Come sapete, il 20 e 21
settembre si svolgerà un referendum confermativo ex art. 138
della Costituzione sulla legge costituzionale concernente "Modifiche agli
articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei
parlamentari".
Posto che votare è un
dovere civico (art. 48 Cost.), vi ricordo che non c’è quorum, quindi
l’astensione è irrilevante ai fini del risultato.
Credo possa essere interessante
un esame molto semplice ma – speriamo – preciso degli argomenti pro e contro più
direttamente attinenti al taglio del blog (per gli altri, vi rimando
all’articolo della Algostino linkato al n. 5), alla luce di un approccio alla
Costituzione che intenda “prenderla sul serio”, come dice Dworkin.
1. In primo luogo un
riferimento temporale: come si legge su Wikipedia, fu dagli anni Settanta che
cominciò ad essere agitato l’auspicio di una riduzione del numero dei
parlamentari. Difficile non lasciar correre il pensiero al paradigma della
governabilità lanciato dalla Trilaterale (qui, addendum) e da allora dominante nei
salotti, buoni o meno buoni
che siano.
Questo
scambio in Costituente fra Einaudi, ovviamente
favorevole alla riduzione, e Terracini tende ad avvalorare molto i sospetti circa
la matrice antidemocratica, e specificamente neo-liberale, del provvedimento
oggetto del referendum:
“EINAUDI: è d'accordo con l'onorevole Conti sulla opportunità di ridurre il numero dei membri, sia della prima Camera che della seconda, anche per ragioni, che crede evidenti, di tecnica legislativa. Difatti, quanto più è grande il numero dei componenti un'Assemblea, tanto più essa diventa incapace ad attendere all'opera legislativa che le è demandata.PRESIDENTE TERRACINI: la diminuzione del numero dei componenti (per) la prima Camera repubblicana sarebbe in Italia interpretata come un atteggiamento antidemocratico, visto che, in effetti, quando si vuole diminuire l'importanza di un organo rappresentativo s'incomincia sempre col limitarne il numero dei componenti, oltre che le funzioni. Quindi, se nella Costituzione si stabilisse la elezione di un Deputato per ogni 150 mila abitanti, ogni cittadino considererebbe questo atto di chirurgia come una manifestazione di sfiducia nell'ordinamento parlamentare.”
2. Questa citazione contiene
un’osservazione molto importante: il riferimento alle funzioni.
Benché essa sia
dirimente, e in fondo banale, mi pare che nel dibattito referendario, as usual,
la questione abbia fatto capolino solo sporadicamente: è chiaro che la
riduzione del numero di voci che possono accedere al Parlamento, ovviamente per
prime resterebbero alla porta quelle fuori dal coro, qualifica la qualità della
rappresentanza, ma uno svuotamento delle competenze dell’organo rappresentativo
ne costituisce un vulnus esiziale.
Detto nel modo più semplice possibile: di che rappresentanza parliamo se il Parlamento non decide più niente
di importante perché c’è il vincolo esterno? Soprattutto nella
lettura delle norme procedurali si rischia di perdere il nesso ermeneutico fra
la disposizione e i principi generali (ricordo il sempre prezioso insegnamento di Esser), che ci sono e non
possono non esserci *sempre*, siano essi esplicitati o meno.
Si capisce bene che un
conto è leggere le norme sulla rappresentanza come se il loro scopo fosse,
poniamo, assicurare la semplice rimozione pacifica dei governanti (Popper) – quasi
che il cambiamento degli attori a copione invariato costituisse chissà quale
meta ambita - o decisioni rapide o un aumento dell’“efficienza”, qualsiasi cosa
possa voler dire in questo contesto (ci torno sopra dopo parlando della teoria
delle scelte collettive); ben diverso l’atteggiamento di chi individui la ratio
nell’esigenza di garantire la sovranità popolare “fondata sul lavoro”.
Per esempio un vecchio Maestro
considerava corollario delle funzioni riconducibili alla rappresentanza
l’esigenza che il Parlamento avesse “la disponibilità-controllo delle
risorse finanziarie senza vincoli
esterni od interni che non siano quelli derivanti dal riconoscimento dei
diritti costituzionalmente garantiti.” (G. Ferrara, Le forme di
governo in G. Azzariti (a cura di), Quale riforma della Costituzione?,
Giappichelli, Torino, 1999, pagg. 15-16).
Né dovrebbe essere mai dimenticato
che all’epoca del Trattato di Roma, quando certi scenari erano ancora
impensabili, o almeno inconfessabili, fu solennemente promesso che “niente
di sostanziale può sfuggire al controllo dei Parlamenti nazionali” (qui, n. 5.1.).
2.1. Inutile dire quanto
il processo di integrazione abbia proceduto in direzione esattamente contraria
alle promesse e alle direttive costituzionali, come viene, o almeno veniva,
placidamente ammesso anche su manuali istituzionali:
“il trasferimento alle istituzioni comunitarie dei numerosi e importanti
poteri di cui si è sin qui discusso finisce col trasferire alle istanze
intergovernative che danno corpo a quelle istituzioni la stessa funzione
d’indirizzo politico generale, rendendo poi in buona parte vincolate le
conseguenti determinazioni nazionali.
In
questa prospettiva la separazione (ideale) tra il piano
governativo comunitario e quello interno finisce col rappresentare lo schermo,
posto dai governi nazionali, non solo ai controlli giuridico-costituzionali, ma
anche a quelli più strettamente politici nei confronti del loro operato.”
(F. Sorrentino, Profili costituzionali dell’integrazione comunitaria,
Giappichelli, Torino, 1996, pag. 55).
Uno stato patologico la
cui normalizzazione, a ben guardare, costituisce la vera ratio di tutto il
controriformismo costituzionale degli ultimi decenni.
La finalità è quella di “ratificare,
cristallizzandola in Costituzione, la sottomissione dei massimi organi di
decisione politica, cioè le Camere elettive (il nuovo Senato tra l'altro perde
questa connotazione) ad un indirizzo politico, quello €uropeo, che non
solo si forma al di fuori del territorio e della volontà del popolo italiano,
ma che diviene vincolante al di là di qualsiasi esito elettorale (rendendolo
per sempre irrilevante, finché fosse in vigore questa riforma della
Costituzione).” come dicemmo in occasione dello scorso referendum costituzionale
(qui, n. 3).
Mutatis mutandis, ossia
in forma un po’ più indiretta, il ragionamento di allora resta del tutto
pertinente per capire il senso profondo dell’odierna riforma, il cui esito
immediato sarebbe di ratificare “il
caciquismo del sistema politico italiano”, come ha detto efficacemente Mangia.
I restanti argomenti del
SI valgono poco, ma per completezza dedicherò loro un minimo di attenzione.
3. La corruzione. Un evergreen che solo la sempre più premeditata ignoranza della storia può consentire di
proporre.
Come ricorda Nadia Urbinati (Rapresentative Democracy, The University of Chicago Press,
Chicago e Londra, 2006, pag. 220), che, al netto del suo europeismo, dice
parecchie cose sensate, “gli Ateniesi, le
cui giurie popolari erano così numerose
che neanche il cittadino più ricco poteva realisticamente comprarsi un verdetto
favorevole, erano ben consapevoli della funzione preventiva del numero.”
Una delle poche ad aver
ricordato questa lezione storica è stata M. C. Pievatolo, a cui rendo
volentieri merito:
Un parlamento numeroso è collettivamente più forte, perfino se alcuni parlamentari sono disposti a farsi comprare e a lasciarsi intimorire. È più difficile - si sapeva già ad Atene 2500 anni fa - corrompere o spaventare i molti, anche se mediocri, che i pochi, perfino se migliori https://t.co/s8pi3uhI30— M.Chiara Pievatolo (@MCPievatolo) August 30, 2020
4. Il risparmio. In termini monetari si parla
di spiccioli (Infodata, una fonte direi insospettabile di
populismo, quantifica la favolosa somma in 81,
6 milioni l’anno, ben lo 0, 01% del PIL), ma il problema sta nel manico: non
solo perché è insensato e orribilmente ideologico pensare di poter dare un
prezzo alla rappresentanza, ma anche perché sembra impossibile far comprendere
– anche se naturalmente pure la stupidità è un fatto sociale, come diceva
Costanzo Preve - la banale realtà che la spesa pubblica, compresi ovviamente i
vituperati stipendi dei parlamentari, è una componente positiva del PIL, quindi
una sua riduzione, sia pure solo dello 0, 01% del PIL, produrrebbe effetti di
segno negativo. Ovvero termini pertinenti se riferiti alla contabilità privata
risultano fuorvianti se trasferiti in quella pubblica senza adeguati caveat (se
interessa un semplice ripasso, ex multis vi consiglio questo post).
4.1. Meno puerile, anche
se non necessariamente meno ideologica, un’argomentazione basata sulle nozioni
di efficienza e costo delle decisioni della teoria delle scelte collettive (Buchanan e
Tullock): decidere richiede tempo e risorse che potrebbero essere impiegati
altrimenti, rappresenta quindi un costo.
E’ evidente che considerare
l’esercizio della libertà collettiva un costo implica che il massimo di
risparmio lo si conseguirebbe con un’autocrazia: l’aberrazione utilitarista di
considerare la libertà priva di valore intrinseco, su cui in tanti hanno attirato
l’attenzione, a partire da Kant per arrivare a Rawls e Sen, colpisce ancora.
Per
non parlare del tipo umano presupposto da modellizzazioni che ritengono di
poter ridurre ogni scelta a un calcolo
utilitaristico, anche se “imparziale”: che cosa penseremmo della serietà morale
di Anna Karenina, si domanda Scruton (On Human Nature, Princeton University
Press, Princeton e Oxford, 2017, pag. 96), se la trovassimo intenta a risolvere
il dilemma della scelta fra Vronskij e Karenin attraverso un calcolo di utilità
di questo tipo: “meglio soddisfare due persone giovani e sane, io e Vronskij,
che una più anziana per un fattore 2.5 a 1: quindi vado.”?
Di queste ed altre
assurdità che aleggiano attorno al concetto di efficienza così come impiegato
dall’economia ho fatto cenno qui, ma se non altro il rigore formale dei
modelli li rende talvolta refrattari a un rozzo impiego apologetico della
situazione specifica. Sì perché l’altra posta negativa contemplata dalla teoria,
quella dallo scambio con la quale dipende l’efficienza dell’assetto
decisionale, sono i c.d. “costi esterni”,
ossia i costi che la decisione impone ai membri della società.
Qui bisogna essere molto chiari.
Se ve lo state domandando, la risposta è sì: un (fantomatico) autocrate
illuminato incarnerebbe l’opzione ottimale della teoria: azzererebbe i costi
della decisione e massimizzerebbe la funzione di utilità dei sottoposti. Tanto
più si afferma che il benessere dei cittadini, pardon: sudditi, dipende dalle inevitabili, ancorché impopolari, riforme,
tanto più si può sostenere che costi della decisione e costi esterni si
alimentano gli uni con gli altri “bloccando” il paese in una situazione di
letale “inefficienza” del sistema rappresentativo. (Non credo che questa
intelaiatura retorica suoni familiare solo a me…).
Non è un caso che
Salvati, il neoriformista gallonato, affacciasse anni fa l’esigenza se non di un
dittatore illuminato almeno di un suo equivalente funzionale (evidentemente la
strada da Blair a Schmitt è molto più breve di quanto possa sembrare): “Il dittatore illuminato è una figura mitica,
una finzione. Ai tanti ingeneri istituzionali che si affannano al capezzale
della seconda repubblica l’arduo compito di inventare un equivalente
democratico del benevolent dictator,
che renda possibile la formazione di governi autorevoli, capaci di affrontare
misure impopolari e di sostenerle nel lungo periodo.”
Come sanno, o almeno
potrebbero sapere, ormai anche i sassi, questo equivalente funzionale, sia pure
con qualche frizione che le riforme costituzionali e legislative di segno
decisionista sono appunto chiamate ad appianare, c’è già, ed è il vincolo
esterno (qui l’inequivocabile testimonianza di
Carli); se tuttavia vogliamo osare insinuare che, per usare un delicato
eufemismo, tanto benefico per i cittadini italiani esso non si sia rivelato, anche
senza scomodare Platone (ma perché no?), ecco che i termini della
questione si prestano ad essere rovesciati e le fantasie autocratiche dei
novelli Grandi Inquisitori ribaltate.
Ovvero, se ci troviamo
nella situazione descritta da questo tweet di Bankitalia:
The emergency of #COVID19 hit the Italian economy profoundly: by mid-2020, #GDP had returned to the level observed in early 1993. In per capita terms, GDP dropped down to values recorded in the late 1980s. #Bankitalia Governor Ignazio #Visco https://t.co/HS9uSIjUuD @ESOF_eu pic.twitter.com/fpgeSCRCf4— Banca d'Italia (@bancaditalia) September 4, 2020
ossia con un PIL tornato al livello del ’93 e un PIL
pro-capite a quello degli anni Ottanta (!), tante cose si possono dire
delle decisioni politiche a monte di questi straordinari risultati, dal
divorzio Tesoro – Banca d’Italia all’unione bancaria (qui un eloquente regesto redatto da
Giacchè), ma certo non che se ne sia discusso *troppo*.
Lo stiamo vedendo oggi
col MES: se non è filato via sul velluto more solito, è stato grazie ad alcune
voci fuori dal coro che hanno imposto un minimo di pubblica discussione. Quindi
tutto si può dire della rappresentanza meno che al suo alleggerimento
funzionale si sia accompagnato quello dei costi esterni: esattamente il
contrario.
(Naturalmente, sia detto
en passant, se passassimo il sistema decisionale comunitario al pettine delle
teoria delle scelte pubbliche ne uscirebbe come Kojak, come potete verificare
leggendo il libro di Majone. Ovvero l’intermittenza
e strumentalità dell’appello alla scienza e ai suoi tecnicismi giustifica una
volta in più l’osservazione che stiamo assistendo non alla rivolta degli
ignoranti antiscientifici, ma al manifestarsi “di un autoritarismo gerarchico
che non sarebbe altrimenti possibile esprimere in modo esplicito con il
vocabolario della politica”,
come ha detto il Pedante).
Più nello specifico,
Alberto ci ha fornito un vivace quadro di prima mano delle
presunte lungaggini parlamentari: “l'opposizione non può far
perdere tempo alla maggioranza, e in particolare non lo ha fatto col Cura
Italia, tant'è che il provvedimento è andato in Assemblea col relatore (su
quello che è successo dopo taccio per carità di Patria).”
5. Ultimo, anche per
ordine di importanza, il facciamocome.
Qui la Algostino, al cui articolo vi rinvio
anche per altre questioni tecniche, è stata impeccabile, quindi mi limito a
citare lei: “L’Italia ha una percentuale di numero dei deputati (camera bassa)
ogni 100.000 abitanti pari a 1, identica al Regno Unito (1) e simile alla
Francia (0.9)[10], alla Germania (0.9)[11], ai Paesi Bassi (0.9), alla Polonia
(1.2), al Belgio (1.3)[12]. Non mancano Paesi che presentano una percentuale
decisamente più alta, quali, per limitarsi a qualche esempio: Austria (2.1),
Danimarca (3.1), Grecia (2.8), Portogallo (2.2), Svezia (3.4); per non citare
Stati con popolazioni e territorio di dimensioni assai ridotte, come Slovenia
(4.4), Lussemburgo (10), Malta (14.3)[13].
In caso di approvazione
definitiva della riforma[14], l’Italia
si troverebbe ad avere una percentuale pari a 0.7, la percentuale più bassa fra
gli Stati membri dell’Unione europea (seguita dalla Spagna, con 0.8).
Ora, fermo restando che i
dati devono essere letti senza misconoscere il ruolo giocato dalla loro
contestualizzazione e, quindi, alla luce di variabili “istituzionali”, come la
forma di governo e il sistema elettorale, così come di elementi di fatto, quali
la popolazione totale o le dimensioni del territorio, quanto detto smentisce
la vulgata che dipinge l’Italia come un Paese anomalo per la eccessiva
numerosità dei suoi parlamentari.”
6. Insomma, e per
concludere, la riforma non serve ai fini indicati dai suoi proponenti ma ad
altri. Ho già detto quali ma lo ripeto con un’osservazione in termini più
generali: la cifra caratteristica di questo cupo inizio secolo è quello di una
sempre più pronunciata “regressione oligarchica”,
nel senso di uno “spostamento verso l’alto dei rilevanti centri decisionali, in forza del
quale le decisioni politiche scivolano via dalle sedi più ampie e partecipate e
si ritirano in luoghi meno accessibili, per lo più riservati a ristretti gruppi
oligarchici” (S. Petrucciani, Democrazia, Einaudi, Torino, 2014, s. p.).
Una regressione che va facendosi ogni giorno più apertamente autoritaria e distopica.
Votare NO significa, se non altro, non rendersi complici di chi sta forgiando
le nostre catene.
Che vinca il SI o che vinca il NO la "regressione oligarchica" non muterà un granché.
RispondiEliminaIl maggioritario con le liste di nominati ed il premio di maggioranza è un macigno che opprime la Costituzione 48 ed il vincolo esterno temo peggiorerà comunque (con o senza MES et similia).
Tifo per il NO anche perché sono proprio curioso di vedere come si potrà poi negare che il parlamento attuale non rappresenta più la volontà popolare.
Se un parlamento vota con maggioranza qualificata una riforma costituzionale che viene poi sconfessata dalle urne il PdR dovrebbe scioglierlo d'ufficio ma, conoscendo i precedenti, sono quasi certo che sarà confezionata l'ennesima supercazzola giuridica per continuare a far finta di niente.
Alla luce del risultato referendario possiamo concludere che l'attuale parlamento è perfettamente rappresentativo della volontà popolare sul tema.
EliminaSi aprono quindi tutti gli scenari peggiori (ulteriore rapida regressione oligarchica).
Voci diverse hanno chiarito nel corso degli anni che la motivazione del risparmio è risibile, perché è modesto e perché i veri costi della politica sono le scelte sbagliate e gli investimenti non compiuti. È evidente che è stato introdotto un falso obiettivo di conflitto sociale nei confronti di una inesistente classe sociale dei parlamentari ed un obiettivo di uguaglianza al ribasso, non al rialzo, degli standard di vita di tutti (nel quadro della pretesa “decrescita felice”). Chi volesse parlare di cattivi maestri dovrebbe annoverare tra loro quanti hanno insegnato a guardare il dito e non la luna: a soffermarsi sugli aspetti esteriori (auto blu, atteggiamenti di ostentazione) e non a quelli sostanziali, cioè i rapporti di forza tra gruppi sociali e chi e come li rappresenta.
RispondiEliminaMa il punto è l’applicazione dell’incubo del contabile alla rappresentanza parlamentare: non avrai altro dio al di fuori della scarsità artificiale delle risorse. Non ci sono (nel senso che non ci devono essere) “i soldi” per decidere insieme del nostro destino. Mentre non risulta che, d’altra parte, sia introdotta una limitazione alle spese per lobbismo e manipolazione.
In altri tempi si sarebbe detto che la riduzione del numero dei parlamentari disarma le classi subalterne nel conflitto sociale. Si sarebbe citato il ruolo della televisione commerciale e, comunque, dei programmi d'intrattenimento superficiali anche su quella pubblica.
Tra vincoli esterni, decretazione d’urgenza, taglio dei tempi di dibattito, agenzie “indipendenti”, strapotere delle regioni, terrorismo mediatico, etc. il parlamento è ridotto ad essere un organo vestigiale della partecipazione democratica. Strumenti di partecipazione comprenderebbero, invece:
⁃ tempo a disposizione per partecipare, a tutti i livelli nella società
⁃ giornali di partito invece di “partiti di giornale”
⁃ distribuzione editoriale non squilibrata
⁃ piattaforme digitali pubbliche, controllate democraticamente
⁃ legge elettorale proporzionale pura, con preferenze e senza soglie.
Il parlamento sarebbe quindi lo snodo di un'intera società partecipativa e non il museo degli indiani.
In tempi di crisi epidemiche come questi sarebbe meglio non dover ricordare che il diritto alla vita non è diritto alla mera sopravvivenza biologica, ma a vita piena, di partecipazione e di inclusione. Votare NO al prossimo referendum significa rivendicare la pienezza della partecipazione democratica.
È una riforma dinanzi alla quale basterebbe fermarsi soltanto un attimo a riflettere per capire che bisogna votare No. Le ragioni del Si che vengono offerte agli italiani da chi sostiene questa riforma hanno una consistenza davvero misera, sono così infime... è evidente che col nostro sistema elettorale diminuire i parlamentari significa aumentare il potere di quei pochi che li nominano, che siederanno al governo e che dal governo dovranno obbedire all’UE e al PdR. Gli italiani sono disposti a sacrificare la rappresentanza democratica per una maggiore governabilità, per rendere ancora un po’ più semplici le cose a chi ha davvero il potere decisionale? Questo è il vero quesito che occorre porsi. È chiaro che quasi 30 anni di leggi elettorali maggioritarie (quindi incostituzionali) e di annessa propaganda mediatica a loro favore non aiuteranno, però credo che il fatto che abbiano prodotto come conseguenza anche il non esercizio del potere di scioglimento anticipato delle Camere da parte del PdR (che come sappiamo si fonda sulla tutela del valore della rappresentanza democratica insito nel sistema proporzionale puro) poiché tramite esse è divenuta prioritaria la governabilità, possa aver reso il referendum costituzionale l’unico strumento attraverso cui non solo esprimere un giudizio politico di popolo sulla maggioranza di governo, ma attraverso cui è verificabile la rappresentatività attuale del parlamento e quindi attraverso cui viene comunicata la necessità di nuove elezioni, che sarebbe difficile da ignorare. Nel 2016 probabilmente la vittoria del No fu dovuta a questo tipo d’uso del voto referendario, in un contesto in cui nonostante il quesito truffaldino e la propaganda mediatica e politica a favore (con tanti argomenti utilizzati anche quest’anno) e senza che sia stata colta la vera ratio e la portata di quella riforma, il popolo espresse il proprio dissenso verso quella maggioranza e quel governo sancendone la non più rappresentatività, io penso, in modo naturale e necessitato, andandosi a sostituire al PdR in una valutazione che per Costituzione dovrebbe effettuare lui, costantemente, e agire di conseguenza, ma che “non può” e non vuole più compiere. Ecco, questo mi fa sperare che il valore della rappresentanza, magari anche inconsciamente, sia ancora avvertito dagli italiani e sia ancora avvertito come prioritario, come è naturale che sia in una società che voglia essere democratica. La vittoria del No potrà non portare lo scioglimento anticipato perché in nomine europae si fa di tutto, anche se stavolta la vedo dura, però sicuramente manderebbe un messaggio fortissimo di resistenza. Speriamo...
RispondiElimina@Luca C.: mi concederai di non aver certo enfatizzato oltre misura i possibili effetti positivi di un’eventuale vittoria del NO.
RispondiEliminaC’era una citazione da un bel libro del vecchio Paolo Leon che volevo inserire nel post: il tuo commento mi offre l’occasione di riportarla ora:
“Con economie che crescono poco, i profitti crescono poco, ma le rendite possono aumentare se cresce il grado di monopolio. Questo, come si è già visto, può avvenire sia nella finanza (mentre con le tecnologie superiori, come l’informatica, sarebbe dovuto avvenire il contrario), sia sul mercato dei beni e dei servizi.” (P. Leon, Il capitalismo e lo Stato, Castelvecchi, Roma, 2014, s. p.)
Finché non si rompe, o almeno si allenta, questo blocco deflazionista, e non mi riferisco certo solo all’Italia, non vedo come un’ulteriore regressione sia evitabile: concentrazione/centralizzazione di capitali (= distruzione dei piccoli), crescenti espulsioni tendenzialmente definitive dal mercato del lavoro, accumulazione per espropriazione ( https://orizzonte48.blogspot.com/2020/04/solidarismo-immaginario-e-finanza.html?showComment=1587492361617#c5602248391268799708 ), riduzione sotto livelli minimi di benessere di fasce crescenti della popolazione, ulteriore perdita di leggitimità delle istituzioni, conseguente aumento delle forme di repressione/controllo, aggressività, pervasività e follia ideologica. Come leggere altrimenti la gestione - rispetto agli obiettivi dichiarati assurda - dell’emergenza Covid?
Ciò ovviamente non significa che in questo ingranaggio mortifero non vada versato anche il più piccolo granello di sabbia su cui possiamo mettere le mani. Se poi diventa occasione per testimoniare un po’ di consapevolezza democratica, meglio ancora.
"Come leggere altrimenti la gestione assurda - rispetto agli obiettivi dichiarati - dell'emergenza Covid?"
EliminaCome la 'lotta ai quattro flagelli' di Mao Tse Tung del 1958.
Come via di uscita non guerreggiata allo stallo del sistema.
https://goofynomics.blogspot.com/2020/08/caduta-grave-ma-gestibile.html?showComment=1597388378672#c6626846107869657788
nnn
RispondiElimina@Luca C.: la fonte è questa: https://www.maurizioblondet.it/il-virus-per-salvare-gli-speculatori/
RispondiEliminaPerdonami, ma non mi pare una spiegazione convincente: c’era il rischio che i tassi "schizzassero" a causa di un'ondata di domanda di prestiti? I tassi di interesse li decidono le banche centrali e gli investimenti si fanno se c'è un'aspettativa di profitto (cioè se c'è domanda): di cosa parliamo? L'attuale stagnazione ha cause profonde e difficilmente modificabili, molto bene analizzate, per esempio, in questo post: https://orizzonte48.blogspot.com/2019/09/lidea-non-nuova-del-qe-for-people.html
Quel che volevo dire è che se la situazione non migliora è interesse strutturale dei big player che peggiori. Anselm Jappe ha parlato di recente di una società "autofaga": credo sia una buona metafora di ciò a cui stiamo assistendo.
@Arturo
EliminaMi era parso di capire che i tassi che 'schizzano' a cui si riferiva il post di Blondet fossero quelli del mercato repo.
"What exactly is the repo market?
A repurchase agreement (repo) is a short-term secured loan: one party sells securities to another and agrees to repurchase those securities later at a higher price. The securities serve as collateral. The difference between the securities’ initial price and their repurchase price is the interest paid on the loan, known as the repo rate.
A reverse repurchase agreement (reverse repo) is the mirror of a repo transaction. In a reverse repo, one party purchases securities and agrees to sell them back for a positive return at a later date, often as soon as the next day. Most repos are overnight, though they can be longer."
Effettivamente le banche centrali fissano anche i tassi repo col loro intervento.
Ma a che prezzo?
Personalmente non credo che ci sia più nessun interesse da parte di nessuno che le cose peggiorino.
Anche con il reddito universale come reazione alla crisi demografica ed alla deflazione permanente si correrebbero i rischi dell'economia pianificata, cioè di non riuscire a determinare esattamente produzione e redditi (con conseguente 'crisi della vodka' come ai tempi di Gorbaciov).
Vedremo, il tempo aiuterà i sopravvissuti a capire.
Grazie per il bel contributo riassuntivo. Mi permetto di contribuire con un collage di citazioni bassiane, come sempre assai efficaci.
RispondiElimina“Anche se in questi ultimi anni (l'articolo è del 1977) i regimi di aperta dittatura sono stati sostituiti in Europa da regimi parlamentari, non si può dire che il sistema democratico-parlamentare, secondo il modello occidentale classico (non quelli realmente esistenti, ma quello vantato dai difensori dell'occidente) sia in progresso. Al contrario, la tendenza a trasformare il parlamento in una pura facciata, dietro la quale si consolida un vero e proprio regime oligarchico, è, in forme diverse, in rapido progresso. Un'analisi dei meccanismi in atto nei vari paesi sarebbe di estremo interesse, oltre che d'importanza pratica per una battaglia democratica. Per ora possiamo solo prendere atto di una cosa: la democrazia occidentale ha cessato di essere un modello."
Perché?
“Il parlamento è stato molto importante alle sue origini, quando è sorto come difesa della società civile contro la monarchia assoluta, ed è sorto come strumento soprattutto di difesa e di controllo, di controllo soprattutto sulla spesa, non come organo legiferante. Ora, era appunto nel parlamento che i divergenti interessi della classe dominante si affrontavano, si combattevano, trovavano compensazioni o compromessi, in modo che la classe dominante poteva partecipare tutta quanta alla gestione del potere e stabilire equilibri attraverso questo organo che era suo organo esclusivo o quasi. Il parlamento ha cominciato ad entrare in crisi, e il potere del parlamento ha cominciato a diminuire, con l'avvento dei partiti di massa, cioè non solo con il suffragio universale, come spesso si ripete, ma col fatto che queste masse sono organizzate spesso da partiti che non difendono gli interessi della classe dominante, ma le contrappongono quelli delle masse."
Per cui
“Il potere effettivo, che tende a diventare sempre più oligarchico, si serve ora di canali extra-istituzionali per aggirare il parlamento e prendere le sue decisioni al di fuori di esso, soprattutto al di fuori del controllo di quella opposizione che rappresenta interessi antagonistici. Questo non significa che il parlamento non conta assolutamente più nulla; è sempre strumento d'intervento ed è una sede di lotta in cui bisogna essere presenti, ma bisogna riconoscere che il sistema opera per svuotarlo anche delle possibilità che gli sono rimaste, privandolo dei mezzi che gli sono necessari per un funzionamento razionale. Con il pretesto di rispettare antiche e venerande tradizioni, si lascia sussistere il parlamento press'a poco come era un secolo fa, e in tal guisa lo si riduce sempre più al ruolo di paravento dall'apparenza democratica, di vernice democratica che viene data su una società la quale tende, viceversa, ad essere sempre più oligarchica e sempre meno democratica."
(segue)
Come sempre, Basso individua nella partecipazione dei lavoratori l'unica alternativa allo strapotere delle classi dominanti.
RispondiElimina"Mi sembra che una delle maggiori garanzie di democrazia per le minoranze non sia tanto il parlamento con tutte le sue limitazioni, e soprattutto con il pericolo di una dittatura di maggioranza, ma la nascita, la creazione, la moltiplicazione di centri di potere e, meglio, di contropotere, attraverso cui si esprimono tutte le forze vive e reali che esistono nel paese e che possono farsi, se sono contropoteri, portatori di una logica antagonistica alla logica del sistema. Cioè, possono mettere in essere all'interno di questa società dei meccanismi che combattano coscientemente quello che è, come ho detto in principio, il fondamento reale del potere della classe dominante, cioè i meccanismi di integrazione che operano anche a nostra insaputa. Però, perché questi contropoteri sorgano, esistano, funzionino e soprattutto funzionino veramente ed efficacemente come contropoteri, come poteri antagonistici a questo sistema, a questa logica, occorre una cosa che non è tanto facile da acquisire, non solo la coscienza degli antagonismi di classe, ma la coscienza della responsabilità nostra, di tutti e di ciascuno, di una responsabilità che non è delegabile né a capi carismatici né a cosiddette avanguardie rivoluzionarie, che si incaricano di pensare ed agire per noi. Occorre che ognuno di noi, cittadini di questo paese, ognuno di noi, cittadini del mondo, acquisti il senso della propria responsabilità nella vita collettiva."
Perché in definitiva
"la conclusione cui arrivo dopo cinquanta anni di milizia attiva e di esperienza di lotta, è che la cosa più rivoluzionaria che esista, più ancora delle barricate, è questo senso non rinunciabile della propria dignità e della propria responsabilità: rifiuti ciascuno la partecipazione subalterna alla società; rifiuti di diventare uno strumento, un oggetto nelle mani di altri, o, peggio, alla mercé di meccanismi anonimi; rivendichi ognuno il suo potere di decidere, di farsi partecipe attivo del vasto processo creativo della storia [...] Acquistare la coscienza della responsabilità per me significa questo: rifiutarsi di essere soltanto dei congegni; rifiutarsi di essere dei piccoli ingranaggi di un meccanismo che ci trascende; rifiutarsi di essere gli esecutori materiali di decisioni prese senza che noi ne sappiamo assolutamente nulla, prese chissà dove e chissà come, da un potere sempre più lontano, più misterioso e più anonimo; ribellarsi a questa situazione, respingere un'autorità che cala ingiustificata dall'alto."
Ora, è indubbio che senza partecipazione (art. 49) tutta la struttura della democrazia costituzionale manchi di forza e di senso: senza l’intervento cosciente delle masse subalterne, come può la polemica contro il presente dell’art. 3 mantenersi viva e operante? Torniamo perciò al punto inziale, e cioè al colossale problema della mancanza di coscienza- individuale e di classe- degli sfruttati: fenomeno così grave, ormai, che investe tutti gli aspetti della vita personale, al punto che un orrore quale la dittatura sanitaria di questi giorni viene accettata senza rilevanti opposizioni dalle prossime vittime del combinato disposto miseria-prigionia di massa. Parlando chiaro, sono ormai giunto alla dolorosa constatazione che le classi dominate siano ormai un gregge atomizzato e in fondo vile, senza più nemmeno un briciolo di quella virile volontà di ribellione che ha contraddistinto ogni fase della storia umana. Naturalmente “la colpa” non è, almeno in prima istanza, dello sfruttato: ma se, com’è qui convinzione comune, ogni fenomeno sociale è un fenomeno dialettico, non si può più tacere sul degrado umano e morale del proletariato italiano (intendendo qui per proletariato la massa maggioritaria di “sconfitti” dal Capitale). Per essere liberi occorre rivendicare il coraggio di conquistare la propria dignità: sarò pessimista, ma di tale istanza non vedo affatto voglia.
Dopo 50 anni di lotta Lelio ritorna alla "presa di coscienza personale".
EliminaPresa di coscienza che non si può diffondere fintanto che i media di massa sono controllati dalla classe dominante.
E i media non possono non essere privati fintanto che la (falsa) coscienza dominante è quella sustruita al capitalismo liberale.
E si torna al punto iniziale.
approfitto in maniera impropria del tramite del commento al post per significarle la mia riconoscenza per la sua opera di divulgazione e per augurarle un felice anno nuovo
RispondiElimina