dove le questioni economiche e giuridiche rimanevano troppo sensibili alla volontà popolare.

Un consorzio di banchieri francesi e svizzeri lo chiarirono nel 1788, elencando le ragioni per tenersi fuori da un mercato altrimenti promettente.

I banchieri dissero di essere preoccupati per “lo stato caotico del debito interno” e per il fatto che la riscossione delle imposte “non era in corso”. Si lamentavano del “dissenso”, delle “difficoltà”, e delle “agitazioni” della resistenza popolare.   Avevano repulsione delle proteste volte ad “ostacolare l'amministrazione della giustizia”, come quelle dei funzionari della contea e degli agricoltori che avevano bloccato le vendite all'asta degli sceriffi.

Inoltre deploravano le leggi che sconvolgono “il normale funzionamento del mercato” stampando carta moneta e dando sollievo ai debitori.

 […]

In breve, questi finanzieri dicevano che l'abilità della grande borghesia di costruire un governo d'America ed un sistema legale più simili a quelli europei avrebbe “deciso per la fiducia dell'Europa negli Stati Uniti.”»


Dai federalisti, al “quarto partito”, per arrivare al Portogallo: la solfa è sempre la stessa. Saranno le “circostanze storiche”, come diceva Basso, a decidere le tattiche da usare 
Emerge così una questione tattica fondamentale che, in ragione della flessibilità degli strumenti, da adattare alle circostanze storiche ma sempre preservando l'obiettivo irrinunciabile del "buongoverno" affidato alle immancabili elites, è alla base della stessa fenomenologia vincente del neo-liberismo, costretto a prendere atto del suffragio universale e del "mito" della sovranità popolare da rendere cosmetico. E cioè: evidentemente, presidiata dalla Costituzione la via nazionale, quella internazionale si imponeva.

https://pourceau.files.wordpress.com/2008/08/hayek.jpg

3 – Federalismo come liberismo

3.1. A conforto di questa lettura ecco spuntare sull’ultimo numero del Federalista, la rivista del Movimento Federalista Europeo (MFE), un importante articolo sul federalismo di von Hayek scritto da Francesco Violi.

Si tratta di una discussione tanto più interessante in quanto totalmente interna al campo liberale: meglio la via nazionale o quella internazionale? Ecco dunque la risposta dell’autore:


Molti intellettuali liberisti amano spesso citare autori liberali del passato per dare una base più solida alle loro tesi. Tra i più citati figura sicuramente Friedrich Von Hayek, che viene usato soprattutto quando si tratta di rafforzare la critica, o meglio il rifiuto, dell’idea di Europa federale. 
Generalmente questo rifiuto si accompagna all’accusa rivolta alla pubblica amministrazione europea di essere burocratica e pletorica, ma spesso finisce per dipingere scenari dispotici, in cui un governo tirannico di stampo sovietico mette a repentaglio la libertà, la democrazia e i diritti civili dei cittadini europei. 
Nel condurre questa speculazione intellettuale, questi pensatori equiparano questi principi alla difesa della sovranità nazionale, coerentemente con l’idea che questi principi siano difendibili esclusivamente a livello nazionale e coerentemente con un’interpretazione malintesa del principio hayekiano di “individualismo metodologico” nelle relazioni internazionali, che, essenzialmente, nell’interpretazione che ne viene fatta, diventa “nazionalismo metodologico.

Insomma, l’autore sostiene che un eventuale liberismo antieuropeista e nazionale non può che essere frutto di un errore di prospettiva, tanto più per chi si richiama ad Hayek.



3.2. Un punto di vista che sembra in effetti trovare conferma nel caso di una celebre ammiratrice dell’economista/filosofo austriaco: la Lady di Ferro. 
Infatti secondo Glyn Morgan (Harvard University):
“[La Thatcher] era una fervente ammiratrice degli scritti economici di Hayek, ma [...] temeva che i suoi sforzi per distruggere la socialdemocrazia in Gran Bretagna sarebbero stati compromessi a causa di un eventuale progetto europeo volto alla ricostituzione di una socialdemocrazia a livello sovranazionale.

D’altra parte lei l’impaccio di una costituzione democratica degna di questo nome non ce l’aveva.


Torniamo a Violi: “Conseguentemente, si può ritenere che se Hayek fosse ancora vivo, non apprezzerebbe la BCE e il suo ruolo, ma con molta probabilità apprezzerebbe molto di meno tutte le proposte di tornare alle vecchie monete nazionali e tutto quanto è legato all’idea di «sovranità monetaria».”


E chi l’avrebbe detto! Ma c’è di meglio:

Al di là dell’apprezzamento o meno delle sue proposte, la rilettura del federalismo nell’opera di Von Hayek è interessante non solo dal punto di vista intellettuale, ma per ricordare le fondazioni liberali delle teorie federaliste, tipiche anche della scuola britannica del periodo interbellico: la limitazione del ruolo del governo e l’emergere degli individui come unità indipendenti. Bisogna inoltre tenere sempre a mente che l’obiettivo ultimo di Von Hayek era la rimozione di tutte quelle tensioni economiche che, nel periodo in cui scriveva le prime due opere qui citate, erano state causa delle due guerre mondiali.”


3.3. Federalismo europeo = liberal-liberismo d’antan. Certificato sulla rivista del MFE. Che va ringraziata per la chiarezza.

Se osserviamo come è evoluto il diritto internazionale dopo la Seconda guerra mondiale fino ai giorni d’oggi, sia a livello mondiale sia a livello europeo, possiamo notare che le istituzioni internazionali giocano effettivamente un ruolo simile a quello auspicato da Hayek
Il dominio riservato degli Stati della comunità internazionale è stato progressivamente ridotto e diverse convenzioni e nuove consuetudini del diritto internazionale hanno teso, e tendono, a far emergere l’individuo come soggetto di diritto internazionale
Allo stesso modo, a livello europeo la Comunità prima e l’Unione oggi tendono spesso ha giocare un ruolo più “negativo” che “positivo”. Tendono cioè a limitare interventi distorsivi degli Stati membri nell’economia, ma non hanno una vera e propria capacità economica ed industriale. 
Per quanto si possa discutere sulla desiderabilità o non desiderabilità della cosa, è un dato di fatto che, volontariamente o non volontariamente, è stata percorsa una via austriaca” all’integrazione europea che comunque continuerà a coesistere ancora per molti anni con nuovi approcci di tipo positivo.”

Approcci positivi che però la stessa fondatezza dello schema hayekiano rende molto poco probabili. Si tratta di valutazioni realistiche, con cui si può concordare.


Credo sia dunque piuttosto evidente a questo che se, come sosteneva Pareto, “i modi per evadere le ideologie democratiche della sovranità democratica sono infiniti”, il federalismo interstatale è chiaramente uno di questi.

3 – Conclusioni

Che dire in conclusione? Innanzitutto è difficile non domandarsi quanto sarà profondo il baratro in cui ci avranno trascinato questa volta le nostre illuminate élite. A cui va riconosciuta la notevole capacità di produrre disastri di cui poi accuseranno i popoli, così da crearsi la giustificazione per poterne fare di nuovi.


È questo circolo vizioso che bisogna riuscire a rompere.

Si può farlo rendendosi conto che, se “infinite”, e per questo anche disorientanti, sono le tecniche di attacco, sempre uno è il bersaglio: la democrazia sostanziale
Ossia se le conquiste sociali “sono state possibili grazie ad una crescente partecipazione al potere delle masse popolari, a sua volta una maggiore ed efficace partecipazione potrà essere resa possibile solo da un ulteriore sviluppo del contenuto sociale della democrazia. […] Il contenuto sociale e il contenuto politico della democrazia sono per così dire interdipendenti: lo sviluppo dell’uno è al tempo stesso condizione e condizionato, premessa e conseguenza per lo sviluppo dell’altro, in un ritmo dialettico che costituisce appunto il motore di un moderno sistema democratico.” (Basso, op. cit., pagg. 82-3).

Non è quindi nemmeno così difficile alla fine capire quale sia il terreno da presidiare: quello della sovranità popolare costituzionale, là dove essa ha avuto la capacità di esprimersi. Ossia la nazione, non in un qualche fantasmatico senso astratto, ma nel senso sociale e politico concretissimo di popolo sovrano.




(FINE)





[1]      Umberto Ricci, zio di Altiero Spinelli

9 commenti:

  1. Un grazie ad Arturo e Baazar per il prezioso lavoro svolto. Sicuramente il sottoscritto avrà bisogno di leggerlo più volte per interiorizzarlo.
    Comunque per sintetizzare al minimo diciamo che al liberismo sono prioritarie alcune cose:
    1)Che la politica monetaria/economica essendo un bene prezioso sia sempre tenuta al riparo ( da una casta sacerdotale auto-nominatasi) dal processo elettorale.
    2) che il popolo sia tenuto rigorosamente lontano dalle cariche elettive, almeno quelle che contano.
    Per ottenere ciò l'importante è controllare il sistema legislativo, tramite nomina, il sistema accademico, ed il sistema mediatico.
    Loro sono pochi ma uniti nel raggiungimento dei loro obiettivi, dei quali hanno grande consapevolezza, noi siamo una larghissima maggioranza, che non sa più riconoscere quali sono i propri interessi, divisi su tutto, affetti da Dunnik-Kruger.

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    1. Il "trattato" che hanno scritto i "due" merita infatti di essere meditato.
      Hai fatto bene a ringraziarli: vedremo presto quali applicazioni concrete, assolutamente importanti, se ne possono trarre :-)

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    2. Grazie a te Mauro.

      Pensa la sorte: un importante studioso italiano di federalismo ha donato alcuni rari volumi sul tema ad una biblioteca di paese.

      ...quella di Arturo.

      :-)

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    3. Ahahahahah! Il diavolo fa le pentole ma...
      E potremmo aggiungere "Dio c'è": ma si presterebbe ad equivoci.

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  2. Scusate mi sono dimenticato una cosa: Le Elites hanno grande stima di se stessi e disprezzo per il popolo, viceversa la maggioranza del popolo ha disprezzo per se stesso e profonda, illimitata, infinita stima per le Elites.

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  3. LECTIO MAGISTRALIS

    Leggendo gli Autori della 1° puntata – Arturo e Baazar, in rigido ordine alfabetico – sorgeva spontanea l’aspettativa delle successive.

    Due Grandi Cavalieri della Democrazia partecipata che hanno donato la condividisione – senza soldo – del Sapere della Verità Storica.

    Quelle “verità” mistificate, manipolate per cambiare le percezioni, i comportamenti dei componenti di comunità sociali finalizzandole – con metodi di abuso e coercizione psicologica e fisica – alla prevaricazione degli interessi generali a soddisfazione di quelli individuali.

    Nelle trincee di questa truce guerra – il cui quadro (“frame” per gli anglofoni , con il gusto della scienza, della cultura, della demenza “appartenente”) appare di limpidezza “strana” – s’ha da riaffermare “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.

    Ps. GRAZIE GRANDE ad Arturo e Baazar .. THIS SHUT MUST GO OUT
    :-)

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  4. Un grazie ad Arturo e Bazaar per qualità e mole di lavoro.
    Certo che starvi dietro è un compito assai arduo, nel mentre che si interiorizza un problema se ne presentano altri tre almeno...

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  5. Ringrazio anch’io Arturo e Bazaar per l'ottimo lavoro, che ci fa appunto incontrare perle come questa: «Il dominio riservato degli Stati della comunità internazionale è stato progressivamente ridotto e diverse convenzioni e nuove consuetudini del diritto internazionale hanno teso, e tendono, a far emergere l’individuo come soggetto di diritto internazionale». Ma che cosa vuol dire questo?

    Gli individui hanno diritti perché quei diritti sono elencati nelle Costituzioni degli Stati, e gli Stati si impegnano a garantirli attraverso le proprie risorse (se sono diritti sostanziali; se non richiedono risorse, si tratta di diritti cosmetici). Non è su base internazionale che i diritti possano essere garantiti. Si tratterebbe quindi di un’espressione vuota. In proposito riprendo questa spiegazione dettagliata da un importante post del blog:

    «Il diritto internazionale vede come suoi soggetti solo gli Stati o le organizzazioni di Stati, e non ammette, se non in via riflessa (come considerazione del reciproco riconoscimento di “trattamento” dei rispettivi cittadini e aspetti simili) la diretta rilevanza degli individui umani, cioè la loro soggettività c.d. normativa (intesa come titolarità dei diritti e dei doveri conferiti dalle norme di diritto internazionale).

    Sono le Costituzioni, perciò attualmente, le massime fonti che si occupano degli individui umani; ciò che certe organizzazioni internazionali fanno, ad es; in termini di diritti umani, è riconoscere eccezionali legittimazioni ad agire di fronte a vari organi internazionali giurisdizionali, che affermano, tendenzialmente, responsabilità e obblighi degli Stati, cioè delle parti dei trattati, e, sempre eccezionalmente, delle persone fisiche riconoscibili, secondo le regole specifiche del diritto internazionale, come “organi” degli Stati (determinando delle responsabilità “funzionali”, non estensibili al di fuori della sfera delle regole che riguardano gli Stati nella loro azione politica, cioè non riportabili alle regole puramente “etiche”, se vogliamo, e volte astrattamente alla giustizia nella comunità degli individui umani).»

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    1. (Un ringraziamento collettivo a mia volta per gli apprezzamenti: mi fa piacere se il lavoro vi ha interessato. E' vero che è lungo e denso: se ci sono dubbi, domande, obiezioni, non esitate).

      Sergio, per capire le radici, e il velleitarismo, del globalismo giuridico, ti consiglio il bel libro di Danilo Zolo Cosmopolis (ma anche l'articolo di Preterossi che ho linkato offre spunti acuti).
      La mancanza di un minimo di concretezza di queste prospettive di cittadinanza globale garantita da diritti umani universali mi pare peraltro abbastanza evidente: "Si potrebbe poi aggiungere che nei diritti umani la dimensione di potere, che per definizione caratterizza i diritti fon­damentali, è così sfuggente da restare inafferrabile (quali sono gli spazi del loro effettivo esercizio, e verso chi possono essere esercitati, almeno come veri e propri diritti umani e non come diritti costituzionali riconosciuti dal­l’uno o dall’altro stato del pianeta?)." (M. Luciani, L'antisovrano e la crisi delle costituzioni, in Riv. Dir. Cost., 1996, pag. 175).

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