(Post. di Arturo)
1. In occasione del settantenario
della Costituzione, Carocci ha preso la commendevole iniziativa di pubblicare una
serie di commenti dei primi 12 articoli,
i principi generali, della Costituzione.
Apprezzabile sia per la
lunghezza non eccessiva (circa 150 pagine ciascuno), sia per l’impostazione non
troppo tecnica dei volumi, che li rende utilmente avvicinabili anche da chi
avrebbe difficoltà a reperire e maneggiare i classici commentari. L’elevata,
spesso elevatissima, qualità degli autori costituisce un’ulteriore garanzia.
Curatori della collana
sono infatti uno dei massimi storici italiani del diritto pubblico, Pietro Costa, autore della monumentale
e magistrale storia della cittadinanza in Europa intitolata Civitas, in quattro
volumi, pubblicata presso Laterza, e una fine contemporaneista come Mariuccia Salvati.
Io ne ho letti quattro
(commenti agli artt. 1, 3, 4 e 11) e posso confermarvi che la ricostruzione
storica è ottima, ricca di dettagli spesso poco noti (particolarmente
apprezzabile, nel volume sull’art. 3, l’ampio spazio giustamente dedicato alla
figura di Basso: coautrice è in effetti Chiara Giorgi, che ha anche scritto la prima parte di una bella biografia del leader socialista), chiara e condivisibile nei
giudizi (lo vedremo subito); insoddisfacente è però l’analisi del presente.
Se, come dicono i
curatori nell’introduzione all’opera, “richiamare
l’attenzione sui principi e sui diritti fondamentali ha il significato di
sottolineare la loro decisiva importanza e attualità: solo prendendoli sul
serio evitiamo il rischio (quanto mai concreto) che una loro declamatoria
esaltazione si accompagni al loro effettivo svuotamento e alla conseguente
trasformazione della democrazia costituzionale in uno stanco rituale o in una
vuota facciata”, ebbene, quelle serietà dovrebbe implicare la necessità di
confrontarsi con le cause che rendono quel rischio “quanto mai concreto” e che non sono in verità particolarmente difficili da accertare.
Ma su questo ennesimo triste episodio di “eurostrabismo” tornerò alla fine.
2. Qui voglio parlarvi
del libro dedicato all’art. 4, scritto dalla stessa Salvati.
2.1. Era stato Costa a individuare
con mano sicura i tratti essenziali delle costituzioni sociali del dopoguerra:
“Il loro elemento caratterizzante è la centralità dei diritti e la loro
indivisibilità: l’esercizio dei diritti politici non può essere separato
dall’eguale partecipazione di tutti al retaggio comune e la realizzazione dei diritti (di tutti i diritti e dei diritti di
tutti) è lo scopo e il parametro di legittimità dello Stato. Stato sociale
e cittadinanza sociale non sono separabili, proponendosi il primo come lo
strumento indispensabile per la realizzazione della seconda. Possiamo usare
promiscuamente e alternativamente le espressioni “Stato sociale” e
“cittadinanza sociale” (come farò, per motivi di brevità, nel corso della mia
esposizione), purché sia chiaro che la caratteristica essenziale della
democrazia costituzionale sta proprio nella necessaria connessione funzionale
dei due termini.
Lo Stato è l’organo deputato alla realizzazione della
cittadinanza sociale e il termine medio, il tramite dell’inclusione e della
partecipazione, è il lavoro.”
(Cittadinanza sociale e diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, Lavoro e
diritto, a. XXIII, n. 1, inverno 2009, pag. 45).
E’
quindi nel rapporto tra cittadinanza e lavoro che deve rinvenirsi la chiave di
volta del costituzionalismo sociale.
2.2.
Nell’ambito di questo paradigma la costituzione italiana si distingue però per
un profilo particolarmente spiccato: “a) solo
il testo italiano, attualmente, fra tutte le costituzioni
europee, si apre con un elenco di principi fondamentali, che i costituenti
vollero, come mostra la numerazione progressiva, fosse parte integrante del
testo complessivo; b) solo nel testo italiano - dato ancora più
eccezionale - tra questi principi è collocato in posizione primaria anche il
diritto al lavoro (nelle costituzioni di altri paesi, quando c’è, è in genere
inserito nella sezione dedicata ai Rapporti economici).” (M. Salvati. Costituzione italiana:
articolo 4, Carocci, Roma, 2017, pagg. 6-7).
3. La rilevanza costituzionale del lavoro illumina
evidentemente anche la gravità di una sua sistematica disapplicazione,
particolarmente drammatica, o forse sarebbe il caso di dire tragica e
autodistruttiva, quando si parla dei giovani.
E’ di qualche giorno fa questo articolo del Financial Times che
fornisce un spietata fotografia dei costi che il mantenimento della moneta
unica dopo la crisi del 2008 ha scaricato sulle giovani generazioni di Grecia,
Spagna e Italia.
Basti questo grafico per dare un’idea
dell’ecatombe:
La controtendenza tedesca
non può che saltare agli occhi ed evidenziare, una volta di più, il vero volto dei Trattati.
4. Oltre che all’interno
dell’Unione le asimmetrie accentuano anche le disuguaglianze interne agli
Stati. Sappiamo bene delle situazione difficilissima del nostro Mezzogiorno,
ma, tanto per smontare il solito autorazzismo italico, il fenomeno è tutt’altro
che limitato al nostro paese.
Avevamo parlato, citando
Rodrik (qui, n. 4), di “deindustrializzazione
prematura” come fenomeno di probabile rilevanza per tutti i paesi periferici
dell’area euro: una triste conferma per il caso spagnolo, periodicamente
oggetto di qualche improbabile facciamocome, la si può trovare in questo articolo (che naturalmente sgrana il consueto
rosario mainstream di pseudospiegazioni: il capitale umano, i salari troppo
alti, eccetera, tutto salvo la moneta unica, appena menzionata).
Sta di fatto, come si
dice, che “La deindustrializzazione prematura ha fatto sì che
comunità del sud come l’Extremadura e l’Andalusia abbiano oggi un livello di
industrializzazione inferiore agli anni Sessanta e la divergenza col nord della
Spagna, sia in termini di rilevanza del settore industriale che per livello di
redditi, sia rimasta intatta”.
I prevedibili effetti di
immigrazione, interna ed esterna, fanno parlare oggi di “España vacía”, con tutto quel che può
conseguirne in termini di qualità, quando non di pura e semplice tenuta,
sociale e politica.
5. Questa piccola
digressione vorrebbe dar sostanza, caso mai ce ne fosse bisogno, alle
perduranti buone ragioni di un modello di cittadinanza ancorato al lavoro,
ossia precisare i termini odierni in cui si pone quell’orientamento alla giustizia, che fa inestricabilmente
parte del diritto, non nel senso di fornire bell’e pronto un “sistema di verità”, ossia un “controcodice”
a-storico da contrapporre al diritto positivo, come implausibilmente vorrebbe
il giusnaturalismo moderno, quanto di presentare “un problema che a tutti si impone, come avviene nei Dialoghi di Platone”, per dirla
con un fine conoscitore del pensiero antico come Giuseppe Duso (La
rappresentanza politica, Franco Angeli, Milano, 2007, pag. 78), e che trova
risposte diverse in differenti contesti storici, fondando, più o meno
solidamente, la legittimità dei vari ordinamenti.
5.1. Qui anche filosofi
consapevoli del loro lavoro potrebbero e dovrebbero aiutarci a fare pulizia
concettuale. Purtroppo, anche se non casualmente, la specializzazione dei saperi ha separato le scienze
sociali dalla filosofia, lasciando gli economisti inconsapevoli
dell’inevitabile porsi di giudizi di valore e questioni di giustizia
nell’ambito di qualsiasi materia riguardante ciò su cui “si può deliberare”,
come diceva Aristotele, e i filosofi sforniti di strumenti per analizzare la
realtà, magari cullandosi nell’illusione che si potesse “arrivare all’essenza
senza passare per la conoscenza determinata dell’ontico, che
si potesse essere filosofi direttamente, senza amore per la sapienza, cioè
senza dedizione e gratitudine alle scienze e alla tradizione, ma passeggiando
per i sentieri di montagna che portano alle radure. Così la filosofia non ha
più nulla da dire agli uomini.”, come ha scritto Paolo di Remigio.
5.2. Non tutti forse
sanno che, per esempio, Hegel, per scrivere i suoi Lineamenti di filosofia del
diritto, oltre ovviamente ai classici della filosofia, s’era letto Ferguson,
Hume, Steuart e Adam Smith (la notizia in P. Rosanvallon, Le libéralisme
économique, Éditions du Seuil, Parigi, 1989, pag. 162).
5.3. D’altra parte quando
pure lo studioso fornisca un’adeguata attenzione al rinnovato porsi della
“questione sociale”, i risultati dell’analisi perlopiù non superano i ristretti
confini dell’ambito accademico. Mi domando quanti sappiano che il più noto
filosofo politico della seconda metà del Novecento, John Rawls, riteneva che la stabilità “per le giuste ragioni” sia “sempre mancante in un regime costituzionale
puramente formale”. Tra gli interventi richiesti per conseguire questa
stabilità Rawls indicava l’istituzionalizzazione dell’impegno dello Stato a
fungere “da datore di lavoro di ultima
istanza”. “La mancanza di un senso di sicurezza a lungo
termine e di un’opportunità di un lavoro ed occupazione dotati di significato è
non solo distruttiva del rispetto di sé dei cittadini, ma del loro senso di
essere membri di una società, anziché esserci capitati per caso.”
(Political Liberalism, Columbia University Press, New York, 1996, pagg. lviii–lix).
In effetti Rawls è stato
uno dei pochi che, posto di fronte alle dolorose smentite inflitte dalle “repliche
della storia” neoliberali a un ottimismo che all’epoca dell’uscita di Una
teoria della giustizia (1971) poteva sembrare giustificato, non ha tirato i
remi in barca, ma ha anzi rafforzato la radicalità pratica delle sue posizioni.
Ben poco di questo suo impegno mi pare però sia arrivato fino al grande
pubblico, e non solo per la lunghezza e complessità delle opere rawlsiane. In
ogni caso, a chi volesse esaminarne da vicino l’evoluzione teorica, consiglio questo bel libro.
5.4. Insomma, deriva
pratica e culturale sono figlie del medesimo cupo contesto sociale. Come
ammette francamente Honneth (Capitalismo e riconoscimento, Firenze University
Press, Firenze, 2010, s. p.), che è stato per vent’anni assistente di Habermas:
“Nel corso degli ultimi due secoli non era mai avvenuto
che si registrassero così pochi tentativi di difendere una concezione umana ed
emancipativa del lavoro come accade oggi.”
Tale drammatico
impoverimento di un discorso attento al sociale, perfino nell’Ottocento diffuso
ben oltre i confini politici del socialismo (basta consultare il secondo e
terzo volume di Civitas per rendersene conto), costituisce un indizio
particolarmente allarmante della natura totalitaria dell’odierno neoliberismo,
per quanto tollerante esso si possa mostrare verso la chiacchiera innocua: “Date
le mutate condizioni, la teoria critica della società sembra così occuparsi
soprattutto di questioni concernenti l’integrazione politica e i diritti civili
senza più prendere minimamente in considerazione i pericolosi sviluppi avvenuti
nella sfera della produzione. La sociologia stessa, cioè la scienza partorita
dall’industrializzazione capitalistica, si è allontanata sempre più dal suo
nucleo tematico originario eleggendo ad oggetto di analisi i processi di
trasformazione culturale.”
(Ibid.)
Appunto: tira una
cert’aria, parliamo d’altro. L’autocensura è d’altra parte la più efficace di
tutte.
Mentre la dura realtà è
che “l’aspirazione a un posto di lavoro che non assicuri soltanto la
sussistenza ma sia anche individualmente soddisfacente non è affatto scomparsa;
il fatto è che non influenza più le discussioni pubbliche e le arene dei
confronti politici. Dedurre
da questo opprimente e assordante silenzio la tesi per cui le richieste volte
ad una riorganizzazione dei rapporti di lavoro apparterrebbero ormai ad un
passato definitivamente tramontato sarebbe però empiricamente falso nonché
quasi cinico. La distanza tra le esperienze del mondo della vita sociale
e i temi della riflessione degli studi sociali verosimilmente non è mai stata
tanto ampia quanto oggi: mentre in questi ultimi il concetto di lavoro sociale
non riveste più un significato prioritario, attorno ad esso ruotano invece,
ancor più che non in passato, le necessità, le paure e le speranze dei soggetti
interessati.” (Ibid.).
Sono
osservazioni che autorizzano a sollevare molti dubbi sulla fondatezza di
giudizi improntati a un cinismo liquidatorio, spesso tutt’altro che
disinteressato, circa la perdurante legittimità di un modello di democrazia sociale
“necessitata”.
Alla
cui storia si tratta ora di tornare.
6.
L’autrice consegue un altro risultato interpretativo apprezzabile, attraverso un
esame attento dei verbali della Prima (impegnata nell’elaborazione dei principi
generali) e Terza Sottocomissione (incaricata della disciplina dei rapporti
economici) della Commissione per la Costituzione (la c.d. Commissione dei
Settantacinque: qui
uno schema illustrativo dell’organizzazione della Costituente), evidenziando “in confronto, per esempio, con il fallito,
contemporaneo, tentativo francese” “la volontà esplicita dei
costituenti italiani di trovare forme di collaborazione anche tra posizioni
ideologiche in origine distanti, pur di salvaguardare l’obiettivo
dell’affermazione di alcuni principi ritenuti fondamentali per il futuro del
paese: quelli oggi compresi tra l’art. 1 e l’art. 4 in cui si proclama
in maniera solenne e ripetuta l’intreccio tra democrazia, cittadinanza e lavoro, cioè tra diritti
politici e diritti sociali (a garanzia di una Repubblica “democratica e
antifascista”)” (pag. 32), contribuendo a smontare il riduttivo giudizio
sulla natura compromissoria del patto costituzionale, un interessato luogo
comune pedissequamente ereditato dai nemici del coté sociale weimariano, già
peraltro confutato, proprio in riferimento al nucleo essenziale dei
principi-fini, da Mortati (qui, n. 5).
6.1.
Fondamento dell’accordo, e anche di questo abbiamo già parlato (in particolare qui,
n. 4), un personalismo concretamente sociale: “Nel caso della Prima, già dalle due sedute iniziali (26 e 30 luglio)
emerge limpidamente quale sarà il nucleo dei protagonisti del dibattito.
Giorgio La Pira e Giuseppe Dossetti sono i primi a intervenire per chiarire che
quando si parla di “diritti e doveri del cittadino” (primo punto all’ordine del
giorno) non si fa riferimento
a individui ma a “persone” e, di conseguenza, con quei termini non si intendono
solo i classici diritti di libertà, ma anche quelli economico-sociali, e questo
sarà di fatto il terreno di incontro finale. Da qui anche il richiamo
alla Costituzione sovietica, a quella di Weimar, mentre si respinge il progetto
francese «che riecheggia il tipo di Costituzione dell’89» (cioè rimanda a una
concezione dell’individuo “astratto”; AC, 26 luglio 1946, p. 2).” (pag. 44).
Nessun
equivoco quindi sull’esigenza di superamento della democrazia formale.
6.2.
Altro punto fermo, molto importante (pag. 78): “dal punto di vista delle culture politiche delle democrazie
occidentali, possiamo concludere che la sconfitta più pesante (e storica) ha riguardato nel nostro paese il
pensiero liberale che, già scarsamente influente nella storia della
nazione, è sopravvissuto a fatica nell’Italia repubblicana, schiacciato fra le
due grandi culture di massa.”
Le
togliattiane “quattro noci in un sacco”.
7.
Si tratta ora di tirare le somme sul libro. Giudizio positivo? Sì e no. Sì, e
molto, per la parte storica; no, come già anticipato, per la carenza di analisi
riguardante il presente (neanche poi così prossimo, poi, perché parliamo di un
percorso che inizia almeno quarant’anni fa).
7.2.
Ci si limita alla consueta evocazione di mutamenti epocali, sui cui non molto
utili dettagli sorvolo, di cui si deprecano gli effetti senza chiarire le cause
(mai menzionato il “vincolo esterno”); benintenzionati ma vani gli appelli a
ipotetiche tutele del lavoro internazionali ed europee (pag. 133); quanto alle
questioni post-occupazionali, agitate dai vari D’Antona e Romagnoli, evocative
di un fantomatico cittadino che «si apre ad altri valori e si nutre di altri
desideri» (le parole sono di Romagnoli), non saprei aggiungere nulla alle parole
di Honneth.
7.3.
Arrivati a questo punto chiedere qualcosa in più a chi in teoria si farebbe
latore del perdurante valore della Costituzione mi pare senz’altro giustificato.
Non solo ci sono testimonianze inequivocabili dei protagonisti, come il
sulinkato Carli, o il buon Andreatta, ma ormai è disponibile una letteratura di un certo
peso, da Alberto a Somma, da Streeck al nostro ospite, per tacere di Preterossi (ne linko il libro perché non gode purtroppo della
notorietà che meriterebbe) o Galli. Non pervenuti.
Dalla
pubblicazione del libro si sono aggiunti lavori che non inducono a maggior
indulgenza, ma anzi confermano l’inefficacia esplicativa di un’impostazione
analitica che scansi il confronto col vincolo esterno.
7.4.
Ad esempio in questo devastante articolo Storm affonda senza esitazioni la lama nel bubbone
vincolista:
“L’Italia, come mostro nell’articolo, è stata l’allievo modello
dell’Eurozona, l’unico Paese che si è davvero impegnato con forza e coerenza
nell’austerità fiscale e nelle riforme strutturali che costituiscono l’essenza
stessa delle regole macroeconomiche dell’UME (Costantini 2017, 2018).
L’Italia è stata più rigorosa anche di Francia e Germania, pagando un costo
molto alto: il consolidamento fiscale permanente, la persistente moderazione salariale e il tasso di cambio
sopravvalutato hanno ucciso la domanda interna italiana e questa carenza di
domanda ha a sua volta asfissiato la crescita della produzione, della
produttività, dell’occupazione e dei redditi. La paralisi italiana è una
lezione per tutte le economie dell’Eurozona, ma parafrasando G.B. Shaw: come
avvertimento, non come esempio.”
7.5.
Cesaratto, addirittura sul Sole, ci chiarisce il peso esclusivo dei tassi di
interesse nel determinare la crescita del debito pubblico (altro che
disordinata frammentarietà del welfare come causa dell’aumento, come lascia
cadere l’autrice, a pag. 57!):
“Fra il 1980 e il 2017 il debito pubblico, in
termini di peso sul PIL, è aumentato di poco meno del 76%. Questo è il risultato esclusivo
(e impressionante) del contributo della spesa per interessi, pari a 275 punti
(ossia, 7,24 punti di media annua). Tutti gli altri fattori hanno, nel
complesso, “remato a favore”. In particolare, il saldo primario, ossia la
differenza fra entrate fiscali e spese pubbliche (al netto della spesa per
interessi) evidenzia un piccolo saldo negativo (-7,76): questo significa che nei quasi quattro decenni
esaminati gli italiani hanno ricevuto in beni e servizi meno di quanto abbiano
versato in tasse. Politicamente, a fronte delle continue accuse dal Nord
d’Europa, questo è un fatto non trascurabile. Semmai è il contributo italiano
al salvataggio delle banche tedesche e francesi (versamenti ai fondi europei
ESFS e ESM) che ha remato contro (chi legge sarà ben consapevole di come il
salvataggio della Grecia fosse un salvataggio delle banche tedesche e francesi
creditrici verso quel Paese). Le privatizzazioni hanno avuto un ruolo secondario nell’alleviare il
rapporto debito/PIL (-11,80 punti), il che suona desolante a fronte della
demolizione dell’apparato industriale italiano che esse comportarono. La
crescita reale del PIL (che aumenta il denominatore del rapporto debito /PIL)
e, soprattutto, l’inflazione (deflatore PIL) sono stati fattori che hanno
contribuito ad alleviare il rapporto. L’aumento del denominatore (il PIL
nominale) determinato dall’inflazione contribuisce a contenere il valore del
rapporto (debito / PIL, appunto) o, detto in altri termini, un elevato
deflattore del PIL riduce i tassi reali pagati sui titoli del debito sovrano,
come evidenziato nella Figura 1.”
8.
Danzare più o meno graziosamente attorno a questo mastodontico elefante mi pare
abbia solo alimentato l’illusione di poter difendere la Costituzione attraverso
l’opera di chi intendeva smontarla. Occorre parlar chiaro, indicare nomi e
responsabilità: non si tratta di generici mutamenti epocali ma di precise
scelte istituzionali, della liberalizzazione dei movimenti di capitali all’indipendenza delle banche centrali, cristallizzate in primis nel sistema dei Trattati
europei. Naturalizzarne i risultati e (quindi) sovraordinarne la forza
prescrittiva alla Costituzione significa contribuire a indebolire ciò che a
parole si professa di voler preservare.
8.1.
Questo è un punto su cui è comprensibile che uno storico possa avere
incertezze, ma ai giuristi non vanno lasciati paraventi: è proprio su questo
terreno istituzionale che si misura la fedeltà, oppure no, alla legalità
costituzionale, senza che ci siano possibili rifugi dietro a pensosi “ma
ormai”, “this time is different” e altrettanto profondi apoftegmi.
“Ogni riformulazione del
nichilismo giuridico si radica nel tentativo di mistificare gli atti con i
fatti. Il giurista nichilista non rinuncia a presentarsi come
autore di atti, ma, volendolo essere secondo la potenza assoluta del suo
arbitrio, li mistifica come prodotto dei fatti e così si sgrava dal
doverne rispondere. Sostituisce alla trialità del dialogo, responsabile degli atti,
l’univocità del monologo innocente, che ‘dice’ i fatti, ovvero
compie atti ma li mistifica come fatti.” (B. Romano, Due
studi su forma e purezza del diritto, Giappichelli, Torino, 2008, pag. 119),
magari evocando una novella “costituzione materiale” cresciuta spontanea e
innocente come l’erba nei prati.
8.2. Più in generale, riprendendo le osservazioni
di cui sopra sull’inevitabile porsi della questione della giustizia: “Nei confini del fatto, che non accede alla
struttura dell’atto, perdono
senso i concetti di ingiusto e di male. I fatti sono, come le cose, solo ciò che sono; non sono atti
imputabili, non rispondono della violazione del giusto, come è proprio invece
dei soggetti-autori degli atti, che
non sono cose, ma presentificazioni dell’io personale ed incarnato, soggetto
responsabile dell’inscrizione di un senso nei fatti.
Diviene qui inevitabile interrogarsi sul rapporto tra la politica ed
il diritto e dunque tra lo Stato e la giustizia, riprendendo a
considerare con Agostino che «se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle
grandi bande di ladri? Perché anche le bande dei briganti che cosa sono
se non dei piccoli Stati? E sempre un gruppo di individui che è retto dal
comando di un capo, e vincolato da un patto sociale e il bottino si divide
secondo la legge della convenzione».”
(Ibid., pag. 121).
9.
Sono quindi molte le buone ragioni, di legalità in primis, ma anche di
giustizia e di civiltà, che nulla hanno sottratto alla razionalità pratica
delle prescrizioni costituzionali, a un modello di cittadinanza che si propone
di coniugare lavoro e democrazia. Di cui continuare, testardamente e a rischio
di riuscire noiosi, a riproporre la centralità di fronte all’apparentemente infinito
e variopinto repertorio di diversioni. D’altra parte, come diceva giustamente
Del Noce: “chi dice che il monotono sia
il falso? E’ del falso che bisogna aver paura, non di ciò che può apparire
banale.”