Arturo è...bravissimo. E' un giovane che ci restituisce una qualche speranza sul futuro. Dobbiamo ringraziarlo del suo impegno e della sua brillante capacità di ricerca.
Questo è il commento introduttivo principale che mi sento di fare.
Questo studio sugli "indici" che presiedono alle "riforme", (o meglio al "facciamo come"), ho preferito pubblicarlo in due parti: solo così, ritengo, si può apprezzare, con un dovuto spazio di riflessione, la gran mole di informazioni, acute riflessioni critiche e links che ci fornisce.
La lettura di queste due Parti fornisce un quadro "tattico" che consente di comprendere, per la realtà italiana, anche la rassegna su "1978 e 1992", che presto verrà completata.
Ho concluso la scorsa puntata parlando di indici (che misurerebbero la necessità e, invariabilmente, la "efficienza" delle riforme): si tratta di una questione centrale, perché i confronti, e i relativi “facciamo come”, vi ruotano attorno. Soprattutto un esame un po’ più ravvicinato degli indici consente di svelare le ideologie nascoste dietro l’apparante “neutralità” tecnica.
En passant e prima di cominciare, ricorderei solo che ben poche delle
giustificazioni invocate per le recenti, e ancora largamente indeterminate,
“riforme” che l’attuale governo si appresta a varare trova fondamento in tali indici, ma questa è la semplice
conseguenza di scelte politiche che nemmeno una realtà “precompresa” riesce più a
giustificare.
Torniamo a noi:
a) che cosa misurano questi indici?
b) Chi li redige?
c) E in base a quali criteri? (Per quanto segue, vd. in generale Zenezini, op. cit., pag. 12 e ss.).
a) che cosa misurano questi indici?
b) Chi li redige?
c) E in base a quali criteri? (Per quanto segue, vd. in generale Zenezini, op. cit., pag. 12 e ss.).
I principali indici misurano i mercati dei beni, la regolamentazione delle utilities, la
regolamentazione dei servizi, gli oneri burocratici, la protezione
dell’occupazione e la flessibilità delle condizioni di impiego del lavoro
(sarà su questi ultimi che mi concentrerò particolarmente).
La risposta alla seconda domanda è ovvia: in primo luogo l’Ocse, a partire dall’inizio degli anni ‘90; si aggiungono poi il FMI, che ne fa largo impiego per la prima volta nel World Economic Outlook del 2003.
Nello stesso anno la Banca Mondiale produce gli indicatori Doing Business, avendo già avviato nel 1999 un progetto di misurazione della qualità della governance pubblica; nel 2005 l’Unione Europea costituisce un Laboratorio delle riforme, niente meno, con il compito di “controllare le riforme del mercato del lavoro nell’Unione Europea”.
La risposta alla seconda domanda è ovvia: in primo luogo l’Ocse, a partire dall’inizio degli anni ‘90; si aggiungono poi il FMI, che ne fa largo impiego per la prima volta nel World Economic Outlook del 2003.
Nello stesso anno la Banca Mondiale produce gli indicatori Doing Business, avendo già avviato nel 1999 un progetto di misurazione della qualità della governance pubblica; nel 2005 l’Unione Europea costituisce un Laboratorio delle riforme, niente meno, con il compito di “controllare le riforme del mercato del lavoro nell’Unione Europea”.
A questi organismi pubblici si
affiancano poi i prodotti di think tank privati come l’Indice di competitività compilato dal World Economic Forum o l’Indice
di libertà economica calcolato dalla superliberista Heritage Foundation.
Se vi incuriosisce sapere che cosa dice la HF sull’Italia, potete scoprirlo qui: il succo è che c’è tanta corruzione e un mercato del lavoro troppo rigido. Il risultato del 2014 è però il più alto da quattro anni: evviva!.
Se vi incuriosisce sapere che cosa dice la HF sull’Italia, potete scoprirlo qui: il succo è che c’è tanta corruzione e un mercato del lavoro troppo rigido. Il risultato del 2014 è però il più alto da quattro anni: evviva!.
Per quanto riguarda la
terza domanda, cioè i criteri impiegati, la metodologia di costruzione degli
indici implica tre passaggi: 1) selezione
degli indicatori di base 2) codifica
3) ponderazione per
l’aggregazione.
Per quanto riguarda il
primo passaggio, oggetto di misurazione sono le regolamentazioni giuridiche.
E
qui consentitemi di aprire una piccola parentesi: in Italia abbiamo una
tradizione di studi di diritto privato comparato, perché di questo stiamo
parlando, tra le più prestigiose al mondo. Bastino due nomi: Gino Gorla e Rodolfo Sacco.
Che cosa ci hanno insegnato
questi illustri Maestri?
Che la comparazione giuridica è attività complessa e
ricca di trappole metodologiche: alcune particolarmente insidiose e difficili
da evitare (per esempio la traduzione); altre sono, o dovrebbero essere, più
ovvie ed evitabili, in primis quella che i giuscomparatisti chiamano
“dissociazione dei formanti”: per dirla semplicemente, i “formanti” sono le componenti
di ogni “sistema giuridico” (intendendosi con questa espressione “l’insieme delle regole applicabili a una
determinata comunità, che sovente, ma non necessariamente, corrisponde a uno
Stato”: U. Mattei, P.G. Monateri, Introduzione breve al diritto
comparato, Padova, CEDAM, 1997, pag. 13); i principali in ogni sistema
moderno sono la legge, la giurisprudenza e la dottrina.
La dissociazione di cui
parlavo è, nella sua forma più banale, la constatazione che “possono esistere grossi divari tra le regole
operative e quelle insegnate e ripetute” (R. Sacco, Introduzione al
diritto comparato, Torino, UTET, 1992, pag. 57), ovvero, per esempio, una
regola può essere formulata dalla legge e disattesa dalla pratica.
Con ciò non
sto ovviamente sostenendo che una comparazione giuridica svolta correttamente
sarebbe sufficiente a fornire agli indici quella potenza esplicativa che viene
loro riconosciuta: come si vedrà sotto, fattori diversi dal diritto dovrebbero
essere presi in considerazione per valutare l’impatto effettivo delle riforme.
Certo però se già a livello giuridico si mutilano dati rilevanti sarà difficile
evitare uno sguardo un po’ sospettoso.
Chiariamo il punto: “nella maggior parte dei casi”, scrive
Zenezini (pag. 13) gli indicatori della “qualità istituzionale” “restituiscono
per lo più la dimensione legale (obbligatoria) della regolamentazione”.
Se a ciò aggiungiamo che dal quadro legale esaminato restano ovviamente fuori
gli eventuali principi-fini contenuti nell’eventuale Costituzione, si rivela chiaramente
tutta l’ideologicità di un’operazione che sarà debole sul piano euristico in
quanto opaca su quello politico, cioè fintamente tecnica/neutrale.
Un esempio
chiarissimo di questa strategia si rivela nell’analisi dei costi: Venn, che nel paper linkato difende a spada
tratta la bontà degli indici Ocse relativi alla protezione del lavoro - tra
l’altro proprio in ragione dei nuovi apporti tratti dalla prassi, in
particolare la contrattazione collettiva (ne riparlo sotto) che vi sono stati
immessi - ammette tuttavia (pag. 37) che “al
momento è molto difficile misurare i costi di attuazione (enforcing) delle
regole del mercato del lavoro su una base internazionale confrontabile”;
l’autore individua però subito la possibile soluzione: “Procedure semplificate, insieme con misure che incoraggino le parti a
risolvere le controversie rapidamente, mantengono i costi al minimo”.
Resta
lecito domandarsi che cosa resterebbe dell’effettività delle regole in
discussione una volta che il costoso (forse: perché in realtà non si sa) art. 24 della Costituzione sia stato
finalmente disattivato (non “lasciando ai giudici” le decisioni in materia di
licenziamento, come ha detto Renzi) e se questa
cancellazione non costituisca una posta che meriterebbe una qualche
considerazione.
Grave è anche l’esclusione dal computo dei costi sia delle
“norme private”, che le imprese adotterebbero in contesti non regolamentati,
sia “della non regolamentazione”.
Per esempio, “non è noto al grande pubblico che i costi amministrativi di questi
sistemi [quelli di previdenza
pubblica] ammontano a meno del 2% dei contributi versati, rispetto al 30-40% [sì, avete letto bene] delle compagnie di assicurazione private”
(N. Acocella, Economic Policy in the Age of Globalization, Cambridge,
Cambridge University Press, 2005, pagg. 150-151). Costi amministrativi
similmente elevati si possono riscontrare nella sanità privata (vedi per
esempio qui e qui).
Simili omissioni rendono in effetti il
gioco un po’ scoperto: “In base alla
logica che ispira le compagnie europee per la semplificazione amministrativa
per cui solo i costi della gestione
pubblica determinano oneri burocratici, gli oneri amministrativi della sanità
privata verrebbero contati come redditi (e profitti delle società di
assicurazione).” (Zenezini, op. cit., pag. 14).
In materia di rapporti
di lavoro, impliciti e selettivi giudizi di valore emergono chiaramente in
alcuni recenti paper del FMI, di cui si è molto parlato perché gli autori
sarebbero finalmente riusciti a localizzare l’introvabile fenice, cioè la
dimostrazione di una correlazione positiva fra tasso di flessibilità e minore
disoccupazione.
Riporta Marya Aleksyanska - in un pregevole lavoro (pag. 10) in cui sottopone a scrutinio le
fonti e i metodi di questi lavori (una sintesi in italiano qui) - che gli autori interpretano “valori più alti nell’indice Fraser di
regolazione dei mercati del lavoro come segno di “superiore qualità” delle
regolazioni esaminate: “Più elevata la
qualità del mercato del lavoro esistente, minore la probabilità che un paese
debba realizzare tali riforme [verso una maggiore flessibilità].
Presumibilmente, un’economia con mercati del lavoro già flessibili non avrebbe
bisogno di implementare ulteriori riforme ed è quindi meno probabile che lo
faccia”, secondo Bernal-Verdugo, Furceri e Guillaume.
Anche in questo caso, sono alcuni, ben selezionati costi a restare fuori dal quadro.
Anche in questo caso, sono alcuni, ben selezionati costi a restare fuori dal quadro.
Come osserva l’autrice (pag. 10), citando soprattutto lavori
elaborati nell’ambito dell’ILO (ai quali ometterò i riferimenti):
“equiparando la maggiore “flessibilità” delle istituzioni a una “superiore qualità” tale approccio presume che paesi con regolazioni del mercato del lavoro inesistente raggiungano la qualità maggiore.
Invece di focalizzarsi su una contrapposizione “rigidità” – “flessibilità”, la valutazione della qualità dovrebbe concentrarsi su aspetti come l’adeguatezza delle regolazioni del lavoro, la loro conformità ai principi dei diritti civili e agli standard minimi internazionali, la loro effettività, anche potenziale, l’estensione della copertura e consapevolezza fra i lavoratori o la loro rilevanza in presenza di ampie economie informali.
Tutti questi dati sarebbero particolarmente rilevanti per i paesi in via di sviluppo. Purtroppo, tali concetti sembrano assenti sia dall’indice Fraser del 2010 sia dalle analisi dei paper del FMI”.
E non è certo un caso.
Come osserva giustamente l’autrice “questo punto di vista dà per scontato che lo “stato iniziale” sia caratterizzato da istituzioni eccessivamente protettive che devono essere ridimensionate.
In realtà, istituzioni e regole emergono e si sviluppano progressivamente, da zero ai sistemi sofisticati che esistono oggi e non il contrario”.
“equiparando la maggiore “flessibilità” delle istituzioni a una “superiore qualità” tale approccio presume che paesi con regolazioni del mercato del lavoro inesistente raggiungano la qualità maggiore.
Invece di focalizzarsi su una contrapposizione “rigidità” – “flessibilità”, la valutazione della qualità dovrebbe concentrarsi su aspetti come l’adeguatezza delle regolazioni del lavoro, la loro conformità ai principi dei diritti civili e agli standard minimi internazionali, la loro effettività, anche potenziale, l’estensione della copertura e consapevolezza fra i lavoratori o la loro rilevanza in presenza di ampie economie informali.
Tutti questi dati sarebbero particolarmente rilevanti per i paesi in via di sviluppo. Purtroppo, tali concetti sembrano assenti sia dall’indice Fraser del 2010 sia dalle analisi dei paper del FMI”.
E non è certo un caso.
Come osserva giustamente l’autrice “questo punto di vista dà per scontato che lo “stato iniziale” sia caratterizzato da istituzioni eccessivamente protettive che devono essere ridimensionate.
In realtà, istituzioni e regole emergono e si sviluppano progressivamente, da zero ai sistemi sofisticati che esistono oggi e non il contrario”.
Qui si
ripropone la visione liberista che vuole le regolamentazioni che inceppano il
“mercato autoregolato”, per usare un’espressione di Polanyi, frutto di una “collectivistic conspiracy”: l’“attacco
alla democrazia politica, il
principale accusato di essere il motore dell’interventismo” (K. Polanyi, The Great
Trasformation, Boston, Beacon Press, 2001 (1944), pag. 151) ne
consegue logicamente.
La risposta di Polanyi (Ivi) è esattamente la stessa che
la Aleksyanska è costretta a ripetere oggi, ossia che “la testimonianza dei fatti contraddice la tesi liberista. Il complotto
anti-liberista è una pura invenzione. La grande varietà di forme in cui si
manifesta la risposta “collettivista” non è stata il frutto di una qualche
preferenza per il nazionalismo o il socialismo da parte dei poteri forti, ma
dell’ampia gamma di interessi sociali
vitali colpiti dall’espansione del meccanismo del mercato”.
L’implicito
benchmark dei modelli neoclassici sottesi agli indici è insomma rappresentato,
sul piano storico-giuridico, dal periodo d’oro della codificazione borghese, col suo programma di generalizzazione a
tutti della capacità giuridica che se affrancava l’ormai astratto soggetto di
diritto da antiche dipendenze lo obbligava “a
partecipare al gioco selvaggio della concorrenza. A quel macabro gioco che,
conclusa la rivoluzione industriale ed istituzionalizzato il mercato, era
diventato il gioco sociale tout court.
Il conferimento della capacità giuridica non permetteva ormai più al giocatore inesperto, maldestro o anche solo a corto di fiato di stare a guardare e sottrarsi così alla pressione del giocatore più forte, più furbo, più navigato. Lo costringe a presentarsi all’inizio del gioco quale soggetto più debole, comodamente sfruttabile e perciò prevedibile vittima di un’incombente aggressione”.
Il conferimento della capacità giuridica non permetteva ormai più al giocatore inesperto, maldestro o anche solo a corto di fiato di stare a guardare e sottrarsi così alla pressione del giocatore più forte, più furbo, più navigato. Lo costringe a presentarsi all’inizio del gioco quale soggetto più debole, comodamente sfruttabile e perciò prevedibile vittima di un’incombente aggressione”.
Ossia, “l’astrazione sposta talune
situazioni finora inserite nell’area giusprivatistica all’esterno di questa,
per permettere una loro maggiore aderenza al nuovo sistema economico”. (P. Caroni, Saggi sulla storia della
codificazione, Milano, Giuffrè, 1998, pag. 34).
Fu infatti proprio col Code Napoleon del 1804 (art. 1710) che
i compilatori, con quello che era nient’altro che un “puro ossequio nominalistico” alla tradizione romanistica
conservarono la denominazione di “locazione
di opere” per un articolo – disciplinante una figura contrattuale in base a
cui “una delle parti si obbliga a fare
qualcosa per l’altra, mediante una mercede fra esse convenuta” - che
mostrava di avere “ben presente una
realtà sociale ed economica nella quale il lavoro dell’uomo è considerato un capitale produttivo, un bene di scambio
fra soggetti ugualmente liberi dai vincoli e dalle gerarchie personali che
erano invece ineludibili sia nel “sistema feudale del servaggio che (nel)
sistema delle corporazioni di arti e mestieri”” (L. Castelvetri, Le
origini dottrinali del diritto del lavoro, Rivista Trimestrale di diritto
civile, 1987, p. 249).
E’ anche importante chiarire quale fosse il rapporto
fra Costituzione e codice che correva all’epoca:
“Per molto tempo la storia costituzionale del secolo scorso [ora due
secoli fa] è stata letteralmente scandita
da una nuova società, che, liberatasi progressivamente dalla tutela statale,
iniziò ora ad autoregolarsi,
confidando ciecamente nelle virtù taumaturgiche della mano invisibile. Dominava questa società: le sue scelte e le sue
strategie, soprattutto quelle economiche, anticipavano e condizionavano tutte
le altre, quelle politiche comprese. Se erano di natura giuridica preludevano a
quel diritto, che sanzionava l’autonomia privata e dall’esterno la garantiva:
ma questo era il diritto privato del codice civile. Anche se promulgato dopo la
costituzione e sostanzialmente consono ai principi della carta fondamentale,
oggettivamente era più importante di essa: la
costituzione era accessoria al diritto privato, lo predisponeva, quasi ne fosse
la funzione”. (P. Caroni, op. cit., pag. 49).
Sarà poi al proprio
interno stesso che la nuova società troverà gli anticorpi in grado di ridurre
gli effetti distruttivi dell’imposizione del mercato autoregolato, attraverso
un “processo di protagonismo civile,
politico e sociale delle classi lavoratrici. Preludio di quella
costituzionalizzazione in senso soggettivo del lavoro e di quella costituzionalizzazione dei diritti sociali
che si dispiegheranno pienamente nel corso del ventesimo secolo” (A.
Cantaro, Il secolo lungo, Roma, Ediesse, 2006, pag. 50) e che segneranno un
rovesciamento del rapporto fra Costituzione e codice sulla base di un programma
già embrionalmente contenuto nella Costituzione del 1793.
Ciao Arturo complimenti sinceri per la tua esposizione esaustiva.
RispondiEliminaAttendo aggiornamento "immagini" della tua :-)
EliminaGrazie Arturo ( e a Orizzonte48, fulcro di talentuose "riscoperte" ) per il lavoro di sintesi: ricco di riferimenti e spunti alcuni dei quali rincorrevo da tempo. Mercì
RispondiEliminaCarissimo Arturo, ammetto che tra i vari spunti di riflessione, ce ne è uno che schiaccia, per peso emotivo, la finezza della tua analisi.
RispondiEliminaLa "discrezionalità della scelta degli indici" porta alla ideologizzazione della politica economica e ad un definito modello di società con particolari rapporti di classe.
Se, al franare delle stessa fiducia nella percezione delle scienze sociali, può corrispondere il tema della paura e della solitudine - sentimenti principi del senso abbandonico causato dalla percepita assenza della vigilanza pubblica e quindi dello Stato, delle stesse Istituzioni e del sistema di relazioni che rappresentano - i mostruosi dati quantitativi sulla gestione pubblica della previdenza rispetto a quella privata, mi fanno veramente incazzare.
La liberalizzazione e la privatizzazione di una tale parte del PIL si traduce irrimediabilmente in una gigantesca polarizzazione della ricchezza: una gigantesca espropriazione dal basso verso l'alto e dall'interno verso l'estero per cui non so quali altri precedenti storici si conoscano, data la dimensione economica del nostro stato sociale.
L'impatto è ancora più drammatico se si considera che l'Italia ha uno status di colonia de facto: i drammatici risvolti sociali in UK ed USA, ad esempio, saranno bazzecole... oltre a invertire la redistribuzione del reddito in senso anti-costituzionale, questi immensi profitti saranno in gran parte goduti all'estero, al centro dell'Impero.