giovedì 27 aprile 2017

CAPITALISMO & FASCISMO: TRA LA MARCIA SU ROMA, IL SUD AMERICA E LA GLOBALIZZAZIONE IRENICA

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Il mondo capital-pop è "a life in technicolor". Cambiano le forme (tecnologiche) ma non la sostanza:
https://image.slidesharecdn.com/litaliafascista-140219135626-phpapp02/95/litalia-fascista-24-638.jpg?cb=1392818255
E la sostanza rimane questa:


1. Questo post dovrebbe servire (se mai fosse possibile, a questo punto de " lo svuotamento dell’intorno della coscienza umana") a chiarire il punto sulla questione della destra, o del fascismo, come connotazioni attribuibili all'attuale posizione politica di Marie Le Pen.
Il punto non è affatto secondario, perché, con tutta evidenza, si riflette sulla comprensione e sull'orientamento politico dell'opinione, pubblica e di massa, italiana, sospesa (approssimativamente, perché la casistica, si limita a presupporre un certo livello di buona fede e di conoscenze...schematiche: quelle che spiegano, molto bene, "Perché ESSI VIVONO"), tra: 
a) persone che credono che la sinistra sia ormai estranea alla risoluzione del conflitto distributivo scatenato dal capitalismo, senza ormai (voler) conoscere le più importanti circostanze storiche che diedero vita al fascismo istituzionale (cioè al governo, a dettare le leggi), e 
b) persone che credono che queste circostanze non debbano più essere prese in considerazione, perché ora il capitalismo sarebbe "diverso". Senza saper collegare la natura della "globalizzazione" con il modo di essere costante e immutabile del capitalismo stesso.

2. E perché poi dovrebbe cambiare questo modo di essere, se lo stesso meccanismo di dominio, mediante impadronimento dello Stato pluriclasse e di diritto (in precedenza), funziona sempre, sia come dittatura emergenziale sia come desovranizzazione statuale in nome della "pace"? Anzi, il meccanismo è stato perfezionato nella sua estrema versione "pop", e mai come oggi incontra resistenze poco organizzate e neutralizzabili mediaticamente con un'abile cosmesi.
Non a caso, rispetto alla neo-versione del capitalismo sfrenato, che prende la via del tecnicismo pop, parlammo di autoinganno e collaborazionismo involontario (nella migliore delle ipotesi...). Formule che in quella versione ulteriormente perfezionata del tecnicismo-pop, cioè sfrenato ma cosmetizzato al massimo grado, che è L€uropa, si concretizzano nella proiezione identificativa degli oppressi negli interessi degli oppressori
Un fenomeno reso possibile da una vasta censura "sul punto zero" che si impernia sulla solidificazione dell'odio verso lo Stato in sé, e si allarga nell'aggravarsi sempre più drammatico della funzione censoria svolta dalla "questione mediatica".

3. Ma veniamo al tema in questione. Francesco Maimone ci ha meritoriamente riportato una ricostruzione storico-economica di Lelio Basso che ci appare esaustiva e sufficientemente chiara per confutare ogni forma attuale di "antifascismo su Marte", una sindrome autolesionista che misura la tendenza collettiva attuale al "suicidio della democrazia". Ve la riporto nella sua sequenza:

Fascismi vecchi:
… non avrebbe vinto il fascismo se non ci fosse stato, in ultimo, un ulteriore intervento delle forze sociali, in suo aiuto, e fu la Confindustria l’elemento decisivo che determinò la vittoria del fascismo. 
Fu che a un certo momento questo fenomeno, che prima era il fenomeno dei grandi agrari della Valle Padana, diventò anche il fenomeno, il movimento che interessava i grandi industriali, la grande finanza, il gran capitale
Questo accadde appunto…dopo la crisi del ‘21 che fu una crisi conseguente alla guerra, che si verificò in tutti i paesi, ma che ebbe un aspetto più evidente in Italia perché l’Italia, fra i paesi che si consideravano avanzati, era il meno avanzato, industrialmente il meno progredito…

Ci fu in Italia - e in tutti i paesi - una certa difficoltà nel trasformare le industrie di guerra in industrie di pace. Prendete una fabbrica che ha fabbricato per anni cannoni, munizioni, e dite: “Adesso vi mettete a fabbricare aratri, automobili, camion”. Non è facile questa riconversione dell’industria di guerra in industria di pace. 
In un grande paese industriale la cosa era più facile, in un paese più ricco dove il mercato di consumo interno era più munito di possibilità, il fenomeno era più facile. In un paese più povero... Vi dovete immaginare l’Italia di allora: forse metà almeno della popolazione italiana non comprava niente sul mercato, era fatta di contadini che consumavano i prodotti della loro terra, che si facevano in casa il tessuto e i vestiti, che forse avran comprato qualche strumento di lavoro, una zappa... non so, qualche cosa del genere, ma non c’era un mercato corrispondente all’ampiezza della popolazione. In un paese di questo genere riconvertire l’industria di guerra in industria di pace diventò molto più difficile e creò delle crisi estremamente gravi. 
Le industrie che si erano lanciate nella produzione bellica si erano gonfiate durante la guerra per aumentare (come è normale che avvenga nella industria capitalistica) i propri profitti, si trovarono di colpo a non sapere che cosa vendere. I cannoni non li potevano più vendere e non erano in grado di sostenere la concorrenza straniera per esportare qualche altra cosa.

Avrebbero avuto bisogno di uno stato che ordinasse locomotive invece che cannoni, vagoni ferroviari, rotaie. Le acciaierie, le industrie siderurgiche, meccaniche, si trovarono in condizioni gravissime. 
E in modo particolare avvenne che due tra le più grandi industrie italiane, la Ansaldo di Genova e l’Ilva di Livorno, si trovarono di colpo ridotte in condizioni di fallimento. La seconda delle grandi banche italiane, la Banca Italiana di Sconto” che era legata alla Ansaldo di Genova, si trovò anch’essa in gravissima crisi perché aveva finanziato questa industria e non era più in grado di rimborsare i capitali
E fino ad allora “la borghesia italiana - per usare l’espressione di uno storico della borghesia italiana che non era un uomo di sinistra, anzi fu un fascista, Nello Quirici - "l’industria italiana aveva sempre vissuto nel bagnomaria delle protezioni statali”.
Come viveva? Viveva perché lo Stato assicurava le commesse. Già allora c’erano gli scandali, (adesso sono molto più numerosi, quasi normali gli scandali delle forniture alle stato). Ci fu soprattutto lo scandalo delle acciaierie di Terni: risultò che il Ministro della Marina era in combutta con le acciaierie Terni per ordinare le corazze delle navi…

Ma allora lo Stato si trovò tra i piedi questa situazione di crisi grave, con grandi industrie che stavano crollando, la seconda delle grandi Banche - la prima era la Banca Commerciale Italiana - che stava crollando, e che chiedevano allo Stato di intervenire con enormi somme per aiutarle. Il vecchio liberalismo italiano non concepiva questa funzione dello Stato. (Oggi il capitalismo non vive senza il continuo intervento dello Stato in suo aiuto, ma allora non esisteva questa forma).

Giolitti rifiutò questo aiuto, come aveva rifiutato di intervenire quando gli operai nel ‘20 avevano occupato le fabbriche. Anche allora gli industriali avevano chiesto allo Stato di intervenire con la polizia per scacciare gli operai dalle fabbriche, e Giolitti aveva dato la risposta del buon senso, aveva detto: “Ma guardate che finché gli operai stanno nelle fabbriche non fanno la rivoluzione, la rivoluzione si fa quando si esce dalle fabbriche, quando ci si chiude nelle fabbriche non si fa nessuna rivoluzione, lasciateli stare, un certo giorno se ne andranno”. E così fu. L’occupazione delle fabbriche si sgonfiò da sé, però anche questo per gli industriali è stato un affronto, è stato un affronto alla santità della proprietà, la cosa più sacra che esista per il borghese, per il capitalista, la proprietà privata.

Che gli operai avessero occupato le fabbriche nel ‘20 era già stato un affronto, ma che lo Stato nel ‘21, quando ci fu la crisi, rifiutasse di intervenire, tirar fuori quattrini, darli alle banche, alle industrie, questo fu un elemento decisivo.

LA CONFINDUSTRIA…
Fu a questo punto, verso la fine del ‘21, che si costituì la Confindustria: la confederazione degli industriali, che non esisteva ancora in Italia. Essa decise che il modo di uscire da questa situazione era che la Confindustria stessa, si impadronisse dello Stato e potesse governare, direttamente o per interposta persona obbediente, lo Stato.

...E IL FASCISMO DI MUSSOLINI
E pensò che il fascismo di Mussolini potesse essere l’occasione buona. Le vostre generazioni, e in fondo anche noi, siamo abituati a pensare al Mussolini dittatore per vent’anni, ma allora Mussolini era un giornalistucolo ex-socialista che aveva inventato da poco questo fascismo, non era un personaggio. Era un personaggio che si era venduto alla Francia per diventare interventista, un personaggio che si comprava e che si pagava. Gli industriali si illusero, ma in realtà non si illusero veramente perché Mussolini, a parte alcune apparenze, servì gli industriali italiani come volevano, anche se ne mandò di quando in quando qualcuno al confino per dimostrare che il padrone era lui: ma la classe degli industriali la servì sempre.

Gli industriali pensarono che se avessero appoggiato il fascismo e lo avessero mandato alla conquista dello Stato, avrebbero avuto finalmente a capo del Governo non un liberale di antico stampo come il Giolitti, che credeva in una certa funzione delle Stato, in certi diritti dello Stato, che non credeva che lo Stato dovesse obbedire al primo Agnelli che arrivava a dargli un ordine, ma un servitore obbediente. Come praticamente ebbero nel fascismo. 
È quando la Confindustria si decise a gettare il peso della sua forza economica, sociale, la sua stampa, i suoi giornali, a passare dalla parte del fascismo, è da allora, dalla fine del ‘21, che il fascismo vince definitivamente la sua battaglia. Prenderà il potere poi nell’Ottobre del ‘22. Ma l’elemento che decide la vittoria del fascismo è il passaggio della Confindustria da quella parte.

Infatti, Mussolini, quando arrivò al potere, fece immediatamente una serie di provvedimenti legislativi a vantaggio del grande capitale italiano
Ecco cos’è stata l’origine del fascismo, ecco perché ho detto che ci fu un fenomeno congiunturale: la crisi (se non ci fosse stata quella crisi probabilmente non avremmo avuto il fascismo; e ci fu un fenomeno strutturale, cioè la struttura dell’industria e dell’economia italiana) era tale che il capitalismo non era più capace, come era stato in passato, di superare da se stesso la crisi. Perché crisi economiche molto più gravi del ‘21 ce ne erano state in precedenza: c’era stata la crisi degli anni 1845-46-47, da cui era nata la grande rivoluzione del ‘48 che noi conosciamo anche in Italia. La crisi era nata allora da una malattia delle patate, in Irlanda; ma poi si era estesa in Europa poco a poco e da quella crisi tutta l’Europa subbuglia (‘48-49), però il capitalismo l’aveva superato da sé. C’era stata la crisi del 1857, gravissima, con fallimenti su larga scala, che venivano già superati. C’era stata quella che si chiama la “lunga depressione” che durò dal luglio 1873 fino al 1891-92, vent’anni di crisi, ma il capitalismo l’aveva superata. Ce n’era, stata ancora al principio del secolo, e il capitalismo l’aveva superata. Il fatto nuovo che determina il fascismo è che di fronte ad una crisi che non era certamente fra le più gravi, il capitalismo non ha più in sé la forza di superare la crisi e deve allora cominciare ad utilizzare lo Stato.

SIMBIOSI TRA ECONOMIA E POLITICA
In questo senso il fascismo italiano anticipa un processo che poi si generalizzerà: cioè la simbiosi tra Stato e capitalismo, fra economia e politica. A un certo momento... - in quel caso per rimettere in movimento il meccanismo del profitto che si era fermato, e oggi viceversa per mantenere costantemente in movimento il meccanismo del profitto - è necessario che ci sia questa simbiosi fra Capitale e Stato. Lo Stato diventa l’ausiliario quotidiano del capitalismo. Ormai il capitalismo non vive senza un intervento continuo dello Stato....

Il fascismo creò l’IRI. Di fronte alla grande crisi del ‘29, quando minacciavano di crollare tutte le industrie italiane, l’Istituto della Ricostruzione Industriale, fu una specie di ospedale delle industrie, per risanarle, per aiutarle. 
Oggi tutti sanno che l’economia americana non vivrebbe più di sei mesi se non ci fosse questa simbiosi tra lo Stato e l’economia. 
Il fascismo italiano in questo senso fu un anticipatore, perché l’Italia era un paese a economia più debole e quindi questo aiuto era più necessario. Allora fu necessario perché c’era una crisi e lo stesso fenomeno si ripeté in Germania dopo la grande crisi del ‘29-31. Quella fu sì una crisi enorme, la più grande che il capitalismo abbia mai conosciuto, che lasciò milioni e milioni di disoccupati. Questi, ridotti a sottoproletariato, si rivolsero a Hitler, si rivolsero ai fascisti con una sola speranza, perché i partiti tradizionali e lo Stato tradizionale non erano in grado di dare una soluzione ai loro problemi di disoccupazione e di miseria.

Quindi ANCHE IL NAZISMO TEDESCO NASCE DA QUESTA DOPPIA COINCIDENZA: UN FATTO CONGIUNTURALE - cioè una crisi economica, quella del grave ‘32 - E UN FATTO STRUTTURALE, la incapacità del capitalismo tedesco, che pur era il più potente tra il capitalismo dell’Europa continentale, di uscire dalla crisi senza impadronirsi dello Stato. Se voi andate a vedere e a studiare le origini del nazismo, vedete fenomeni analoghi, vedete ad un certo momento la confederazione degli industriali tedeschi decisi ad appoggiare Hitler, che sono allora i Krupp, ci sono gli Hintless, tutti grandi industriali della Germania che danno a Hitler i mezzi per armare le squadre, per fare quello che fece il fascismo italiano. Hitler fece tutto in scala molto più larga
” (segue)

E n€o-fascismi irenici e neo-colonizzanti:
il capitalismo deve essere padrone dello Stato. Questo è oggi il vero pericolo che minaccia il mondo e che ha dato luogo alle dittature militari dell’America. 
Perché noi abbiamo oggi un continente intero in cui sono aboliti i diritti dell’uomo, in cui gli operai non hanno il diritto di scioperare..., perché il grande capitale mondiale ha bisogno di avere queste forme di colonia che sono gli stati dipendenti dove si vanno a stabilite certe fabbriche
Un ingenuo, forse magari non ingenuo, dirigente di una grande fabbrica italiana, che è andato a stabilire una succursale di una grande fabbrica in Brasile a Belo Horizonte, in un’intervista a un giornale ha detto: 
“beh, abbiamo trovato nel Brasile un paese dove gli operai non possono scioperare, dove i sindacati sono fatti dallo Stato e non possono assicurare contratti di lavoro, dove non ci sono elezioni libere e quindi non si corre neanche quel terribile pericolo che è il centro-sinistra, neanche quello! E questo è il paradiso per una società multinazionale. Noi veniamo qui”.
È chiaro che nella misura in cui queste grandi multinazionali, come oggi si chiamano, possono andare a stabilire fabbriche in questi paesi dove pagano poco la mano d’opera, pochissimo, perché gli operai non hanno mezzi di difesa, indeboliscono la classe operaia del loro paese per mettervi le grandi multinazionali americane o anglo-olandesi: la Shell, la Philips, la GM, la ITT, la IBM. Che forza ha la classe operaia e impiegatizia che lavora nella IBM italiana o nella GM tedesca? 
Può scioperare... Quando ha scioperato quelli chiudono la succursale italiana o tedesca, ma hanno nel mondo altre 15 o 20 fabbriche che lavorano, e se ne infischiano! Se ne infischiano perché quelli continuano a produrre e a vendere. Cioè l’esistenza delle multinazionali e l’esistenza di paesi sottoposti a queste forme di dittatura e di oppressione, indebolisce anche la classe operaia dei paesi più sviluppati…

A mio parere oggi vedere il pericolo del fascismo più che nelle dittature che si devono combattere per carità, dobbiamo combattere le battaglie di ogni giorno contro i tentativi fascisti vecchio stile, le forme nostalgiche, dobbiamo combattere le aggressioni, tutte queste forme, le minacce di colpi di stato di generali golpisti, ecc. 
Ma C’È UN PERICOLO PIÙ NASCOSTO E, A MIO GIUDIZIO, PIÙ GRAVE CHE CI MINACCIA: LA TENDENZA DEL GRANDE CAPITALE MONDIALE A CONCENTRARE IL POTERE IN POCHISSIME MANI
Secondo gli economisti, prima della fine del secolo, le grandi compagnie, le grandi società multinazionali che domineranno il mondo non saranno più di cinquanta. 
Non saranno più di 50 i manager, i padroni, che nel chiuso dei loro uffici a New York oppure a Londra o a Francoforte o ad Amsterdam decideranno del destino vostro perche io probabilmente che ho 72 anni, non ci sarò più, ma voi ci sarete.  
Ognuno dovrà accettare di essere una rotella impercettibile di un meccanismo messo in essere da forze lontane ed ignote per produrre il profitto del grande capitale
Per permettere a questi 50 manager di aumentare in ricchezza e in potenza l’umanità dovrà subire la schiavitù più umiliante e più degradante che non è soltanto la schiavitù dello sfruttamento economico, ma è questa forma di schiavitù ancora maggiore che è lo svuotamento dell’intorno della coscienza umana. Gli uomini devono essere schiavi ed essere contenti di essere schiavi, ringraziare i loro padroni.

C’è stato uno storico americano che ha scritto per spiegare la differenza di trattamento che negli USA hanno avuto i negri rispetto agli indiani, i cosiddetti “pellirosse” e ha detto: “I pellirosse non hanno capito che dovevano accettare di essere schiavi, i negri hanno capito. Se anche i pellirosse avessero accettato di fare gli schiavi avrebbero trovato dei padroni benevoli che li avrebbero trattati bene, paternalisticamente. Voi sapete quali padroni buoni e paternalisti hanno trovato i negri, come sono stati trattati, come sono trattati tuttora. Invece hanno voluto essere liberi e non c’era altro che sterminarli, che ammazzarli perché l’economia americana doveva andare avanti: o schiavi eliminati o complici di questo regime…” 
[L. BASSO, Le origini del fascismo, Savona, Centro giovanile, cicl., 10-45].
Posto quanto sopra, i visionari del fascismo patafisico dovrebbero spiegare in quale punto del programma della Le Pen si avallerebbe la simbiosi strutturale tra capitalismo (globalizzato) e Stato".

4. Per finire: la dialettica tra fascismo e capitalismo sfrenato, cioè il liberismo, in passato era stata ben riassunta (e ne abbiamo straparlato) da uno dei più illustri teorici del primo, confermando appieno la ricostruzione di Lelio Basso:
"...riproduco qui, per ordine, il passo di Ludwig von Mises recentemente riportato:
«Non si può negare che fascismo e movimenti simili, finalizzati ad imporre delle dittature, siano pieni delle migliori intenzioni e che il loro intervento abbia, per il momento, salvato la civiltà europea. Il merito che il fascismo ha così ottenuto per sé, continuerà a vivere in eterno nella storia. Ma se la sua politica ha portato la salvezza, per il momento, non è della specie che potrebbe promettere di continuare ad avere successo. Il fascismo è stato un ripiego d'emergenza. Vederlo come qualcosa di più sarebbe un errore fatale.»    
Ed anche, con riferimento alla fase instaurativa dello stesso fascismo, sempre Mises:
Il supporto iniziale di Giretti al movimento fascista è altamente illuminante.  Sono più che convinto che senza la libertà economica, il liberalismo sia un'astrazione vuota di reale contenuto, quando non una mera ipocrisia e astrazione elettorale.. Se Mussolini con la sua dittatura ci darà un regime di maggior libertà economica rispetto a quello che abbiamo avuto dalle mafie parlamentari dominanti nell'ultimo secolo, la somma di bene che ne deriverà per il paese da un tale governo, sorpasserà di gran lunga ogni suo male. 
In tal modo,  in questa fase iniziale, Giretti, come gli altri "liberisti", condivise l'interpretazione del fascismo che uno studioso ha attribuito a Luigi Albertini, editore dell'influente Corriere della Sera: esso era "un movimento al tempo stesso anti-bolscevico (nel nome dell'autorità dello Stato) ed economicamente liberale, capace, cioè, di dare nuovo vigore all'idea liberale in Italia."
5. L'omogeneità dei meccanismi illustrati da Basso, nelle varie proiezioni di luogo e di tempo, della dialettica tra capitalismo liberista e fascismi (ovvero, fenomenologicamente, autoritarismi della destra economica), trova poi una spiegazione nella concezione unificante "dell'ordine internazionale del mercato". Questo è appunto il meccanismo ad applicazione unitaria, adattabile sia in funzione dei punti di partenza sociali e istituzionali che di volta in volta fronteggiano la sua applicazione, sia degli strumenti considerati idonei a rendere tale applicazione più efficace.  
"La differenza con l'epoca fascista, a mio modo di vedere, più che in qualità personali di Mussolini (che pure hanno certamente avuto un peso) sta in un fondamentale fattore strutturale e cioè che all'epoca il garante di quello che Polanyi, la cui interpretazione di fondo del fascismo secondo me rimane la più fondata, chiamava "l'ordine internazionale del mercato" (che per lui consisteva in tre pilastri: gold standard, free trade e flessibilità del mercato del lavoro) era lo Stato nazionale, purché ovviamente non democratico (naturalmente per quei paesi che avevano la forza necessaria per non farsi colonizzare). 
La stessa libertà degli interessi capitalistici locali non li spingeva però necessariamente verso la complicità con quella soluzione. 
Emblematico di questo punto di vista un manifesto dell'aprile del '19, pubblicato durante la discussione che avrebbe portato all'approvazione della legge elettorale proporzionale, sottoscritto tra gli altri da Volpe, Gentile e...Einaudi, che caldeggiava un rafforzamento dello Stato contro le "minacce bolsceviche" e le "manovre finanziarie" (traggo le notizie da G. Turi, Giovanni Gentile, Torino, UTET, 2006, pag. 302), da attuarsi tramite un rafforzamento della monarchia e una riduzione della rappresentanza politica a una funzione puramente consultiva
Tradotto in parole povere: si trattava di bloccare quegli elementi di democratizzazione della vita pubblica che rendevano più difficile, e meno credibile agli occhi dei mercati finanziari, attuare le manovre di aggiustamento i cui principali danneggiati erano i lavoratori (ricordate Eichengreen (qui, p.17.1)?).  
Nel rispetto di questi binari, per garantire i quali il fascismo andò al potere, poteva senz'altro esprimersi una cultura tecnocratica anche di alto livello, di cui una dittatura, ancor più libera dopo l'allentamento prima e il crollo di quell'ordine dopo, poteva avvalersi efficacemente.

5.2. Questo però non cambia quelli che erano gli equilibri sociali su cui il regime si reggeva, come non è difficile intuire.
Non solo perché l'Italia all'ordine internazionale del mercato restò abbarbicata fino all'ultimo (le deroghe ad esso, come l'autarchia, ebbero origine nell'esigenza di restare agganciati a quello che ne era l'elemento più importante, cioè il gold standard), o perché lo stesso intervento pubblico fu sollecitato dai grandi interessi economici (l'avevo già ricordato citando Sarti), ma perché più specificamente, come dicono bene Paggi e D'Angelillo (pagg. 73-74):
"...la politica di deflazione inaugurata da Mussolini con il discorso di Pesaro non conosce interruzione anche negli anni della grande crisi. 
Anzi, quando nel 1931 la sterlina sarà costretta ad abbandonare definitivamente il rapporto con l'oro, la lira subirà un'ulteriore rivalutazione.
E' dentro questa cornice di politica monetaria che si realizzano negli anni '30 tutte le grandi operazioni di intervento statale nella struttura bancaria e industriale del paese".
...Per quanto riguarda l'Italia, anche dopo l'abbandono delle vecchie tesi stagnazioniste, rimane indiscutibile il fatto che i grandi processi di ristrutturazione e di modernizzazione verticale che il capitalismo italiano conosce negli anni del fascismo non si tradurranno mai in una espansione orizzontale dell'attività economica".

5.3. Quella di una presunta rottura con il grande capitale è sostanzialmente un'autoapologia dei protagonisti dell'epoca, di cui è bene diffidare profondamente: la storiografia (De Felice in primis, ma poi Petri, Ceva, Zunino, Pavone, eccetera) ha efficacemente mostrato che, di là di frizioni anche di un certo peso (la famosa "porcata", per usare le parole di Agnelli, costituita dall'imposta speciale del 10% sui capitali delle società anonime adottata dal governo nel 1937), i vertici economici del paese non negarono il proprio convinto appoggio al fascismo, che non fece mai mancare loro lauti profitti e disciplina del lavoro, fino nemmeno alla guerra ma al momento in cui l'Italia risultò chiaramente perdente
Così come un certo livello di consenso popolare- in una situazione di perenne stagnazione salariale e provvidenze che comunque non cambiavano una situazione materiale assai modesta (come dimostrano i magri progressi degli indici dei consumi)- non ebbe origine in un particolare miglioramento delle condizioni di vita, quanto in un insieme di manipolazione e mancanza di alternative, a cui pure non mancarono momenti di autentico entusiasmo quali la conquista dell'impero e soprattutto Monaco (anche qui, bibliografia a richiesta :-)).
 

5.4. Il mio pensiero è che oggi le costituzioni socialdemocratiche impediscono di fondare la restaurazione dell'ordine internazionale "nello Stato", che deve quindi in prima battuta essere neutralizzato: gli effetti di una tale assalto possono forse risultare perfino più distruttivi di un blocco posto a un'evoluzione democratica in una fase precedente. 
Quando voglio deprimermi, mi domando se con una Costituzione come la nostra non abbiamo osato troppo, se l'ondata distruttiva non sarebbe stata più contenuta se ci fossimo accontentati di qualcosa in meno".

6. Potrei ancora citare altre fonti a conferma di questa interpretazione (ma rinvio a questo quadro riassuntivo di Bazaar). Ciò che importa è comprendere l'applicazione del meccanismo dell'ordine internazionale del mercato (free-trade, gold standard o euro, flessibilizzazione del lavoro-merce) ottenuta tramite i trattati €uropei: questi, dovremmo ormai saperlo, furono promossi e sospinti dall'interesse degli USA che, infatti, sul fascismo, a loro tempo, ebbero questa posizione (sempre grazie ad Arturo e a Francesco; v. addendum):
"Qui, da Francesco Maimone, la definizione data al fascismo da Lelio Basso, estremamente utile per riconoscere il fenomeno nelle sue forme attuali al di là di nominalismi che non sono più indicativi della sua sostanza nel contesto storico dell'€uropeismo:
“Sotto il nome “fascismo” si intendono spesso cose diverse. 
A me sembra che il significato essenziale di esso possa individuarsi in un regime che voglia GARANTIRE IL POTERE ASSOLUTO DI FATTO (non importa se rivestito di apparenze democratiche) AL GRANDE CAPITALE ALLEATO CON IL CAPITALISMO DI STATO e con il personale politico dirigente, e che si sforzi di ottenere per questo suo regime l’adesione popolare, grazie alla diseducazione, al conformismo, al qualunquismo, alla depoliticizzazione, ecc. Vi sono dunque nel fascismo due facce, due momenti: quello dell’autorità, del potere assoluto, della forza, e quello della supina acquiescenza, del conformismo, della abdicazione popolare.

Questa abdicazione, questa acquiescenza si possono ottenere in vari modi: di solito partendo da una crisi di sfiducia e di qualunquismo (dovuta alle conseguenze di una guerra o di una crisi economica) … ricorrendo ALLA SISTEMATICA DISEDUCAZIONE DELLE COSCIENZE GRAZIE ALLA PAURA, ALLA RETORICA, alla propaganda, alle “human relations” magari alla soddisfazione materiale, infine FORGIANDO ATTRAVERSO LA SCUOLA E I MEZZI DI COMUNICAZIONE DI MASSA UN TIPO DI UOMO STANDARD educato a credere ed a ubbidire, un uomo dallo spirito gregario …[L. BASSO, Dialogo fra generazioni di italiani nell’inchiesta sugli anni difficili, in Il Paradosso, aprile-giugno 1960, n. 22, 38-40]."
Capite: il fascismo, come fenomeno di regime instaurato dall'oligarchia capitalista, è sempre, si dice organicamente, un fenomeno proprio di chi controlla i mezzi di comunicazione di massa e la "scuola", al fine di creare un uomo "standard", educato a credere e perciò a ubbidire...

7. Questi sono invece dei chiarimenti storici fornitici da Arturo ed attinenti alla connessione del fascismo con il paradigma socio-politico dominante negli stessi USA: questi potevano essere assunti, già allora, come l'epicentro del potere economico-finanziario mondiale, almeno quanto all'approccio ideologico dominante prima della crisi del 1929 (riproposto nell'idea del federalismo europeo come suo principale strumento di restaurazione):
"Bersani ha anche detto che bisogna garantire la fine della legislatura “all’Europa e ai mercati” (pure, buoni ultimi, “agli italiani”, a cui forse sarebbe invece il caso di garantire il rispetto della Costituzione).
Se ci si deve meritare la sospirata “fiducia” dei mercati effettivamente le elezioni possono diventare un impaccio.
Lo illustra chiaramente la stabilizzazione degli anni Venti (mirata, com'è noto, al ripristino della società censitaria del gold standard e, quindi, pienamente assimilabile a quella conseguente all'adozione dell'euro), su cui merita forse spendere ancora qualche parola, usando, per esempio, un memorandum riservato del 26 dicembre 1927 compilato da Benjamin Strong, all’epoca governatore della FED

Anche mettendo in conto questi punti particolari [le discussioni sul livello della stabilizzazione, che è poi svalutazione salariale mediante disoccupazione diffusa], non ho mai partecipato a una trattativa importante che fosse condotta in maniera così soddisfacente come questa. La ragione veramente sta nel fatto che l’Italia adottò le varie misure preliminari necessarie alle trattative e le eseguì con grande vigore e successo prima di arrivare alla decisione. La maggior parte degli altri paesi che hanno stabilizzato, con la sola eccezione dell’Inghilterra [sic!], non sono riusciti a raggiungere lo stesso risultato in anticipo, e devo dire che vi sono prove di grande autocontrollo e capacità di sacrificio, tali da consentire di realizzare questo programma, secondo i connotati lineari che ha assunto, senza tanti “se” e “ma” e riserve.” (G. G. Migone, Gli Stati Uniti e il fascismo, Feltrinelli, Milano, 1980, pag. 197).
Eh, quando c’era Lui, caro Bersani…
 

8. Non fosse chiaro il discorso, così lo spiega Migone alla pagina successiva:
E’ interessante rilevare come l’autocontrollo ammirato da Strong non consisteva che nei poteri autocratici di cui disponeva Mussolini e che già i partners della Banca Morgan aveva confrontato favorevolmente alle più complesse ed incerte procedure delle democrazia parlamentari europee
Analogamente, lo spirito di autosacrificio a cui egli fa riferimento consiste in realtà nei sacrifici imposti a quelle classi e quelle categorie che erano state colpite dal processo di disinflazione, oltre che dalla repressione dello stato fascista.
Si può, dunque, concludere che il disegno dei banchieri privati americani viene condotto a buon fine dai rappresentati delle principali banche centrali sotto la leadership di Strong – che non manca di compiacersi per il fatto che la stabilizzazione avviene “letteralmente ed esattamente” secondo le indicazioni che egli aveva offerto a Mussolini e a Volpi, in occasione della sua visita a Roma, 18 mesi prima – e malgrado qualche inconcludente tentativo di opposizione di Montague Norman. 

I prestiti concessi all’Italia nei mesi precedenti sono garantiti dal consolidamento della lira italiana, ma soprattutto dal processo di stabilizzazione del regime e del rapporto di forza fra le classi sociali su cui esso poggia, secondo il disegno di ricostruzione e restaurazione che la finanza americana portava avanti con coerenza in tutta l’Europa”.

45 commenti:

  1. Posso dire che da quando leggo questo blog (anni, oramai...) ho cambiato opinione sul 75% di fatti, cose e persone che credevo di conoscere. Davvero non so come ringraziarla.

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    1. Ecco, questa cosa vale anche per me, ci stavo riflettendo mentre leggevo il precedente post e i suoi preziosi contributi... e, proprio per questo, non solo devo ringraziare Quarantotto, ma anche alcuni eccellenti commentatori: Maimone, Bazaar, Arturo... un luogo imperdibile per idee stimoli, spunti, formazione... come d'altronde in parallelo anche Goofynomics....

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  2. Le citazioni che riporta sono sempre preziose. C'è una cosa che mi chiedo: come riusciamo a stabilire un discrimine tra intervento pubblico di stampo keynesiano e simbiosi tra Stato e mercato liberal-fascista? Dopotutto la spesa pubblica, le commesse alle aziende, anche la creazione di aziende pubbliche, non sono tutte misure a cui un keynesiano penserebbe?C'è un discrimine economico che si può intravedere forse in tutte quelle politiche che la teoria e la storia mostrano convergere sul mantenimento della deflazione salariale, ma non é semplice identificarle soprattutto per il cittadino medio, ed é sempre estremamente un terreno di discussione subdolo e ambiguo, perché si scivola sempre in un discorso sul presunto "interesse comune";insomma si ha sempre l'onere di dimostrare (probabilmente in qualche talk show) che una determinata misura economica genera deflazione mentre l'altro dice di no,e si entra in un interminabile e forse inefficace scontro tra paradigmi. Si potrebbe dire di verificare quali sono le forze sociali che supportano un determinato programma, ma anche con un dibattito mediatico non deviato non mi sembrerebbe sufficiente come soluzione.

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    1. Il discrimine dovrebbe essere riferito al trilemma Keynesiano ("Il problema politico dell'umanità"), ossia "mettere assieme tre momenti: l’efficienza economica, la giustizia sociale e la libertà individuale".

      Con il Fascismo- di cui fino alla lettura assidua del blog di Orizzonte avevo un'interpretazione assai favorevole- cade sicuramente la libertà individuale e, quasi senza dubbio, anche la giustizia sociale

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    2. Proviamo a cercare qualche risposta, cominciando con Aldo Barba, in un saggio che è stato qui più volte citato (pag. 3): "Tutti amano ripetere che, secondo Keynes, se il lavoro è sottoutilizzato, finanziare la spesa in debito accresce il prodotto più di quanto lo si accresca ricorrendo all’imposizione fiscale. Ma, a ben vedere, la teoria keynesiana dice un’altra cosa. La domanda, e quindi il prodotto, tanto più cresce quanto più si incrementa la propensione al consumo della società nel suo complesso.".

      Caffè e Vianello ci hanno spiegato l'importanza di misure anche dal lato dell'offerta.

      Ancora Caffè: “Nel dibattito che si è cercato di delineare, nei suoi contenuti essenziali, mentre la considerazione di alcuni aspetti tende a divenire ripeti- altri incontrano-una notevole riluttanza ad essere esplorati senza eufemismi o inibizioni. In particolare, si stenta ancora oggi a prendere atto che — nella valutazione critica prospettata da Keynes circa la “società economica nella quale viviamo” — egli individuava come difetti più evidenti, non soltanto “l'incapacità a provvedere un’occupazione piena’’, ma altresì “la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi”.
      Ora, questo aspetto distributivo (che è stato fondatamente indicato come elemento centrale della crisi odierna della teoria economica) non interessa unicamente sul piano etico-sociale, che pure ha la sua ovvia rilevanza, ma anche come contributo alla spiegazione di quei fenomeni di depressione o ristagno congiunti con elevati saggi di inflazione, che contraddistinguono i tempi attuali.
      Rispetto ai traguardi di elevata occupazione nella stabilità, che erano indubbiamente prospettati come possibili dalla "rivoluzione keynesiana”, e che sono invece ben lontani dalla realtà odierna, alcuni economisti sostengono che occorre risolutamente procedere a una radicale riconsiderazione degli abituali interventi di politica economica di ispirazione keynesiana. E ciò non soltanto nel senso di rendere maggiormente selettive le misure di intervento; ma altresì nel senso di un impiego più sagace della tassazione, delle tariffe pubbliche e dei sussidi statali, in vista del contenimento delle pressioni inflazionistiche e non (come spesso accade) del loro rafforzamento (Eisner, 1975, p. 194).
      Tutto questo contiene elementi di validità, ma appare riduttivo senza un più esplicito legame delle disfunzioni odierne dei sistemi economici con "la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e dei redditi". E indubbiamente vero, — a voler esemplificare — che le spese pubbliche di carattere militare hanno "specifiche proprietà inflazionistiche" e che la loro riduzione (nei paesi sviluppati o sottosviluppati) contribuirebbe a moderare le tensioni inflazionistiche (ibid., p. 193). Ma, su un piano più generale — nel quale si tenga conto delle vaste esigenze umane tuttora insoddisfatte — il punto essenziale è quello delle direzioni verso le quali deve essere indirizzata l’occupazione: vale a dire, il contenuto socialmente rilevante della produzione realizzata con una elevata occupazione
      .” (F. Caffè, Lezioni di politica economica, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, pagg. 142-3).

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    3. Mi pare evidente che a monte ci sono divergenze, anche radicali, sui fini che devono guidare lo Stato e sui suoi rapporti con l’economia e la società.

      Queste considerazioni di Mortati sullo Stato liberale, queste su quello fascista e quelle sulla Costituzione come “democrazia sociale” (Euro e (o?) democrazia costituzionale, pagg. 64 e ss.) mi pare aiutino a completare la risposta.

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    4. Il problema politico dell'umanità cosi formulato mi piace, come spesso accade concetti che ci sono chiari ci diventano ancora più chiari quando troviamo altrove la frase giusta per esprimerli. É sicuramente cosi, c'è un trilemma, e sicuramente deve essere un parametro di valutazione. Tuttavia é proprio questo il punto, esso può essere un parametro di valutazione solo ex post, solo a effetti manifesti, solo quando il "male" si é compiuto. La mia domanda era riferita proprio alla fase preliminare di valutazione. Insomma come faccio a riconoscere preventivamente un pericolo se mi si presenta con un programma di politica economica per molti versi analogo ad uno che appoggerei? La pongo in termini ancora più naïve: come facevo, basandomi semplicemente sul programma economico, a sapere che il fascismo sarebbe stato cio che é stato? É sufficiente un'analisi economica per riconoscere un potenziale liberticida? Come faccio a dire in anticipo che l'intervento pubblico che viene caldeggiato non sarà in realtà uno strumento distributivo e inclusivo ma una scialuppa dei monopoli privati e del potere del capitale? La seconda risposta, di Arturo, attraverso citazioni cerca di rispondere a questo. Sostanzialmente se non ho capito male si sottolinea l'importanza della composizione della spesa pubblica piuttosto che semplicemente del suo ammontare, implicitamente succerendolo come un possibile pilastro dirimente, in quanto la composizione/qualità della spesa sarebbe strettamente collegata col la funzione distributiva della stessa, finendo quindi per rivelarne la vera natura. Questo é un ragionamento senza dubbio valido, e penso che sia una buona risposta alla mia domanda sul discrimine tra le varie nature dell'interventismo pubblico. La cosa paradossale é che nello stesso istante la composizione della spesa cessa,invece,di essere un parametro utile per riconoscere e quindi combattere quelle forme surrettizie di autoritarismo che prendono la forma del neoliberismo corrente. Li il discorso che si é costretti a fare ripiega nuovamente (vedi "austerità espansiva") sulla quantità della spesa e non sulla qualità. Azzardo un'ipotesi dicendo che dialetticamente forse la retorica e,nella misura in cui é padrone del potere politico,la prassi liberista potesse scegliere di alternare intervento pubblico e liberalizzazioni, privatizzazioni etc. Ma allora la nuova domanda é:come si combatte un nemico che può attaccare su due fronti? Siamo destinati a curare sempre senza possibilità di prevenzione?

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  3. Altro post bellissimo (commento poco negli ultimi tempi causa lavoro. Ma leggo sempre.... :-) ).
    Considerata la qualità delle fonti citate (sia nel post che nei commenti), in questa come in tanti altri post precedenti, mi domando se non sia utile creare una sorta di 'bibliografia del blog', in modo da avere una panoramica delle opere citate.

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    1. Arturo credo che abbia un archivio del suoi (notevoli) contributi. Non so in che forma potrebbe, ove volesse, comporre, integrandosi con i valenti Bazaar e Francesco, renderne una bibliografia pubblicabile sul blog.
      Tieni conto che, dovendosi connettere i titoli ai links dei post corrispondenti, sarebbe un lavoraccio vero...

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    2. Il ciclostilato di Basso è riprodotto in: Fascismo e antifascismo : lezioni e testimonianze, Milano, Feltrinelli, 1976. Si trova in queste biblioteche.

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  4. A proposito dei giornali, su La Stampa di oggi, a pag. 21, è riportato un articolo di Gianni Riotta dal titolo: “Il deficit di istruzione alle origini del populismo”. Una versione un po' più elaborata e “pseudo-scientifica” del Severgnini-pensiero post Brexit:

    Titolo di studio e luogo di residenza sono ormai la miglior sfera di cristallo per prevedere le scelte politiche degli elettori. Marx credeva che l’economia dominasse sulla politica, Weber studiava l’influenza di religione ed etica, McLuhan e Sartori la potenza della tv. Ma la turbolente stagione elettorale 2016-2017, Brexit, Trump, referendum turco e il duello in Francia tra il tecnocrate Macron e la nazionalista Le Pen indicano, con un impressionante mosaico di dati, le vere tribù politiche del nostro tempo: Senza Laurea contro Laureati: Città contro Campagna. I laureati si raccolgono sempre intorno alle stesse bandiere, No a Brexit, per Hillary Clinton, contro le riforme costituzionali turche di Recep Erdogan, per Emmanuel Macron. Chi ha solo un diploma, o non ha finito le scuole secondarie, si schiera dalla parte opposta, pro Brexit, Trump, Erdogan e Marin Le Pen. Come i topolini della fiaba di Esopo, gli elettori di Città e Campagna hanno opposti stili di vita. A Stracittà trionfano No Brexit, Hillary, No Erdogan, Macron; Strapaese premia Brexit, Trump, Erdogan, Le Pen.

    Cas Mudde, politologo della University of Georgia, mette allo specchio gli elettorati gemelli di Trump e Le Pen, il Nord-Est francese, come la Rust Belt Usa, dove contadini ed operai perdono le certezze delle loro, un tempo prospere, regioni, votando contro le èlite. Nella colta area metropolitana di Parigi invece Macron domina, Le Pen raccoglie un magro 5%. Gli under 35 della capitale francese (il 44% di loro ha una laurea nel cassetto) scelgono Macron, le Pen vince tra chi bazzica il Quartiere Latino e non ha mai messo piede nelle scuole celebri Ena, Sorbona, Sciences po. Gli stessi umori hanno scosso, a novembre, l’America. Ancora nel 1996 Bill Clinton sapeva mobilitare insieme città, periferie, campagne, laureati e no. Hillary Clinton ha battuto Donald Trump in 48 delle 50 più popolose contee urbane, cedendogli però rovinosamente le 50 contee con meno laureati o popolazione: là ha perso il 30% dei voti di Obama e là, secondo lo statistico Nate Silver, “Trump ha vinto le elezioni”. Come in Francia, Laureati (52 a 43 per Clinton) e Non Laureati si affrontano e tra i maschi bianchi con il solo diploma, Trump raccoglie uno schiacciante consenso, 67% contro il 28% dei democratici
    . (segue)

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  5. E la somma dei voti populisti destra-sinistra Le Pen-Melenchon in Francia è lo stesso blocco sociale, 40% di Trump. Al referendum turco le grandi città, Istambul, Ancara, Smirne, bocciano i nuovi poteri per Erdogan, grazie all’alta scolarità della popolazione. Le aree rurali si schierano con il presidente. Votano no gli elettori colti ed abbienti, che producono il 72% del Pil turco e leggono l’85% dei libri venduti. Vota sì chi contribuisce il 28% delle ricchezza e acquista il 15% dei libri. In Gran Bretagna campagne e aree ex industriali votano Sì a Brexit per il 55%, contro le città europeiste, Londra, Menchester, Liverpool, Cardiff, Edimburgo, Oxford, Cambridge. Il Partito Laureati è con l’Europa, il Partito Non Laureati contro.

    Citare online questi numeri suscita reazioni ostili: “Volete togliere il voto al popolo?”, nel tono rabbioso tanto comune oggi. Ognuno tragga le conseguenze che desidera, i numeri non mutano. America, Europa, Turchia (dati interessanti anche dalla Russia) confermano un trend costante, elettori colti e urbani hanno opinioni e interessi, cultura e stili di vita che i ceti meno colti e rurali detestano. Non è la prima volta nella storia che le èlite riformiste vengono condannate, come arroganti ed egoiste, dal “popolo”, accadde in Vandea nel 1793 durante la Rivoluzione Francese, accadde a Napoli con i repubblicani della Pimentel sconfitti dai populisti sanfedisti nel 1799. Gli elettori di Trump, Brexit, Erdogan e Le Pen [a questo punto aggiungerei anche gli italiani del referendum costituzionale, NdF] hanno, accanto a tratti di intolleranza, legittime ragioni di scontento, economiche in primo luogo, presto dimenticate da una società globale che li ha esclusi, ad esempio, da educazione superiore e tecnologie.

    Una politica raziocinante dovrebbe, subito, colmare il gap, prima che l’odio lo allarghi, diffondendo scuola e istruzione gratuita e integrando, con infrastrutture, web, servizi, cultura, il centro e le periferie. Il governatore di New York, Cuomo, vara in tal senso un college finalmente senza tasse tagliagola, conscio dei pericoli di una democrazia in cui Cittadini Colti e Campagnoli Lavoratori siano nemici. Se eletto a maggio, questo sarà il problema numero 1 anche per il laureato Ena, ex banchiere, che corre ora da outsider, Macron
    ”.

    “Politica raziocinante” e giornalismo d’avanguardia

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    1. Si rassicurasse: anche con laurea magistrale, il regime del mercato del lavoro e la struttura dell'offerta "competitiva" sono tali che la schiacciante maggioranza dei giovani "qualificati" rimane disoccupata. Ergo potenzialmente dedita a "inconsulti" comportamenti di protesta.

      Certo, poi, a questi è più facile propinare, come fanno i Riotta e i Severgnini, che la colpa di ciò è della corruzione, degli sprechi e degli inauditi privilegi parassitari della generazione precedente.

      In pratica, quello che ci raccontano costoro è che il sistema di propaganda mediatico-culturale funziona molto meglio con chi è "formato" fino in fondo mediante il suo rigido e spietato preorientamento (pop) della realtà.

      Non funziona, invece, con chi, in modo molto più pratico, si è già cimentato nel tentativo di inserirsi nel mercato del lavoro, ma non avendo, prima, completato il percorso coattivo che porta alla identificazione degli interessi degli oppressi con quelli dell'oligarchia...

      Nelle ONLUS che propugnano i diritti cosmetici, infatti, non c'è posto per tutti (per sbarcare il lunario sentendosi "cittadini/e del mondo").

      E la soluzione di "condizionare" ancor meglio la massa a dosi massicce di politically correct, colpevolizzazione e conflitto generazionale, può solo ritardare di "un po'" il rigetto del corpo sociale per l'oligarchia.

      Anzi: al momento della "saturazione" anche di queste fasce sociali, la reazione sarà ancora più radicale...

      Un default del sistema di irregimentazione che viene dunque sopravvalutato e che non sposta di una virgola gli effetti sociali di lungo termine dell'ordine internazionale del mercato.
      Insomma: stanno alla frutta e se queste sono le loro "risorse culturali" e strategiche, come potranno sopravvivere fino al prossimo giro di consultazioni elettorali?
      Non potranno: dovranno abolire il suffragio universale.
      Anche dei laureati...

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    2. Esatto, il prossimo step obbligato è, a questo punto, l’abolizione del diritto di voto per i non laureati. Però è innegabile che le università de L€uropa abbiano lavorato alla grande.

      Bisognerà vedere fino a che punto funzionerà il giochino. Quel che è certo è che:

      … Una classe dirigente che non si rende conto che non è possibile, per difendere il suo privilegio e il suo profitto egoistico, spingere a condannare milioni e milioni di italiani alla fame, alla miseria, alla disoccupazione forse sperando di spingerli alla disperazione, che non si rende conto che anche a questa politica di sfruttamento, anche a questa politica di egoismo di classe, vi sono dei limiti che sono imposti dalla forza delle cose, la classe dirigente che giunge a dimenticare quella che è la storia di pochi anni fa, il fallimento e il crollo di un regime, i lutti tremendi che questo regime è costato al nostro paese, una classe dirigente a cui nulla hanno insegnato le esperienze del passato, che dimentica quale è stata la fatale sorte dei Crispi dei Rudinì, la tragica sorte dei Mussolini, e si mette a ripercorrere la stessa strada … una classe dirigente che ancora una volta come Crispi nel ‘96, come Mussolini nel ‘40 si illude anche all’ultimo momento per sfuggire alla morsa delle sue responsabilità, alla resa dei conti… una classe dirigente, giunta a questo grado di miopia, di cecità e di follia, è veramente una classe dirigente ormai completamente condannata dalla storia…” [L. BASSO, Cinquant’anni di lotta del proletariato italiano illustrato dal compagno Lelio Basso, in Il Socialista reggiano, 22 settembre 1951]. (segue)

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    3. A tutti i Riotta che ce l’ha tanto con gli operai mi permetto di replicare con A. Gramsci, dal momento che proprio oggi è l’anniversario della sua morte (27 aprile 1937):

      Sono i giorni della réclame per gli abbonamenti. I direttori e gli amministratori dei giornali borghesi rassettano la loro vetrina, passano una mano di vernice sulla loro insegna e richiamano l'attenzione del passante (cioè del lettore) sulla loro merce. La merce è quel foglio a quattro o sei pagine che va ogni mattina od ogni sera a iniettare nello spirito del lettore le maniere di sentire e di giudicare i fatti dell'attualità politica, che convengono ai produttori e venditori di carta stampata. Vogliamo tentare di discorrere, con gli operai specialmente, dell'importanza e della gravità di quell'atto apparentemente così innocente, che consiste nel scegliere il giornale cui si vuole abbonarsi? È una scelta piena di insidie e di pericoli che dovrebbe essere fatta con coscienza, con criterio e dopo matura riflessione.

      Anzitutto l'operaio deve negare recisamente qualsiasi solidarietà col giornale borghese. Egli dovrebbe ricordarsi sempre, sempre, sempre, che il giornale borghese (qualunque sia la sua tinta) è uno strumento di lotta mosso da idee e da interessi che sono in contrasto coi suoi. Tutto ciò che stampa è costantemente influenzato da un'idea: servire la classe dominante, che si traduce ineluttabilmente in un fatto: combattere la classe lavoratrice. E difatti, dalla prima all'ultima riga, il giornale borghese sente e rivela questa preoccupazione. Ma il bello, cioè il brutto, sta in ciò: che invece di domandare quattrini alla classe borghese per essere sostenuto nell'opera di difesa spiegata in suo favore, il giornale borghese riesce a farsi invece pagare... dalla stessa classe lavoratrice che egli combatte sempre. E la classe lavoratrice paga, puntualmente…. Centinaia di migliaia di operai, dànno regolarmente ogni giorno il loro soldino al giornale borghese, concorrendo cosí a creare la sua potenza. Perché? Se lo domandate al primo operaio che vedete in tram o per la via con un foglio borghese spiegato dinanzi, voi vi sentite rispondere: «Perché ho bisogno di sapere cosa c'è di nuovo». E non gli passa neanche per la mente che le notizie e gli ingredienti coi quali sono cucinate possano essere esposte con un'arte che diriga il suo pensiero e influisca sul suo spirito in un determinato senso
      . (segue)

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    4. Eppure egli sa che il tal giornale è codino, che il tal altro è palancaio, che il terzo, il quarto, il quinto, sono legati a gruppi politici che hanno interessi diametralmente opposti ai suoi. Tutti i giorni poi, capita a questo stesso operaio di poter constatare personalmente che i giornali borghesi raccontano i fatti anche piú semplici in modo da favorire la classe borghese e la politica borghese a danno della politica e della classe proletaria. Scoppia uno sciopero? Per il giornale borghese gli operai hanno sempre torto. Avviene una dimostrazione? I dimostranti, sol perché siano operai, sono sempre dei turbolenti, dei faziosi, dei teppisti...Il governo emana una legge? È sempre buona, utile e giusta, anche se è... viceversa. Si svolge una lotta elettorale, politica od amministrativa? I candidati e i programmi migliori sono sempre quelli dei partiti borghesi.

      E non parliamo di tutti i fatti che il giornale borghese o tace, o travisa, o falsifica, per ingannare, illudere, e mantenere nell'ignoranza il pubblico dei lavoratori. Malgrado ciò, l'acquiescenza colpevole dell'operaio verso il giornale borghese è senza limiti. Bisogna reagire contro di essa e richiamare l'operaio all'esatta valutazione della realtà. Bisogna dire e ripetere che quel soldino buttato là distrattamente nella mano dello strillone, è un proiettile consegnato al giornale borghese che lo scaglierà poi, al momento opportuno, contro la massa operaia. Se gli operai si persuadessero di questa elementarissima verità, imparerebbero a boicottare la stampa borghese… Non date aiuti di danaro alla stampa borghese che è vostra avversaria: ecco quale deve essere il nostro grido di guerra in questo momento che è caratterizzato dalla campagna per gli abbonamenti fatta da tutti i giornali borghesi. Boicottateli, boicottateli, boicottateli!
      ” [A. GRAMSCI, “Discorsi di stagione”, Avanti!, edizione piemontese, 22 dicembre 1916].

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    5. Riotta nomina la Vandea ma si ricorderà anche cosa succedeva a Parigi in quegli anni. I "colti" parigini non andavano molto per il sottile

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  6. Il 28 agosto del 2014 Quarantotto scriveva:" Benito non aveva "vincoli esterni" incorporati e disponeva di consiglieri che, non attinti dalla pseudocultura di regime, erano il meglio che poteva esprimere "l'Itaglia" del tempo. Differenza non da poco e mai veramente messa in luce..."

    Ciao Quarantotto e nonostante l'altissima qualità dei suoi consiglieri è andata a finire come tutti sappiamo. Non oso pensare cosa ci riserverà il futuro con questi utili idioti al comando del Paese.
    Il Fascismo aveva l'ambizione di trovare per l'Italia un posto al sole fra le Nazioni che contavano, questi sono impegnati indefessamente a distruggere il Paese giorno dopo giorno, nell'esclusivo interesse della Germania.

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  7. "la schiavitù più umiliante e più degradante che non è soltanto la schiavitù dello sfruttamento economico, ma è questa forma di schiavitù ancora maggiore che è lo svuotamento dell’intorno della coscienza umana. Gli uomini devono essere schiavi ed essere contenti di essere schiavi, ringraziare i loro padroni."

    Attualissimo, cosí attuale da rasentare il desolante.

    Peró forse dá una chiave di lettura ad un fenomeno, un qualcosa che recentemente non riuscivo a capire.
    Non capivo i post di ringraziamento su Facebook (con contorno di decine di "likes") di tutta una serie di ex colleghi i quali, ricevendo il benservito dalla multinazionale, non trovavano di meglio che ringraziare la multinazionale per le esperienze e le possibilitá fornite loro in questi anni.

    Ringraziare dopo essere stati licenziati.

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  8. Mi accodo: ho appreso più qui - persino, a volte, scorrendo distrattamente - che in anni di formazione e letture.

    La veniente sarà la seconda estate che trascorrerò a trascegliere testi e fonti da questa miniera ricavandone dispense per i miei studenti.

    Ormai dei libri di testo, banal-propagandistico-liberali o insopportabilmente cosmetico-piddini, tutti schiuma moralista politically correct della "sinistra del costume" e insulse retoriche commemorative da parrucchiera impegnata, non so che farmene.

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  9. OT: paesino antica roccaforte operaia e di sinistra, ora borghesizzato e in preda alla speculazione edilizia. Nel pannello municipale riservato alle informazioni politiche, sul manifesto del parlamentare che invita a riunirsi tutti per fermare Le Pen qualcuno ha incollato un cartello scritto a mano: "Ne abbiamo abbastanza dei vostri tradimenti. Stop Macron!" Un altro foglio scritto a mano invita a votare bianco e a ricostituire il gaullismo di sinistra e i CLN. Qui i voti si sono spaccati tra Mélenchon e Macron, con Fillon Hamon e le Pen quasi pari e Asselineau sopra la media nazionale. Roba inimmaginabile.

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  10. La decisione di Mélenchon di non far votare l'opzione del voto a Le Pen deve nascondere una fifa blu (per l'appunto). Quando si dice la libertà d'espressione e la capacità di assumere le proprie scelte...

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    1. ho pensato la stessa identica cosa.

      si può votare Macron ma non Le Pen....e fra i due programmi elettorali il primo è certamente il più rovinoso per il popolo....

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  11. Visto che Riotta spara numeri a caso, come sono adusi fare la maggior parte dei cosiddetti colti simili a lui, (come si può calcolare che chi ha votato no ad un referendum produce il 72% della ricchezza nazionale?) vorrei ricordare a lui e ai tanti come lui, che la maggior parte delle riserve valutarie, sono il frutto del lavoro di quegli "esseri inferiori", che tanto vengono disprezzati, i quali lavorano nelle tante officine della penisola, magari in condizioni non proprio ottimali, fredde d'inverno e calde d'estate e magari tanti ci hanno lasciato la vita o parti del proprio corpo. Si proprio quelle riserve valutarie che servono poi per comprare le materie prime che permettono ai vari Riotta di scaldarsi d'inverno a casa, nei luoghi di lavoro o nei luoghi del tempo libero, di potersi muovere liberamente con le auto di alta cilindrata.
    In ossequio alla vostra religione marginalista, ad ognuno il suo, quegli esseri inferiori potrebbero dirvi scaldatevi e muovetevi con l'energia che vi procacciate da soli, non con la nostra, quella prodotta con il sudore delle nostre fronti.

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    1. Che se poi dipendesse dalla laurea il livello del reddito, gli stagisti a 200 euro al mese sarebbero un clamoroso autogoal nella sua tesi. E una volta espunte per bene la varie fasce sociali che lui riterrebbe "improduttive" (dipendenti pubblici parassiti, corrotti - ma non i corruttori, di cui sempre ci si dimentica-, spreconi, evasori, faccendieri) il suo rimarrebbe un inno ai rentier e alla crescente diseguaglianza nella distribuzione del reddito.

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  12. A proposito di Mises, parente di Hayek e quindi, via Trattati, de L€uropa del benessere e della pace: “… Che dal punto di vista dei liberisti non sia lecito porre ostacoli neppure al commercio di veleni, sicché ognuno è chiamato ad astenersi per libera scelta dai piaceri dannosi al suo organismo, tutto ciò non è così infame e volgare come pretendono gli autori socialisti e anglofobi” [L. MISES, Die Gemeinwirtschaft - Untersuchungen über den Sozialismus, 1922, 219, nota 1].

    E poi viene il bello, dal momento che Mises non ha dubbi sul fatto che l'Occidente liberale abbia pieno diritto “…di spazzar via i governi che, facendo ricorso a divieti e restrizioni commerciali, cercano di escludere i loro sudditi dai vantaggi della partecipazione allo scambio mondiale, peggiorando così l'approvvigionamento di tutti gli uomini…”. [220].

    Riassumiamo: in nome del liberismo, i governi (cioè gli stati sovrani con i loro diritti costituzionali, cioè noi tutti) devono essere "spazzati via" perché i “sudditi” possano beneficiare dei meravigliosi frutti del liberoscambismo. Bisogna essere liberi persino di avvelenarsi in nome del governo sopranazionale dei mercati, perché questa è la vera libertà!

    E’ chiara la parentopoli del n€ofascismo globalizzato o è necessario il disegnino?

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  13. Gent.mo 48, prendo spunto da questa frase:

    " una ricostruzione storico-economica di Lelio Basso che ci appare esaustiva e sufficientemente chiara"

    Deduco che il testo in corsivo sia di Lelio Basso.
    Non entro nel merito del testo ma se posso, vorrei entrare nel merito di una cosa forse più importante: il metodo della scelta del testo.
    Provo a spiegarmi.

    Quella di Lelio Basso è "l'interpretazione del fascismo" visto da sinistra. Lei è proprio sicuro che sia l'interpretazione corretta? E se fosse corretta quella del Salvatorelli, che però non era di sinistra?
    La storiografia del fascismo non si ferma a Lelio Basso, anzi, è dal 1977 che iniziano ad uscire i libri (che io le straconsiglio) della mente più acuta negli studi sul Fascismo, il Prof. Emilio Gentile. Per non parlare degli studi fondamentali del Prof. Zeev Sternhell sulle origini dell'ideologia fascista.
    Poi ci sarebbe tutta la scuola anglosassone ma anche qui: l'analisi del fascismo del marxista Timothy Mason è ben diversa da quella di un liberale come Richard J. Bosworth.

    Purtroppo, alla luce della migliore e più autorevole storiografia del fascismo, l'analisi del Basso è molto superata, per tacere delle inesattezze macroscopiche contenute nel testo.

    "Marxists and fellow travelers argued that since Fascism was “the violent attempt of decaying capitalism to defeat the proletarian revolution and forcibly arrest the growing contradictions of its whole development”
    (Prof. A. James Gregor, Mussolini's intellectuals)

    Come vede, gli storici del fascismo, prima di passare ad esaminarlo, ne offrono le diverse intepretazioni date nel corso del tempo dal punto di vista dei soggetti che lo guardavano. L'analisi del Basso è la classica interpretazione da sinistra del fascismo come braccio armato del capitalismo, ed è purtroppo, anche la più obsoleta.

    La mia, mi creda, non è una critica negativa ma anzi, visto il calibro degli argomenti e la "scientificità" con cui li affronta, anche la storiografia del fascismo ha una sua scientificità e se una interpretazione non risponde a tutte le domande (e quella di Basso non lo fa) si passa ad una diversa interpretazione, senza necessariamente abbandonare quel che di buono c'è nella prima.

    Se vuole una bibliografia sulle fonti, sarà mia premura fornirla.

    Chinacat

    PS
    Le faccio un solo esempio di come le intepretazioni "politiche" danneggino la ricostruzione storica:

    "Fu che a un certo momento questo fenomeno, che prima era il fenomeno dei grandi agrari della Valle Padana, diventò anche il fenomeno, il movimento che interessava i grandi industriali, la grande finanza, il gran capitale. "

    Ops. Ma il Fascismo non viene fondato a Ferrara o Siena ma nella capitale della grande finanza e dei grandi industriali: MILANO, 23 marzo 1919.
    E se legge l'elenco dei partecipanti (è disponibile) non c'erano né banchieri, né finanzieri e men che meno latifondisti padani.
    Alle prime elezioni, non so se lo sa, Mussolini raccatta 5.000 voti e depresso, confida alla Sarfatti, di meditare la partenza per l'America.

    Questo, a mio avviso, non è un il modo corretto di raccontare la Storia, piegandola alle proprie esigenze politche. Come questa frase:

    "Mussolini era un giornalistucolo"

    Col cavolo. Quello che rode al Basso, e chi conosce bene il fascismo lo sa, fu che a 29 anni a Mussolini fu affidata la direzione del più importante quotidiano di sinistra in Italia: il socialista l'Avanti, nel 1912.
    Signor 48, secondo Lei, l'organo del principale ed unico partito di massa che esisteva in Italia lo avrebbero affidato ad un giornalistucolo"?

    Vede, io detesto il fascismo ma questa storiografia fatta di mezzucci, insulti ed omissioni, la trovo molto deludente.
    E non posso prenderla per valida.

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    1. Non si può prendere per valido un commento che platealmente ignora il contenuto del post - e la bibliografia storica in esso abbondantemente citata, coi links ai precedenti post in cui l'argomento è stato affrontato-, per soffermarsi solo sulla critica alla TESTIMONIANZA di Lelio Basso e denigrarlo con obiezioni fattuali relative a circostanze pedisseque e di nullo valore fenomenologico.

      Siccome il commmento vuol vedere nel post solo quello che gli fa comodo, per fare una lezzzioncina condiscendente che si rivela retorica e inadeguata, è una perdita di tempo.
      E qui non abbiamo tempo da perdere...

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    2. Occhio, il relativismo sbomballato di questo commento non è un unicum, è parte del pensiero inquinato dei reazionari incoscienti che hanno infiltrato i cosiddetti "noeuro".

      Tutta l'incoerenza scientifica e filologica non crea dubbi a costoro - spesso molto eruditi - perché spesso si strafanno di esoterismo, ossia dell'oppio dei colti.

      Quello che placa la loro dissonanza cognitiva ed il loro livore esistenziale.

      La fenomenologia è l'unica cura.

      Comunque sono almeno due anni che lo si denuncia: se si è coscienti che i nostri sforzi sono volti a lasciare una testimonianza ed un pensiero cosciente per l'emancipazione dei posteri, dei nostri figli, costoro sono nemici della democrazia e dell'unamenesimo tanto quanto i liberisti. Sono veleno per le botti di vino buono che vorremmo si conservasse in cantina.

      E mi prendo la responsabilità di ciò che scrivo, visto che i più noti li conosco più o meno personalmente.

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    3. Caro Chianacat, si dà il caso che per interesse personale abbia passato qualche anno della mia vita a studiare il fascismo: conosco ovviamente tutti gli autori che citi, Emilio Gentile in primis (ho citato un suo libro proprio di recente) e anche qualcuno in più.

      Innanzitutto potrei farti tutta una serie di obiezioni spicciole, per esempio che accomuni storici che non hanno affatto le stesse posizioni: il summenzionato Gentile, per dire, che è effettivamente il massimo storico vivente dell'ideologia e più in generale del totalitarismo fascista, dedica lunghe pagine dalla nuova introduzione alla seconda edizione (inalterata) del suo Le origini dell'ideologia fascista (Il Mulino, Bologna, 1996, pagg. 3-49) a contestare, prima di tutto sul piano metodologico, gli approcci di Gregor e di Sternhell (fra l'altro su quest'ultimo, in particolare in riferimento agli studi sul (presunto) fascismo francese, c'è una bibliografia critica sterminata).
      Quel che gli storici summenzionati hanno in effetti in comune (Nolte e Settembrini li hai dimenticati?) è una grande enfasi sul coté ideologico del fascismo, un rinnovamento metodologico per certi aspetti interessante e necessario, ma, che nello studio di quello che, mi pare, Calamandrei definiva giustamente “un regime di parole”, non era privo di seri rischi, in particolare quello di sminuire, se non accantonare, le sottostanti dinamiche sociali. A quali aporie queste linee interpretative possano condurre, è stato argomentato con molta finezza, e alcuni esempi gustosi, da quello che ne è stato uno dei più preparati iniziatori, ossia Piergiorgio Zunino, nell'introduzione al suo bel libro La Repubblica e il suo passato (Il Mulino, Bologna, 2003). Che un simile dérapage, per dirla con Furet, si sia verificato proprio in coincidenza col progressivo emergere dell'egemonia neoliberale, ben difficilmente può essere considerato un caso (faccio un esempio più sotto), anche volendo ignorare la biografia politica e ideologica (di solito invariabilmente liberale e anticomunista) di parecchi dei summenzionati autori (Gregor e Settembrini, sostanzialmente accomunati dall’identificazione di fascismo e comunismo, sono un esempio abbastanza macroscopico).

      Ovvero, se, come diceva un filosofo indiano, “non tutto ciò che vien dopo è progresso”, non è affatto detto che ciò è stato scritto prima, più spesso accantonato che puntualmente confutato, sia poi così superato, anche nell’ambito dello studio dell’ideologia (un eccellente esempio di quanto siano ancora solide “vecchie” analisi, come quelle di Rumi o di Vivarelli, l’ha dimostrato Paul O’Brien nel recente e pregevole libro su Mussolini nella prima guerra mondiale). Semmai si può lamentare, in un antifascismo d’antan, la forte presenza di un liberalismo “di sinistra” (emblematico I padroni del vapore di Ernesto Rossi), che riducendo i rapporti fra fascismo e mondo capitalistico a una questione di cricche e corruzione (sounds familiar?) ha prestato il fianco a “precisazioni” e “confutazioni” piuttosto fuorvianti. Per dire, per tornare a Gentile (di cui, ripeto, ho comunque un grande rispetto), il nostro ritiene di poter sostenere l’esistenza di un’indipendenza, almeno relativa, di fascismo e “capitalismo” in nome del “primato della politica” (notare l’impiego di termini così vaghi da risultare più suggestivi che analitici), di cui sarebbero prova le tensioni fra regime e pezzi delle classi dominanti. Per supportare il punto si basa sulle ricerche di Melograni, Sarti e Abrate (Gentile, Fascismo. Storia e interpretazioni, Roma-Bari, Laterza, 2002, pagg. 44 e 51, nota 35).

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    4. Uno dei pezzi più forti che questi autori usano sono proprio le divergenze, vere e dimostrabili, fra segmenti del mondo industriale e Mussolini…nella realizzazione della quota ’90! (Es: “Se gli industriali poterono dirsi in complesso soddisfatti della politica sindacale [alla faccia dell’autonomia, mi verrebbe da dire] ebbero viceversa motivi di preoccupazione per la politica deflazionista di Mussolini” (P. Melograni, Gli industriali e Mussolini, Loganesi, Milano, 1980, pag. 174. Naturalmente è un puro caso che un appassionato auscultatore di ogni pio confindustriale verso il regime sia stato uno dei redattori della Carta di Nizza, i cui motivi ispiratori vanno per lui basati su considerazioni di questo tenore: “Diciamo quindi che l’Europa sta vivendo un declino profondo, di cui il calo dell’euro, la moneta unica, sta rappresentando un ulteriore segnale.
      Si tratta di un declino economico, politico, militare, ma anche di un declino culturale. I migliori cervelli tendono a emigrare negli Stati Uniti d’America. La maggior parte dei premi Nobel in campo scientifico, che all’inizio del XX secolo erano assegnati a cittadini europei, vengono adesso assegnati a cittadini americani o a cittadini europei e di altri continenti che si sono trasferiti in America. La cultura degli europei è in larga misura una cultura arcaica, inadeguata alla modernità.
      ”: P. Melograni, La Carta nel processo di costruzione europea: una testimonianza in AAVV, Riscrivere i diritti in Europa, Il Mulino, Bologna, 2001, pag. 92).

      A me pare del tutto evidente che un’analisi come quella di Migone, basata su una ricerca senza precedenti (né successori) per vastità e intelligenza e da cui non a caso i “revisionisti” (e mi pare pure tu…) si son sempre tenuti ben lontani, ricollocando la vicenda nel suo giusto contesto internazionale (e per questo il riferimento a Polanyi mi pare dovuto), sbricioli completamente un’interpretazione che può certo sgambettare analisi à la Rossi (giustamente cieche alle dinamiche strutturali classiste che la restaurazione dell’ordine liberale degli anni Venti portava con sé), molto meno quelle che volessero richiamarsi seriamente a Marx (il quale definiva lo Stato borghese non il comitato d’affari della borghesia, come viene di solito impropriamente tradotto, ma il *curatore degli affari comuni* della borghesia, per assicurare il quadro generale dei quali può avere un grado di autonomia anche molto ampio dai singoli interessi capitalistici) o a Keynes, certo non la constatazione della sostanza classista del regime, funzionale al suo inserimento nel circuito finanziario internazionale, quale suo “rock solid fundamental”, per dirla con de Grauwe. Un linea interpretativa che ricerche come quella di Clara Mattei o quella, anch’essa molto pregevole, di Douglas Forsyth, The Crisis of Liberal Italy (piaciuta molto a De Cecco), hanno contribuito largamente a confermare e irrobustire.

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    5. Per fare un esempio conclusivo e tirare un po’ le somme, dopo averci intrattenuto, per lunghe (e noiosissime) pagine, su tutte le sfumature delle filosofia ideologica e sociale del fascismo, Gregor (L’ideologia del fascismo, Edizioni del Borghese [toh, guarda un po’…], Roma, 1974, pagg. 171-2) ci informa che “dopo il 1925, la dottrina del Fascismo fu una riaffermazione degli elementi dottrinari che Mussolini aveva fatto propri durante la sua maturazione e la sua iniziale guida degli elementi che componevano il Partito Nazionale Fascista”; ora il “duce” (questa grafia virgolettata è quella che usa De Felice) “aveva il dominio assoluto del Partito. Non doveva più ammansire una minacciosa opposizione esterna al Partito. E le sue idee rimasero sostanzialmente inalterate dopo il lungo periodo di incubazione forzata”, ossia poteva tornare ad essere pienamente fedele a un pensiero che si era definito “nel 1919” “con tutta una serie di idee ragionevolmente ben articolate”.
      E cosa ti combina il “duce” finalmente tornato sé stesso? La quota 90, guarda un po’ tu. E, s’intende, per il bene della Nazione, tra il 26 e il 1930, si riscontra “una caduta continua” dei salari reali, per complessivi “26 punti percentuali” (V. Zamagni, Salari e profitti nell’industria italiana tra decollo industriale e anni ’30 in S. Zaninelli e M. Taccolini (a cura di), Il lavoro come fattore produttivo e come risorsa. Atti del convegno di studi della Società italiana di storici dell’economia, Vita e Pensiero, Milano, 2002, pag. 244), naturalmente col compiaciuto plauso della finanza anglosassone. La stessa Zamagni, che io sappia la massima esperta di salari nel periodo fascista, così conclude (Ibid., pagg. 245-6): “In generale si conferma in questo lavoro che il periodo fascista non fu un periodo di restringimento dei profitti, bensì dei salari, con un mancato allargamento del mercato interno ed una accumulazione di capitale nei settori pesanti dell’economia di cui l’acquirente era prevalentemente il settore pubblico (i consumi pubblici aumentarono infatti negli anni del regime molto notevolmente, mentre i consumi privati ristagnarono)”.

      Ma tanto ormai certi vecchiumi sono roba superata, ora contano le “idee”: in effetti nel ’26, insieme alle leggi fascistissime, fu pure promulgata la Carta del lavoro (ogni epoca ha le sue cosmesi, mi verrebbe da dire). (E sì che se ogni storia è storia contemporanea, come diceva il Croce, l’esperienza del presente qualcosa dovrebbe pure insegnarci…).

      Chiedo scusa per la lunghezza, ma, come ho detto, un po’ di tempo sul fascismo l’ho speso, quindi discussioni serene, rispettose (e anche proporzionate a quello che non è un blog di storia) vanno pure bene; accuse di ricorrere a “mezzucci, insulti e omissioni”, mentre ci si concentra solo su una testimonianza glissando sui richiami storiografici (che ho provato, per quanto ho potuto e senza essere uno specialista, a collocare nel dibattito contemporaneo), anche no.

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    6. Non ha compreso la mia risposta: non intendo perdere tempo con sue repliche inutilmente polemiche. Lei non ha capito il post e, se per questo, neppure il blog: il che rende superflua ogni discussione di cui, in questo momento, non si sente alcun bisogno.
      Niente di male. Ma è un problema suo e tale rimarrà.
      Pubblico la sua replica ad Arturo per il solo motivo che lo stesso ha gentilmente, quanto inutilmente, cercato di chiarirle alcuni punti.
      A questa linea mi atterrò.

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  14. Mr. Arturo, intanto la ringrazio per il tempo usato per rispondermi in maniera così articolata. Io, come Lei, ho uno strano hobby: i libri.
    Lo studio personale dei totalitarismi è il contenuto della maggior parte dei libri che leggo.

    Detto questo, non voglio minimamente entrare "nel merito" perché, come ha giustamente scritto, non è un blog si "Storia".

    Io mi limito semplicemente a far notare che l'intepretazione del Fascismo del Basso è una delle più obsolete e di parte che ci sia e risale ad un periodo in cui la storiografia italiana sul Fascismo era tra le meno progredite (a livello di profonditò di analisi) in circolazione.
    Non trovo affatto casuale che alcuni dei principali storici di questo fenomeno non siano italiani: io ne ho citati un paio ma l'elenco è molto lungo (Paxton, Payne, Gooch, Nolte, Bosworth, Milza)
    Le posso assicurare che nessuno degli storici di spessore usa certe argomentazioni (giornalistucolo, fallito, servo) quando tratta l'argomento fascismo. Solo gli scritti italiani "di parte" usano questo metodo. Il che non vuol dire che non ci possano essere delle valide testimonianze: ho appena finito di leggere "L'avvento dello squadrismo" di Angelo Tasca, cioé uno "di parte" e l'ho trovata molto interessante, soprattutto per la critica al comportamento del partito socialista durante lo squadrismo.
    Ma vede, io lo considero un pezzo del puzzle, non mi sognerei mai di usare il Tasca per dire: "ecco, questo è lo squadrismo".
    Al massimo lo userei per dire "ecco, questo è lo squadrismo visto all'epoca da uno di sinistra" (il libro è del 1938).

    Mi creda, non ho intenzione di fare nessuna lezioncina e nessuno, anzi, preferisco ancora andare a lezione e dato che cita Emilio Gentile, alcune delle sue lezioni all'ateneo di Bologna sono tra i miei ricordi preferiti.

    Come la penso io sui rapporti tra il capitalismo italiano ed il Fsscismo non credo interessi a nessuno ma credo che possa interessare a molti sapere cosa ne pensano gli storici di questi rapporti.

    Cordialmente,

    Chinacat

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    1. Mi scusi, Presidente, per lo spazio che rubo, ma io un po' di tempo ho il dovere di perderlo di fronte ad un attacco così diretto e violento ad un uomo del calibro di Lelio Basso da parte di chi, evidentemente, non conosce il suo rigore scientifico e, ancor prima, la sua cifra morale.

      Quanto al “metodo della scelta del testo” – visto che è così cortese da risparmiarci il merito – e sul fatto che (molto genericamente) l’interpretazione del fascismo sarebbe “di sinistra” (debbo presumere, visto il tenore ripetuto e complessivo del commento, che ciò sia per lei una colpa a prescindere), ritengo che abbia espresso giudizi senza aver letto, non dico tutte le opere di Basso, ma nemmeno quella oggetto del contendere che, per ovvi motivi di spazio, il blog non poteva riportare per intero. Come dice lei, “provo a spiegarmi”.

      Saprà certamente, viste le opere e gli autori da lei indicati (e che certamente ha anche letto), quali sono i filoni storiografici riguardanti le interpretazioni del fascismo. Saltando le frattaglie ed andando all’essenziale, per esempio (e comodità) secondo R. De Felice (Le interpretazioni del fascismo, Laterza, 2005) maestro di E. Gentile (non le cito le classificazioni di Ernst Nolte contenuta ne I tre volti del fascismo del 1963) i filoni interpretativi possono riassumersi in tre posizioni, ovvero il fascismo inteso:

      a) come “parentesi” e “malattia morale”. Questa è fondamentalmente la tesi moderata di Benedetto Croce (riprese da storici quali Ritter e Meinecke) come espressa sul “Manifesto degli intellettuali anti-fascisti” del 1925: il fascismo “Non fu escogitato né voluto da alcuna singola classe sociale, né da una singola di queste sostenuto”, bensì “fu uno smarrimento di coscienza, una depressione civile e una ubriacatura, prodotta dalla guerra”.

      b) come “reazione contro la classe lavoratrice da parte del capitalismo”. E’ l’interpretazione di sinistra, cioè marxiana (mi scuso per la parolaccia). Vi facciamo rientrare tutta quella gente “superata”, tra cui qualcuno di passaggio come A. Gramsci (rimando agli articoli su Ordine Nuovo, le cui tesi tesi sono riprese da storici come Quazza, Ragionieri e Tranfaglia), P. Togliatti (rimando a Lezioni sul fascismo del 1970), A. Tasca (rimando a Nascita e avvento del fascismo del 1938). Faccio rientrare nella compagnia anche A. Candeloro, ma anche lui, come storico, è di sinistra e quindi non è autorevole. Dimenticavo: Gramsci, Togliatti, Basso e persino Candeloro il fascismo sapevano cos’era perché lo avevano combattuto ed avevano pagato in prima persona.

      In questa reazione del capitale contro la classe lavoratrice, qualcuno come Togliatti si è poi concentrato maggiormente sul ruolo reazionario della “piccola e media borghesia” (la prego di memorizzare il concetto).

      c) “come “rivoluzione-reazione”. E in questo filone facciamo rientrare, pensi un po', proprio … L. Salvatorelli (che, come dice lei, “non era di sinistra”), il quale in Nazionalfascismo del 1923 sostiene sostanzialmente che il fascismo è stata una azione/reazione da parte della piccola borghesia impoverita dalla crisi economica e terrorizzata dai tentativi rivoluzionari della classe operaia. Chi l’avrebbe mai detto. (segue)

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    2. Poi c’è il pensiero “revisionista” proprio di R. De Felice (che non era di sinistra, e quindi è più autorevole) il quale, nonostante alcune tesi rispettabili (per esempio, che il razzismo fu un fenomeno di importazione e non costitutivo del fascismo o che fu rivoluzionario perché mobilitò le masse per creare un Uomo Nuovo in Uno stato Nuovo), ha anche lui sostenuto che l’azione fascista fu compiuta dai ceti piccolo-borghesi, ma non – secondo lui - da quelli impoveriti, ma da quelli emergenti. De Felice coglie quindi il carattere addirittura “rivoluzionario” del fascismo. Lei avrà certamente letto Intervista sul fascismo, a cura di M.A. Ledeen, Editori Laterza, Roma-Bari 1975 in cui De Felice afferma “…Il fascismo-movimento è stato l'idealizzazione, la velleità di un certo tipo di ceto medio «emergente». Qui sta, secondo me, il punto che mi differenzia da molti altri studiosi di questi problemi: un ceto medio emergente che tende a realizzare una propria politica in prima persona. Dico emergente perché in genere questo discorso -che è stato fatto amplissimamente - è partito da un punto fermo: un declassamento dei ceti medi che si proletarizzano e che, per sfuggire a questo destino, si ribellano…”. Richard J. Bosworth, che lei ha citato, ha peraltro criticato De Felice. Gentile si muove sulla stessa scia del maestro.

      Zeev Sternhell si è soffermato sulla ideologia del fascismo, ma non mi risulta che abbia compiuto un’approfondita analisi ed una ricostruzione “storico-economica” del fenomeno fascista (quella, per intenderci dei marxisti non autorevoli che avevano vissuto direttamente il fenomeno). Cito da “Le origini dell’ideologia fascista, Baldini Castoldi, Milano 1993, 13-19:

      “… Chiunque persista a considerare il fascismo nient’altro che un portato della Grande guerra, un semplice riflesso difensivo della borghesia di fronte alla crisi seguita al conflitto, si condanna con ciò stesso all’incomprensione di questo fenomeno cruciale del Novecento. Il fascismo incarna emblematicamente, invece, il rifiuto estremo della cultura dominante all’inizio del secolo, coinvolgendo nella reazione l’intera civiltà continentale. Nel fascismo tra le due guerre – nel regime mussoliniano come negli altri movimenti fascisti dell’Europa occidentale – non si troverà una sola idea importante che non sia maturata lentamente nel corso del quarto di secolo che precede l’agosto del 1914. …. Per come si forma al volgere del secolo, e per come si sviluppa negli anni Venti e Trenta, l’ideologia fascista è il prodotto di una sintesi del nazionalismo organico e della revisione antimaterialistica del marxismo. Essa si fa portatrice di un messaggio rivoluzionario fondato sul rifiuto dell’individualismo, marxista o liberale che sia. E mette in campo le grandi componenti di una politica nuova e originale. Si tratta, infatti, di una cultura politica comunitaria, antiindividualistica e antirazionalistica, fondata in un primo tempo sul rifiuto dell’eredità dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese, e, in seguito, sull’elaborazione di una soluzione di ricambio totale, di un quadro intellettuale, morale e politico che, solo, viene ritenuto capace di garantire la perenne sussistenza di una comunità umana in cui siano perfettamente integrati tutti gli strati e tutte le classi sociali. (segue)

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    3. Il fascismo pretende di cancellare gli effetti più disastrosi della modernizzazione del continente europeo, rimediando alla frammentazione della comunità in gruppi tra loro antagonisti, all’atomizzazione della società, all’alienazione dell’individuo, ormai diventato niente più che una merce gettata sul mercato. Il fascismo si leva contro la disumanizzazione introdotta dalla modernizzazione nei rapporti tra gli uomini, ma pretende di conservare gelosamente, nel contempo, i benefici del progresso, senza mai caldeggiare il ritorno ad un’ipotetica età dell’oro. Né reazionario né controrivoluzionario (per come Maurras [fondatore del movimento Ation Française, filomonarchico e ostile a ogni manifestazione del mondo moderno, n.d.r.] intendeva questo termine), il fascismo si presenta al contrario come una rivoluzione di tipo nuovo: una rivoluzione che dichiara di voler sfruttare al meglio il capitalismo, lo sviluppo della tecnologia e il progresso industriale. La rivoluzione fascista ha come obiettivo un mutamento radicale ed essenziale dei rapporti intercorrenti fra l’individuo e la comunità, senza che ciò implichi la rottura del motore stesso dell’attività economica – la ricerca del profitto – o l’abolizione del suo fondamento – la proprietà privata – oppure la distruzione del suo quadro necessario – l’economia di mercato. … In ciò che ha di veramente essenziale, il pensiero fascista costituisce, di fatto, un rifiuto del materialismo…”.

      Sentir parlare di “individualismo marxista” a me fa accapponare la pelle, perché evidentemente Sternhell non ha mai letto Marx (e quindi nemmeno Hegel). Ma capisco che per lei tale autorevolezza non è scalfibile. (segue)

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    4. E veniamo a Lelio Basso, l’”obsoleto”:

      “È d’obbligo, aprendo un corso di conversazioni sulla storia del fascismo e dovendo affrontare un tema impegnativo come, quello delle sue origini, di porsi anche la domanda, che tutti gli studiosi del fascismo si sono posti, che cosa sia stato veramente il fascismo, perché, a seconda della risposta che si dà a questa domanda, anche il problema delle sue origini negli anni del primo dopoguerra, dei suoi legami con la storia precedente del nostro paese, riceve una diversa risposta. Fin dal suo primo apparire il fascismo offerse esca a interpretazioni diverse è addirittura contrastanti: esso apparve ai più non soltanto come qualche cosa di inatteso ma come qualche cosa interamente al di fuori degli schemi tradizionali e al di fuori di quella che era la normale previsione dello sviluppo politico, la previsione di un pacifico tranquillo inarrestabile progresso democratico, e pertanto fu volentieri giudicato come fenomeno contingente legato al clima del dopoguerra e destinato ad essere riassorbito senza lasciar traccia. Da altri invece fu giudicato un fenomeno di reazione capitalistica pura e semplice senza caratteristiche originali, il ripetersi cioè di una tendenza costantemente presente nella storia italiana. Salvatorelli e con lui altri (Missiroli, Mondolfo) videro nel fascismo soprattutto una rivolta di ceti medi e anche oggi sociologi studiosi del fascismo tendono spesso a porre l’accento su questo aspetto.
      Sul piano storico, cioè considerato nei rapporti con la storia d’Italia, il fascismo fu interpretato in modo assolutamente contrastante come fascismo-parentesi o come fascismo-rivelazione. Della prima tesi, che oggi nessuno oserebbe più seriamente sostenere, fu autorevole propugnatore Benedetto Croce, il quale poté scrivere una storia d’Italia dal 1860 al 1915 in cui non si trova traccia alcuna di radici fasciste ma che anzi si presenta come un progressivo crescente dispiegarsi di libertà e democrazia, sicché, giunto al termine, il lettore si domanda come mai in questa Italia tutta protesa verso sempre più alte conquiste liberali sia improvvisamente germinato il fascismo. E la risposta sottintesa è quella appunto che diede più tardi lo stesso Croce, e cioè che il fascismo debba intendersi come qualche cosa di estraneo e di accidentale, come una parentesi nella storia d’Italia, chiusa la quale la storia stessa riprende il suo normale cammino. Al polo opposto sta la tesi di coloro che vedono per contro nel fascismo lo sbocco naturale di tutto il corso storico precedente: così Giustino Fortunato che disse essere stato il fascismo non una “rivoluzione” ma una “rivelazione” la rivelazione dell’Italia a se stessa, la rivelazione della vera natura del nostro paese che prima era nascosta sotto un sottile strato di vernice liberale; così Piero Gobetti che parlò del fascismo come di “autobiografia della nazione”, cioè sintesi e compendio di tutta la storia passata, contenente tutte le premesse e la sostanza stessa del fascismo, di cui i regimi precedenti, specialmente quello giolittiano, erano stati preparatori. (segue)

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    5. Credo che nessuna di queste tesi semplicistiche e estreme possa essere accettata a un serio vaglio storico. Il fascismo è stato un fenomeno più complesso, in cui hanno confluito e si sono incontrate componenti diverse, ciascuna delle quali aveva naturalmente le sue radici nella precedente storia d’Italia per cui è assurdo parlare del fascismo come di una parentesi che bruscamente interrompe il corso della nostra storia, ma neppure si può affermare che esso sia semplicemente Il logico punto d’approdo di questo corso precedente. Se il fascismo trova indubbiamente le sue origini nel nostro passato risorgimentale, se le componenti, di cui ora dirò, sono venute maturando attraverso il tempo talché si può dire che costituiscano dei filoni ininterrotti tuttavia ciò che determinò il loro incontro in una sintesi nuova fu la guerra mondiale e la crisi del dopoguerra che, virulentando i germi preesistenti, fece esplodere in forma acuta quelle che erano state fin allora delle malattie croniche del nostro organismo. Ci sono quindi nel fascismo elementi di continuità ed elementi di novità e di rottura rispetto alla storia precedente: gli elementi di continuità sono appunto quelle malattie croniche, quegli squilibri tradizionali che in parte affondano le loro radici nei secoli passati e in parte sono un portato del processo risorgimentale, del modo cioè come l’Italia giunse ad essere uno Stato unitario e moderno, mentre l’elemento di novità è la virulentazione sopravvenuta con la guerra e il dopoguerra che, mettendo in crisi i precari equilibri precedenti, fa scoppiare tutte le contraddizioni e precipita la situazione italiana fino al punto di rottura, determinando una sintesi nuova, un equilibrio nuovo, un fenomeno nuovo che appunto s’è chiamato fascismo.
      Le principali componenti, di cui cercheremo stasera le radici nella precedente storia e al tempo stesso le ragioni dell’insorgere violento nel dopoguerra, sono, a mio avviso, una rivolta di ceti medi soprattutto urbani, un’offensiva dei ceti agrari nella valle padana, e un assalto totalitario al potere da parte della grande industria, le quali componenti trovano nella dissoluzione del vecchio sistema statale e nella debolezza organica delle forze democratiche le condizioni del loro successo…” [ L. BASSO, Le origini del fascismo, in Fascismo e antifascismo. Lezioni e testimonianze, I, 1918-1936, Feltrinelli, 1962, 9-42].

      Cosa c’entra il fatto che il fascismo non sia stato fondato a Ferrara? Qui stiamo parlando delle cause che lo hanno originato e di appoggio al regime.

      Lelio Basso, uomo di cultura e di dottrina sterminata, conosceva ovviamente le altre interpretazioni sul fascismo e ne ha tenuto conto nei suoi scritti. In tal modo, ed attraverso un allargamento dello spettro della ricerca, ha scientificamente confutato quelle interpretazioni spiegando perché proprio quelle sono riduttive. Aveva solo una colpa: era un autentico democratico e per questo, agli occhi di quelli come lei, oggi risulta obsoleto.

      A Basso “rodeva” che a Mussolini fosse stato affidato la direzione dell’Avanti. Ma di cosa diamine sta parlando? Ma lei sa chi era Lelio Basso, ne ha studiato la biografia e la sua sterminata produzione scientifica? Ha sentito parlare del Tribunale internazionale di Russel? Sa che l’unico componente italiano era Lelio Basso? Lei conosce un po' la Costituzione italiana e l’attività che svolse Basso in sede di Assemblea Costituente? No, sinceramente non credo, se si è permesso di discettare di Lelio Basso con tale supponenza e livore.

      Vede, qui non si tratta semplicemente della bibliografia che vorrebbe propinarci e di cui possiamo pure fare a meno. E non si tratta nemmeno della sua estrema sensibilità metodologica di scienziato infranta dal termine “giornalistucolo” utilizzato da Basso, tra l’altro, durante una lezione poi trascritta. Mi creda, con assoluto rispetto c’è in gioco molto più di quanto lei possa mai immaginare.

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    6. @Francesco: mi sono persa un pezzo nelle edizioni di Basso.
      Lelio [ma cosa avete voi giuristi contro i nomi di battesimo???] BASSO, Le origini del fascismo, Savona, Centro giovanile, cicl., p. 10-45, è lo stesso testo che si legge in Lelio Basso, Fascismo e antifascismo. Lezioni e testimonianze, I, 1918-1936, Feltrinelli, 1962, 9-42? E risale quindi a non oltre gli anni '30, venendo riprodotto negli anni '70?

      Perché da come veniva citato all'inizio, poteva sembrare scritto appunto negli anni '70, magari una conferenza tenuta allora, e riprodotto in modi fortunosi come all'epoca avveniva. Almeno così l'avevo capito io.

      Se invece fosse un testo molto precedente, l'edizione del 1976 in volume per Feltrinelli che ho linkato io (e ho scelto quella semplicemente perché erano elencati tutti i titoli dei saggi contenuti nel volume) sarebbe una semplice ristampa dell'edizione del 1962, citata da te.

      Scusa la pignoleria, ma la datazione di un testo ha un suo senso.
      Inoltre il libro sarebbe anche più facilmente reperibile nelle biblioteche, se ne esistono più edizioni (o ristampe).
      Grazie.

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    7. @Pellegrina
      No, non è lo stesso testo che si legge in “Lelio Basso, Fascismo e antifascismo (1918-1936)” del 1962.

      Il testo di L. Basso citato da Quarantotto nel post è “Le origini del fascismo. Testo della conferenza del sen. Lelio Basso. Savona 10 maggio 1975”, Opuscolo, ciclostilato di 45 pagg., editore Centro Giovanile, Savona. In effetti, avevo dimenticato di inserire la data.

      Non può essere lo stesso testo perché, ovviamente, la conferenza venne tenuta da Basso appunto nel 1975. Tuttavia la relazione del 1975 può essere considerata un condensato di quanto trattato da Basso nelle sue opere precedenti, proprio in “Fascismo e antifascismo (1918-1936)” del 1962 e, in particolare, nella lezione tenuta il 30 gennaio 1961 (da me poi citata nei commenti).

      Basso ritornò e ribadì il discorso anche in “Trent’anni di storia italiana (1915-1945). Dall’antifascismo alla Resistenza” Lezioni e testimonianze, Einaudi, 1961 (cfr., in particolare, lezione III, 68-86, e lezione IV, 101-126).

      Nella lezione III, in cui tratta “Dal delitto Matteotti alle leggi eccezionali del 1926”, sul ruolo della Confindustria, alla nota 2, Basso scrive “Si veda il tono di soddisfazione e di trionfo con cui la Confindustria salutò la formazione del governo Mussolini: il testo del messaggio è riprodotto in E. ROSSI, I padroni del vapore, Bari 1955, pp. 40-41.”; mentre alla nota 4 scrive “Sul ruolo decisivo che i dirigenti della Confindustria (Benni, Olivetti) e gli altri rappresentanti del grande capitale milanese (Pirelli, Crespi, De Capitani) ebbero nelle vicende della marcia su Roma e dell’ascesa di Mussolini al potere, cfr. E. ROSSI, op. cit., pp. 37 sgg. E A. TASCA, Nascita e avvento del fascismo, Firenze 1950, p. 438.”.

      Di Basso si può poi leggere “Lo Stato fascista”, Storia dell’antifascismo italiano, I, Lezioni, Roma, Editori Riuniti, 1964 (cfr. in particolare pagg. 69-88). Per non parlare degli articoli sul tema riportati su riviste.

      Il discorso di Lelio è stato sempre rigoroso, documentato e soprattutto coerente. Tant’è, qualcuno – bontà sua – lo considera obsoleto.

      Spero di aver soddisfatto la tua legittima e doverosa pignoleria 😊

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    8. Grazie mille!
      Trovare il testo del 1975 dev'essere allora piuttosto difficile. Ma può effettivamente trattarsi di un sunto della conferenza precedente pubblicata nel 1962.
      Ogni riga di Basso è praticamente imprescindibile (-:.

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  15. Ci hanno fatto incazzare Arturo, che, non lo ammetterà mai, ma è uno che bagna il naso ai massimi filologi italiani: storia e scienze sociali. (Le seconde sono il requisito ermeneutico per dare un senso alla prima, ma transeat).

    Comunque, il giovane genio del giornalismo Mussolini si prendeva la sua lauta stecca dai servizi britannici.

    Si è andato a fare niccianamente ed economicamente indottrinare, più che "erudire", in Svizzera... da Pareto.



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    1. Non credo che sia stato neppure letto con minima attenzione ciò che cercava di dire Arturo.

      Ma d'altra parte, se è "obsoleta" l'interpretazione di Basso, si spiega perfettamente perchè gli "storici", che si prendono la briga, ormai, di esprimersi su tutto, senza avere minime cognizioni di diritto e di economia, ritengano obsoleta pure la Costituzione (che senza Basso non sarebbe stata quella che, fortunatamente, è).
      Basta far pronunciare un numero sufficiente di "storici" e questo diviene un "fatto" da assumere in via assiomatica.

      Dai, non perdiamoci altro tempo...

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