(post di Arturo)
1. In coincidenza con le
imminenti elezioni europee s’è fatto, come sempre, un grande e confuso parlare
di art. 11, Ventotene, Unione Europea.
I lettori del blog
dovrebbero essere vaccinati contro questo tipo di retorica ma mi pare che un
ripassino possa essere utile e offrire l’occasione per chiarire qualche dubbio
che potrebbe ancora allignare.
2. Inizio con una
preziosa osservazione, tanto semplice quanto centrata, contenuta nel libro di
Jeremy Rabkin (Law without Nations? Why Constitutional Government Requires
Sovereign States, Princeton University Press, New Jersey, 2005, pag. 136):
“La domanda rimane:
come può essere rispettoso della rule of law che un governo nazionale,
altrimenti vincolato dalla propria Costituzione, autorizzi un’autorità
sopranazionale a scavalcarla?”
E’ proprio questa
banalissima domandina, che nessun contorsionismo “interpretativo” o tecnicismo pop economico riesce a
rimuovere, che permette di scorgere, dietro le spesse cortine di irenismo
retorico quotidianamente ammannite, la brutalità della forza che fa violenza al
diritto.
3. Osserviamo con
attenzione. Nella permanenza di un’impostazione dualista nella giurisprudenza
costituzionale e nella dottrina maggioritaria (per il significato del termine
“dualismo” vi rimando qui, n. 4), la disposizione
costituzionale a cui viene “appesa” tutta la particolare efficacia
dell’ordinamento comunitario, in particolare la capacità che hanno i Trattati,
i regolamenti e le direttive dettagliate di prevalere sul diritto nazionale,
Costituzione compresa, è, come sappiamo, il povero art. 11.
3.1. S’è già detto anni fa quanto pretestuosa
sia quest’interpretazione; qui vorrei attirare l’attenzione sul significato del
termine “sovranità”, che l’art. 11 vuole potenzialmente limitabile.
La questione è stata
posta, e direi risolta, con estrema chiarezza da Guastini (Lezioni di teoria
del diritto e dello Stato, Giappichelli, Torino, 2006, pagg. 229-31):
“Questa disposizione formula, all’evidenza, un programma di politica internazionale. Si riferisce ad una entità
chiamata “Italia”, in un contesto nel quale si parla di “altri Stati”, di pace
e giustizia “fra le Nazioni”, di organizzazioni e di controversie “internazionali”.
L’entità chiamata “Italia” è, ovviamente, lo stato, la Repubblica, o, se si
preferisce, la “nazione” (in un senso di questa parola). È dunque alla sovranità dello
stato che si riferisce la costituzione, quando dispone che «L’Italia [...] consente
[...] alle limitazioni di sovranità [...]».
Pertanto,
si deve ritenere che la “sovranità”, cui si fa cenno nell’art. 11 cost., sia la
sovranità dello stato nell’ordinamento internazionale. Nel seguito, ad evitare
confusioni, mi riferirò a questo concetto con l’espressione ‘sovranità
statale’.
La
sovranità statale include la capacità di assumere obblighi interazionali (e,
beninteso, anche la capacità di non adempiere agli obblighi assunti, con
conseguente responsabilità internazionale, ma senza effetti sul diritto
interno). Si può considerare caso paradigmatico di limitazione della sovranità
statale un trattato il quale, come appunto i trattati comunitari, conferisca
efficacia diretta - senza necessità di atti interni di recezione - a norme
prodotte in sede internazionale.
[…] L’art. 1, a sua volta, stabilisce: al comma 1, «L’Italia è una
Repubblica democratica [...]»; e, al comma 2, «La sovranità appartiene al
popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione».
Questa
disposizione, palesemente, nulla dice intorno alle relazioni internazionali: si
riferisce all’organizzazione costituzionale dello stato, non alla sua posizione
nei confronti di altri stati. Quale titolare della sovranità è espressamente
indicato “il popolo”, non lo stato.
Pertanto,
la sovranità di cui si
parla in questa disposizione è altra cosa dalla sovranità menzionata all’art.
11: si tratta non della sovranità statale (o “nazionale”, se così si
preferisce dire), ma della sovranità “popolare”, ossia del popolo in seno allo
stato (o alla nazione).
[…]
Conviene
sottolineare, però, che la disposizione in esame non detta alla sovranità
popolare altri limiti se non quelli «della Costituzione». Ciò è quanto dire che non sono
ammissibili altri limiti alla sovranità popolare se non quelli che, appunto, la
costituzione stessa stabilisce: limiti che derivassero da fonti diverse dalla
costituzione sarebbero incostituzionali.
Se questa interpretazione
è corretta, allora altro è limitare la sovranità statale di cui all’art. 11,
altro limitare la sovranità popolare di cui all’art. 1.
[…]
La
limitazione della sovranità statale, di per sé, non incide (almeno: non
necessariamente) su alcuna norma costituzionale, giacché la sovranità statale
non deriva da norme costituzionali, ma riposa su norme internazionali (quelle
norme internazionali che, a certe condizioni, riconoscono certe comunità
politiche come “sovrane”). Dunque, l’art. 11 non autorizza alcuna
deroga a norme costituzionali.
Per
contro, la limitazione della sovranità popolare - o, per meglio dire, ogni
limitazione della sovranità popolare ulteriore rispetto a quelle disposte
direttamente dalla costituzione - fatalmente incide su norme costituzionali:
anzitutto, sulla norma costituzionale che espressamente la proclama come
principio, e che individua nella sola costituzione la fonte di ogni sua
possibile limitazione (art. 1, comma 2); poi sulla norma costituzionale che,
per così dire, la concretizza, conferendo la funzione legislativa alle Camere
(art. 70); poi, ancora, sulla norma costituzionale che statuisce la soggezione
del giudice alla legge e ad essa sola (art. 101, comma 2); e così via
enumerando.”
3.2. Dunque l’art. 11 è semplicemente una
delle norme programmatiche che hanno per oggetto è la politica estera.
Questa è una gran banalità, un tempo riconosciuta comunemente dalla dottrina.
Esempio: “In effetti, se si esamina la Costituzione italiana si vede che in realtà,
in materia di politica estera, l’Assemblea Costituente ha voluto dare delle
direttive non solo all’Esecutivo, ma anche agli altri organi, incluso il
Parlamento, ha cioè tracciato una sorta di programma.” (A.
Cassese, Politica estera e relazioni internazionali nel disegno emerso
all’Assemblea Costituente, in U. De Siervo (a cura di), Scelte della Costituente
e cultura giuridica, vol. II, Il Mulino, Bologna, 1980, pag. 536).
Segue
un esame dell’art. 11 e di altre disposizioni programmatiche di carattere
internazionale, per esempio l’art. 35, comma 3.
3.3.
Le implicazioni di questo taglio interpretativo sono ovvie. Per esempio,
proprio in riferimento all’art. 35 comma 3, spiega Cassese (Ibid., pag. 542): “Essa traccia un programma «positivo», cioè
induce positivamente a promuovere le organizzazioni o i trattati internazionali
che regolano i diritti del lavoro. Questa norma potrebbe essere invocata
qualora l’Italia decidesse di uscire dall’OIL, come hanno fatto di recente gli
Stati Uniti d’America. Se l’Italia decidesse di recedere dall’OIL, si potrebbe
sollevare il problema circa la legittimità di questo atto, un atto di politica
estera che può essere appunto posto in essere dall’Esecutivo (la denuncia di un
trattato e il recesso da un’organizzazione internazionale).”
A tenore dell’art. 11 i rapporti fra diritto
comunitario e diritto nazionale dovrebbero quindi configurarsi in questi
termini: nessuna deroga alla Costituzione, quindi nessun bisogno di
“controlimiti”; attribuzione al diritto comunitario del ruolo di “fonte
interposta”, ossia un’ipotetica norma interna in contrasto con una comunitaria
*di effettiva attuazione dell’art. 11* potrebbe essere annullata per contrasto
indiretto con l’art. 11 stesso (quest’ultima era in parte la posizione della
Corte Costituzionale negli anni Settanta. Dico in parte perché, come sappiamo,
un controllo di effettività sui fini perseguiti dall’ordinamento comunitario non è mai stato compiuto).
4. Occorre ovviamente aggiungere un’ulteriore
importante precisazione, olim avanzata dallo stesso Cassese (pag. 546): “assolvono
poi anche la funzione di indicare direttrici di politica estera tutte le
altre norme della Costituzione che proclamano i più importanti diritti
civili, politici ed economico-sociali”, con il ruolo “superprimario” rivestito
del principio di uguaglianza sostanziale (qui non c’è che l’embarras de
richesses di post linkabili. Scelgo quindi a gusto personale: qui, n. 4. Utile anche questa discussione).
Quindi
senza dubbio l’art. 11 ha un importante valore programmatico, ma la sua
applicazione, se può certamente comportare limitazioni della sovranità statale,
stante però la necessità di uno svolgimento armonico con le altre norme
costituzionali e in particolare con quella che garantisce al tutto, “architettonicamente”,
per dirla con Platone, coerenza e unità, ossia l’uguaglianza sostanziale,
dovrebbe non certo produrre “limitazioni”, tantomeno “cessioni”, bensì *rafforzamenti*
della sovranità popolare lavorista e pluriclasse.
5. Sembra un paradosso, vero? Al giorno d’oggi temo
proprio di sì. L’alternativa, di solito implicita, da Merusi esplicitata, ossia la
teoria secondo cui i Costituenti avrebbero inserito nell’art. 11 una sorta di “pulsante
di autodistruzione” della Costituzione, evidentemente appare meno paradossale e
non invece una vera e propria dimostrazione per assurdo della spiacevole realtà
che, a dispetto di tutte le montagne, autentiche cordigliere, di retorica sull’Unione
attraverso il diritto, l’Europa s’è costruita attraverso colpi di forza (gli
antichi l’avrebbero definita “dispotica”).
Soprattutto la "sovranità statale"... appartiene al popolo.
RispondiEliminaIl popolo accetta limiti alla propria autodeterminazione su alcune questioni di politica internazionale per autodeterminarsi liberamente in modo maggiore.
Qualsiasi norma è una limitazione di libertà, di autodeterminazione, che, però, una volta imposta alla comunità sociale, ne permette una più grande, ovvero la libertà espressione dell'effettività dei diritti.
Il popolo sovrano, nella forma giuridica di Stato-nazione, limita la propria sovranità per permettere l'effettività di un diritto internazionale che assicuri la pace e la giustizia tra nazioni.
Alla fine la sovranità è potere e, quindi, libertà: e poiché non c'è libertà senza uguaglianza, è ovvio - e niente affatto paradossale - che qualsiasi limitazione della sovranità statale debba rafforzare la democrazia.
Ha senso parlare di democrazia in una colonia governata da organizzazioni multinazionali straniere? La sovranità nazionale è un condizione necessaria, anche se non sufficiente, per la realizzazione della democrazia.