Post di Arturo
1.
Mi rendo conto che ci sono questioni più drammatiche sul tappeto.
Tuttavia
anche la cultura, magari per una volta non ridotta a svago per turisti, non è
indegna di una considerazione attenta per forze politiche e civili che ritengono
la democrazia costituzionale abbia ancora le sue buone ragioni.
2.
Non solo infatti la cultura costituisce un bene costituzionalmente protetto
(art. 33), ma rappresenta anche un fondamentale contesto di analisi e interpretazione
della Costituzione, secondo plausibili argomentazioni avanzate da un autorevole
filone della giuspubblicista, prima di tutto tedesca, legata all’ermeneutica,
ossia la c.d. “scienza della cultura”.
Il punto
fondamentale, in fondo abbastanza banale, è questo: “La cultura costituzionale esige piuttosto un minimo di continuità e di
chances di oggettivazione, è l’esito del
lavoro costituente di più generazioni. Quanto alla sostanza, il concetto
(ancora da chiarire) della “cultura politica” ha un più marcato riferimento al
processo politico, intendendo le basi culturali del comportamento democratico. La cultura costituzionale è più ampia e
include tutte le basi culturali di una comunità costituita che sono rilevanti
per la sua costituzione, anche in quelle parti che non si riferiscono ai
meccanismi di investitura, esercizio e controllo del potere politico.” (P.
Häberle, Per una dottrina della costituzione come scienza della cultura,
Carocci, Roma, 2001, pag. 39).
Ossia
le costituzioni democratiche non spuntano come funghi nel bosco, ma sono il
frutto di un impegno autoriflessivo, talvolta assai conflittuale, che si
estende su un arco di tempo comprendente più generazioni di una comunità, che è
a sua volta calata in una civiltà con alcuni secoli di storia, anche giuridica,
alle spalle. Questa profondità storica fornisce i materiali per una altrettanto
profonda autoriflessione collettiva, purché ovviamente essi vengano conservati
e criticamente studiati.
2.1.
Di nuovo, e non casualmente, il riferimento agli antichi può fornirci qualche
spunto utile:
“La creazione di un tempo pubblico non è meno importante d’una simile
creazione di uno spazio pubblico. Per tempo pubblico non intendo l'istituzione
d’un calendario, d'un tempo “sociale”, d'un sistema di riferimenti temporali
sociali - cosa che, naturalmente, esiste dovunque - ma l’emergere di una
dimensione in cui la collettività possa esplorare il suo passato in quanto
risultato delle proprie azioni, e in cui si apra un avvenire indeterminato come
campo delle sue attività. Questo e davvero il senso della creazione della
storiografia in Grecia. E sorprendente che, rigorosamente parlando, la
storiografia non sia esistita che in due soli momenti della storia dell'umanità:
in Grecia antica e nell’Europa moderna, cioè nelle due società dove si e
sviluppato un movimento di messa in discussione delle istituzioni esistenti. Le
altre società non conoscono che il regno incontrastato della tradizione e/o la
semplice “consegna per iscritto degli avvenimenti” effettuata dai sacerdoti o
dai cronisti dei re. Erodoto, al contrario, dichiara che le tradizioni dei
greci non sono degne di fede. Il gesto dello scrollarsi di dosso la tradizione
e la ricerca critica delle “vere cause” vanno naturalmente di pari passo. E
questa conoscenza del passato e aperta a tutti: Erodoto, si narra, leggeva le
sue Storie ai greci riuniti in
occasione dei Giochi olimpici (se non e vero è ben trovato). E la “Orazione
funebre” di Pericle contiene una carrellata sulla storia degli ateniesi dal
punto di vista dello spirito delle generazioni successive - sintesi che arriva fino al tempo presente e
che indica con chiarezza nuovi compiti per l’avvenire.” (C.
Castoriadis, L’enigma del soggetto, Edizioni Dedalo, Bari, 1998, pag. 214).
Si
tratta a ben vedere di un aspetto particolare di quel concetto generale,
apparentemente un po’ oscuro, che l’idealismo tedesco e Marx definivano Gattungswesen, ossia “vita di specie”, e che Rawls
(Lezioni di storia della filosofia politica, Feltrinelli, Milano, 2009, s.p.) mi
pare sia riuscito spiegare con apprezzabile chiarezza: “gli esseri umani
sono un genere - o specie - naturale particolare nel senso che essi producono e
riproducono collettivamente le condizioni della loro vita sociale nel corso del
tempo. Ma, allo stesso tempo, le loro forme sociali si evolvono storicamente
secondo una certa sequenza fino a che alla fine si sviluppa una forma sociale
che è più o meno adeguata alla loro natura di esseri attivi e razionali, i
quali, per così dire, creano, operando assieme alle forze della natura, le
condizioni della loro completa auto-realizzazione sociale. L’attività
attraverso la quale si realizza questa espressione è un’attività di specie: cioè,
è l’opera cooperativa di molte generazioni ed è portata a termine solo dopo un
lungo periodo di tempo. In breve: è il lavoro della specie nel corso della
sua storia.”
3.
Se la privazione della storia costituisce quindi una forma di alienazione, la notizia di una sua diminutio
nelle tracce della prima prova scritta dell’esame di maturità (comunque
recuperabile nelle tracce della tipologia B, il saggio argomentativo) non può
che dispiacere, ma l’enfasi di cui è stata fatta oggetto rischia di minimizzare
la gravità di una situazione di emarginazione che è l’effetto di scelte
pluridecennali.
I
dati relativi alla presenza di storici nell’Università lasciano spazio a pochi
dubbi: “Tra docenti e ricercatori, negli
ultimi due decenni c’è stato un tracollo di insegnamenti storici. I medievisti
sono oggi 156: erano 240 nel 2001. I modernisti scendono da 368 a 225, mentre
nello stesso periodo la storia contemporanea ha perso 89 professori (da 462 a
373). «Ci siamo ridotti a una riserva indiana», sintetizza Emilio Gentile, uno
dei grandi maestri di storia ora in pensione.” Manca il dato degli
antichisti, ma ho il sospetto che sia se possibile ancora più allarmante.
Non
so se negli ultimi anni abbiate avuto occasione di parlare con ragazzi delle
superiori. Nel caso, avrete forse avuto occasione di verificarne la spaventosa
ignoranza della storia, nazionale e non: il passato viene percepito come una
sfocata e inintelligibile melassa in cui vagano Costantino, Napoleone e
Mussolini, in disordine sparso.
Non
è un caso che il tema storico sia stato negli anni il meno scelto dagli studenti: “solo lo 0,6% ha affrontato il tema sulle foibe
nel 2010; il 4,7% si è cimentato su Hannah Arendt e
lo sterminio degli ebrei nel 2012; l’1,3% dei candidati nel 2013 ha
scelto il tema sui Brics e il 3,8% nel
2014 ha affrontato la comparazione tra l’Europa del 1914 e quella del 2014.” (sulla predominanza della
memoria, piuttosto che sulla vera e propria storia, nei titoli, dovremo tornare).
Difficile
pensare che fenomeni del genere non si inquadrino in un disegno più ampio.
Indizi
vanno come sempre cercati prima di tutto nell’avamposto del neoliberismo, ossia
gli Stati Uniti.
4.
Questo articolo di Patrick Deneen, docente
di political theory presso la prestigiosa University of Notre Dame, mi pare
offra spunti di riflessione preziosi. L’autore è un conservatore, ma questo non
toglie nulla alla pertinenza della sua analisi, anzi: la provenienza sociale e
ideologica conferiscono una particolare credibilità alla critica di un
economicismo senza politica perché senza storia.
Ve
ne traduco alcuni brani: “I miei studenti
sono degli ignoranti. Sono assai simpatici, piacevoli, affidabili, per lo più
onesti, benintenzionati e senz’altro per bene. Ma i loro cervelli sono in gran
parte vuoti, privi di qualsiasi conoscenza sostanziale che possa considerarsi
il frutto di un’eredità o di un dono delle generazioni precedenti. Sono il
culmine della civiltà occidentale, una civiltà che ha dimenticato le sue
origini e i suoi obiettivi e, di conseguenza, ha raggiunto un’indifferenza
quasi totale riguardo a se stessa.
E’ difficile essere
ammessi nelle scuole dove ho insegnato, Princeton, Georgetown e ora Notre Dame.
Gli studenti di queste istituzioni fanno ciò che è loro richiesto: sono
eccellenti risolutori di test, sanno perfettamente cosa bisogna fare per
ottenere una A in ogni corso (ossia raramente si appassionato e si applicano a
una qualsiasi materia), costruiscono curricula perfetti. Sono rispettosi e
cordiali con gli adulti, accomodanti, anche se rozzi (come rivelano frammenti
di conversazioni), con i loro pari. Rispettano la diversità (senza avere la
minima idea di cosa sia) e sono esperti nell’arte del non giudicare (almeno in
pubblico). Sono la crema della loro generazione, i signori dell’universo, una
generazione che aspetta di dirigere l’America e il mondo.
Provate però a far loro
qualche domanda sulla civiltà che erediteranno e preparatevi a sguardi
sfuggenti e preoccupati. Chi ha combattuto le guerre persiane? Qual era la
posta in gioco nella battaglia di Salamina? Chi fu il maestro di Platone e chi
i suoi allievi? Come è morto Socrate? Alzi la mano chi ha letto sia l’Iliade
che l’Odissea. I racconti di Canterbury? Paradiso perduto? L’Inferno?
Chi era Paolo di Tarso?
Cos’erano le 95 tesi, chi le aveva scritte e quale ne fu l’effetto? Qual è
l’importanza della Magna Carta? Dove e come morì Thomas Becket? Cosa accadde a
Carlo I? Chi era Guy Fawkes e perché esiste un giorno a lui dedicato? Cosa
accadde a Yorktown nel 1781? Cosa disse Lincoln nel suo secondo discorso di
insediamento? Nel primo? Chi sa menzionarmi uno o due argomenti avanzati nel n.
10 del Federalista? Chi l’ha letto? Che cos’è il Federalista?
E’ possibile che alcuni
studenti, grazie a casuali scelte dei corsi o a qualche eccentrico insegnante
all’antica, conosca la risposta ad alcune di queste domande; ma molti studenti
no, e nemmeno a domande simili, perché non sono stati formati per conoscerle.
Nella migliore delle ipotesi possiedono conoscenze casuali, ma altrimenti sguazzano
nell’ignoranza sistematica. Non vanno incolpati per la loro profonda ignoranza
di storia, politica, arte e letteratura americana e occidentale: è il marchio
distintivo della loro formazione. Hanno imparato esattamente ciò che è stato
richiesto loro: essere come efemere, vivi per caso in un presente fugace.
L’ignoranza
dei nostri studenti non è un difetto del nostro sistema educativo: è il suo
coronamento.
Gli sforzi di diverse generazioni di filosofi e riformatori ed esperti di
politiche pubbliche di cui i nostri studenti (e molti di noi) non sanno nulla
si sono combinati per produrre una generazione di ignoranti. La pervasiva
ignoranza dei nostri studenti non è un semplice accidente o un risultato
sfortunato ma correggibile, solo che assumessimo migliori insegnanti o
variassimo la lista di letture al liceo.
Abbiamo preso la brutta e
acritica abitudine di ritenere che il nostro sistema educativo sia guasto, ma in
realtà marcia a tutto vapore: ciò che intende produrre è amnesia culturale, una totale mancanza di curiosità, agenti
indipendenti privi di storia e obiettivi educativi organizzati come processi
senza contenuto, con un uso acritico di parole chiave come “pensiero critico”,
“diversità”, “modi di conoscere”, “giustizia sociale” e “competenza culturale”.
I nostri studenti costituiscono il risultato di un impegno sistematico a
produrre individui senza un passato, per cui il futuro è terra straniera,
numeri senza cultura in grado di vivere ovunque e svolgere qualsiasi tipo di
lavoro, senza farsi domandi sui suoi scopi o fini, strumenti perfetti per un sistema economico che esalta la
“flessibilità” (geografica, interpersonale, etica). In un mondo del genere,
possedere una cultura, una storia, un'eredità, un impegno verso un luogo e
persone particolari, forme specifiche di gratitudine e di riconoscenza
(piuttosto che un impegno generalizzato e senza radici verso la "giustizia
sociale"), un forte insieme di principi etici e norme morali che affermano
limiti definiti a ciò che si dovrebbe o si dovrebbe non fare (a parte “non
giudicare”) sono ostacoli e handicap. Indipendentemente dall’indirizzo o corso
di studi, il principale obiettivo della moderna educazione è di piallar via
ogni residuo di specificità e identità culturale o storica che potrebbe ancora
restare attaccata ai nostri studenti, per renderli perfetti impiegati per una
politica ed economia moderne che penalizzano impegni profondi. Gli sforzi volti
in primo luogo a promuovere l’apprezzamento per il “multiculturalismo” sono
sintomo di un impegno a svuotare qualsiasi particolare identità culturale,
mentre l’attuale moda della “differenza” segnala un impegno totale alla
deculturazione e omogeneizzazione.
[…]
Con la percezione che un sistema economico globalizzato
richiedeva lavoratori sradicati che potessero vivere ovunque e svolgere
qualsiasi compito senza porsi domande sui relativi obiettivi ed effetti,
il compito principale dell’istruzione divenne instillare certe disposizioni,
piuttosto che una cultura ben fondata: flessibilità, tolleranza, “competenze”
prive di contenuto, astratte “forme di apprendimento”, elogio per la “giustizia
sociale”, anche nel contesto di un’economia in cui “il vincitore si prende
tutto” [winner-take-all economy], e un feticismo per la differenza che lasciava senza risposta il
perché tutti ricevessero la stessa educazione in istituzioni indistinguibili.
All’inizio questo ha significato lo svuotamento delle peculiarità locali,
regionali e religiose in nome dell’identità nazionale; ora quella delle
specificità nazionali in nome di un
cosmopolitismo globalizzato che richiede il deliberato oblio di ogni trattato
culturalmente caratterizzante. L’incapacità di rispondere a domande banali
sull’America o l’Occidente non è la conseguenza di una cattiva educazione, ma
il segno di un successo educativo.
Soprattutto l’unica
lezione che gli studenti ricevono è quella di considerare se stessi individui
radicalmente autonomi in un sistema globale fondato su un comune impegno alla
reciproca indifferenza. E’ questo impegno che ci lega come popolo globale. Ogni
residuo di cultura comune interferirebbe con questo imperativo primario: una cultura
comune implicherebbe che condividiamo qualcosa di più denso, un’eredità che non
abbiamo creato e un insieme di impegni che implicano limiti e lealtà
particolari. La prassi e la filosofia antiche hanno elogiato la “res publica”,
una devozione verso gli affari pubblici, ciò che condividiamo; noi abbiamo
invece creato la prima “res idiotica”
mondiale, dal termine greco “idiotés”, ossia individuo.”
Si
conferma così l’osservazione di Castoriadis: la cancellazione della storia è
del tutto funzionale alla obliterazione della politica, alla possibilità di
pensare il futuro in una dimensione collettiva che trascenda l’appiattimento
sull’eterno presente di un insensato “andare avanti”, per riprendere la
citazione di Joan Robinson riportata in questo post.
5.
In Europa poi la “storiofobia” acquista una curvatura particolare, per certi
versi ancora più assurda, individuata, fra gli altri, da Pierre Manent (La
raison des nations, Gallimard, Parigi, 2006, pag. 47) in questi termini: “Siamo separati dalla nostra storia politica
dal sipario di fuoco degli anni 1914-1945. Prima: una storia colpevole, perché
culmina nel fango di Les Éparges e sulla rampa di Auschwitz. Dopo: eccoci
risorti, senza battesimo né conversione, nella veste bianca di una democrazia
infine pura, ossia non nazionale, il cui unico programma politico è mantenere
la sua innocenza. Dobbiamo ristabilire la consapevolezza della continuità della
storia europea, invece di supporre che siamo usciti cinquant’anni fa - diciamo:
al momento della formazione delle prime istituzioni europee - da lunghi secoli
di paganesimo nazionale”.
Ennesimo
esempio di questa interessata rimozione, il recente e surreale “appello per l’Europa” di sindacati
confederali e Confindustria, tutti insieme appassionatamente contro “quelli che intendono mettere in discussione
il progetto europeo per tornare all’isolamento degli Stati nazionali,
richiamando in vita gli inquietanti fantasmi del novecento.”
A
parte la sciocchezza dell’isolamento, è straordinaria l’idea di un’Unione
Europea monda di ogni e qualsiasi continuità con la storia del Novecento (per
non parlare dei secoli precedenti): è quel luogo comune di cui parla Manent,
che anche qui avevamo individuato e definito “mito della purezza delle origini”.
6.
L’argomento ci consente tra l’altro di riallacciarci alla questione, cui avevo
accennato sopra, della tanto insistita quanto culturalmente superficiale
“memoria”, in particolare, appunto, delle tragedie novecentesche. Che non
costituisce una smentita alla tesi di Deneen, proprio il contrario.
6.1.
Tralasciando la specifica funzione “purificatrice” che svolge in Europa,
elementi che aiutano a chiarire la natura del fenomeno li possiamo ancora una
volta trovare negli Stati Uniti.
In
un breve ma denso saggio, che mi permetto di consigliare agli insegnanti -
L’eredità di Auschwitz, Einaudi, Torino, 2014 - Georges Bensoussan, responsabile
editoriale del Memoriale della Shoah di Parigi (uno che di memoria dovrebbe
intendersene, direi…), scrive: “Abbandonando
l’ambito storico in senso stretto, la shoah si vede cosí investita di «verità eterne» che offrono
l’occasione di un insegnamento civico sotto tutti i punti di vista.
Strumentalizzata, questa memoria collettiva stempera il genocidio in una
lezione sulla tolleranza a cui potrebbero ugualmente prestarsi altri
avvenimenti storici. Ma questa diluizione della tragedia cela i percorsi che
hanno condotto al crimine di massa. Se la visita al Memoriale di Washington
indubbiamente commuove i visitatori, si ha la sensazione che il breviario di
tolleranza di ciascuno e le sue convinzioni ne escano rafforzati.
La shoah è dunque diventata una
sorta di bussola morale. L’avvenimento si è trasformato in un simbolo del «male
eterno» e della «cattiva natura» dell’uomo. Oggetto di un consenso che non
impegna a niente (amare il bene e detestare il male), questo insegnamento
diventa un surrogato ideologico in una società priva di un progetto collettivo.
In un’atmosfera di pentimento, la shoah invita
ciascuno a fare un «esame di coscienza» chiedendosi come avrebbe agito nel
1942. Questo moralismo sfocia in una nuova liturgia che lascia da parte
l’analisi politica sull’humus intellettuale del massacro. Gli Stati Uniti sono così diventati il luogo per eccellenza di una
memoria vana.”
Le
conclusioni di Bensoussan sono perentorie e più che condivisibili: “abbiamo
bisogno di un pensiero critico, non di un dovere di memoria”.
Il
pensiero critico ci metterebbe però davanti prospettive un po’ più scomode del
“catechismo per benpensanti” a cui è ridotto
l’odierno antifascismo: “Bettelheim scriveva
in Sopravvivere (Feltrinelli, Milano 1988): «Il fascino della competenza tecnica ha soffocato il senso umano», e
più avanti, nella stessa opera, notava che «questo genere di orgoglio
professionale che rendeva quegli uomini così pericolosi è sempre d’attualità: è
caratteristico delle società moderne».”
Esempi
di questa disumanità tecnocratica penso ne vengano in menti fin troppi.
Più
in profondità il sistema dei campi ha reso evidente una breccia della nostra
modernità, ossia la sempre attuale possibilità che una porzione dell’umanità diventi “di troppo”:
“Questo progetto nichilista non è scomparso nel 1945. Si è trasformato. Il
nostro presente resta infestato da questo veleno, l’uomo continua a essere di
troppo, come dimostra ogni giorno l’ordine economico che dovrebbe garantire la
nostra sopravvivenza.”
Chiaro
che riflessioni siffatte riuscirebbero solo di inciampo a una greve vulgata
mediatica che decontestualizza e banalizza il passato per strumentalizzazioni
che si risolvono poi sempre, sia pure con una certa gamma di variazioni sul
tema, nell’eterna accusa del pensiero antidemocratico, quella di pericolosa irrazionalità
delle masse (pure qui un riferimento all’antichità, come quello contenuto nella citazione di Canfora che avevo
riportato, non guasta).
6.2.
A guardar bene la “memoria” svolge pure un’altra funzione, anch’essa tutt’altro
che benefica. Per individuarla occorre prima introdurre le riflessioni condotte
da Andrea Zohk in un notevole articolo, di cui vi
consiglio lettura integrale, su un particolare risvolto patologico del
liberalismo: “L’aver stigmatizzato la
dimensione positivo-propositiva del valore e l’aver conferito legittimità
residua solo al ‘non subire danno’ ha fatto del discorso etico contemporaneo il
regno del ‘vittimismo’. L’unico argomento che il discorso etico liberale considera
generalmente vincente e legittimo è infatti quello in cui a qualcuno viene
attribuito il ruolo di vittima di qualcosa: della sfortuna, delle circostanze,
della natura, della società, delle iniziative altrui quali che siano. Le
battaglie retoriche su chi ha diritto a cosa vengono combattute tendenzialmente
a colpi di vittimismo, dove il punto
fondamentale consiste nello stabilire chi ha sofferto di più, chi è stato più
vittima.”
“Naturalmente, siccome
ogni essere umano ha in sé una pluralità di aspetti, ogni individuo o gruppo
reale nel momento in cui appare come vittima dissimula altri aspetti sotto cui
è anche portatore di istanze propositive, desideri positivi, brame e progetti.
Perciò si può sempre giocare anche contro questo gruppo di vittime prima facie
la carta del vittimismo, facendoli apparire a loro volta come ‘carnefici’ di
altri.
In questa battaglia di
vittimismi l’unico esito certo è la proliferazione di una cultura della
menzogna opportunistica, della passività aggressiva, della ricerca di scuse, e
di contro il deperimento della sfera etica con la sua sempre maggiore
incapacità di muovere, animare, vivere e far vivere.”
Mi
pare piuttosto evidente che il moltiplicarsi compulsivo di “giornate del
ricordo”, lungi dall’alimentare una riflessione critica sul passato, non fa
altro che fornire ulteriore materiale a questa frammentazione vittimista di un
possibile discorso pubblico. In effetti se ne sono accorti anche gli storici: Giovanni
De Luna nel suo La Repubblica del dolore, Feltrinelli, Milano, 2010, scrive ad
esempio: “si delinea un effettivo
incoraggiamento alla costruzione di altrettanti recinti chiusi sulle proprie
rivendicazioni, necessariamente in concorrenza gli uni con gli altri,
sovradeterminati da una particolare esperienza dolorosa personale, così che
tutto quello che scaturisce dalla centralità delle vittime, sembra comunque
voler trasformare lo Stato in una "federazione" di interessi
particolari.”
7.
Sono solo accenni di un discorso che meriterebbe ben altra articolazione, ma
che bastano a conferire una certa consistenza alla tesi fondamentale relativa
al rapporto tra storia, politica e Costituzione avanzata dalla “scienza della
cultura”: l’impossibilità di una scissione del legame fra demos e ethnos. Il
popolo che attraverso la Costituzione si costituisce volontariamente come
insieme di cittadini è una “cristallizzazione culturale”, per usare
un’espressione di Kolakowski, che emerge da una realtà storica che lo precede e
lo rende possibile. Si tratta certo di una razionalizzazione e di una creazione
volontaria, ma senza profondità storica non ci sarebbe niente da razionalizzare
e nessuna base su cui creare: per dirla con Castoriadis, la Costituzione non è
necessaria, ossia è voluta, ma non è di certo nemmeno accidentale.
In
fondo, come dicevo all’inizio, si tratta di una banalità, tanto che a volte
viene ammessa perfino da Habermas, per esempio quando parla di “una
doppia codificazione della
cittadinanza. Essa è per un verso lo statuto definito dei diritti del
cittadino e, per l’altro, l’appartenenza alla cultura di un popolo.” (Lo
Stato-nazione europeo. Passato e futuro della sovranità e della cittadinanza,
in Id., L’inclusione dell’altro. Studi
di teoria politica, Feltrinelli, Milano, 2002, pag. 127).
L’
antidemocraticità del rifiuto di ogni legame - naturalmente anche polemico, come
abbiamo visto - col passato, emerge chiaramente nella stravaganza delle teorie
sulla presunta capacità democratica costituente di un fantomatico popolo che ne
sia privo: mi riferisco ovviamente al moltitudinarismo negriano, delle cui
assurdità, per mia fortuna, s’è già occupato a sufficienza Paolo di Remigio, e che per quanto
mi riguarda, riprendendo la similitudine del punto 2, chiamerei “micologia
costituzionale”.
8.
In conclusione, mi auguro sia chiara per tutti l’importanza della storia:
perché è indispensabile per articolare criticamente e consapevolmente un “noi”,
perché l’universale dell’umanità esiste nel particolare dei popoli, perché, e
permettetemi di ricorrere a Jung (Psicologia analitica e concezione del mondo,
in C. G. Jung, Opere, a cura di L.
Aurigemma, Bollati Boringhieri, Torino, 1969-1998, vol. VIII, p. 407), strappare
l’uomo della storia per rinchiuderlo in un presente “che si estende al breve periodo fra la nascita e la morte […] genera un sentimento di accidentalità
e insensatezza che ci impedisce di vivere la vita con quella ricchezza di
significati che essa richiede per essere completamente vissuta. La vita si
appiattisce e non rappresenta più compiutamente l’uomo.”
@48: è un commento a puntate. Abbi pazienza, per piacere.
RispondiEliminaArturo ben tornato.
A margine, detto da una che il tema di storia alla maturità l’ha scelto e s’è beccata per questo le contumelie del membro interno e di tutto il collegio docenti: quei temi li’ a meno che non sia cambiato di molto il programma sono infattibili. Il primo è un suicidio bello e buono, qualsiasi ipotesi si voglia sostenere; il secondo è una scappatoia facile nella banalità e infatti risulta quello più scelto; il terzo mi stupisce che lo abbiano saputo affrontare; il quarto è quello più storicamente incoraggiante perché alla prima guerra “ci si arriva” e sul presente be’ s’improvvisa qualcosa. Ma temo con scarsa cognizione di causa: non so quanti diciottenni siano lettori di a/simmetrie :p.
Comunque trovo francamente insopportabile, oltre che inutile, il piagnisteo dei docenti sull’ignoranza degli studenti, o più in generale degli adulti nei riguardi dei più giovani. Primo siete voi gli adulti e i docenti, vedete di darvi una mossa perché formare i bambini alla cultura costa tempo, esempio, pazienza e fatica, fantasia e dedizione, oltre che soldi, anziché tornare a casa per accendere la tv o incollarsi al telefonino e nutrire i pargoli a cartoni per farli stare buoni, per poi lamentarsi che non sanno far altro che guardare lo schermo; secondo perché, per quanto riguarda i docenti è il mestiere loro e si rimboccassero le maniche; terzo perché le riforme più devastanti Gelmini inclusa le hanno tutte volute docenti e rettori; quarto perché denota una gran mancanza di fantasia - è una lamentela eterna e eternamente banale (mi ricordo le fantasticherie di un blogger di quel che io chiamo il “secondo giro” del “sovranismo”, grondanti fiele e traboccanti invidia su uno studente sull’autobus che perdeva tempo invece di andare a scuola, una cosa cosi’ smaccatamente falsa e livorosa da essere ridicola) - e una gran fifa di perdere la presa sul proprio tempo; quinto perché non è esattamente cosi’. I giovani o gli studenti sono quello che il mondo intorno gli permette di essere. A me è capitato di insegnare in contesti universitari e quello che ho riscontrato è stato un gran bisogno di sentirsi guidati, nel senso migliore del termine, in maniera non paternalista, almeno, non troppo - io tendo a esserlo un po’ ’ - che sappia alternare complessità e buonsenso, accoglienza e ironia, comprensione delle difficoltà pratiche, elasticità mentale. Ma hanno anche un gran desiderio di trovare chiavi di comprensione del mondo, capacità di impegnarsi su cose del tutto fuori dal percorso di studi. Più degli adulti, anche molto di più. È un rapporto più personale e intimo di quanto non si creda, anche se rimane quasi del tutto inespresso. Se se ne rifugge, difficilmente si sviluppa cultura. (Segue)
(2 seguito)
RispondiEliminaLa cosa più bella che mi è capitata è stata quando, alla fine di un corso, hanno cominciato spontaneamente, quasi esitanti, a continuare tra loro il discorso sviluppato nelle ultime lezioni e su cui avevano preparato dei lavori: se li sono corretti da soli e hanno cominciato a applicare ad altri casi quello che avevamo visto insieme. E io ho sentito che potevo piano piano, fisicamente, prima tacere, poi mettermi in disparte e infine sparire. È stata una inebriante sensazione di libertà, per me. Erano cresciuti. Ecco, quando leggo il docente più su non riesco a non pensare che è proprio quest’ultima eventualità che simili tirate vogliono esorcizzare.
Altre volte li vedo afferrare il materiale che gli porto, e sono cose strane, insolite, difficili per loro piene di mille barriere: e vedo anche studenti che da quelle cose dovrebbero stare lontano, nell’attuale mentalità, perché studiano per un mestiere poco nobile, per cui certi saperi vengono ritenuti superflui: e li vedo ficcarci il naso dentro, e cercare e trovare e divertirsi. Non importa che non sia sempre quello che vorrei ci trovassero:
importa che non siano esclusi da quelle cose e da quel sapere. Poi magari il manager didattico mi chiede un’altra lezione, tra lo stupore dei docenti DOC ordinari, perché ha ricevuto delle reazioni positive, da parte di queste stesse persone che non avrebbero dovuto accostarsi a tali superfluità, perché destinate appunto all’ignoranza dall’istituzione stessa e dai suoi ordinamenti.
E di volta in volta m’intestardisco e m’arrabbio, per usare un eufemismo.
L’ignoranza e la cultura sono questioni sociali. Non morali. Come sempre. Come sapevano i Costituenti.
(Segue)
(3 seguito)
RispondiEliminaPer venire a quel che dice il reazionario di turno, che non mi stupisce venga dagli USA perché molte riflessioni sui temi dell’identità riprese in Italia vengono in realtà da quella destra profonda: che il capitalismo sovranazionale abbia bisogno di mobilità dei cervelli puo’ anche starci, ma alla cancellazione delle identità come progetto articolato e coerente non credo. Dopotutto i funzionari degli imperi coloniali si adattavano a vivere ovunque, lavorando per il primo mondo, ma la propria identità di uomo bianco colonizzatore l’avevano ben chiara. E non è che il loro ruolo non fosse quello del servizio al capitalismo liberista solo perché erano legati a ccidentalmente a una particolare nazione.
Semplicemente oggi l’insistenza sui tabù sessorazzadifferenza è l’antidoto alla coscienza degli interessi di classe, sia da parte di coloro che sono al servizio dei dominatori, sia dei dominati; è la maniera accettabile dal potere perché resa innocua e sterilizzata, in cui vengono lasciati esprimere conflitti economici non eliminabili né totalmente censurabili. Se volessimo estremizzare, anche la bussola evocata da Bensoussan serve a questo: a nascondere i moventi economici dietro un discorso accettabile perché a venire rappresentato è lo sterminio razziale anziché il dominio economico. In questo senso non è affatto vero che non vengano trasmessi “forti principi etici”: semplicemente non sono quelli che l’autore vorrebbe che fossero. (Ma idiotes non voleva dire “contadino”? Qui non ho il diz di greco.) Mentre sono totalmente d’accordo con l’idea che oggi si penalizzino impegni profondi e più in generale cio’ che richiede approfondimento e tempo (non mi parlate di colui che vuol tirare su un tetto in cinque anni su un edificio di novecento ché trascendo.) Per quanto riguarda Manant non mi pare proprio che le Costituzioni del dopoguerra l’italiana o la francese (preambolo) o il documento del CLN francese del’45 fossero per la democrazia pura avulsa dalla nazione. Se vuol parlare della UE di Monnet, quella è un’imposizione USA esterna non la rinuncia spontanea degli europei a qualsiasi concetto di spazio nazionale. Basti vedere la presa mantenuta sulle colonie, appunto. Men che meno lo scopo era l’innocenza: c’era un programma sociale preciso, c’erano aspirazioni economiche a volte sostenute dai fucili!
Io penso invece che le ultime guerre balcaniche antiyugoslavia abbiano segnato un tornante profondo nella coscienza di chi oggi scrive baggianate come l’appello congiunto di quei rinnegati con Confindustria. La loro coscienza del pericolo nazionalista si è formata allora ed è quella che li permea ancora. Cristallizzati in una giovinezza spenta, nello smarrimento post ‘89 e incapaci di oltrepassarli per leggere il presente di oggi.
La definitiva sovrapposizione con le istituzioni UE avviene allora: è quello il crogiolo in cui tutto si rifonde e viene instillata, sullo sfondo della pretesa fine della storia, la rappresentazione di oggi. Oltre al nazionalismo è allora che diventa definitivamente tabù ogni accenno alle classi e al conflitto sociale. E loro ci cascano o ci saltano dentro, mutilandosi, diventando capaci solo di elargire un po’di beneficienza, non di sostenere la minima rivendicazione.
Le inquietudini sull’identità in pericolo appartengono a tutt’altra sfera. Sono riconducibili a ben altri fantasmi e come sempre in questi casi dicono molto di più su chi ne parla che sulla realtà.
48 grazie della pazienza.
Non posto più tempo, ma ciò non significa che non continui a leggere il blog! :-)
RispondiEliminaConcordo con ogni parola di questo bel post, che pone all'attenzione una problematica non da poco, ossia la perdita della memoria storica.
Ormai da anni (almeno da quando il ministro Falcucci, negli anni '80, propose di eliminare l'insegnamento della storia antica nei licei), siamo bombardati dalla vulgata secondo cui "la storia non serve a trovare lavoro". Serve però, a creare cittadini consapevoli ma ciò è stato -volutamente- taciuto. Del resto, come giustamente osservato, a che serve, nel mondo globalizzato fatto da consumatori senza radici, la consapevolezza storica? E' addirittura pericolosa.
Oggi abbiamo un sistema di istruzione, oserei dire, schizofrenico. Da un lato, ci viene detto che c'è il pericolo degli analfabeti funzionali, dall'altro, non ci viene detto che gli analfabeti funzionali di oggi forse sono il prodotto della contestazione di ieri, che voleva il 18 politico alle università e il divieto di bocciatura, e che ha progressivamente imposto un sistema di istruzione primaria e secondaria tendenzialmente rivisto al ribasso e orientato a premiare i mediocri.
Ad ogni buon conto: storicamente, non era forse la preoccupazione di ogni regime, quello di intervenire sull'insegnamento della storia per renderla, come dire, 'funzionale' alle premesse idelogiche? Perché quello globalista dovrebbe fare eccezione? Anzi, sembra che in questo caso si voglia andare alla radice: la premessa ideologica, ci dice che la storia è 'inutile'!
Gli spunti di riflessione e di approfondimento sottesi a questo post sono davvero tanti. E per nulla marginali, a mio avviso.
No, non si voleva il 18 politico in sé. Si volevano una scuola e un'università non di classe e la richiesta del 18 politico era un mezzo per denunciare il fatto che si trattava appunto di istituzioni di classe. Constatazione quest'ultima che appunto i benpensanti non erano e non saranno mai capaci di comprendere né di accettare, preferendo al riconoscimento di un dato economico il più rassicurante giudizio morale.
EliminaMa quella richiesta ha incontrato come unica disponibilità da parte del potere - anch'esso di classe ovviamente - quella a una revisione al ribasso dei contenuti e dell'insegnamento. Anche perché avere alunni che ripetono le classi costa; inserire le loro famiglie in un contesto culturalmente stimolante costa anche di più; bisogna pagare più insegnanti per più tempo, avere più spazi e più materiale, costruire un tessuto urbano o rurale dotato di strutture culturali attive in permanenza, cioè animate da personale qualificato e remunerato e dotate di fondi adeguati. Ma noi ci stavamo nel frattempo convertendo allo SME, alla indipendenza della Banca d'Italia, al vade retro inflazione - e pure Costituzione...
Nel post spira un'aria vagamente ottimista a cui mi associo acriticamente.
RispondiEliminaps molto bello, grazie ad Arturo
Grazie, Pellegrina, ben ritrovata anche a te.
RispondiEliminaDunque vediamo un po’: trovi inutile “il piagnisteo”. Non potrei essere più d’accordo. Non capisco però dove ne riscontereresti positivamente la presenza nel mio post. Ho descritto un fenomeno, di cui peraltro è facilissimo avere contezza, e ne ho cercato le responsabilità a livello istituzionale, citando un “reazionario” proprio per dimostrare che evidenza e gravità dei fatti obbligano anche lui a mettere sotto accusa il sistema educativo, e gli interessi economici che lo guidano, e non gli studenti (che si limitano ad adeguarsi a “ciò che è stato richiesto loro”). Appunto perché “l’ignoranza e la cultura sono questioni sociali. Non morali.”
Sicuramente sarò stato poco chiaro io. Certo anche la tua risposta, che mi pare improntata più a un moralismo di segno contrario che al contrario del moralismo, (“siete voi gli adulti e i docenti, vedete di darvi una mossa”: peraltro io sono sì un adulto, ma non un docente), non mi pare aiuti a fare chiarezza.
Do per risolto l’equivoco e procedo oltre.
Dici: “che il capitalismo sovranazionale abbia bisogno di mobilità dei cervelli puo’ anche starci, ma alla cancellazione delle identità come progetto articolato e coerente non credo”. Anche qui, nulla da ridire. Se l’identità è una narrazione autobiografica entro un contesto di riferimento (sto più o meno parafrasando MacIntyre), è ovvio che una qualche identità, quella di fan di Miley Cyrus, per esempio, esisterà sempre. Perfino Stirner, col suo Unico, s’era dovuto arrendere davanti a linguaggio e pensiero. Il punto è quale identità.
Il senso che volevo esprimere è questo: “in quanto totalità capitalistica che si riproduce sistematicamente e non in base a un piano preordinato di tipo “umano”, il capitale deve distruggere tutte le comunità sovrane preesistenti. Una volta però che le ha distrutte, dal momento che l’uomo non sparisce e continua comunque a essere un animale sociale, comunitario e razionale, il capitale deve agire sui due piani della razionalità e della sociabilità dell’uomo, inestirpabili ma anche manipolabili.
Per quanto riguarda la razionalità, si tratta di distruggere il carattere “filosofico”, cioè quello che ricerca la sensatezza nell’insieme olistico della convivenza sociale, per sostiuirlo con una razionalità locale, specialistica, legata unicamente al rapporto mezzi-fini.
Per quanto riguarda la società, si tratta di distruggere la sovranità comunitaria incompatibile con il dominio idolatrico delle merce e con il monoteismo del mercato, ricostruendo comunità settoriali sostitutive che possano essere più facilmente ricondotte al suo dominio.”
L’autore di questo pezzo però è Costanzo Preve. Mi pareva che avesse più forza usare una fonte “interna” (scontandone, ossia senza accompagnarlo con una chiosa millimetrica, un certo grado di cecità e ipocrisia nella diagnosi), che non ricorrere al buon Costanzo.
Arturo scusami son un po’ di corsa ma per ora ti dico questo (mi dispiace per l’irruenza, non era diretta a te, come non lo era il « tu » con cui mi indirizzo invece ai docenti particolarmente accademici ed ero già più che certa che tu non fossi tra costoro, infine grazie per la consultazione del Rocci):
EliminaHo scritto « a margine » all’inizio del mio commento proprio perché non contesto il senso generale del pezzo.
Quando parlo di piagnisteo mi riferisco a una vox populi, absit iniuria verbis, che trova malauguratamente fin troppa eco nel ceto docente o in certo giornalismo con pretese intellettuali. Posizioni che trovo esasperanti nella loro strumentale ottusità. I commenti, inclusa l’osservazione sul moralismo, sono rivolti alle posizioni di costoro e a questa vulgata che trovo, è vero, rischiosa da avvicinare e impossibile da accettare.
Siceramente Preve non lo tengo sul comodino. Mi è quindi difficile commentarlo, perché il suo concetto di « comunità sovrana » si presta a più di uno scenario. Se dobbiamo intendere l’Italia pre atto unico come tale, la esistenza del quarto partito, ad esempio, metterebbe in dubbio tale ricostruzione. Cioè mi sembra difficile che l’essere una comunità sovrana (cosa che oggi sappiamo necessaria per motivi che non sto a riassumere) metta ipso facto al riparo dal capitale, o persino dal liberismo.
Per il discorso sulle identità: intendo quella definita come bianca e cristiana che si tenta oggi di rappresentare come indissolubilmente legata a ogni coscienza di classe, saldandola quindi alle rivendicazioni costituzionali e di welfare come se ne fosse imprescindibile.
Del resto nei commenti a questo blog si discute sempre attorno a questo nodo; perché per il resto dei temi espliciti siam sostanzialmente tutti d’accordo (e con te in particolare modo).
Cio’ detto, la ricchezza di documentazione dei tuoi interventi è sempre della più grande utilità.
P.S.: per motivi misteriosi non riesco più a commentare su questo blog se non da un pc che è ormai un rottame e assai poco mobile. Blogger non riconosce il mio account google, cosa che invece fa senza problemi su altri blog della stessa piattaforma. La stessa cosa accade su goofynomics (e sui video di facebook cui non sono iscritta). D'accordo che siamo diventati tutti paranoici ultimamente, però chissà se qualcuno riesce a spiegarsi l'arcano in modo banalmente tecnico.
Quindi cancellazione no, perché non è possibile; manipolazione sì, eccome, anche perché non riesco a immaginare un progetto egemonico che possa farne a meno (il primo significato di ἰδιώτης sul vecchio Rocci, pag. 907, è “particolare, privato”; sul GI, pag. 936, “singolo individuo, semplice cittadino, privato”; il Liddell-Scott-Jones si può consultare on line: http://stephanus.tlg.uci.edu/lsj/#eid=51329&context=search&type=greek ).
RispondiEliminaLe righe su Manent proprio non le capisco: non stava parlando delle Costituzioni del dopoguerra, ma delle istituzioni europee, o meglio, di uno delle aspetti dell’egemonia ideologica con cui si drappeggiano.
Quanto ai sindacalisti, mi pare tu attribuisca loro una profondità e autonomia di pensiero che non possiedono affatto. Recitano solo il compitino che l’epilogo di una traiettoria, peraltro iniziata prima dell’89, li obbliga a recitare. Direbbero qualsiasi cosa e troverebbero, se richiesti, qualsiasi scusa per giustificarsi.
Non so esattamente quali particolari “fantasmi” tu ritenga di vedere in quel che ho scritto. Credo però che una lettura più calma potrebbe aiutare a dissiparli.
Auguri di Buona Pasqua a tutti.
Sindacalisti: recitano il compitino si’, un compitino che non nasce senza storia come tu scrivi del resto. Una storia che necessita anche di elementi sovrastrutturali oltre che della marcia liberista presa dal PCI a partire dal 1976 (o quando fu il convegno degli intellettuali all’Eliseo) e ben riecheggiata da un Lama l’anno successivo. I quaranta-cinquantenni, quelli oggi attivi, hanno conosciuto il pacifismo come prima forma di mobilitazione. Erano troppo giovani per avere realmente attraversato ‘68 e ‘77 che costituivano una memoria mitizzata condivisa (a proposito di memoria); dalle sconfitte, perché tali furono, di quei movimenti era rimasto loro il desiderio di un modo di vivere « alternativo » che non poteva più trovare espressione nella sfera delle lotte economiche, accusate di generare una violenza ormai tabù; al suo posto c’era in giro l’ambientalismo, vagamente pacificatore, percorso da venature cristiane o arcadiche, e un resto di internazionalismo che si sarebbe poi saldato a un altermondialismo anch’esso epurato di sconvenienti forme rivoluzionarie, tranne in casi molto precisi e circoscritti in atto all’altro capo dell’universo. Langer non era, credo, sindacalista ma è una figura che riassume in sé queste tematiche. In questo contesto molti sindacalisti o che lo sarebbero diventati in futuro (la CGIL ha rappresentato a volte l’ultima organizzazione possibile per chi rimasto orfano di ogni militanza di movimento, ne avvertiva ancora l’esigenza e non voleva tornare in parrocchia) hanno trovato nelle guerre balcaniche un’occasione di impegno attivo nel volontariato a favore delle popolazioni locali che in certe realtà è stato molto forte, duraturo e diffuso, portandoli a partire spesso e ripetutamente per quei paesi. Un impegno, oggi ci è del tutto chiaro, che riassumeva bene tutti e solo quelli che erano rimasti i fronti di opposizione leciti, cioè quelli ammessi dal potere che aveva saldamente ripreso in mano ogni discorso e ogni iniziativa sulla questione economico-salariale interna, ma: « come possiamo preoccuparci noi che abbiamo TUTTO!, mentre a due passi da casa ecc. ecc. ». La UE passava come l’antidoto al nazionalismo, la necessità dell’unione rispetto al trionfo delle nazionalità, con buona pace di cio’ che certi paesi membri avevano fatto per originare il pantano yugoslavo. Si creava una maldestra equivalenza mentale tra ONU e UE, percepite come argini « internazionali » al nazionalismo o all’imperialismo USA all’opera nelle guerre del Golfo, altra vicenda che ha segnato profondamente l’immaginario di quegli anni. Proprio perché la consapevolezza non andava molto oltre quella del compitino, perché la formazione politica era sempre più carente ecc. È questo discorso introiettato negli anni giovanili, mentre ogni seria mobilitazione interna era divenuta impossibile e la guerra si riavvicinava alle nostre ohiohi frontiere reali e mediatiche, condizionando e allo stesso tempo offrendo una valvola di sfogo all’esigenza di agire, sia quella della nuova generazione sia quella ormai repressa della generazione precedente, che ha formato il sostrato di costoro, la loro reattività automatica, la memoria intangibile della giovinezza o della prima maturità, le coordinate interpretative del mondo. Questo spiega anche in parte la odierna diffidenza dei meno smaliziati tra di loro o almeno quella degli ultimi dieci anni nei confronti dei no euro ecc.
EliminaCerto non spiega le posizioni di un rinnegato come Landini, ormai per lui non c’è altra definizione possibile, se non quella, alternativa ma poco credibile, di una irrimediabile stupidità.
Da studente di Storia non posso che apprezzare profondamente lo spirito del post di Arturo.
RispondiEliminaTornando a Braudel, se "bisogna essere stati per essere" si intende da principio qual è il significato di fondo e la forza intima della Storia: la capacità di riallacciare l'esistenza di ognuno al grande movimento dell'Uomo nei secoli. Forza, quella della Storia, che diviene di per sé una potente arma politico-sociale di rivolgimento ed emancipazione di classe.
In questo senso la sua demolizione cosciente da parte di €ssi avviene sia dal lato della eliminazione tout-court della disciplina, sia di converso dalla conquista egemonico-culturale della stessa da parte di una precisa corrente storiografica (sic) che di storico... non ha nulla.
Parlo appunto della cd. storia globale (per i fighetti global History), che dall'anglosfera ha corroso pian piano le facoltà italiane insieme alla storia di genere. Il risultato è la scomparsa definitiva della storia sociale (e quindi economica) che dalla scuola delle Annales (Bloch, Le Goff, Pirenne, Febvre, e poi Braudel...) aveva magistralmente ritratto la nascita e l'evoluzione del capitalismo.
Non è certo casuale, a mio avviso. Distruggere l'analisi storico-economica porta di per sé alla fine di ogni tentativo di emancipazione cosciente dalla dominazione di classe, in un eterno presente fatto di sociopatici reazionari e Gretini vari.
Per questo oggi la Murgia può prosperare nei suoi deliri fascistoidi: scomparsa la generazione dei Gentile, la storiografia non avrà altro interesse che divenire l'ancella preferita della narrazione liberale (e già in magna pars lo è).
Può un uomo collocarsi fuori dalla sua storia [...]? No, non lo può. Questo uscire dalla storia, adottando una falsa e bugiarda ottica di postero o di cherubino, è un atto caro ai reazionari, e i giornali di destra sono pieni di scrittori che si prestano a simili ascesi, atte a soddisfare il bisogno spiritualistico dei piccoli borghesi (che, sia pure inconsapevolmente, son essi i nefandi «materialisti», oggetti del loro odio). Pier Paolo Pasolini
"In questa battaglia di vittimismi l’unico esito certo è la proliferazione di una cultura della menzogna opportunistica, della passività aggressiva, della ricerca di scuse, e di contro il deperimento della sfera etica con la sua sempre maggiore incapacità di muovere, animare, vivere e far vivere.”
RispondiEliminaA me non pare che ci sia stata una qualche maggiore proliferazione recente delle menzogne opportunistiche.
Ritengo addirittura che tutti i libri 'sacri' ed anche i vangeli canonici contengano menzogne opportunistiche!
Se con un pizzico di sano 'materialismo storico' non si riconoscono le menzogne opportunistiche come tali poi si è costretti a forgiarne di nuove, e ad imputare alla pazzia di qualche singolo gli stermini periodici delle minoranze avvenuti in Europa, in medio oriente e nel bacino del mediterraneo negli ultimi duemila anni.
Risale a Luca 19.27 e Giovanni 8,44 (I secolo) lo scatenarsi dell'antisemitismo cristiano.
Ma le reazioni incrociate all'iniziale antisemitismo cristiano si riconoscono facilmente anche in alcuni passi del Talmud (III e VI secolo), con l'anti-gentilismo giudaico, oppure in alcune sure del Corano (VII secolo) con l'anti-cristianesimo e l'anti-semitismo.
Per questo l'odio citato da Pasolini verso i "materialisti" è così vivo.
Per certi versi i materialisti sono diventati i migliori conoscitori delle religioni e l'odio verso i materialisti si sposa quindi con l'odio della religione in quanto tale.
«l’ignoranza e la cultura sono questioni sociali. Non morali.»
RispondiElimina«...Certo anche la tua risposta, che mi pare improntata più a un moralismo di segno contrario che al contrario del moralismo, (“siete voi gli adulti e i docenti, vedete di darvi una mossa”: peraltro io sono sì un adulto, ma non un docente), non mi pare aiuti a fare chiarezza.»
Questa dialettica mi ha fatto venire in mente il Galimberti, che sprizza nichilismo nicciano da tutti i pori, e poi si occupa di quello dei giovini.
Preve direbbe una filosofia usata come prozac: certo è che il protervo elitismo dei suoi discorsi sulla scuola sono un esempio di «moralismo di segno contrario, non certo il contrario di moralismo»
E il contrario del moralismo è proprio un'analisi sociostrutturale che abbracci la totalità.
Analisi che sta cominciando a fare la "profonda destra" americana e non la sinistra post-moderna: imprigionata in un estetico esistenzialismo spacciato identitaristicamente a sé stessa, prima ancora che sbraitato agli altri, come suprematismo morale.