Da Arturo riceviamo e volentieri pubblichiamo questo interessante post sulle...riforme.
In fondo è il tema dei temi: che occorra fare le riforme, lo sostiene il c.d. Washington Consensus da decenni, con ciò fissando una formula che nasce prima di Maastricht e dello stesso euro. E a quest'ultimo, con ogni probabilità, rischia di sopravvivere.
Per questo è importante capire cosa significhi questo "paradigma", perchè ha "intortato" l'opinione pubblica che, nella sua gran parte (cioè "in massa"), è spinta acriticamente ad attendersi sempre grandi cose, un grande futuro, dalla mitica realizzazione delle riforme.
Un futuro radioso che non arriverà mai; anzi, arriva il suo contrario, lo spegnimento di ogni luce e speranza. L'occultamento del conflitto di classe, da parte di chi non pensa altro che a rivincerlo, e la distruzione del benessere, perenni e inesorabili...via via che attuano "le riforme".
Politicamente si tratta di un tema che appare sorretto da una suggestione invincibile. Anche quando non avremo più l'euro, troveranno un modo, sicuramente sovranazionale e globalizzato, per raccontarci che "bisogna fare le riforme". TINA.
Le riforme, le riforme: non si parla d’altro. Secondo Renzi vanno fatte “a tutti i costi”; Salvati evoca addirittura Carl Schmitt
per caldeggiare sussulti “decisionisti”; Draghi l’abbiamo letto. Insomma, lo
avreste detto?, non c’è alternativa. E l’unica strada rimasta si accompagna a
cornici lessicali e concettuali che inquietano un po’. D’altra parte, lo sappiamo, si tratta della peggiore
crisi di tutta la storia nazionale: non lo dicevano pure gli antichi che “salus
rei publicae suprema lex esto”? Dunque avanti con le riforme e via i sassi dai
binari!
Va bene, va bene, lo so: i lettori di questo blog sulle virtù
salvifiche delle riforme nutrono un certo scetticismo. Non sarà però che
a forza di goofy siamo diventati un po’ gufi? Vogliamo provare a riconsiderare
l’argomento con sguardo sgombro di pregiudizi?
Ci provo con l’aiuto di Maurizio
Zenezini dell’Università di Trieste, che all’argomento ha dedicato un’apprezzabile fatica di 50 pagine.
Probabilmente non tutti hanno voglia o tempo di leggerselo per intero: per
questo mi è sembrato utile proporvene una sintesi, che sarà l’occasione per
toccare alcuni argomenti di contorno.
Zenezini si è assunto l’arduo compito di
esaminare un’ampia letteratura prodotta da quegli stessi organismi, OCSE in
testa, che propugnano le riforme salvifiche: si è trattato di chiarirne i
presupposti concettuali, gli strumenti di misurazione, le promesse, i
risultati. Sarà l’occasione per sfatare alcuni luoghi comuni o semplicemente
per ribadire che di luoghi comuni trattasi.
Partiamo a una prima osservazione:
di riforme tutti ne parlano, ma da quando? Un grafico (Zenezini, op. cit., pag.
10), basato sui documenti OCSE, ci aiuta a rispondere:
Verrebbe da chiedersi: come abbiam fatto prima senza? Adesso,
però, ahinoi poltroni, non si scappa: è arrivata, non si sa bene come, Lei!
E’ la globalizzazione, bellezza!
Quante volte l’abbiamo sentita questa? S’è perso il conto.
Come tutti i luoghi comuni di seconda mano che da anni ci affliggono, vale la
pena risalire alle fonti per gustarlo, per così dire, nella sua purezza.
Apriamo allora un (relativamente) famoso libro di Thomas Friedman (T. Friedman, The
Lexus and the Olive Tree, New York, Anchor Books, 2000, pp.
101 e ss.) - il cui dorso riporta un lusinghiero giudizio niente meno
che di Francis Fukuyama (lo ritroveremo), secondo cui avremmo a che fare con “un importante volume che arriva più vicino
di quanto si fosse riuscito finora a una definizione delle reali
caratteristiche del nuovo ordine mondiale” [le traduzioni, se non
altrimenti indicato, sono mie]:
“Quando
ci si pone la domanda di quale sia oggi il sistema che genera più
efficacemente standard di vita
crescenti, il dibattito storico è chiuso: la risposta è il capitalismo
liberista (free-market capitalism). Altri sistemi possono riuscire a
distribuire e dividere i redditi in modo più efficiente ed equo, ma nessuno può
generare redditi da distribuire in maniera efficiente quanto il capitalismo
liberista. Sempre più gente se ne rende conto. Così oggi, ideologicamente
parlando, non ci sono più menta e biscottini, panna e fragola o lime-limone.
Oggi c’è solo la vaniglia liberista o la Corea del Nord. Ci possono essere diverse marche
di vaniglia ed è possibile adattare la società a una maggiore o minore
velocità. Ma alla fine, se volete
standard di vita crescenti in un mondo senza barriere, il libero mercato è
l’unica alternativa ideologica rimasta. Una sola strada, diverse velocità. Ma
una sola strada.”
Friedman definisce questo insieme di regole del libero
mercato globale “Golden Straitjacket”
(cioè “camicia di forza dorata”). “Se il vostro paese non è ancora pronto a
indossarne una” promette un po’ minacciosamente Friedman “lo sarà presto”.
Di che si tratta concretamente? Presto detto: per indossare
la sua Golden Straitjacket uno Stato deve “rendere
il settore privato la principale fonte di crescita, mantenere un basso di
livello di inflazione e la stabilità dei prezzi, ridurre la dimensione della
sua burocrazia, mantenere un bilancio pubblico quanto più vicino possibile
all’equilibrio, se non in surplus, eliminare o abbassare i dazi sui beni
importati, rimuovere le restrizioni agli investimenti stranieri, eliminare
eventuali sistemi di quote o monopoli nazionali, aumentare le esportazioni,
privatizzare le imprese di proprietà pubblica, deregolamentare il mercato dei
capitali, rendere la propria valuta convertibile, aprire le sue industrie, i
mercati azionari e obbligazionari alla diretta proprietà straniera e agli
investimenti, deregolamentare l’economia e promuovere quanta più competizione
interna possibile, eliminare quanto più possibile la corruzione nel settore
pubblico, i sussidi e gli sconti, aprire i propri sistemi bancario e di
telecomunicazioni alla proprietà privata e alla concorrenza, consentire ai
propri cittadini di scegliere fra una molteplicità di opzioni pensionistiche in
concorrenza fra loro e fondi pensione e mutualistici esteri.”
Ecco qui il mantra del neoriformismo, per usare una felice
espressione di Paolo Favilli.
E queste portentose ricette a chi le dobbiamo? Al
duo Reagan-Thatcher, ci informa Friedman: “La
rivoluzione Thatcher-Reaganiana si è prodotta perché maggioranze popolari in
queste due principali economie occidentali conclusero che il vecchio approccio
dirigista semplicemente non produceva un livello sufficiente di crescita.”
Ma sarà poi vero che gli Usa e la Gran Bretagna hanno conosciuto un più elevato
livello di crescita dopo tale rivoluzione? E che il merito sarebbe delle sopraddette
riforme? Vedremo.
Certo, concede Friedman, non si tratta di un vestito comodo
perché “one size fits all”, cioè la
taglia è uguale per tutti (come
l’euro, per capirci). “Quindi pizzica
certi gruppi, ne schiaccia altri e mantiene la società sotto una costante
pressione per rendere più aerodinamiche (sic!) le sue istituzioni e migliorare la sua performance. Lascia indietro
più rapidamente che mai chi se la leva ma aiuta a riprendere la marcia
altrettanto rapidamente se la si indossa correttamente. Non è sempre graziosa,
gentile o confortevole. Ma è qui ed è l’unico modello in esposizione per questa
stagione storica.”
La cornice ideologica del neoriformismo è questa. Senza
prenderla di petto è impossibile articolare una risposta minimamente credibile che
intenda preservare le istituzioni democratiche formatesi nel dopoguerra.
Purtroppo qui i giuristi sono i più disarmati e pagano un prezzo molto alto.
Prendiamo per esempio un libro pure pregevole e non privo di interesse come Globalizzazione contro democrazia,
uscito presso Laterza nel 2002 per la penna dell’ex presidente della Corte
Costituzionale Antonio Baldassarre, che intende rivendicare il primato della
“libertà positiva” ed esprime un fortissimo scetticismo verso la bontà di
ordinamenti “sopranazionali”. Pag. 406: “Negli
ultimi trent’anni il salario medio reale dei dipendenti americani è diminuito
del 18%, mentre le retribuzioni dei manager sono schizzate in alto del 65%. [ometto
la citazione della fonte, che è un libro di Gallino]. In Europa la tendenza è analoga, anche se più soft, a causa della
forte resistenza esercitata dai sindacati. Tuttavia
il Vecchio Continente paga tutto ciò con il duro prezzo di una rinuncia a una
decente crescita economica”.
Forse è proprio da qui che possiamo cominciare.
Facciamo come…Gli americani. E perché no?
La Golden Straitjacket
non l’hanno tessuta loro, insieme agli inglesi? I frutti promessi non sono
prontamente arrivati, lì come in Gran Bretagna? Allora, cosa aspettiamo?
Lasciamo per il momento da parte il caso inglese (dirò ancora
qualcosa dopo), su cui pure non è illecito coltivare parecchi dubbi e qualche certezza (basta peraltro
visitare qualsiasi sito che riporti dati economici, per esempio http://www.tradingeconomics.com ,
per verificare che particolari balzi di crescita successivi alla rivoluzione
thathcer-reaganiana proprio non si vedono) per concentrarci su quello
americano. Han fatto le riforme o no? La flessibilità c’è o no? E la crescita è
arrivata o no? Dunque…dunque siamo proprio sicuri che il contesto
macroeconomico americano sia identico al nostro?
Sì, perché il problema sta
proprio qui: tutti i confronti con gli altrui miracoli riformistici
presuppongono una piccola clausoletta detta “coeteris paribus”. Siamo sicuri che “riforme” a parte, le altre politiche
economiche coincidano?
Naturalmente nel blog se ne è già parlato ma credo valga la
pena ribadire il punto con l’aiuto di un interessante saggio di Fitoussi e Saraceno intitolato
European economic governance: the
Berlin-Washington consensus.
Il titolo contiene un’evidente allusione
al c.d. Washington
consensus. Anche di questo s’è già fatta menzione: possiamo
dire che si tratta della forma tecnica data a quelle riforme che Friedman ha
così efficacemente volgarizzato sul piano ideologico.
E’ interessante notare,
lo racconta lo stesso Williamson, che si
trattava di idee che “già da lungo tempo
erano considerate appropriate dall’OCSE” e che di fatto soppiantavano “le vecchie idee dell’economia dello
sviluppo che avevano governato le politiche dell’America Latina dagli anni ‘50”.
Sempre lei: l’OCSE. Se i paesi in via di sviluppo dal cambiamento di paradigma
ci abbiano guadagnato, lo vedremo poi, intanto restiamo al confronto con gli
Stati Uniti. Gli autori usano il c.d. “quadrato magico” di Kaldor per
evidenziare le differenze nei rispettivi risultati economici. Eccoli qui:
Fig. 1. The ‘magic square’ for the USA and the three largest
European countries (Germany, France
and Italy). Average yearly values for
each decade. Source: OECD and IMF; authors’ calculations.
Su ciascun asse viene rappresentato un obiettivo
macroeconomico: la crescita reale del PIL (g, nord); l’equilibrio esterno, cioè
un surplus di partite correnti sul PIL (b, est); disoccupazione (u, sud);
inflazione (π, ovest).
In effetti, a guardare i dati, l’Europa non ne esce
benissimo: negli anni Ottanta la crescita media statunitense è stata del 3,2%,
un punto pieno al di sopra della crescita media di Germania, Francia e Italia;
disoccupazione e inflazione erano più basse, anche se in termini assoluti
ancora piuttosto elevate.
Negli anni Novanta, gli USA hanno ridotto
notevolmente l’inflazione senza penalizzare la crescita, mentre la disoccupazione
scendeva in modo significativo. L’Europa, invece, ha pagato il suo
miglioramento del livello di inflazione con una situazione occupazionale ancora
peggiore: la disoccupazione è rimasta intorno al 10% per tutto il decennio
mentre la crescita stagnava a un misero 2%. (Misero per l’epoca: oggi, ad
avercelo…).
Insomma, gli USA hanno conseguito tre dei quattro obiettivi (quello
clamorosamente fallito, ovviamente, è l’equilibrio esterno). Gli autori si
domandano: la differenza nei risultati europei e americani è spiegato da un
deliberato trade-off fra diversi obiettivi oppure ci sono stati errori che
hanno penalizzato la crescita europea?
Pag. 482 (ometto le note): “La gestione della crisi dell’eurozona del
2009-12 offre qualche chiarimento. In Europa (soprattutto in Germania) la
domanda interna non è considerata un motore della crescita. Il fiscal compact
si concentra solo sulla sostenibilità delle finanze pubbliche. Mentre i rari
richiami a una maggior enfasi sulla crescita propongono riforme strutturali per
far crescere le economie europee. Se questa “Berlin view” dovesse evolvere in
un “Berlin consensus” e diventare dominante in Europa, assisteremmo al
paradosso del secondo più vasto blocco economico mondiale che si affida alla
domanda estera per assicurare la prosperità ai suoi cittadini”. […]
“Il punto di
vista dominante, che abbiamo chiamato il Berlin-Washington (BW) Consensus,
spiega i differenti profili di queste due regioni sul quadrato magico in
relazione alle diverse strutture delle loro economie. Gli USA hanno un’economia
più flessibile e orientata al mercato, laddove i paesi europei sopportano il
peso di un inefficiente welfare state che mantiene le loro economie su un
sentiero di bassa crescita e occupazione.
Per esempio Prescott (‘Why do Americans Work so Much More than Europeans?’, Research Department Staff Report no. 321, F. R. B. o. Minneapolis) sostiene che è l’eccessivo carico fiscale europeo la ragione principale per cui l’ammontare delle ore lavorate negli Stati Uniti è notevolmente più consistente. Quindi ridurre l’intervento pubblico produrrebbe una maggiore crescita.
Analogamente, Lucas (Lucas, R. E., Jr 2003. Macroeconomic priorities, American Economic Review, vol. 93, no. 1, 1–14), pur concedendo che le politiche keynesiane hanno giocato un ruolo importante nella riduzione delle fluttuazioni dei redditi in passato, afferma che non c’è più spazio per politiche di stabilizzazione e che guadagni di benessere complessivo possono essere ottenuti da riforme strutturali. La letteratura offre centinaia di dichiarazioni analoghe.”
Per esempio Prescott (‘Why do Americans Work so Much More than Europeans?’, Research Department Staff Report no. 321, F. R. B. o. Minneapolis) sostiene che è l’eccessivo carico fiscale europeo la ragione principale per cui l’ammontare delle ore lavorate negli Stati Uniti è notevolmente più consistente. Quindi ridurre l’intervento pubblico produrrebbe una maggiore crescita.
Analogamente, Lucas (Lucas, R. E., Jr 2003. Macroeconomic priorities, American Economic Review, vol. 93, no. 1, 1–14), pur concedendo che le politiche keynesiane hanno giocato un ruolo importante nella riduzione delle fluttuazioni dei redditi in passato, afferma che non c’è più spazio per politiche di stabilizzazione e che guadagni di benessere complessivo possono essere ottenuti da riforme strutturali. La letteratura offre centinaia di dichiarazioni analoghe.”
Certo
che però è curioso, vero? Se c’è una spiegazione delle vicende economiche che
diventa luogo comune, infallibilmente si tratta di quella più legata ai modelli
neoclassici. Sarà un caso?
Andiamo
avanti.
Gli
autori ricordano che il WC è oggi al centro di vivaci critiche nell’ambito
disciplinare in cui è nato, cioè l’economia dello sviluppo.
Come se niente
fosse, “i politici europei, al contrario,
hanno, in modo progressivo ma coerente, incorporato le prescrizioni del
consensus nella struttura fondamentale dell’UE (stabilita dal Trattato di
Maastricht del 1992 e completata, in attesa della ratifica del fiscal compact,
dal Trattato di Amsterdam, 1997, e di quello di Lisbona, nel 2009).
La cornice
istituzionale europea di fatto proibisce politiche economiche discrezionali,
limitando quella monetaria all’inflation targeting e quella fiscale a un ruolo
di stabilizzazione automatica.”
Si domandano gli autori: i dati confermano
la bontà del consensus?
“Dal Trattato di
Maastricht del 1992, la politica fiscale europea è stata estremamente passiva.
Prima del lancio dell’euro, la politica monetaria si focalizzava quasi esclusivamente sulla stabilizzazione del tasso di cambio; da allora, si è concentrata sulla stabilizzazione dei prezzi, al punto che la minaccia di una possibile inflazione importata nel luglio del 2008 innescò un aumento del tasso di interesse poche settimane prima del collasso della Lehman Brothers. Ciononostante la performance di crescita europea non è stata davvero notevole. Sorge allora la domanda: dov’è la prosperità promessa dal consensus?
Prima del lancio dell’euro, la politica monetaria si focalizzava quasi esclusivamente sulla stabilizzazione del tasso di cambio; da allora, si è concentrata sulla stabilizzazione dei prezzi, al punto che la minaccia di una possibile inflazione importata nel luglio del 2008 innescò un aumento del tasso di interesse poche settimane prima del collasso della Lehman Brothers. Ciononostante la performance di crescita europea non è stata davvero notevole. Sorge allora la domanda: dov’è la prosperità promessa dal consensus?
Gli unici
due episodi di crescita relativamente alta nei passati due decenni – alla fine
degli anni Ottanta e alla fine dei Novanta – erano stati entrambi preceduti da
un sostanziale allentamento delle condizioni monetarie.
Al contrario, una
politica monetaria relativamente restrittiva sembra essere un importante
fattore, anche se non l’unico, della modesta performance della crescita europea
dell’ultimo decennio.
Inoltre, se guardiamo alle esperienze di programmi di aggiustamento strutturale, il dato più sorprendente di un consenso tanto diffuso in ambienti politici e accademici è l’esiguità delle evidenze che lo sostengono.
Inoltre, se guardiamo alle esperienze di programmi di aggiustamento strutturale, il dato più sorprendente di un consenso tanto diffuso in ambienti politici e accademici è l’esiguità delle evidenze che lo sostengono.
Un seguace del BW consensus potrebbe obiettare che
il problema deriva da un’insufficiente
osservanza dei suoi precetti.” Anche questa mi pare che un
paio di volte l’abbiamo già sentita…
“La
politica macroeconomica è stata virtuosa, potrebbe sostenere il seguace, ma le
riforme strutturali non hanno fatto sufficienti progressi. Alla luce delle
evidenze disponibili, questo sembra però niente più che un argomento teologico.
Prendiamo la più paradigmatica delle riforme strutturali, quella del mercato del lavoro.
Molti economisti individuerebbero nel mercato del lavoro il candidato ad essere il maggior responsabile dell’evidenza differenza di risultati in termini di crescita di USA ed Europa.
Per esempio Nickel et alii (Nickell, S., Nunziata, L., Ochel, W. and Quintini, G. 2003. The Beveridge curve, unemployment and wages in the OECD from the 1960s to the 1990s, pp. 394–431 in Aghion, P., Frydman,R., Stiglitz, J. and Woodford, M. (eds), Knowledge, Information, and Expectations in ModerMacroeconomics: In Honor of Edmund S. Phelps, Princeton, Princeton University Press) sostengono che il livello di equilibrio di disoccupazione dipende da variabili che influenzano o l’incontro fra individui disoccupati e posti vacanti oppure aggiustamenti salariali in caso di squilibrio. Questi includono l’ammontare dei sussidi di disoccupazione, il tasso di interesse reale, le forme di protezione del lavoro, politiche attive sul mercato del lavoro, la struttura sindacale, coordinamento nella negoziazione dei salari e nelle tasse sul lavoro.
Prendiamo la più paradigmatica delle riforme strutturali, quella del mercato del lavoro.
Molti economisti individuerebbero nel mercato del lavoro il candidato ad essere il maggior responsabile dell’evidenza differenza di risultati in termini di crescita di USA ed Europa.
Per esempio Nickel et alii (Nickell, S., Nunziata, L., Ochel, W. and Quintini, G. 2003. The Beveridge curve, unemployment and wages in the OECD from the 1960s to the 1990s, pp. 394–431 in Aghion, P., Frydman,R., Stiglitz, J. and Woodford, M. (eds), Knowledge, Information, and Expectations in ModerMacroeconomics: In Honor of Edmund S. Phelps, Princeton, Princeton University Press) sostengono che il livello di equilibrio di disoccupazione dipende da variabili che influenzano o l’incontro fra individui disoccupati e posti vacanti oppure aggiustamenti salariali in caso di squilibrio. Questi includono l’ammontare dei sussidi di disoccupazione, il tasso di interesse reale, le forme di protezione del lavoro, politiche attive sul mercato del lavoro, la struttura sindacale, coordinamento nella negoziazione dei salari e nelle tasse sul lavoro.
Nonostante la sua imponente quantità il
lavoro dedicato a confermare questo punto di vista non ha prodotto i risultati
attesi. L’evidenza sulle istituzioni e la performance del mercato del lavoro è
debole e spesso contraddittoria. Ciò non è sorprendente perché gli effetti
negativi di misure che introducono rigidità sul mercato del lavoro sono spesso
di secondo ordine e non particolarmente robuste. In effetti, nelle regressioni
relative alla disoccupazione, almeno per i paesi OCSE, specifici fattori
nazionali diventano spesso non significativi dopo una verifica di eventuali
shock comuni (Fitoussi, J.-P. 2003. The Beveridge curve, unemployment and
wages in the OECD from the 1960s to the 1990s: comment, pp. 432–40 in Aghion,
P., Frydman, R., Stiglitz, J. And Woodford, M. (eds), Knowledge, Information, and Expectations in Modern
Macroeconomics: In Honor of Edmund S. Phelps,
Princeton, Princeton University Press). Fitoussi et alii (Fitoussi, J.-P.,
Jestaz, D., Phelps, E. S. and Zoega, G. 2000. Roots of the recent recoveries:
labor
reforms
or private sector forces? Brookings Papers on Economic
Activity, vol.
31, no. 1, 237–311) mostrano che le riforme strutturali, una volta realizzate,
non hanno sempre prodotto i risultati attesi sulla performance del mercato del
lavoro”.
Insomma,
le evidenze capaci di garantire la bontà delle “riforme”, ci dicono Fitoussi e
Saraceno, sono scarse in proporzione inversa alla sicurezza con cui queste
ultime vengono propinate.
È un punto su cui torneremo con l’aiuto di Zenezini,
ma era utile introdurre l’argomento per arrivare a una risposta alla domanda:
perché gli USA han fatto meglio?
Ecco finalmente una possibile risposta (pag.
486): “Secondo parecchi commentatori
(vedi per esempio: Blinder, A. S. and Yellen, J. L. 2001. The
fabulous decade: macroeconomic lessons from the 1990s, pp. 91–156 in Krueger,
A. and Solow, R. M. (eds), The
Roaring Nineties: Can Full Employment Be Sustained? New York, Russell Sage Foundation Publications) la
positiva performance dell’economia americana dall’inizio degli anni Ottanta
alla fine dei Duemila è largamente dovuta all’efficiente
coordinamento di politiche fiscali e monetarie attiviste (e, possiamo
aggiungere retrospettivamente, a bolle
finanziarie).”
Insomma,
forse la lentezza europea non era tutta da addebitare ai sindacati, al welfare
e alla “cultura del piagnisteo”, come, con la consueta delicatezza, si è
recentemente espresso il nostro premier. Qui però il lettore potrebbe grattarsi
un po’ la testa: ma quelle politiche macroeconomiche espansive non sono in
contrasto col consensus? In effetti è così: “Pare
che gli Stati Uniti abbiano prodotto una merce, il consensus, che non è stata
messa sul mercato interno ma esportata, dato il cospicuo numero di consumatori
all’estero. Questo “consumo” può essere volontario, come in Europa dove i
politici hanno deciso di incorporare le prescrizioni del consensus nei trattati
europei, oppure può essere il risultato di prepotenze, come nei paesi in via di
sviluppo dove sovente è stata forzata l’adozione di programmi di aggiustamento
strutturale per ottenere l’accesso agli aiuti internazionali (Stiglitz, Globalization
and Its Discontents, New
York, Norton).”
Insomma, l’America non rappresenta il caso
paradigmatico di TINA, ma la sua più evidente confutazione.
In
conclusione: non è possibile sostenere che i migliori risultati americani siano
da attribuirsi alle prescrizioni del (B)W consensus, sia perché le analisi
delle specifiche riforme, in particolare quella del mercato del lavoro, sono
inconcludenti, sia soprattutto perché l’America non l’ha applicato nel suo coté macroeconomico, e proprio a
quest’infedeltà è ragionevole attribuire i suoi più rosei risultati.
Il
paradosso europeo è stato quello di trasformare uno spendibile, anche se
empiricamente infondato, tool retorico-ideologico come il TINA in una realtà
istituzionale.
Cominciamo a citare Zenezini: (pag. II): “La
ragione storicamente contingente della centralità assegnata alle riforme è da
rinvenire nel processo di creazione del mercato interno europeo, della moneta
unica e nei vincoli imposti dai trattati europei alla conduzione della politica
macroeconomica. Questo mutamento del quadro di politica europea
ha progressivamente prosciugato
qualsiasi fonte di intervento nell’economia oltre gli ambiti “microeconomici”
della gestione dei mercati
del lavoro e dei beni, determinando una sistematica distorsione
verso orientamenti “offertisti” nelle politiche economiche. Questi orientamenti si sono quindi tradotti in una
continua azione di promozione di riforme economiche mirate a favorire il “buon
funzionamento” dei mercati.”
Quindi non c’è alternativa non a causa
della globalizzazione (o della Ciiiiina, dei BRIC, del riscaldamento
globale o di quel che tireranno fuori la prossima volta), ma dei trattati europei, e in primis dell’euro. Sappiamo perché:
la logica
macroeconomica
non perdona. Uno scenario inedito?
Proviamo a riaprire
i classici (che secondo me non fa mai male) e vediamo: “Protezioni sociali e
interferenze con la valuta non erano semplicemente questioni analoghe, ma
spesso identiche. Fin dalla fissazione del Gold Standard, la valuta era
minacciata tanto da un livello crescente dei salari quanto dall’inflazione
diretta: entrambe riducevano le esportazioni e deprimevano il tasso di cambio.
La semplice connessione fra queste due basilari forme di intervento divenne il
fulcro della politica negli anni Venti. I partiti preoccupati per la stabilità
della valuta protestavano tanto contro le minacce di deficit di bilancio quanto
contro le politiche di cheap money, opponendosi quindi tanto all’”inflazione
del tesoro” quanto all’”inflazione del credito”, o, i termini più concreti,
denunciando gli oneri sociali quanto gli alti salari, i sindacati quanto i partiti laburisti” (K.
Polanyi, The Great Trasformation,
Boston, Beacon Press, 2001 (1944), pag. 235). Mundell
individua nell’euro il motore del “riformismo” (il Reagan) europeo: a me pare un’analogia ci sia. Non so a voi.
Ho
esaminato con un minimo di approfondimento il “modello” americano perché negli
anni è stato il più lungamente propagandato, ma ovviamente con il localizzarsi
e incancrenirsi della crisi dell’eurozona l’indicazione dei miracoli altrui si
è fatta, di necessità, più localizzata e per questo sempre più convulsa e
improbabile: ieri era l’Irlanda,
oggi è la Spagna,
domani chissà. E’ così?
No, perché la situazione economica dell’eurozona è
talmente disastrosa che per tenere insieme i cocci vengono concesse, in modo
politicamente opacissimo e mediaticamente dissimulato, elasticità
macroeconomiche (da cui l’Italia è in ogni caso immancabilmente
esclusa) che integrano una violazione della clausola coeteris paribus e
impediscono il confronto.
Certo, si potrebbe osservare che la difficoltà di
trovare un termine di paragone che si possa credibilmente spacciare per
positivo apre le prime evidenti crepe in questo frame comunicativo, ma è il
metodo in sé, e l’uso che ne è stato fatto, che devono essere radicalmente criticati.
I vari confronti, infatti, “hanno
portato di volta in volta a contrapporre all’esperienza italiana un modello
‘esemplare’ considerato vincente
sul terreno dei punti di crescita del PIL perché rappresentativo del modello liberista a
cui l’economia avrebbe dovuto ispirarsi. La retorica dell’argomentazione si
fonda sul modello della statica
comparata, e
quindi sulla fragile clausola del coeteris
paribus” (Ginzburg, “La retorica del modello esemplare, e la sua
grammatica”, in: G. Bonifati e A. Simonazzi, pag. 298 cit. in Zenezini, op. cit.,
pag. 23).
Per ritornare all’esempio inglese, “si è sottolineata l’ottima posizione del Regno
Unito nella graduatoria degli indici di regolamentazione dei mercati, ma l’Economist
si duole per l’incapacità
di quel paese di esportare dovuta alla mancanza di medie imprese (Economist, 2013) e ricorda che tra il
1998 e il 2007 è lo stato che, direttamente o indirettamente, ha creato il 64
per cento dei posti di lavoro nel nord e il 38 per cento nel sud (per lo più
nei settori della sanità e dell’istruzione, Economist, 2012a). E’
evidente dunque che il benchmarking competitivo è una metodologia che porta a
vere e proprie cantonate
quando interpreta la performance economica di un paese con riferimento agli
indicatori di regolamentazione-deregolamentazione e ignora l’insieme
degli aspetti di contesto, le caratteristiche istituzionali, le condizioni strutturali, il ruolo delle
costrizioni o delle opportunità macroeconomiche. In un certo senso, questo però
non è un limite della metodologia, quanto piuttosto la sua ragione di fondo.
Come scrive ancora Ginzburg, il
modello esemplare ha la funzione di deus ex machina: calando dall’esterno, ha
il vantaggio di
proporre –senza un’analisi della situazione
specifica – un
percorso definito anche nelle situazioni in cui maggiore è l’incertezza
sul cammino da adottare. All’incertezza destabilizzante si sostituisce un
rassicurante (e deresponsabilizzante) determinismo.”
Insomma, la continua misurazione e
rimisurazione delle regolamentazioni e l’individuazione di sempre nuovi modelli
non assolve il compito di fornire rappresentazioni realistiche “quanto piuttosto quello di chiudere le “riforme” in uno
spazio virtualmente senza alternative.”
“Così, se un
particolare indice aggregato fornisce una immagine sintetica dello stato
complessivo della regolamentazione in un particolare paese, il riferimento alle
sue componenti elementari offre sempre margini di manovra per un
riformismo più “fine”, onde
un paese che avanza in una direzione non è al riparo dalla necessità di
riformare un altro aspetto del mercato dei beni o del mercato del lavoro perché
sarà sempre possibile individuare un settore meno deregolamentato in un paese
rispetto ad un altro. In questa direzione, la stessa, ineliminabile, imprecisione
degli indici e l’incertezza delle prove empiriche, diventano elementi
d’impulso, anziché motivi
di cautela.”
Il
“facciamo come…”, e il suo corredo di indici, di là del grottesco in cui le
volgarizzazioni giornalistiche possono cadere, forniscono quindi una
legittimazione “tecnica” e mediatica a un TINA rilanciabile potenzialmente
all’infinito. Di questi indici ora toccherà parlare un po’ più nel dettaglio.
Nella prossima puntata.
Se uno si va a guaradre la ideologia di questi "geni" che ci (s)governano capisce ben presto che sono dei cialtroni/ciarlatani convintisi -non si sa perché- di essere delle menti eccelse capaci di chissaché.
RispondiEliminaPer dire: sia Luigi Einaudi che Tommaso Padoa Schioppa erano convinti che l' Europa del 1913 era praticamente perfetta: Gold-standard, liberalizzazione "di ogni", progresso e prosperità sicuri! Non parliamo della pace che ne scaturiva per secoli, come naturale conseguenza!
E poi? La guerra?
Ma come? Ma perché? "gli stupidi nazzzzionalismi" (e bla bla blaternado).
La VERA domanda è?
Perché siamo in mamo a questi "geni" da illo tempore e Arturo è....?
Chi è Arturo ?
Il problema (culturale) è perché a nessuno dei gregari vengono dei dubbi sulla rotta imposta e tenuta dai capi? E se gli vengono perché non gli esternano? È possibile che nel PD nessuno si sia accorto che così non va e proprio non può andare?
Eliminaperchè l'obbedienza al partito viene prima dei propri doveri in quanto membro delle istituzioni.
Eliminaun altro punto in comune fra PD e PCI.
Perché sono pagati apposta (con pecunia e con status sociale) per non farsi venire dubbi.
EliminaInsomma, è la famosa meritocrazia...
IRREGULAR OTC (Over the counter)
RispondiEliminaC'è qualcuno degli abitatori che ha già affrontato le 1367 pagine di Carroll Quigley, lo storico che sapeva di tragedie e speranze della globalizzazione.
"Salvati evoca addirittura Carl Schmitt"
RispondiEliminaOh diamine, QUEL Carl Schmitt??? Proprio LUI??? Il "pensatore" preferito di Adolf Hitler?
Annamo bene... il prossimo da evocare chi è, Belzebù in persona?
Chinacat
Non mi buttare troppo giù Karl Schmitt, il teorico della sovranità e della garanzia della rigidità della Costituzione. Era un antimperialista, anticipatore della critica alla globalizzazione: questo lo rendeva congeniale ad alcune posizioni di Hitler. Ma solo perchè quest'ultimo aveva necessariamente una radice anti-liberista e plutocratica. Semmai, questa parziale collimanza (non da lui ricercata), ci conferma come il liberismo arrembante, e il capitalismo sfrenato internazionalista, producano anche i totalitarismo come risultato ultimo delle loro aberrazioni
EliminaGrazie Arturo. Di tutto.
RispondiEliminaSui links non saprei cosa sia successo nel trasporre il post sulla piattaforma (ma non c'è da fare molto affidamento nella mia expertise informatica)...
Un abbraccio
Il superbo post di Arturo mi ha ricordato un articolo apparso nel luglio 2011 sul New York Times vergato proprio dal prementovato Thomas Friedman, lo zelante citaredo del free-market capitalism.
RispondiEliminaCome lo stesso titolo lascia trasparire - "Can Greeks Become Germans?" - il modello di riferimento a cui i greci devono - secondo Friedman - guardare con compiacimento è giustappunto quello tedesco.
L'articolo - bolso e pervaso da stereotipi culturali di retaggio ottocentesco - è tutto incentrato sulla latente dicotomia "North Europe=hard-working Vs South Europe=lazy", con il virtuoso manipolo capitanato dalle "formichine" tedesche che deve imporre costumi austeri e morigerati a questi neghittosi scialacquatori dell'altrui peculio.
Ecco un passo significativo:"[...]Questo è doppiamente vero quando due paesi diversi condividono la stessa moneta, ma non lo stesso governo. Ecco perché questa storia non riguarda solo i tassi di interesse. Si tratta di valori. I tedeschi stanno ora dicendo ai greci: 'Vi presteremo più soldi, a condizione che vi comportiate come i tedeschi nel modo in cui si risparmia, quante ore alla settimana si lavora, quanto tempo si sta in vacanza e come pagare regolarmente le tasse.'
Già, le tasse; immaginiamo che al columnist del Minnesota non sarà sfuggito - oltre alle oramai ben note sconcezze economico-finanziarie di Siemens & Co. in terra ellenica - che il maggiore evasore nella storia della Grecia è Hochtief, il gigante delle costruzioni alemanno che, secondo un tribunale di Atene, dovrà rifondere al governo greco 600 milioni di euro e “insieme con tutti i pagamenti arretrati, come i fondi di sicurezza sociale, l'azienda dovrebbe pagare oltre un miliardo di euro”, scrive il sito Neurope.eu.
"Si tratta di valori..." Niente male Mr. Friedman, davvero niente male!
"Noch nie hätten zwei Staaten, in denen die amerikanische Fastfood-Kette McDonalds Restaurants betreibe, Krieg gegeneinander geführt"
RispondiElimina(T. Friedman)
Mai fino ad oggi paesi dove operavano filiali fast food Mc-donald's si son fatti la guerra tra di loro.
A Friedman gli consiglio 12 mesi di cura intensiva in una clinica psychiatrica.
Secondo mè è un psychopatico pericoloso. Pericoloso perchè ci sono tanti ingoranti che lo prendono sul serio.
Ma tutti questi stronzi ultra liberisti di che cosa parlano.
Sè non ci fosse lo stato a salvargli ogni volta il culo quando combinano i loro distastri, il loro systema sarebbe già saltato in aria nel 98, senza parlare del 2007.
Le stronzate che raconta Friedman mi ricorda un certo analysta che a fine 99 consigliò di comprare azioni CMGI.
http://grottoazzurro.typepad.com/.shared/image.html?/photos/uncategorized/cmgi.gif
Considerando il "consensus" verso una forma esoterica di scienza, detta "neoclassica" in quanto fondata su paradigmi "pre-galileiani", non si può non considerare che Berlino fino a prova contraria è succursale di Washington da almeno il dopoguerra.
RispondiEliminaL'imperialismo liberale, che per quel che mi riguarda non è mai stato un ossimoro, è sceso a patti con le democrazie costituzionali di vassalli e valvassori e, nel caso dello storico kapò berlinese, si è costituzionalizzato il paradigma neoclassico stesso: ordinamentalizzazione che ha apparentemente smorazato gli effetti distruttivi in casa ma che rende di fatto la Prussia (stiamo seri...) la cerniera - sacrificale - tra colonie europee e impero anglosassone.
Ragionando alla Orwell, la Germania è la garanzia che l'Oceania controlli il vecchio Continente in modo che non si formi geopoliticamente l'Eurasia: l'incubo dell'Impero English speaking.
Il consenso rispetto a questa "soluzione finale" (che è la traduzione letterale di TINA), non può non prescindere da un consenso verso una soluzione criminale e distopica che, per aver appunto questo vasto consenso di chi "prende le decisioni che contano", deve contenere motivazioni assolutamente indicibili tra le quali la presunta impossibilità di coordinare gli agenti economici avrebbe portato all'insostenibilità demografica e del modello date le attuale risorse enegetiche e tecnologiche.
Ovvero la depressione e l'asservimento neoliberista sono l'unica soluzione per la sopravvivenza della razza umana. Ovviamente la "loro" razza, cari prolet che non avete superato la selezione darwininana...
Ossimoro? Joan Robinson si espresse in termini del tutto analoghi
RispondiEliminahttp://www.concertedaction.com/2013/01/10/free-trade-doctrine-in-practice-is-a-more-subtle-form-of-mercantilism/