lunedì 19 settembre 2016

L'INCIVILTA' (AL POTERE) DI "CERTI POLITICI ESTERI" E LA MANCANZA DI RISPETTO VERSO SE STESSI (il punto sulla sovranità negletta)


https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiM5Z2ZtIli2Pg0mecAcMXy6OcXQ674U9pFt60a5aAkLwgkgH-shMkZEVEipCBV-PTHkDZ31QItJq3528vYCmZVQg386pTKfPJDNgsCQ-IrLmMoqXFG5g1DA8Jw9OsProhZs5_swl4gejU/s1600/soriano-essere-se-stessi.jpg

Questo post di Arturo è bellissimo e particolarmente tempestivo. 
Bellissimo lo è perché fa magistralmente il punto su una serie di fondamentali questioni (la sovranità, il "vincolo esterno", le condizioni giuridiche di principio, proprie delle Nazioni Civili, nonché di legalità costituzionale, che consentirebbero di arrestarne la geometrica potenza distruttiva di benessere e democrazia nel nostro paese); e tali questioni costituiscono uno dei filoni fondamentali affrontati su questo blog, ormai, nel corso di anni. 
Il post risponde perfettamente alla conseguente necessità di riordinare e riassumere le idee esposte per i "non giuristi", ormai divenuti "colti"nel senso più sano della parola, in quanto si sono formati su queste pagine; con grande orgoglio da parte mia per aver visto i frutti tangibili di questa crescita, nelle risposte fornite da commentatori e frequentatori del blog.

Tempestivo lo è per una ragione molto attuale e non paradossale; gli "eventi che precipitano", secondo la traiettoria che si era pre-tracciata in post che risalgono ai primi passi di questo blog, si stanno sviluppando per linee esterne, cioè sul piano internazionale, e "autoctone", cioè della politica interna (che vanno confrontate con quanto detto nella prima parte del mio intervento a Chianciano, che spero sia presto disponibile in rete). 
A una prima impressione, personalmente, devo resistere alla tentazione di cadere nel più profondo sconforto. Una condizione psicologica che porterebbe, nella sua logica "emotiva", a seri ripensamente sulla stessa utilità di proseguire l'esperienza del blog.
Ma questo sconforto non ce lo possiamo permettere: la linea di giustizia nel diritto che si è tentato qui di sostenere, impone di lasciare che i "semi" della legittimità costituzionale democratica siano ancora da preservare, nella speranza che un giorno possano comunque germogliare ("a futura memoria", come ho detto più volte). 
Perciò, continuare a rendere testimonianza di questa legittimità democratica, mentre si cercherà di "realizzare" razionalmente la portata degli eventi che si stanno dipanando in questi giorni tormentati, rimane sempre un compito che la coerenza con lo Spirito dell'Uomo rende degno di perseguire.

Per capire il fondamentale ruolo che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha svolto e svolge nel processo di integrazione comunitaria, e quindi poter apprezzare la reazione della Corte Costituzionale italiana di fronte ad esso, bisogna necessariamente fare un po’ di passi indietro sia teorici che storici.

1.  Per prima cosa bisogna tornare sulla definizione giuridica di sovranità: i termini della questione sono stati cristallinamente chiariti in questo importante post sul Brexit che vi consiglio di (ri)leggere.

In termini generalissimi, la sovranità degli Stati ha quindi due aspetti: uno esterno, consistente nell’indipendenza, nel senso di originarietà dell’ordinamento statale; e uno interno, nel senso di supremazia rispetto alle realtà sociali e politiche interne.

2. I federalisti tuonano spesso contro “la sovranità assoluta” degli Stati la cui “malefica virtù” ha spinto “qualche cultore di diritto pubblico a compiere una costruzione elegante” («Corriere della Sera», 28 dicembre 1918; lettera a firma Junius, cioè il solito Einaudi).

Ci sentiamo di tranquillizzarli: la realtà della sovranità esterna è esattamente all’opposto di come la immaginano loro: la sovranità, lungi dall’essere incompatibile con il diritto internazionale, è anzi un concetto -  e, se si vuole, un “istituto” -  suo proprio. In primo luogo, la sovranità è riconosciuta (o denegata) precisamente da norme internazionali. In secondo luogo, la sovranità è il presupposto per l‘applicabilità di (altre) norme internazionali.
La sovranità, insomma, è non la negazione di ogni obbligo internazionale, ma al contrario il suo necessario presupposto: solo gli stati sovrani sono soggetti ad obblighi internazionali.” (R. Guastini, Lezioni di teoria del diritto e dello Stato, Giappichelli, Torino, 2006, pag. 214).

O anche, come ha detto, a me pare lucidamente, Natalino Irti (Norma e luoghi, Laterza, Roma-Bari, 2001, pag. 96): La sovranità degli Stati e le decisioni politiche sono tramiti necessari di qualsivoglia assetto internazionale. Il vago e umanitario cosmopolitismo, che nega sovranità e indipendenza degli Stati, non giova né alla cooperazione né alle pacifiche intese. Esso distrugge il reale e storico fondamento dei suoi stessi disegni. Non senza gli Stati, ma solo attraverso gli Stati, e dunque con la mediazione del volere politico, sono perseguibili gli obbiettivi di carattere internazionale.”

2.1. Il vero bersaglio di Einaudi è ovviamente un altro: “Se i parlamenti si sono rapidamente trasformati in camere di registrazione, quella trasformazione, già iniziatasi del resto prima della guerra, fu imposta dalla necessità. Quando le materie soggette a discussione ed a deliberazione hanno carattere internazionale, non possono essere discusse e decise da parlamenti municipali. Sopra agli stati, divenuti piccoli, quasi grandi municipi, ed ai loro organi deliberanti, debbono formarsi, si sono già costituiti idealmente stati più ampi, organi di governo diversi da quelli normali.

Insomma, il bersaglio della retorica del grande pennello è una certa conformazione della sovranità interna, già troppo democratica se lasciata ai Parlamenti.

Ovvio che Einaudi non si disturbi a criticare ciò che nemmeno può concepire (nel 1918, poi, figuriamoci), cioè quella specifica conformazione della sovranità interna che è la sovranità democratico-costituzionale volta a realizzare i diritti fondamentali (sociali in primis), ma il significato antidemocratico delle sue argomentazioni è comunque chiaro.

3. Antidemocratico perché?

Come giustamente s’è osservato:
la compressione della sovranità non dipende solo dall'esistenza in sé di un potere generalizzato di interferenza con le prerogative di un certo Stato (cioè un'interferenza che può andare al di là dei settori di competenza UE elencati nei trattati, come lamenta il regno Unito col riferimento alla "Carta dei diritti", incorporata in un certo modo nel diritto europeo), ma dipende, anche e soprattutto, dal tipo e dal contenuto delle norme sovranazionali che si impongono in virtù della (supposta) prevalenza del diritto europeo.”

D’altra parte, come analizzava lucidamente in un articolo di qualche anno fa (altro consiglio di (ri)lettura) Giancarlo Montedoro: I fondamentali orientamenti normativi - eguaglianza, relazioni sociali governate da regole legali, libertà generali, rispetto per i diritti umani - anche se spesso non pienamente praticati, restano legati allo stato-nazione.
Paradossalmente, lo stato-nazione funziona anche come barriera sostanziale, nella misura in cui tali orientamenti restano mere finzioni al di fuori dei confini dello stato-nazione.
I diritti umani trovano infatti sostanza solo in quanto codificati come diritti civili entro uno stato-nazione, mentre le relazioni internazionali restano affidate alla dipendenza (coloniale), alla violenza e alla guerra.”

Penso che il ragionamento, già ripetutamente svolto, sia chiaro: la radicale diversità sociologica, e quindi politica, fra rapporti internazionali e rapporti interni allo Stato-nazione rende, almeno per il momento, la preservazioni della sovranità statale esterna requisito non sufficiente ma sicuramente necessario a una conformazione di quella interna ai principi-fini di democrazia sostanziale previsti dalla Costituzione, vale a dire, ripetiamolo ancora una volta, - visto che pare che fuori di qui nessuno ne capisca o ne ricordi il significato-, l’attuazione generalizzata dei diritti fondamentali e in primis quello al lavoro, così da renderne l’esercizio concretamente uguale per tutti realizzando l’uguaglianza sostanziale:  
"Il secondo comma dell’art. 3 fa appunto riferimento a limiti di fatto che, nei confronti di un gran numero di soggetti, impediscono la attuazione piena del principio di uguaglianza, e che devono essere eliminati mercè interventi di indole pubblicistica diretti a consentire a ciascuno la partecipazione, in condizioni di parità, a tutte le attività sociali.
Pertanto, se si coordina l’art. 1 con la disposizione citata per ultimo, appare confermata l’opinione che vede nel valore lavoro l’elemento fondamentale dell’ideologia politica informatrice dell’intero assetto statale, e perciò costitutivo del tipo di regime.” (C. Mortati, Il lavoro nella Costituzione, Il diritto del lavoro, 1954, I, pp. 149-212 ora in Scritti, vol. III, Giuffrè, Milano, 1972, pag. 235).
 Ma sarà proprio così drammatica questa differenza fra società nazionale e internazionale? 

Non bastasse quanto già riportato, sentiamo anche un economista (il solito, ma non è mai troppo, Caffè: Cooperazione economica o vassallaggio?, “Il Messaggero”, 7 novembre 1977 ora in Contro gli incappucciati della finanza, a cura di G. Amari, Lit Edizioni, Roma, 2013, s.p):  
È bene premettere, a scanso di equivoci, che una cooperazione economica come quella che si manifesta nel «Comecon», l’associazione tra i Paesi dell’Est europeo e l’Unione Sovietica, non può incontrare l’approvazione di chi ritenga che la cooperazione costituisca qualcosa che vale soltanto se implichi fondamentale uguaglianza tra le parti e non rapporti di sudditanza. Del resto, l’esplicita insofferenza che è stata manifestata in varie occasioni da alcuni membri del «Comecon» sta a indicare che i rapporti di sudditanza possono essere subìti, ma non graditi.
Ciò detto, sarebbe soltanto un voler autoilludersi se si pensasse che le forme di collaborazione esistenti tra i Paesi a economia più o meno di mercato non comportino rapporti di dominazione, assoggettamento a posizioni egemoniche, tendenze involutive miranti a trasformare una ideale cooperazione tra uguali in un concreto assoggettamento a regole imposte, talvolta con pesante brutalità, da un ristretto direttorio di potenti.
[…]
Malgrado ciò, una economia di mercato in vario modo imputridita può essere considerata preferibile a una pianificazione centrale burocratizzata. Ma si tratta, allora, della scelta di un male minore, che non giustifica in alcun modo una idealizzazione mistificatoria della «economia di mercato», come se ciò che essa è nella realtà coincidesse con le astrazioni dei libri di testo. Né la scelta di un simile sistema, qualora sia posta come una «scelta di civiltà», significa necessariamente l’accettazione della inciviltà di personaggi politici esteri che, ospiti del nostro Paese, distribuiscono elogi e rimproveri, invitano a filar dritto se si desiderano investimenti di capitalisti stranieri e, in un momento in cui era in discussione la possibilità di un qualificato rilancio economico nel nostro Paese, intervengono con pesante rudezza per dire che questo rilancio non si ha da fare. Questo, in tema di ricordi, può rievocare la «cupidigia del servilismo», non alimentare uno spirito di cooperazione.
In sostanza, sia il «mercato», sia la «cooperazione internazionale» non sono cose la cui connaturale bontà debba darsi per scontata. La loro validità va verificata nell’esperienza quotidiana e dando peso adeguato alle vicende storiche.
Valutate voi se, da ultime, le vicende greche e italiane confermano o meno le considerazioni di Caffè e Montedoro.

3.1. E non è davvero che i trattati di libero scambio meritino una considerazione più benevola, anzi! A conforto di quel che è già stato spiegato più volte, vi riporto questo giudizio, ancora lui, di Caffè (E’ consentito parlare di protezionismo economico? “L’astrolabio”, XV, n. 12 (28 giugno 1977) ora in La solitudine del riformista, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, pag. 238 e ss.):

Non si riesce a comprendere perché lo stesso senso di pudore e di autocontrollo non debba essere avvertito da coloro che evocano la «follia autarchica», di fronte a ogni modesta proposta ispirata al fatto che, da che mondo è mondo, le politiche commerciali sono state informate a un dosaggio, non sempre raffinato ma reale, tra protezionismo e liberismo. La mancanza di rispetto verso se stessi, più che verso gli altri, da parte di coloro che con tanta stravaganza stabiliscono l’identità tra protezionismo e autarchia è rafforzata dal fatto che essi, di certo, non ignorano in quanti modi subdoli il protezionismo sia praticato proprio dai paesi che occupano posizioni di egemonia sul piano mondiale.”

Vi riporto anche una fonte poco frequentata, le “lucide considerazioni” (così secondo Caffè) formulate “a caldo”, quindi senza senno di poi, da Marco Fanno (Note in margine al trattato del Mercato Comune Europeo, apparso in II Mercato Comune (Problemi attuali di Scienza e di Cultura, Quaderno n° 44), Roma, 1958 ora in L’Europa e gli economisti italiani, a cura di Gabriella Gioli, Franco Angeli, Milano, 1997, pag. 187):

Riassumendo queste indagini preliminari possiamo quindi concludere che la creazione del Mercato Comune:
1) è bensì destinata a modificare la distribuzione delle varie produzioni tra i paesi partecipanti nel senso di una maggiore spe­cializzazione e a modificare l’ampiezza delle zone di smercio delle loro industrie, ma tutto questo in misura minore di quella della soluzione ottima, che si compendia nello slogan di un Mer­cato Comune di 160 milioni di consumatori; e precisamente in misura tanto minore quanto minore è il grado di complementa­rietà delle economie dei paesi partecipanti;
2) che essa è pertanto destinata a recare alla Comunità global­mente considerata benefici minori di quelli della soluzione ottima, e anche questi tanto minori quanto minore è cotesto grado di complementarietà;
3) che perché essa risulti in definitiva vantaggiosa a tutti i paesi partecipanti è necessario, qualora alcuni di questi sieno prevalen­temente industriali ed altri prevalentemente agricoli, che la redi­stribuzione intemazionale delle produzioni da essa promossa si fermi al di qua del limite al quale i paesi meno industrializzati comincerebbero a deindustrializzarsi.”
Insomma, qualsiasi “apertura” al diritto internazionale, e il diritto comunitario è e resta diritto internazionale (affermazione che mi riservo di argomentare più avanti), dev’essere considerata con estrema cautela e ne dovrebbe essere puntualmente verificata la compatibilità con i compiti di attuazione dei diritti fondamentali che lo Stato è costituzionalmente obbligato a perseguire.

4. Si può intuire che lo Stato ha potuto svolgere quella funzione di “barriera sostanziale”, come la chiama Montedoro, perché è esistita, e ancora esiste, una soluzione di continuità giuridica fra diritto internazionale e diritto statale. E’ proprio questa barriera che il diritto comunitario pretende di aver superato.

Si parla a questo proposito di superamento del dualismo del diritto internazionale.

Occorre fare molta attenzione perché di dualismo si può parlare in due sensi: dal punto di vista del diritto internazionale; dal punto di vista del diritto costituzionale.

4.1. Il diritto internazionale è dualista nel senso che le norme interne sono prive di rilevanza per il diritto internazionale: esse sono, dal punto di vista del diritto internazionale, meri “fatti”. La sola conseguenza, che il diritto internazionale prevede per il caso della emanazione o promulgazione di norme interne incompatibili, è la responsabilità internazionale dello Stato interessato: non mai l’abrogazione o l’invalidità delle norme in questione.” (Guastini, op. cit., pag. 202).

Quando lo stesso fenomeno è osservato dall’interno degli Stati si parla di “impenetrabilità” dell’ordinamento Statale da parte dell’ordinamento internazionale (e di qualsiasi altro ordinamento).
Lo spiega con la consueta chiarezza Crisafulli: “Ma siffatta soggezione alle norme [del diritto internazionale] non menoma l’indipendenza degli Stati, quanto al rispettivo ordinamento interno, giacché i limiti che essi incontrano nell’ordinamento internazionale non producono effetti all’interno se non per libera determinazione degli Stati medesimi. È ben vero quanto osserva il Kelsen, che, cioè, nell’ordinamento internazionale, “uno Stato può esser vincolato contro la propria volontà”; ma è anche vero che, nel diritto interno, tutto dipenderà poi dalle scelte politiche operate dall’autorità statale, vale a dire – salvo che sia diversamente disposto dal diritto statale – atti contrastanti con gli obblighi internazionali saranno egualmente validi, oltre che efficaci, sebbene, dal punto di vista del diritto internazionale, possano integrare un “comportamento illecito” dello Stato”. (V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, I, CEDAM, Padova, 1970, pag. 66).

4.2. Credo a questo punto si intuisca anche che cos’è il dualismo, oppure il monismo, in diritto costituzionale: è appunto il contenuto di quella “libera determinazione degli Stati medesimi” circa l’efficacia interna delle norme internazionali, fissato nelle rispettive Costituzioni.

Ovvero (Guastini, op. cit., pagg. 198 e ss.): È “dualistica” ogni costituzione per la quale: (a) solo il diritto interno è applicabile, mentre (b) le norme internazionali -  consuetudinarie e convenzionali -  non sono applicabili se non quando siano state recepite mediante atti normativi interni.

È “monistica” ogni costituzione per la quale le norme internazionali -  tutte: consuetudinarie e convenzionali -  sono direttamente applicabili, al pari del diritto interno.”

Sono “miste” quelle costituzioni che combinano una norma monistica per ciò che concerne il diritto internazionale generale consuetudinario con una norma dualistica per ciò che concerne il diritto internazionale convenzionale, o viceversa (ma il primo caso è assai più frequente).”

Chiariamo con riferimento alla nostra Costituzione: le consuetudini internazionali obbligano lo Stato nell’ordinamento internazionale che egli lo voglia oppure no, ma sono immediatamente efficaci nell’ordinamento italiano solo in forza del rinvio contenuto nell’art. 10 della Costituzione, da un lato (e quindi rispetto alle consuetudini internazionali la nostra Costituzione è monista); ma nei limiti contenutistici della loro compatibilità con i fini supremi dell’ordinamento italiano, stabiliti dalla stessa Costituzione, dall’altro. La sentenza n. 238 del 23 ottobre 2014 di cui si è più volte parlato riguardava proprio l’art. 10 (anche, se significativamente, estendeva apertamente il principio così riaffermato anche nei riguardi del diritto europeo che, pure, non era direttamente coinvolto nel caso risolto dalla Corte).

E’ quindi prima di tutto la Costituzione di ogni paese il filtro attraverso cui passa (o non passa) l’efficacia interna delle norme internazionali. (Chiaramente anche altre fonti, come la legge, possono introdurre negli ordinamenti statali norme internazionali…nel rispetto delle Costituzioni, e, dunque, in concreto, sempre sul presupposto del rispetto delle "competenze" delle varie fonti normative, a disciplinare certi contenuti e materie, stabilite dal sistema costituzionale delle "fonti" stesse).

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea sostiene che, nei rapporti col diritto comunitario, questo filtro per i paesi membri dell’Unione non esiste e quindi qualsiasi norma comunitaria suscettibile di essere efficace sulla base delle regole comunitarie, sia pure nei limiti delle competenze formali e materiali dei Trattati - il cui rispetto sarà però sempre e solo la stessa Corte Europea a valutare-, lo sarà ipso facto anche all’interno degli ordinamenti statali e dovrà essere applicata dai giudici interni a preferenza di qualsiasi norma statale, anche di livello costituzionale, con essa contrastante: è questo il modo in cui opera tecnicamente quello che Lordon chiama “diritto internazionale privatizzato” in Europa (qui p. 8), e che del tutto logicamente viene indicato come modello globale da quegli autori che auspicano un’attuazione del diritto internazionale in grado di garantire “diritti di pace, sicurezza e vantaggi economici direttamente agli individui” (pag. 1697). Insomma, il fogno.


Come e perché la Corte abbia avanzato queste straordinarie affermazioni, quale ne sia la plausibilità e la reazione degli Stati di fronte ad esse sarà oggetto delle prossime puntate.

39 commenti:

  1. Solo per segnalare che, nel post di Arturo, fino al punto 3.1 funziona solo un link, i restanti no...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie della segnalazione: spero di essere riuscito a ovviare al problema...

      Elimina
    2. Si risolto, grazie a voi per la segnalazione. Ed in merito ai subdoli marchingegni protezionistici dei paesi egemoni come non segnalare la Crante Cermania

      Elimina
  2. Emerge che solo una psichiatrica cecità ideologica non permette di vedere l'abnormità della situazione che si è venuta a creare.

    Il Fogno.

    L'internazionalismo, come suggerisce il termine, passa dallo Stato-nazione: o meglio, aguzzando la vista, passa dalla "nazione".

    Un conto è pensare a degli scambi commerciali inter-statali, un altro è pensarli inter-nazionali.

    Nella prima definizione c'è un intruso di troppo - che lascio indovinare - nella seconda non c'è.

    Purtroppo sappiamo che Marx prese in prestito la definizione di Internazionale proprio dai liberoscambisti.

    Poiché l'atteggiamento naturale vuole che il nome sia pure tutta la sostanza che c'è da comprendere, che l'internazionalismo sia di mercanti e banchieri, o che sia di salariati e piccola impresa, poco importa.

    Chissà perché - però - qualsiasi forma di socializzazione del potere sovrano - ovvero di democrazia - comporta una qualche forma di importante statualità.

    Ma secondo questa ideologia imperialista ed elitista piantata in testa ad europeisti e figli dei fiori cosmopoliti, la sovranità andrebbe ceduta ad un livello giuridico-politico superiore.

    Se non si comprende la dialettica di classe, tutto può essere ribaltato.

    Come ricorda Losurdo, l'individualismo metodologico dell'internazionalismo liberale e anarco-capitalista vale solo per le classi subalterne: il clero intellettuale e gli oligopolisti formano una massoneria bella compatta.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Gli anarco-capitalisti che si fanno difensori degli impoveriti (dallo Stato!) con la globalizzazione antistatalista che sarebbe il rimedio, sono uno spasso. Come non capire mai e poi mai neppure un millimetro del nazifascismo. Salvo approvarne l'instaurazione quando si rendevano conto che aveva evitato il comunismo. Quindi la pianificazione del mercato in funzione anti-welfare e le riforme strutturali del lavoro sono fatte per promuovere il benessere di tutti i votanti...

      Elimina
  3. Intanto salta primo (dal 2014) carico petrolio libico diretto in Italia, con prezzo del petrolio che torna su, grazie all'attacco milizie Haftar ai pozzi di Ras Lanuf...
    Bello infine il percorso del valore azione di Deutsche Bank da gennaio a settembre 2016: -48%.

    RispondiElimina
  4. Forse lo si è già osservato, ma lo segnalo ugualmente: basterebbe la lingua (i nomi delle cose - es. cosa intendano €$$I per riforme, democrazia, pace...).

    Su "internazionale":
    inter non vale extra, né circa né iuxta né tantomeno super (a seconda della prospettiva prescelta per la sevizie della sovranità). Poi, d'accordo, internazionale non è interstatale, ma cosa ne è delle nazioni stesse senza stato in un contesto ordoliberista realizzato?

    E ancora, sull'individualismo metodologico: una frase come "La società non esiste" riassuntiva, nel suo semplicismo politicante, di ragli argomentativi di ben altro conio, nega funzione pragmatica alla sua parola-chiave (funzione, cioè, referenziale, dal punto di vista di una teoria della produzione segnica, per cui la parola avrebbe un sema ma non un oggetto, uno stato del mondo cui rinviare - cfr. Umberto Eco, quando non parlava di Europa); una simile frase, dicevo, rende assolutamente inutile l'esistenza del lemma "società", che appunto non avrebbe referente.
    Dice: "Ma io negavo quanto presupposto dal mio interlocutore". No. Tu neghi, in questo caso, ciò che per Storia Antropologia e senso comune è persino scontato!

    Le lingue, per fortuna, non si comportano così, non si dotano di parole inutili (neolingue a parte).

    E nemmeno i sani di mente.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. « dal punto di vista di una teoria della produzione segnica, per cui la parola avrebbe un sema ma non un oggetto »

      Significato e intenzionalità.

      Questa potrebbe poi essere una delle migliori interpretazioni dell'identità logico-ontologica del tanto discusso « ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale » hegeliano.

      Tutti comprendono la seconda proposizione, nessuno - almeno nel suo intimo significato - la seconda, che può essere il principio cardine dell'idealismo: ovvero "l'iperuranio" è parte dell'essere. Le idee sono.

      L'idea platonica è parte della nostra esperienza cosciente.

      Non è quella roba astratta pop di chi parla con sprezzo di "amore platonico".

      (Basti pensare che "l'amore" nel suo senso proprio è strettamente connesso all'intenzionalità husserliana)

      Ma tutto ciò è rifiutato (noi sappiamo non a caso...) dal liberalismo anglosassone, che si fonda sulla filosofia morale che nasce strettamente connessa all'empirismo.

      Giustappunto Husserl dirà che Hume è stato - a memoria - « come un cieco che ha percorso tutta la strada della fenomenologia senza rendersene conto »

      Questo empirismo "cieco" genera quel cinico materialismo edonista ed individualista della cultura anglosassone, di cui il suo triste scetticismo e la sua "efficiente inefficacia".

      Nella filosofia morale di Adam Smith e Paley il concetto di società non esiste: la realtà è formata solo dai propri "io" irrelazionati.

      Purtroppo questa bestialità logico-metafisica viene ripresa anche nel '900 da autori come la Arendt (lasciamo perdere Popper che non ne vale la pena) descrivendo il totalitarismo nazi-fascista: questa notava l'omologazione dell'essere umano imbruttito nell'egualitarismo nichilista del nazifascismo (non occupandosi di "razze", non notava la disuguaglianza di "classe"), concludendo che parlare di "umanità" - spesso citata a vanvera dalla propaganda imperialista - fosse un concetto astratto omologante e nichilista in quanto nella realtà vissuta esistevano solo le singole individualità con le unicità delle singole vite.

      Che le due realtà potessero coesistere non le passava per la testa: che il nazifascismo fosse ultra-individualismo paludato di socialismo, lo ha intuito nei suoi ultimi scritti ammettendo la radicale opposizione delle premesse morali dei due sistemi di pensiero politico.

      D'altronde l'obiettivo dei dominanti rimane sempre e comunque, non distruggere uno Stato qualsiasi, che non ci può non essere dove esista un "civile" Stato di diritto, ma lo Stato etico hegeliano (che necessita quella omogeneità culturale e linguistica tipica di quell'unione di popoli politicamente cosciente che si fa chiamare Nazione).

      (La fenomenologia fa far tendenzialmente la pace a Kant ed Hegel, ma, purtroppo, passando da Heidegger: maestro ed amante della Arendt...)



      Elimina
    2. Appunto. Chi nega un oggetto alla parola "società", a parte il fatto di avere un'idea miserrima e limitata del mondo (alla lettera: deficiente), nega l'idea stessa di cui la parola è il nome. E contraddice la negazione: per negare l'oggetto è costretto a presupporre il concetto, e se "il razionale è reale"...

      L'ho detta in termini semiotici, la tua prospettiva è più profonda, ma siamo d'accordo.

      (Un giorno mi darai una dritta sulle distorsioni della visione fenomenologica ad opera di Heidegger... Solo una dritta, per parole-chiave, poi cerco io - quello che ho appreso di lui, da conoscenza manualistica poi lasciata cadere, mi orripilava a tal punto che me ne sono tenuto alla larga!).

      Elimina
    3. Bè, in tanto, come già si diceva, "non importa la disciplina a cui si fa rimento, ma, se non v'è contraddizione logica, l'oggetto d'indagine dovrebbe essere intuito correttamente indipendentemente dagli strumenti cognitivi messi a disposizione dalla particolare discipina".

      L'idea era appunto "ripetere" in altri termini la tua intuizione.

      La mia "dritta" si limita a considerare che, poiché Husserl si rifà fondamentalmente a Kant, e Hegel non lo cita praticamente mai, la filsofia della Storia rimane - per quel che mi riguarda - totalmente inesplorata.

      O meglio, il primo ad averlo fatto con un atteggiamento di questo tipo - ovviamente ante-litteram - è stato Marx... (ping)

      Di Heiddeger noto semplicemente che "non è dei nostri", emergono delle premesse/conclusioni etiche che andrebbero indagate: mi limito a riscontrare che Heidegger, che è allievo di Husserl, si occupa di "filosofia della storia" ma arriva a conclusioni che sono tipiche "del lato oscuro della forza".

      La mia "dritta" - per motivi di carattere epistemologico - è indicare questo territorio come area "di conoscenza" praticamente inesplorata...


      (Chiaramente la Arendt era concentrata sul problema della "razza" - l'antisemitismo e il razzismo biologico - rispetto alla struttura economica che ne ha permesso le condizioni di sviluppo)

      Elimina
    4. Comunque è Husserl stesso - secondo Lambertino - che avrebbe espressamente citato Heidegger come "fenomenologo" « ai suoi antipodi »

      Elimina
    5. Ettecredo...per fortuna la fiaccola è stata raccolta dallo spin-off dell'ermeneutica (v. Gadamer e l'italiano Betti: ti piaceranno)

      Elimina
  5. Questa per quelli che vogliono riscrivere la Costituzione secondo gli insegnamenti del "geniale" Miglio (Introduzione a "Gruppo di Milano", Verso una nuova Costituzione, vol. I, Milano, Giuffrè, 1983, pagg. 82-83):

    "La terza condizione è che si sappia preventivamente che cosa costeranno i servizi dello ‘Stato sociale’, e — sopra tutto — che poi si spendano risorse realmente esistenti. Il metodo che consiste nell’autorizzare spese al buio, e quindi nel colmare i disavanzi con il debito pubblico, o con segni monetari ai quali non corrisponde alcuna ricchezza — e quindi con l’inflazione — si traduce in una spogliazione clandestina ed incontrollata dei cittadini, distruttiva, nonché dei principi dello Stato costituzionale, dei più elementari diritti individuali.
    La differenza di fondo, fra il così detto ‘Stato sociale’ e il così detto ‘Stato assistenziale’ (le parole hanno il significato che si vuole loro attribuire: tutto dipende dall’intendersi) ridotta all’osso, sembra stare proprio in questa diversità di metodo: nel primo le risorse vengono distribuite (o redistribuite) soltanto dopo che se ne è accertata la disponibilità e programmato l’uso; nel secondo la regola dominante è quella di soddisfare le richieste avanzate, e poi cercare le risorse necessarie a coprire la spesa fatta. La chiarezza ed il controllo della spesa pubblica non sono funzionali allo ‘Stato assistenziale’. Perciò, mentre quello ‘sociale’ è un «tipo di Stato», quello ‘assistenziale’ ne è soltanto un caso patologico.
    È significativo che l’età dello ‘Stato sociale’ sia diventata anche l’età dell’alta inflazione. Certo quest’ultima è stata innescata dal repentino ed impietoso uso delle regole del mercato, da parte dei detentori delle materie prime; ma è anche vero che ormai il deprezzamento massiccio della moneta è diventato (almeno in alcuni paesi, fra i quali il nostro) un comodo strumento di governo: esso infatti consente di sottrarre risorse ai cittadini (‘trasferendole’ ad altri, speculatori compresi) senza che emerga la responsabilità di chi, detenendo il potere, quanto meno consente una tale vasta e illegittima espropriazione.”


    Come ho detto, necessaria ma non sufficiente.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Chi a costui si ispira non ha motivo di voler uscire dall'euro: al contrario, dovrebbe fortemente mantenerlo.
      Tra l'altro, le stesse cose le diceva "meglio" Einaudi. Altro modello esplicito di riferimento.

      Su tutti, aleggia Hayek, il federalista interstatale e predicatore della virtù del gold standard.
      Che, come la "scarsità di risorse" e la sua miglior allocazione tramite il mercato, con annessa carità e misericordia, comandate dalla stessa morale, piace molto anche a Roepke.
      E con lui a tutta la tradizione giudaico-cristiana in cui sarebbero fondate le radici dell'€uropa (e dei Fugger di ogni tempo).

      Elimina
    2. Più o meno le critiche di Ernesto Rossi che belava dietro al pastore Einaudi le invettive contro l'introduzione dei principi del Rapporto Beveridge in Italia.

      Posso assicurare - per esperienza diretta - che i suoi "allievi" sono ancora peggio: da Schmitt hanno preso solo quel rancore sordo verso l'umanità dei conservatori: ovvero di chi non comprende - non la questione morale - ma la più materiale ed etica questione sociale.

      L'identità liberalismo, liberismo, e federalismo, rimane confermata.

      Identitarismo e federalismo macroregionale e secessionista sono naturali figli legittimi dell'ordoliberismo teutonico.

      Non è un caso che il prof. Miglio fosse un teutomane.

      Elimina
    3. Miglio, Zagrebelsky e il diritto mite, ovvero, quello che si combina perfettamente: « con un'età "panfederale", basata sul contratto, sull'egemonia non più del politico, ma del privato, dei rapporti contrattuali, e quindi con una rivoluzione anche del diritto pubblico e dei punti che sono rimasti fermi da 150/200 anni »

      « La statualità va profondamente trasformata, non è più il punto di riferimento omogeneizzante, l'idea stessa di Stato tende a scomparire; perché in tutte le strutture federali vere la sovranità è divisa, non è mai localizzata »

      « Non esiste più il principio di immutabilità dello Stato: anche lo Stato, [non inteso più nella sua accezione classica, in quanto andrà a scomparire, ma come semplice "organizzazione politica"] potrà subire modifiche come per i contratti privati, non sarà più "eterno". Ci sarà la caduta del primato della politica.
      Il secondo caposaldo sarà abbandonare il concetto di confine
      »

      Miglio annuncia il nuovo feudalesimo:

      « Ovvero torniamo ad un'organizzazione politica analoga a quella che c'era in Europa tra il 600 e il 700 »


      « Lo Stato nazionale rimarrà ancora formalmente come amalgama di unità regionali [...] ma lascerà il posto all'Europa delle regioni [...] abbastanza rapidamente »

      Tra differenze "antropologiche", "dare e avere" nella contabilità nazionale, e vari luoghi comuni da bar dello Sport, riesce anche ad arrivare ad affermare che: sì il nostro Stato è "assistenzialista", ma «non ha messo radici». (La contraddizione non la coglie, nel suo trip idealista sullo statualismo tedesco nella versione ordoliberista)

      Essere profetici senza aver capito una mazza delle cause.

      Ha studiato tutta la vita senza comprendere la differenza tra Stato liberale e Stato sociale.

      Quarantotto ultimo baluardo del costituzionalismo democratico...

      Elimina
    4. No, ma, a proposito di Zagrelbesky, in un momento di "ennui" si lascia andare a considerazioni a ruota libera di estremo "interesse"
      http://www.huffingtonpost.it/2016/09/19/zagrebelsky-referendum-tifo-stadio_n_12080906.html?utm_hp_ref=italy
      D. È bene pure che l'agenzia di rating Fitch, insieme all'ambasciatore statunitense, invitino a votare sì al referendum?
      R.La prego, non voglio parlare del referendum.

      Preferisce regalarci queste perle di storiografia politico-religiosa:
      D. Secondo lei, il mondo musulmano italiano ed europeo è pronto ad accettare questa ingerenza nel suo stile di vita?
      R. Dietro l'idea dell'interazione c'è una scommessa: che le culture siano in grado di modificare se stesse. L'Islam ha 600 anni meno del cristianesimo. Pensi a cos'era il cristianesimo 600 anni fa. Pensi ai roghi, alle persecuzioni, alle violenze tra cristiani e cristiani. Ecco, oggi il cristianesimo si è evoluto sino al punto di diventare una delle forze costitutive del mondo occidentale. Perché non può succedere con l'Islam?

      "...L'economia globalizzata aspira a un mondo omologato, ma ci sono culture che non accettano questo fine. Anche quella della civiltà musulmana, se vuole, può essere considerata come una protesta contro la reificazione di ogni aspetto della vita. E anche nel mondo occidentale c'è una cultura che non si adegua e si ribella al "pensiero unico". È un bene che ci sia questo conflitto".

      L'importante è ignorare il conflitto sociale. Mica ne vorremo parlare mentre stanno smontando la Costituzione dopo averla impaludata per bene (nella sua totale indifferenza)?

      Elimina
    5. E una volta pronunciata la fatidica "reificazione", francamente preferisco Popper. Dovendo scegliere (di che morte debba finire la democrazia).

      Elimina
    6. D'altronde come si fa a non essere debitori ad Alberto per aver tratteggiato in modo così spietato il prodotto di ingegneria sociale sorosiana per eccellenza, ovverosia il "piddino "? Colui che trasforma la cultura in un insieme di banalità e cazzate?
      Almeno Popper si è messo al servizio "del male" per una buona causa , quella che lui riteneva "democrazia", non sicuramente per vergognosa vigliaccheria.

      Elimina
    7. IO SPERIAMAMO CHE ME LA CAVO

      Chi sarà interrogato oggi?
      Cosa sarà loro chiesto di rispondere: d'algebra, di lettera o .. testamento?

      E soli soletti - gli eminenti - tra rimorsi di una triste libertà perduta e l'ansia d'essere scoperti impreparati sul nitrito d'amile, sulle proprietà nel trattamento delle intossicazioni da cianuro, noto anche come “popper”, rush o l'onomatopeico “pop”, dal suono prodotto dall'apertura della fiala di vetro.

      Cosa meglio dei collaterali effetti di una discussione sull'Islam, sul feticismo del burkini che considerare i miasmi prodotti dalla decomposizione della “carta” ad opera di eucarioti “funghi” imperfetti, asco(ro)miceti cammellati annebbiati dagli stupefacenti sintetici irrorati a pioggia sulle trincee.

      Cosa meglio della rigida disciplina del “curbasc” inflitta sugli spalti del villaggio globale?

      Nelle nuove casacche se la caveranno anche stavolta senza rimpianti, volgendo le spalle alle rovine di una civiltà necessitata.

      That's all, folks!!

      Elimina
  6. Buon giorno a tutti.

    ringraziandovi tutti per la profondità di post e commenti, provo ad aggiungere qualcosa di mio in questi giorni di referendum; se tutto va bene con il comitato di Roma di Indipendenza e Costituzione riusciremo a organizzare qualcosa, vi terrò aggiornato. Vorrei dunque chiedervi, se già non avete raccolto e analizzato informazioni simili, se questa frase presente nel post

    "La sovranità, insomma, è non la negazione di ogni obbligo internazionale, ma al contrario il suo necessario presupposto: solo gli stati sovrani sono soggetti ad obblighi internazionali."

    non metta in luce anche per voi un aspetto comico della temuta nuova Costituzione. Infatti essa incorporando circa una decina di volte il termine "Unione Europea" (specie negli articoli 55, 70 e 117 dove già era presente grazie alla riforma del Titolo V) mette l'Italia, forse unica al mondo, nella condizione di stato sovrano che, come tale, presuppone nel costituirsi obblighi internazionali SPECIFICI; molto più di quanto non dica il semplice articolo 10, in cui è l'ordinamento giuridico a conformarsi a norme del diritto internazionale non meglio specificate se non come "generalmente riconosciute". E quando l'UE non ci sarà più? Facciamo un'altra riforma?

    ...quando l'UE non ci sarà più facciamo un barbecue, per prima cosa. Siete tutti invitati.

    RispondiElimina
  7. Lupus in fabula: ieri sera alle 21,00 si è tenuto ad Ivrea un incontro sulla riforma costituzionale. A sotenere le ragioni del “no” niente meno che … Zagrebelsky, mentre a favore del sì un certo prof. Arconzo di Milano. Dopo i primi venti minuti durante i quali i relatori hanno discusso del ridisegnato art. 70, ho cominciato ad intuire che aria tirava. La comprensione è stata totale quando Zagrebelsky, mettendo le mani avanti, se ne è uscito con una frase sbrigativa che all’incirca suonava così “lasciamo stare se la riforma sia voluta o meno dai mercati o dalla massoneria”. Lui di queste cose ovviamente non parla. E’ un tecnico. Ho alzato i tacchi e me ne sono andato. Non so come sia finita e non mi interessa.

    Ero andato, senza troppe illusioni, con in mente quello che scriveva Basso, ovvero:

    “… Ci si può chiedere dapprima se è più importante la prima parte della Costituzione che riguarda i diritti dei cittadini o la seconda che riguarda, l’organizzazione e la struttura dello Stato. Fino ad ora è stata importante la seconda parte, che è prevalentemente retriva, conservatrice e che ha funzionato subito. La prima invece è molto avanzata, è una serie di affermazioni di cosa da fare, si proietta nel futuro, è la parte propulsiva; io credo che in ultima analisi sarà essa quella che avrà maggior importanza. LE GENERAZIONI NON CONTAMINATE DAL FASCISMO, mentre la classe dirigente politica italiana per quanto si dichiari democratica è tutta contaminata dalla educazione fascista, ESPERIMENTANDO IN CONCRETO LA VITA DI OGGI E IMPEGNANDOSI SUL SERIO A REALIZZARE LA PRIMA PARTE DELLA COSTITUZIONE POTRANNO TRASFORMARE PROFONDAMENTE L’ITALIA E POTRANNO FAR SÌ CHE LA PRIMA PARTE DELLA COSTITUZIONE DIVENTI LA PIÙ IMPORTANTE e di conseguenza i meccanismi dello Stato si adeguino ad essa…” [L. BASSO, L’esigenza di una democrazia sostanziale e la nuova Costituzione repubblicana, in Dal fascismo alla democrazia attraverso la resistenza, Padova, Collegio universitario D. Nicola Mazza, 1975, 108-112]. Ed invece il deserto.

    Poi mi sono ricordato che nel 2011 avevo acquistato “La felicità della democrazia-Un dialogo”, Laterza, di Ezio Mauro e G. Zagrebelsky. E qui veniamo al post di Arturo, al quale vanno i miei ringraziamenti.

    Ezio Mauro attacca “… la globalizzazione chiede uno SFORZO CULTURALE, quando ti domanda di riscrivere il contratto dei diritti e dei doveri per la prima volta fuori dal tuo orizzonte biografico, dal tuo spazio di esperienza. Non solo. E’ chiaro che servono nuove alleanze, nuovi soggetti transnazionali, nuovi terreni negoziali…Con IL DECLINO DELLO STATO-NAZIONE, dobbiamo trovare nuovi concetti post-internazionali, dobbiamo pensare a un mondo dove tutto è ubiquo, tutto è contemporaneo, salta l’unità di luogo, cioè l’accumulo progressivo e regolato, prevedibile, di esperienza, valori e tradizione. Insomma, con la globalizzazione la democrazia è veramente alla prova dell’universale…”.

    Zagrebelsky risponde: “Nel frattempo, credo che dobbiamo acquisire un atteggiamento nuovo di fronte alle conseguenze che la globalizzazione scarica sui nostri sistemi economici e sociali. Dobbiamo riuscire ad interiorizzare, SENZA PANICO, L’IDEA CHE IL FUTURO NON CI CONSENTIRA’ DI VIVERE COME FINORA ABBIAMO VISSUTO. la cultura e la politica avrebbero qui un grande compito del FORMARE UNA COSCIENZA. DOBBIAMO RIDURRE LE NOSTRE PRETESE COMPLESSIVE DI BENESSERE NEL SENSO DELL’EQUITA’ DEI POPOLI…”. E adesso vai di supercazzola “UN’UGUAGLIANZA VERSO IL BASSO DELLA MAGGIORANZA DELLE POPOLAZIONI CHE STA SOTTO IL CARRO DI DSCHAGANNATH…(!)” [La felicità della democrazia-Un dialogo, cit., 45-46]. Si reclamano uno “sforzo culturale” e “una coscienza”: mi pare che sia il linguaggio orwelliano dell’ingegneria sociale neoliberista. (segue)

    RispondiElimina
  8. Poi ho riletto ancora Lelio per disintossicarmi prima di mettermi a dormire:

    “… noi siamo sempre perfettamente coerenti con la nostra concezione. Noi sappiamo che Marx scrisse “gli operai non hanno patria”, ma Marx ci insegnò altresì che il proletariato deve acquistare la sua coscienza nazionale e che esso l'acquista a misura che esso si emancipa, a misura che esso strappa dalle mani della borghesia l'esercizio esclusivo del potere politico e si presenta sulla scena della storia come classe che esercita la pienezza dei suoi diritti. Perciò l’internazionalismo del proletariato si fonda sull'unità e sulla solidarietà di popoli in cui tutti i cittadini, attraverso l'abolizione dello sfruttamento di una società classista, conquistano LA PROPRIA COSCIENZA NAZIONALE… il nostro intenazionalismo non ha nulla di comune CON QUESTO COSMOPOLITISMO DI CUI SI SENTE TANTO PARLARE E CON IL QUALE SI GIUSTIFICANO E SI INVOCANO QUESTE UNIONI EUROPEE E QUESTE CONTINUE RINUNZIE ALLA SOVRANITÀ NAZIONALE. L’internazionalismo proletario NON RINNEGA IL SENTIMENTO NAZIONALE, NON RINNEGA LA STORIA, ma vuol creare le condizioni che permettano alle nazioni diverse di vivere pacificamente insieme. Il cosmopolitismo di oggi che le borghesie nostrane e dell'Europa affettano è tutt'altra cosa: è rinnegamento dei valori nazionali per fare meglio accettare la dominazione straniera… Noi sappiamo che in questa lotta il proletariato combatte insieme per due finalità e che in questa lotta esso ACQUISTA CONTEMPORANEAMENTE LA COSCIENZA DI CLASSE E LA COSCIENZA NAZIONALE, ponendo le basi per un vero internazionalismo, per una federazione di popoli liberi che non potrà essere che socialista! (Vivissimi applausi e congratulazioni)” [L. BASSO, discorso del 13 luglio 1949, in Il dibattito sul Consiglio d’Europa alla Camera dei deputati, ora in Mondo operaio, 10 settembre 1949, 3-4-].

    Sembra che ad oggi, dietro il “monismo”, stia per avere la meglio il fumoso globalismo giuridico (neokantiano) di Kelsen e di Bobbio. Ovviamente ben impregnato dall’universalismo cattolico.

    Un’altra giornata cupa per la Costituzione volgeva al termine.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Mi fai venir voglia di fare un libro su tutto questo. Se servisse a qualchecosa (visto che sono cose già dette nei precedenti libri, anche se intrecciate ad altre questioni). Ma ormai temo che...

      Elimina
    2. Non capisco se Lelio, quando fu invitato nei '70 al convegno dei giovani fascisti europei, usò toni tanto morbidi perché la CEE non aveva ancora gettato la maschera - tanto che sul "Federalist" gli chiesero di "ammettersi di essere sbagliato" - o perché fosse semplicemente "rispettoso degli ospiti" (mi gioco il tasto "invio" che è per il secondo motivo).

      Basso difficilmente scende alle "profondità" di Gramsci: almeno, tendenzialmente non lo fa, essendo i suoi scritti mediamente orientati più alla prassi che alla teoria politica.

      Eppure era un bibliofilo. Eppure si è preso una seconda laurea in filosofia. Eppure si scriveva con Bobbio e cenava con Sartre.

      Ha conosciuto gran parte dei maggiori influenzatori mondiali del pensiero del '900.

      Quello che notai subito è la spropositata quantità di "buon senso": di semplice semplicità.

      La leniniana ed immediata comprensibilità dei suoi argomenti, nonostante la sopraffina arte retorica, tipica manifestazione di "classicità" (secondo Schmitt la "classicità è retorica", e viceversa)

      La famosa aspirazione ideale di Basso è un pugno spirituale contro ogni ideologia, ogni gregge, ogni Fogno.

      Solo con un profondo lavoro di riduzione del proprio io e, quindi!, dei fenomeni sociali oggetto di coscienza, si arriva a ad essere percepiti - senza dubbio - integri nella propria coscienza morale.



      Quarantotto, i libri vanno scritti: cosa c'è di più divertente che dir delle cose di puro "buon senso" e al contempo creare degli "shock cognitivo-culturali" nello zombie post-moderno? :-)

      Elimina
    3. Parli tu :-)
      Seriamente, libri scritti per farli leggere a chi?
      A gente che già legge questo blog e non si sciocca di certo e avendo contro ogni chance di distribuzione e persino di promozione da parte di un editore...minore?
      That's the (most obvious) question...

      Elimina
    4. Anche i federalisti avevano scritto e spiegato per ben benino tutto il progetto reazionario.

      Voglio dire: se non c'era Arturo che andava a scoprire le pubblicazioni di Sergio Pistone, chi cavolo se le andava a leggere?

      Tutto il pensiero fascio-liberal-federalista, è portato avanti dalle medesime persone: neanche particolarmente efficaci, e obiettivamente simpatiche come le gengive di Padoa-Schioppa.

      Il resto è gregge.

      Il punto è che qualcuno "che prende le decisioni che contano" se li è letti.

      Io non ci credo - sulle orme di Charles Wright Mills - che nelle élite vere, con accesso "totale" alle informazioni e che prendono decisioni, si rendano conto di quello che fanno.

      Molte persone istruite che appoggiano quest'ordine - e non mi riferisco solo agli intellettuali sorosianizzati - sono convinti del TINA.

      Possibile che il capitalismo abbia selezionato solo mafiosi ai vertici della piramide sociale?

      Se poi si prende in considerazione "l'élite allargata", praticamente tutti ci perdono da questo gioco al ribasso: senza contare che è un democratico è cosciente che alla fine non ci saranno proprio vincitori...

      Si muore come si nasce: uguali.

      Ed è questo che i TINA non vogliono accettare...

      Elimina
    5. Concordo e more solito sintetizzi bene il quadro che qui si è delineato.

      ESSI possono contare su una vasta platea di "cooperanti" semicolti, che compiono una proiezione identificativa più razionalmente (para)giustificabile di quella della massa, ma NON MENO CONDIZIONATA dalla propaganda pop: e quindi inconsapevole.

      Ma il punto rimane: se pure avrebbero, tutti gli strati di costoro, convenienza a leggere un libro che gli spieghi il condizionamento e la "sconvenienza" della loro pedissequa adesione, come e da quali meccanismi comunicativi e di mercato sarebbero indotti anche solo a venire a conoscenza di un tale libro?

      Elimina
    6. La mano invisibile di Smith? :-)

      Elimina
  9. I partecipanti avevano l'occhio bianco come nei films dei visitors. Purtroppo in questo momento storico è così. Però mi confortano sempre le parole di Basso il quale, braccato dai nazisti e portandosi dietro i suoi libri, affermava: in qualsiasi condizione si può sempre lottare. Se non altro per la propria dignità

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Questa cosa per cui scappava portandosi dietro i libri mi colpì tantissimo....

      Si potrebbe discutere del concetto di "zavorra".


      Per ora mi limito a notare che gli intellettuali non fanno altro che paludare, ratificando, il nichilismo annientatore di popoli e culture espressione di niente altro che forza bruta senza alcuna ragione che non sia gravemente patologica.

      La cosa grave è che gente come Zagrebelsky è come Miglio, per quanto di opposto Fogno: non hanno capito un cazzo.

      Elimina
  10. Direi proprio di si': non hanno capito una mazza, ma quel che e' peggio e' che si atteggiano come se avessero capito

    RispondiElimina
  11. Prima di essere qualcosa sotto il profilo della dottrina, Zagrebelsky è cristiano. Credo c'entri.

    Quando spiegherò il Sillabo, quest'anno, lo farò ridendo a crepapelle. Condanna del liberalismo lo vai a dire a mio nonno! Il Pio aveva solo in mente un altro tipo di feudalesimo. Per il momento. Beghe in famiglia, ma poi ti ritrovi il Gustavo in liaison dangereuse con Miglio e capisci molto.

    Ma anche sui cristiani qui s'è già più volte detto.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Dai, Luca, allora non puoi perderti l’elogio anarco-capitalista del Sillabo!. Senti un po’: ”A ragione, quindi, Pio IX condanna, nel capo sesto del Sillabo, le dottrine che più in profondità hanno perseguito il programma di secolarizzazione della società mediante la statalizzazione generalizzata: quelle che egli chiama le “pestilenze” del socialismo e del comunismo (oltre che delle società segrete). Alla luce dell’esperienza del “socialismo reale” novecentesco, dunque un vero liberale non può non plaudere di cuore a questa ferma condanna. Ma che dire del capo che affronta gli Errori riguardanti l’odierno liberalismo (proposizione LXXX), pietra di scandalo per i liberal odierni, in particolare dove si afferma che il pontefice non può e non deve venire a patti né a compromessi con il progresso, con – appunto – il liberalismo e con la civiltà moderna? Va anzitutto precisato che il “liberalismo” contro cui lottava Pio IX non aveva nulla a che fare con l’autentica tradizione liberale dei John Locke, Adam Smith, Edmund Burke, Alexis de Tocqueville e Frédéric Bastiat o - per venire ai giorni nostri - dei Ludwig von Mises, Friedrich A. von Hayek e Murray N. Rothbard, una filosofia, questa, sorta a partire dall’età moderna proprio allo scopo di difendere la società civile, le comunità e le tradizioni dall’avanzata incontenibile dello Stato moderno.”

      Elimina
    2. Arrotolati nel nominalismo più imbecille e insensato: se Jack Lo Squartatore dicesse loro di essere cattolico e di "liberare" le persone "aprendole", lo imiterebbero belando...

      (La Storia insegna...)

      Perché, quale spazio dare ai tradizionalisti fedeli al Pio successivo?

      « I veri amici del popolo non sono né rivoluzionari, né novatori, ma tradizionalisti »

      Notre charge apostolique

      Ognuno ha il suo mandato...


      (E ci credo che poi spunta il genio che è contro il secondo comma del terzo articolo e cita Del Noce che, come mi ricordava Arturo, quale contributo ha dato alla costruzione delle democrazia italiana?
      «
      La nuova posizione delnociana si presenta come un tentativo di superare nello stesso momento la posizione rivoluzionaria e quella reazionaria [che è un concetto ben chiaro e definito in politologia, cari tradi-nazionalisti...]. Se la sinistra cattolica, con il giudizio positivo sul marxismo come momento della modernità che può essere salvato, aveva rappresentato un rovesciamento della posizione reazionaria (la quale invece negava liberalismo e socialismo condannando in blocco il mondo moderno), la nuova posizione rappresenterebbe un tentativo di superamento, ossia un ritorno alla critica del marxismo, ma senza ricadere nella posizione reazionaria, dunque rivalutando il momento del liberalismo ». [T. Dell’Era, Del Noce filosofo della politica, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2000, pag. 244])

      (Insomma: gira e rigira la frittata, ma dietro ad ogni "tradizionalista" si nasconde un liberale pronto a puntellare l'ordine del libero mercato, aiutando ad imboccare "la via verso il medioevo" tanto amato da Menger e dai nipotini austriaci)


      (Non lo ammetteranno mai: la sintesi del tradizionalismo? Oratores, Bellatores e Laboratores)

      Elimina
    3. Beh, Arturo e Bazaar, almeno si ride - grazie di cuore, a proposito. Da lacrime agli occhi il panegirico del bigottone, coi veri e falsi liberali...

      Sì, credo che Adalberone di Laon c'entri qualcosa.

      In fondo, si parla pur sempre di un ordine rigido statuito ab aeterno, di distribuzioni "naturali" e di istituti giuridici (omaggi, servaggi o diritti di proprietà che siano) che da quell'ordine derivano, anziché eventualmente determinarlo.

      Fondo il feudalesimo ed ex post lo dico "naturale" e/cioè divino. Amen.

      Rido, ed è un modo come un altro per tirare avanti, di questi tempi.

      Però, Arturo, la prossima volta avvertimi prima di citare roba simile, che prendo un Plasil...

      Elimina
    4. Ognuno ha la chiesa che si merita: Soros si è comprato la sua.

      Mazzini e Garibaldi sarebbero felici di unirsi alle allocuzioni in occasione della morte di Fratello Ciampi o, sicuramente, quelle riservate al Fratello Massone David Bowie o al (forse) Fratello Freddie Mercury.

      « Degli aspetti ermetici e rosacrociani della Weltanschauung di Mercury e del suo Gruppo musicale, i “Queen”, ha altrove parlato in belle e interessanti pagine il Fratello Gianfranco Pecoraro »

      Azz, che cultura musicale!

      Degna di grande riflessioni ermeneutico-esegetiche funzionali all'edificazione della Grande Società... ops! Volevo dire del grande "Tempio".



      (La situazione è grave, ma assolutamente non è seria)

      Elimina
  12. Ho visto su LA7 un'intervista alla Presidente dell'Associazione Nazionale, con sede in Roma, "Sivotasi", di chiara ispirazione renziana sulla cd. "Riforma costituzionale". Ebbene, non ne conosceva neppure il contenuto, non conosceva né la Costituzione in vigore, né le nuove norme cd. riformatrici. Questo blog non è solo interessante, ma è la manifestazione di una forte solidarietà culturale, con chi crede nell'uomo e nel significato dell'umanità. Mi ricorda la Ginestra che cresce tra le ceneri del Vesuvio. Giovanni

    RispondiElimina
  13. Bel post, sul quale mi permetto di intervenire, ancorché tardivamente, citando un estratto della relazione di minoranza presentata, nel corso dell'iter alla Camera, al testo che sarebbe poi diventato la legge n. 1601 del 1922, presentata dal primo Governo Mussolini (conteneva una delega tout court al Governo per delle "riforme", in particolare del sistema tributario e della Pubblica amministrazione). La relazione era a firma dell'onorevole Matteotti.
    Questo l'estratto del testo:
    "...
    La verità è che il disordine amministrativo ed economico attuale non tanto dipendono da difetti del parlamento, ma traggono inizio proprio dal momento in cui il parlamento cessò difunzionare normalmente, e la legislazione, anziché conforme alle norme costituzionali, fu tutta affidata, dalla dichiarazione di guerra in poi, al potere esecutivo, all’alta burocrazia e alle altre forze che sulle prime due hanno agito."

    Credo calzi alla perfezione.

    RispondiElimina