sabato 18 maggio 2019

L'ART. 11 COST: IL RICOSTITUENTE DELLA SOVRANITA' POPOLARE


(post di Arturo)

1. In coincidenza con le imminenti elezioni europee s’è fatto, come sempre, un grande e confuso parlare di art. 11, Ventotene, Unione Europea.
I lettori del blog dovrebbero essere vaccinati contro questo tipo di retorica ma mi pare che un ripassino possa essere utile e offrire l’occasione per chiarire qualche dubbio che potrebbe ancora allignare.

2. Inizio con una preziosa osservazione, tanto semplice quanto centrata, contenuta nel libro di Jeremy Rabkin (Law without Nations? Why Constitutional Government Requires Sovereign States, Princeton University Press, New Jersey, 2005, pag. 136):
La domanda rimane: come può essere rispettoso della rule of law che un governo nazionale, altrimenti vincolato dalla propria Costituzione, autorizzi un’autorità sopranazionale a scavalcarla?
E’ proprio questa banalissima domandina, che nessun contorsionismo “interpretativo” o tecnicismo pop economico riesce a rimuovere, che permette di scorgere, dietro le spesse cortine di irenismo retorico quotidianamente ammannite, la brutalità della forza che fa violenza al diritto.

3. Osserviamo con attenzione. Nella permanenza di un’impostazione dualista nella giurisprudenza costituzionale e nella dottrina maggioritaria (per il significato del termine “dualismo” vi rimando qui, n. 4), la disposizione costituzionale a cui viene “appesa” tutta la particolare efficacia dell’ordinamento comunitario, in particolare la capacità che hanno i Trattati, i regolamenti e le direttive dettagliate di prevalere sul diritto nazionale, Costituzione compresa, è, come sappiamo, il povero art. 11.

3.1. S’è già detto anni fa quanto pretestuosa sia quest’interpretazione; qui vorrei attirare l’attenzione sul significato del termine “sovranità”, che l’art. 11 vuole potenzialmente limitabile.
La questione è stata posta, e direi risolta, con estrema chiarezza da Guastini (Lezioni di teoria del diritto e dello Stato, Giappichelli, Torino, 2006, pagg. 229-31):
Questa disposizione formula, all’evidenza, un programma di politica internazionale. Si riferisce ad una entità chiamata “Italia”, in un contesto nel quale si parla di “altri Stati”, di pace e giustizia “fra le Nazioni”, di organizzazioni e di controversie “internazionali”. L’entità chiamata “Italia” è, ovviamente, lo stato, la Repubblica, o, se si preferisce, la “nazione” (in un senso di questa parola). È dunque alla sovranità dello stato che si riferisce la costituzione, quando dispone che «L’Italia [...] consente [...] alle limitazioni di sovranità [...]».
Pertanto, si deve ritenere che la “sovranità”, cui si fa cenno nell’art. 11 cost., sia la sovranità dello stato nell’ordinamento internazionale. Nel seguito, ad evitare confusioni, mi riferirò a questo concetto con l’espressione ‘sovranità statale’.
La sovranità statale include la capacità di assumere obblighi interazionali (e, beninteso, anche la capacità di non adempiere agli obblighi assunti, con conseguente responsabilità internazionale, ma senza effetti sul diritto interno). Si può considerare caso paradigmatico di limitazione della sovranità statale un trattato il quale, come appunto i trattati comunitari, conferisca efficacia diretta - senza necessità di atti interni di recezione - a norme prodotte in sede internazionale.
[…] L’art. 1, a sua volta, stabilisce: al comma 1, «L’Italia è una Repubblica democratica [...]»; e, al comma 2, «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione».
Questa disposizione, palesemente, nulla dice intorno alle relazioni internazionali: si riferisce all’organizzazione costituzionale dello stato, non alla sua posizione nei confronti di altri stati. Quale titolare della sovranità è espressamente indicato “il popolo”, non lo stato.
Pertanto, la sovranità di cui si parla in questa disposizione è altra cosa dalla sovranità menzionata all’art. 11: si tratta non della sovranità statale (o “nazionale”, se così si preferisce dire), ma della sovranità “popolare”, ossia del popolo in seno allo stato (o alla nazione).
[…]
Conviene sottolineare, però, che la disposizione in esame non detta alla sovranità popolare altri limiti se non quelli «della Costituzione». Ciò è quanto dire che non sono ammissibili altri limiti alla sovranità popolare se non quelli che, appunto, la costituzione stessa stabilisce: limiti che derivassero da fonti diverse dalla costituzione sarebbero incostituzionali.
Se questa interpretazione è corretta, allora altro è limitare la sovranità statale di cui all’art. 11, altro limitare la sovranità popolare di cui all’art. 1.
[…]
La limitazione della sovranità statale, di per sé, non incide (almeno: non necessariamente) su alcuna norma costituzionale, giacché la sovranità statale non deriva da norme costituzionali, ma riposa su norme internazionali (quelle norme internazionali che, a certe condizioni, riconoscono certe comunità politiche come “sovrane”). Dunque, l’art. 11 non autorizza alcuna deroga a norme costituzionali.
Per contro, la limitazione della sovranità popolare - o, per meglio dire, ogni limitazione della sovranità popolare ulteriore rispetto a quelle disposte direttamente dalla costituzione - fatalmente incide su norme costituzionali: anzitutto, sulla norma costituzionale che espressamente la proclama come principio, e che individua nella sola costituzione la fonte di ogni sua possibile limitazione (art. 1, comma 2); poi sulla norma costituzionale che, per così dire, la concretizza, conferendo la funzione legislativa alle Camere (art. 70); poi, ancora, sulla norma costituzionale che statuisce la soggezione del giudice alla legge e ad essa sola (art. 101, comma 2); e così via enumerando.

3.2. Dunque l’art. 11 è semplicemente una delle norme programmatiche che hanno per oggetto è la politica estera. Questa è una gran banalità, un tempo riconosciuta comunemente dalla dottrina. Esempio: “In effetti, se si esamina la Costituzione italiana si vede che in realtà, in materia di politica estera, l’Assemblea Costituente ha voluto dare delle direttive non solo all’Esecutivo, ma anche agli altri organi, incluso il Parlamento, ha cioè tracciato una sorta di programma.” (A. Cassese, Politica estera e relazioni internazionali nel disegno emerso all’Assemblea Costituente, in U. De Siervo (a cura di), Scelte della Costituente e cultura giuridica, vol. II, Il Mulino, Bologna, 1980, pag. 536).
Segue un esame dell’art. 11 e di altre disposizioni programmatiche di carattere internazionale, per esempio l’art. 35, comma 3.

3.3. Le implicazioni di questo taglio interpretativo sono ovvie. Per esempio, proprio in riferimento all’art. 35 comma 3, spiega Cassese (Ibid., pag. 542): “Essa traccia un programma «positivo», cioè induce positivamente a promuovere le organizzazioni o i trattati internazionali che regolano i diritti del lavoro. Questa norma potrebbe essere invocata qualora l’Italia decidesse di uscire dall’OIL, come hanno fatto di recente gli Stati Uniti d’America. Se l’Italia decidesse di recedere dall’OIL, si potrebbe sollevare il problema circa la legittimità di questo atto, un atto di politica estera che può essere appunto posto in essere dall’Esecutivo (la denuncia di un trattato e il recesso da un’organizzazione internazionale).
A tenore dell’art. 11 i rapporti fra diritto comunitario e diritto nazionale dovrebbero quindi configurarsi in questi termini: nessuna deroga alla Costituzione, quindi nessun bisogno di “controlimiti”; attribuzione al diritto comunitario del ruolo di “fonte interposta”, ossia un’ipotetica norma interna in contrasto con una comunitaria *di effettiva attuazione dell’art. 11* potrebbe essere annullata per contrasto indiretto con l’art. 11 stesso (quest’ultima era in parte la posizione della Corte Costituzionale negli anni Settanta. Dico in parte perché, come sappiamo, un controllo di effettività sui fini perseguiti dall’ordinamento comunitario non è mai stato compiuto).

4. Occorre ovviamente aggiungere un’ulteriore importante precisazione, olim avanzata dallo stesso Cassese (pag. 546): “assolvono poi anche la funzione di indicare direttrici di politica estera tutte le altre norme della Costituzione che proclamano i più importanti diritti civili, politici ed economico-sociali”, con il ruolo “superprimario” rivestito del principio di uguaglianza sostanziale (qui non c’è che l’embarras de richesses di post linkabili. Scelgo quindi a gusto personale: qui, n. 4. Utile anche questa discussione).
Quindi senza dubbio l’art. 11 ha un importante valore programmatico, ma la sua applicazione, se può certamente comportare limitazioni della sovranità statale, stante però la necessità di uno svolgimento armonico con le altre norme costituzionali e in particolare con quella che garantisce al tutto, “architettonicamente”, per dirla con Platone, coerenza e unità, ossia l’uguaglianza sostanziale, dovrebbe non certo produrre “limitazioni”, tantomeno “cessioni”, bensì *rafforzamenti* della sovranità popolare lavorista e pluriclasse.

5. Sembra un paradosso, vero? Al giorno d’oggi temo proprio di sì. L’alternativa, di solito implicita, da Merusi esplicitata, ossia la teoria secondo cui i Costituenti avrebbero inserito nell’art. 11 una sorta di “pulsante di autodistruzione” della Costituzione, evidentemente appare meno paradossale e non invece una vera e propria dimostrazione per assurdo della spiacevole realtà che, a dispetto di tutte le montagne, autentiche cordigliere, di retorica sull’Unione attraverso il diritto, l’Europa s’è costruita attraverso colpi di forza (gli antichi l’avrebbero definita “dispotica”). 



1 commento:

  1. Soprattutto la "sovranità statale"... appartiene al popolo.

    Il popolo accetta limiti alla propria autodeterminazione su alcune questioni di politica internazionale per autodeterminarsi liberamente in modo maggiore.

    Qualsiasi norma è una limitazione di libertà, di autodeterminazione, che, però, una volta imposta alla comunità sociale, ne permette una più grande, ovvero la libertà espressione dell'effettività dei diritti.

    Il popolo sovrano, nella forma giuridica di Stato-nazione, limita la propria sovranità per permettere l'effettività di un diritto internazionale che assicuri la pace e la giustizia tra nazioni.

    Alla fine la sovranità è potere e, quindi, libertà: e poiché non c'è libertà senza uguaglianza, è ovvio - e niente affatto paradossale - che qualsiasi limitazione della sovranità statale debba rafforzare la democrazia.

    Ha senso parlare di democrazia in una colonia governata da organizzazioni multinazionali straniere? La sovranità nazionale è un condizione necessaria, anche se non sufficiente, per la realizzazione della democrazia.

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