giovedì 30 giugno 2022

"EURO E(O?) DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE": NUOVA EDIZIONE AGGIORNATA CON UN SAGGIO SULLA SOSTENIBILITA' DEL PNRR

Per coloro che, in questi ultimi anni, mi hanno chiesto, come reperire il "primo" libro (o anche: "ma che fine ha fatto, che non lo trovo da nessuna parte?"), ecco: questa è la nuova edizione appena pubblicata.

Qui potete andare a ordinarlo on line (distribuzione in libreria...lasciamo perdere; i tempi sono semmai peggiorati dal 2013...)

L'aggiornamento è nel colore, anzitutto: la copertina è di un blu più profondo. Il che se riferito all'argomento del titolo, ha più che mai un senso.

Sono poi aggiornati i personaggi €uropei che figurano in contrapposizione ai nostri Costituenti (Lelio Basso, Piero Calamandrei e Amintore Fanfani): ora, cessati dalle rispettive cariche Juncker, Olli Rehn e Schauble, compaiono la Von der Leyen, Gentiloni e Michel (presidente del Consiglio europeo, per chi non lo sapesse).



Ma più di tutto, c'è una nuova introduzione al testo, (un vero e proprio nuovo capitolo), che parla della irriformabilità dei trattati; intesa, quest'ultima, come possibilità di modifica che porti alla loro sostenibilità, per i cittadini dei vari Stati-membri...e non, piuttosto, come sta accadendo, come inasprimento della spirale di follie, tra green, digital, abolizione dell'unanimità nelle materie di maggior impatto sulla vita dei cittadini...e diritti cosmetici.  

Inevitabilmente, il saggio introduttivo parla anche del Pnrr e della "Grande (e Tragica) Illusione" che intorno ad esso si è sviluppata: con un'imprevidenza circa il nostro immediato futuro, - mediatica e politico-culturale -, pari soltanto all'apatia con cui gli italiani hanno accettato questo stesso futuro, molto, molto difficile, senza che gli sia mai stato spiegato correttamente alcunché.




sabato 11 giugno 2022

CONGIUNTURA ECONOMICA INTERNAZIONALE, INFLAZIONE E "SENSITIVITÀ E SOSTENIBILITÀ DELLE FINANZE PUBBLICHE" (L'ICEBERG -1)



1. Perché lo spread? Perché la BCE non possiede i poteri e gli strumenti propri di una vera banca centrale nei confronti dei singoli Stati. 
Riflettendoci: chi le sta intorno la conosce: e pure il limite della capital key per gli interventi BCE con impiego dei tdp venuti a scadenza e rimborsati (in definitiva alle BC nazionali del sist€ma).
Ma è impressionante la ripetitività degli argomenti contra Italiam
completamente fuori contesto: nel 2011, le "riforme" erano in realtà il sistema di correzione del saldo negativo commerciale, verso gli altri paesi dell'EZ (Ger soprattutto), insito nei Tr. UE, col divieto di bail-out (p.7). Quindi dovevamo deflazionare...
Ma oggi, vantando l'Italia un attivo ormai decennale delle partite correnti (e una correzione sbalorditiva della PNE: da -27% del 2011 al segno positivo da circa 2 anni), lo spread ha cause diverse. 
Beninteso, ora come allora, la causa dell'assenza di acquirenti btp, e quindi dello spread, sta sempre nelle regole stesse dell'EZ, in quanto privano uno Stato del sostegno della propria banca centrale, che provveda a (normali) funzioni di "tesoreria" (anticipazioni della BC come "scoperti di conto" e acquisto diretto E permanente dei titoli di uno Stato = monetizzazione in plurime forme: v. art.123 TFUE), quindi non di lender of last resort (che riguarda il sistema finanziario privato).
2. L'analogia, incompleta col 2011: la situazione è diversa (in peggio) per via di clausole CACs e regole dell'Unione bancaria, anche se l'Italia ha oggi, con un certo successo, compiuto il tipo di correzione che, nel 2011, era imposto dalle regole dell'Eurozona.
Ma nel 2011, i mercati finanziari chiedevano rendimenti più elevati per le nuove emissioni (avendo venduto i titoli sul mercato secondario e, quindi, da lì, "trascinando" sulle aste di collocamento i differenziali creati coi crescenti volumi di vendita sul secondario), in funzione di quel passivo coi conti esteri e scontando appunto il metodo di correzione imposto dentro l'EZ (lo stesso Draghi spiegava  molto bene il meccanismo...ma il video "non è più disponibile perché l'account YouTube associato al video è stato chiuso" 😁orizzonte48.blogspot.com/2017/03/maastr… qui v. comunque p.1). Tale aspettativa dava inevitabilmente origine ad un'ulteriore aspettativa consequenziale: e cioè, sia di recessione e di conseguente aumento del rapporto debito pubblico/PIL (puntualmente verificatosi, proprio con la "cura Monti", che almeno correggeva lo squilibrio estero), sia di potenziale Ital-exit dall'euro, con conseguente svalutazione della valuta in cui sarebbero tornati ad essere espressi i titoli. TUTTAVIA, OGGI QUESTE CONDIZIONI NON ESISTONO PIU'. 
Appunto: l'Italia ha già stabilizzato un attivo CA; INOLTRE, le varie clausole CACS, recepite nel 2012, impedirebbero un agevole cambio di valuta dei tdp (qualora divenuti incollocabili se denominati in euro, senza una propria BC); infine la subentrata (al 2011) Unione bancaria appresta, in caso di default inflitto ai creditori dei tdp, -  e dunque riflesso anche nelle perdite di bilancio del nostro sistema bancario, per la consistente quota detenuta di titoli del debito pubblico -, una garanzia che non è più solo il drenaggio di liquidità dalle nostre tasche mediante consolidamento fiscale (più tasse e meno prestazioni ai cittadini italiani), ma che arriva fino ai depositi bancari privati (v. INFINE: PRECISAZIONE), col c.d. bail-in.
3. E il discorso ritorna sempre all'Ital-tacchino ovvero al futuro dell'Italia in mano al "policy maker (sovranazionale) ideale".


Il paradosso, quindi, è che esiste un forte interesse al default italiano, nonostante l'Italia sia diventata un esportatore netto, creditrice commerciale del resto del mondo. 
E ciò, perché, grazie agli spread e alla conseguente insostenibilità delle regole di bilancio dell'EZ, (attestata anche dall'ultimo Def, in specie si veda alle pagg. 87-89 circa la "supposta" "sensitività ai tassi di interesse") non solo si impone una nuova tornata di drenaggio "di garanzia", via austerità fiscale, - che, a rigore, non sarebbe più giustificata dalla (superata) condizione di debitrice commerciale dell'Italia- , ma, aggiuntivamente, vigendo l'Unione bancaria, si riesce a escutere lo stock di risparmio, comunque rilevante, degli italiani; questo consiste in depositi bancari e, prima ancora, negli assets (immobili e aziende) che garantiscono i crediti bancari, che andrebbero in sofferenza: e ciò accadrebbe principalmente a seguito dell'ondata inevitabile di politiche fiscali restrittive (giustificata dall'aumento "fuori misura" prevista, dello spread, e quindi dalle regole di governance dell'eurozona), ondata ovviamente aggiuntiva a quella delle insolvenze private causate dall'aumento dei prezzi energetici, (già in corso, tra bollette insostenibili e prezzi in aumento dei beni essenziali importati per produzione e consumo), asset che sarebbero inclusi nella procedura di bail-in bancario "di massa".
Insomma, il banchetto global-finanziario sull'Ital-tacchino è più vicino che mai.
E non ha nulla a che vedere con "mancate riforme", o con la correzione di un'insufficiente competitività. Oggi, pur nell'alta inflazione dell'EZ, quella italiana rimane infatti sotto la media. Ha piuttosto molto a che vedere con la mancata crescita, ripetiamo, scontabile (dai "mercati") a seguito delle regole monetarie e fiscali proprie dell'eurozona che, come s'è visto, si cumulano, pro-ciclicamente, con la forte flessione della crescita (già in corso) dovuta all'inflazione da prezzi energetici e beni comunque IMPORTATI.
Come abbiamo detto molte volte, si tratta di commodities e beni importati per vincolo normativo NgEu, - entro il paradigma, fanaticamente confermato, proprio ieri sull'agenda EV entro il 2035 -, vincolo che ci preclude qualunque politica industriale, necessariamente pubblica, tarata sulla nostra effettiva capacità e potenzialità produttiva e sulle nostre esigenze congiunturali.
4. L'euroboro dei rimedi, possibili (pur secondo gli stessi Trattati UE), ma non culturalmente immaginabili, entro i limiti culturali dell'attuale quadro istituzionale.
Quale potrebbe essere il rimedio a tutta questa distruzione insensata del nostro sistema economico e sociale?
Ovviamente, i mercati, con l'attuale spread, scontano l'assenza di strumenti, anche solo ipotizzati, che possano evitare la nostra discesa nel baratro (e a ciò, appunto, sono molto interessati per...la fase esecutiva di espropriazione).
Ebbene, ho tentato di illustrarlo. il rimedio (più immediato) nel mio ultimo libro "Lo strano caso Italia". Tra l'altro, nel capitolo 3, paragrafi 2-4. E non solo.
Ma è un uroboro: il rimedio presuppone il recupero (concettuale e politico) della sovranità, persino di quel poco che risulta conforme a talune previsioni esistenti nei trattati. Il che presuppone, a sua volta, un previo e ben meditato mutamento del quadro istituzionale e della sua "cultura" (riadeguandolo, nella sua essenza, al modello costituzionale di politiche economiche e sociali).
Un curioso paradosso apparente: la sovranità consiste sempre, in essenza, nel consapevole perseguimento dell'interesse vitale della comunità sociale italiana, libero da condizionamenti sovranazionali.
Oggi pare un concetto politico impensabile, nella sua effettività e al di là di enunciazioni retoriche, ormai scisse dalla realtà delle attuali modalità di formazione dell'indirizzo politico; ma la questione della democrazia, che è arrivata a coincidere con quella della sopravvivenza di un'intera nazione, è tutta qui.
La CULTURA della sovranità democratica del lavoro (art.1 Cost.), della sua concreta essenza, consistente nel benessere dell'intero popolo italiano, è ciò che riempie di senso le istituzioni costituzionali. Senza questo contenuto diventano vuoti simulacri, sorretti da slogan ormai incomprensibili ed avulsi dall'interesse del popolo stesso. 
Addendum di precisazione: in caso di default del nostro debito pubblico, il nostro sistema bancario, in quanto massiccio detentore dei tdp, subirebbe colossali perdite di attivi, che, seguendo le regole dell'Unione bancaria, imporrebbero la partecipazione alle perdite anche dei depositanti, essendo fiscalmente precluso allo Stato un intervento di (difficilmente autorizzabile) ricapitalizzazione pubblica, da cui appunto un bail-in con sopportazione dell'onere da parte non solo di azionisti e obbligazionisti, ma anche dei depositanti (oltre all'immediata escussione dei crediti bancari).


domenica 5 giugno 2022

QUALE PACE E QUALE GUERRA. IL DISCRIMINE TRA "NEUTRALITA' QUALIFICATA" E INTERVENTISMO CO-BELLIGERANTE

Riprendiamo la pubblicazione dei post su questo blog per un intervento da me tenuto al Convegno "Fermare la guerra" svoltosi a Roma lo scorso 27 maggio 2022.

Al titolo originario andrebbe aggiunto un "sottotitolo" che origina dalle (brevi...per motivi di spazio; molto altro si potrebbe aggiungere) conclusioni di real-politik: si potrebbe formularlo come un rinvio alla consapevolezza che L'Unione europea sia, in un modo che non appare ben chiaro alla sua stessa governance, un paese oggetto, a sua volta, di un'apertura di ostilità, fatta per ora di costrizioni e di risposte non ben ponderate, e, un domani, di risvolti sulla crescita e la stabilità finanziaria al suo interno, che la porrebbero in una situazione di co-belligeranza, politicamente ed economicamente contraddittoria ed insostenibile, verso l'intero mondo "non occidentale"; e questo risalterebbe all'interno di una spiralizzazione conflittuale che non corrisponde affatto all'interessi dei popoli che vivono entro lo spazio dell'Unione economica e monetaria e del suo "mercato unico". 

https://twitter.com/nytimes/status/1533564338983903238?s=20&t=Pxx4e6XgDHYBCPIucAwm8Q 

Quale pace e quale guerra? - CONVEGNO “FERMARE LA GUERRA”

PREMESSA - Fermare la guerra è una proposizione che dovremmo assumere nel senso più elevato ed umanistico: cioè, intesa come restaurare la pace. In astratto, la pace è la fine del conflitto tra Russia e Ucraina, come composizione dei rispettivi interessi contrapposti in un assetto stabile che consenta di risolvere ogni aspetto controverso che contrappone i due Paesi, ripristinando normali relazioni di diritto internazionale. Più riduttivamente, potremmo intenderla come fine stabilizzata dello scontro armato in corso, a prescindere, in un certo senso, dal ripristino di reciproche relazioni internazionali normalizzate tra le parti (il che, con tutta evidenza, non sarebbe un gran risultato, per i rischi di ripresa dello scontro armato, rivelati dalle posizioni attuali assunte dalle parti belligeranti, ove, appunto, non si risolvesse il sostanziale conflitto di interessi che le contrappone).

In concreto, dovremmo porci la domanda preliminare sulla reale origine e natura del conflitto cui stiamo assistendo: solo definendo questo aspetto potremmo immaginare un qualsiasi percorso di pace, in entrambi i sensi predetti (“pieno” e “riduttivo”), che potremmo chiamare, rispettivamente “pace sostanziale” e “tregua (tendenzialmente) stabile”.

2. La posizione italiana tra violazione dell’obbligo generale di neutralità e i limiti della co-belligeranza.

Darò ovviamente dei flash, delle brevi sintesi, poiché anzitutto la materia è in fieri, e dunque sfugge alla razionalità del dibattito, caratterizzata da un’emotività tanto più propagandistica quanto più, nel punto di vista italiano politico-mediatico, si accentua, all’interno dell’opinione pubblica, l’idea che noi saremmo “con una parte”, impegnati a fianco dell’Ucraina contro un paese aggressore che ha violato, (si dice), senza alcuna giustificazione e possibile graduazione di responsabilità, il fondamentale precetto internazionale (considerato di ius cogens) relativo al divieto dell’uso della forza, o che saremmo addirittura co-belligeranti (o quasi), attraverso la fornitura di armi e assistenza di intelligence all’Ucraina.

In realtà, ognuno di questi passaggi che portano alla nostra posizione sono, sul piano del diritto internazionale, piuttosto controversi poiché, come vedremo, basati – se pure c’è questa preoccupazione – su un implicito quadro di regole opinabili e in conflitto tra loro. Dunque, permane un’oggettiva incertezza sulla liceità/legittimità delle complessive iniziative assunte dall’Italia, tra l’altro nel quadro della politica estera e di sicurezza comune dell’Unione europea. Quest’ultima, com’è noto, è soggetta al principio di unanimità (art.24.2. TUE), in quanto non rientra tra le esplicite competenze esclusive o concorrenti dell’Unione (cfr; artt.3 e 4 TFUE); in questa situazione normativa, e stante anche la delicatezza costituzionale delle azioni intraprese, solo un approfondito e ben informato dibattito parlamentare avrebbe consentito di chiarirne la rispondenza alla volontà popolare e la conformità ad un ordinamento internazionale che promuova la pace e la giustizia tra le Nazioni, ripudiando la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (come recita l’art.11 Cost.)

2.1. Il limite in evoluzione della cobelligeranza all’interno del concetto di guerre di “nuova generazione”.

La cobelligeranza è un termine coniato per varie anomale convergenze di sforzo bellico contro un nemico comune durante la seconda guerra mondiale; così per la spartizione della Polonia tra Germania e Russia nel 1939 (il patto Molotov-Von Ribbentrop non era di alleanza ma di reciproca neutralità); per la cooperazione della Finlandia a fianco della Germania nazista nel periodo 1941-1944, non divenendo mai un paese formalmente ascrivibile alle c.d. potenze dell’Asse; nonché, per la posizione italiana nella seconda guerra mondiale dopo l’8 settembre 1943. Si tratta dunque di un concetto indicativo della controversa compartecipazione, a fianco di un altro Stato, ad un conflitto armato contro un nemico comune, ma al di fuori del necessario presupposto di un preesistente accordo di alleanza (John P Grant e J.Craig Barker, Parry and Grant Encyclopaedic Dictionary of International Law, Oxford University Press, 2 ottobre 2009, pp. 102).

Diciamo subito: dai principi della Carta delle Nazioni Unite, come precetto ormai assumibile come diritto internazionale generale, al pari del divieto di minaccia o uso della forza, è riconosciuta la valenza generale dell’obbligo di neutralità in caso di conflitto tra paesi terzi, (com’è nel caso della guerra in corso per i paesi dell’Unione europea), entrambi connessi, sia pure con molti dubbi sul contenuto operativo dei precetti stessi, al c.d. principio di non ingerenza negli affari degli altri Stati (emerso, con alterne fortune nei tempi recenti dalla Dichiarazione dell’Assemblea generale della NU contenuta nella ris. 9 dicembre 1981 n.36/103), che:

a) si pone come obbligo complementare e coessenziale a quello, derivante dall’adesione al trattato ONU, di partecipare al sistema collettivo accentrato di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, sancito dallo Statuto delle Nazioni Unite, o

b) si pone quantomeno come un comportamento dovuto sul piano internazionale perché funzionale alla effettività dell’impegno al ripudio della guerra e al perseguimento collettivo, il più ampio possibile, della soluzione pacifica delle controversie internazionali, impegno comunemente assunto dalle Costituzioni della generalità degli Stati democratici prevalenti nella comunità internazionale.

Ed infatti, anche laddove non si ritenga (com’è opinione prevalente) affermato l’accentramento della risoluzione delle controversie presso le Nazioni Unite come un principio certo di diritto internazionale generale, la neutralità rispetto ad un concreto conflitto implica simultaneamente un’esigenza di attivazione, ben diversa dalla neutralità come atteggiamento unilaterale di uno Stato assunto in via preventiva erga omnes, tipicamente il caso della Svizzera.

In questa ottica, la neutralità attiva, lungi dal porsi come l’adesione ad un pacifismo amorale, per così dire “inerte” ed egoistico, rimane il logico presupposto di quell’obbligo di partecipazione costruttiva al mantenimento di un ordinamento internazionale che persegua la pace e la giustizia tra le Nazioni, che si esplica nel promuovere concretamente e con immediatezza, non solo nelle enunciazioni astratte di principio, ogni possibile strumento di risoluzione pacifica delle controversie. Il dubbio sorge, semmai, riguardo ai limiti di liceità della tipologia e della misura quantitativa di questi strumenti, quando si giunge a porre delle contromisure o ritorsioni sanzionatorie, da parte di Stati terzi: in pratica circa il rispetto dei principi generali di reciprocità e di non ingerenza.

Tale obbligo di neutralità quantomeno implica che ciascun paese terzo rispetto alle parti di un conflitto armato mantenga una “imparzialità” che gli consenta di rafforzare e incentivare, nella comunità internazionale, la convinzione condivisa che sia operante la regula iuris sulla prioritaria ed immediata attivazione dei mezzi riconosciuti di diritto internazionale per una soluzione pacifica della concreta controversia in atto. Ciò eviterebbe e preverrebbe, attraverso una coerenza continua di atteggiamenti, l’ulteriore indebolimento della spinta comune ad un sistema incentrato sull’azione delle Nazioni Unite, proprio perché tanto più coerente e propagato, rispetto a tutti i paesi della comunità internazionale, risulta il mantenere questa imparzialità, tanto più forte e credibile sarà la legittimazione a promuovere la pace.

E ciò vale anche nel caso in cui tale paese decidesse che l’atto commesso da una delle parti (appunto, l’aggressore; ma emerge anche, dal quadro attualissimo dei numerosi conflitti in corso, che molto dipende da CHI sia questo aggressore, entro una geo-politica a forte narrazione soggettiva e auto-suggestiva) sia ritenuto “intollerabile” in quanto concretizzante un illecito internazionale che ponga direttamente ed estesamente in pericolo la sicurezza e le pacifiche relazioni in Europa.

E proprio su quest’ultimo aspetto si è acceso il dibattito in Italia, poiché l’allargamento cronologico della considerazione delle vicende che hanno coinvolto i reciproci rapporti tra Russia e Ukraina, quantomeno rende opinabile, ai fini di una “imparziale” valutazione di liceità e di una graduazione delle responsabilità sul piano del diritto internazionale, isolare l’atto, come dire, “finale” dell’aggressione militare russa, da tutto il contesto di eventi che l’hanno preceduta nel tempo (almeno dal momento del “distacco” dell’Ukraina dall’ex Unione sovietica).

Sulla cobelligeranza c’è da chiarire che, l’attuale classificazione delle forme di guerra in tipologie di diversa “generazione” – radicabili nell’equivalenza funzionale a atti ostili bellici di nuove forme, tecnologiche e finanziarie, di contromisura o di ritorsione adottate da paesi che non abbiano lo status di “paese leso” rispetto al paese “aggressore”-, rende ancor più opaco il quadro giuridico internazionale, in costante trasformazione erosiva rispetto all’ideale dell’accentramento presso il sistema dell’ONU. La più recente dottrina (JAMES CARDEN, US a ‘co-belligerent’ in Ukraine war, legal expert says. US and allies warned on ‘violations of a neutral’s duties of impartiality and non-participation in the conflict’, Asia Times, 19 aprile 2022), ritiene che la “neutralità” si perda, e si assuma lo stato di cobelligeranza quando: a) si dichiari guerra; b) si partecipi in misura significativa alle ostilità; o (3) operando con violazioni sistematiche o sostanziali dei propri doveri di imparzialità e non partecipazione

E’ chiaro che proprio quest’ultima ipotesi è quella che pone maggiori problemi sul tema della cobelligeranza, considerando che vengono considerate “guerra” di nuova generazione anche la guerra cibernetica e quella finanziaria, mentre è pacifico che la fornitura di armi e sistemi d’arma rilevi allorché divenga sistematico e conclamato.

D’altra parte, autorevole dottrina ritiene che le stesse misure di carattere economico possano costituire illecito, in forma di violazione del principio di non ingerenza e di autodeterminazione dei popoli, qualora tale misure siano contemporaneamente e sistematicamente prese all’unico scopo di influire sulle scelte dello Stato straniero (Conforti, Diritto Internazionale, p.225).

2.2. La “linea rossa” che forse è stata già superata.

Si assume, peraltro, che la mera violazione dell’obbligo di neutralità rispetto a un conflitto tra paesi terzi non attribuisca di per sé la qualificazione di belligerante o co-belligerante; si avrebbe piuttosto, nella recente e, peraltro non consolidata elaborazione dei giuristi e dei politologi, una condizione di “neutralità qualificata (Shweta Desai, France to deliver CAESAR artillery guns, shells to Ukraine, Anadolu, 22.04.2022.), termine di cui invano si cerca una definizione univoca, proprio perché si tenta di definire la posizione di chi adotta una serie di varie misure di rappresaglia o, semplicemente, ritorsive (le c.d. sanzioni), non potendo però vantare la qualità di Stato aggredito e neppure “leso” (le ritorsioni e le, meno “gravi” contromisure, sono strumento di autotutela di diritto internazionale a disposizione dello Stato che si ritenga leso da un illecito internazionale altrui; Conforti, op. cit., pag.375 ss.).

Più realisticamente, si propone il concetto che l’assunzione dello status di co-belligerante, specialmente nel caso, cui assistiamo oggi, - di fornitura di armi e di assistenza di intelligence, di appoggio alla c.d. guerra cibernetica, e di adozione di una pesantissima contromisura qual è il blocco delle riserve della banca centrale russa - potrebbe derivare dal superamento di unalinea rossa”: questa dovrebbe consistere nella sistematicità e nella decisività di tali forniture ed appoggi rispetto alla determinazione e possibilità di un Paese di ingaggiare e, più che altro, di proseguire il proprio sforzo armato (ignorandone i prodromi e gli sviluppi, senza dover ricercare una pacifica soluzione negoziale, preventiva o successiva che sia). Insomma, il conflitto tra Stati terzi non deve trasmodare in una guerra condotta nella sostanza, da un certo Stato “dominante” e dai suoi alleati, “per interposto Stato”, o, come si dice, in una guerra “per procura”.

3. Atlantismo senza alternative “morali” e realtà delle previsioni fondamentali del Trattato Nord Atlantico.

Pochi aspetti del diritto risentono attualmente di una devastante incertezza e della riduzione ad un senso comune tanto conformista e per sentito dire, quanto aggiustato a posteriori sullo svolgimento degli eventi, quanto il diritto internazionale.

Ed invero – anche al di là delle, non casuali, previsioni verbose e pedisseque dei trattati internazionali più vari (sempre più diffusamente scritti in tal modo, col proposito di renderne incontrollabili i contenuti alla percezione delle comunità sociali degli Stati contraenti), mai come oggi il diritto internazionale generale, quello che fu inizialmente teorizzato come espressione di un diritto naturale e, come tale, razionalmente percepito come doveroso dalla comunità delle Nazioni Civili, presenta un cedimento alla indefinibilità dei precetti vigenti e alla brutalità dei rapporti di forza.

Tuttavia, alcuni caveat, sul piano del diritto internazionale possono essere formulati per evidenziare le problematiche che ostacolano tutt’ora la composizione pacifica del conflitto in corso, ma anche un eventuale percorso che veda l’Italia come soggetto attivo nello spendere i c.d. “buoni uffici”, o nell’esprimere dal suo interno personalità che esperiscano una “mediazione” o siano componenti di una commissione di c.d. conciliazione (la conciliazione è considerata dalla Carta dell’ONU e da un certo consolidamento del diritto delle organizzazioni internazionali come una metodologia privilegiata, tra le altre, di risoluzione pacifica delle controversie; cfr; Capo VI, art.33-38 della Carta e, sulla mediazione mediante i c.d. “termini di regolamento” dettati dal Consiglio di Sicurezza, l’art.37, che affianca il – molto teorico- potere di raccomandazione mediatorio dell’Assemblea; art. 14).

Anzitutto, si parla, con un’eccessiva foga di “atlantismo per definire la posizione italiana sul conflitto in corso, considerata senza alternative moralmente accettabili.

Ciò, in primo luogo, fa per implicito identificare, curiosamente, la Nato come istituzione preposta, in qualche imprecisato modo, alla funzione di garante erga omnes del diritto internazionale e di sanzionatrice globale degli illeciti internazionali commessi contro Stati NON facenti parte dell’alleanza; ma la Nato è definita essenzialmente per il suo carattere di alleanza militare, - peraltro difensiva e inoltre originata e giustificata da una contrapposizione politico-militare per “blocchi” (specificamente all’interno dell’Europa), che sarebbe in realtà storicamente superata da decenni.

Tant’è che la più recente letteratura gius-internazionalista va cercando, senza molto successo, un “nuovo ruolo” della Nato, creando in via politologica e non di diritto, un diritto internazionale pattizio immaginario, esattamente come si parla di finalità e realtà operativa dell’Unione europea in base alle suggestioni di un diritto europeo “immaginario”, o sicuramente non vigente ed oggetto esclusivamente di wishful thinking (https://www.dirittoconsenso.it/2021/01/07/futuro-nato-nuove-sfide-cambiamenti-necessari/, dove emerge comunque, come nelle discussioni sul futuro dell’Unione europea, “la divergenza di priorità tra paesi membri”) ; ciò perché entrambe le tesi si muovono dall’ignorare o dal forzare le effettive previsioni dei rispettivi trattati.

L’effetto, forse non del tutto consapevole (almeno a livello di sentimento popolare), di tale neo-senso comune, anzi mediatico, delegittima direttamente la ragion d’essere delle Nazioni Unite e supera d’un balzo ogni ipotizzabile valenza del principio di non ingerenza; ed anzi, con un’inquietante ripetizione della Storia, e per quanto sia utopica la costante aspirazione a creare un’effettiva “Autorità mondiale della Pace”, questo depotenziamento si accentua via via che si afferma in modo concomitante questa narrazione del preteso ruolo ultra vires della Nato, proprio perché l’insieme delle previsioni che disciplinano le attività degli organi delle Nazioni Unite, funzionali al raggiungimento dei suoi elevati scopi, riposano in realtà su un’ondivaga e mai raggiunta adesione, diffusa e costante, dell’intera comunità internazionale alle raccomandazioni della sua Assemblea o, comunque, all’unanime volontà espressa dal Consiglio di Sicurezza.

Ma una delle poche conclusioni certe per gli studiosi di diritto internazionale e per le stesse decisioni delle varie corti nazionali e internazionali è che “in un ordinamento come quello internazionale…manca un sistema accentrato di garanzia per l’attuazione del diritto”; cfr. Conforti, op. cit., pag.376, proprio in tema dell’adozione delle misure di c.d. “ritorsione”, tra cui, entro i limiti sopradetti, possono farsi rientrare le attuali sanzioni adottate; peraltro, ed è questo uno dei punti maggiormente trascurati nel dibattito italiano (ma non francese o tedesco o ungherese), con la sopportazione di costi asimmetrici, da parte degli Usa e dalla ben più onerata Unione europea.

Il fatto che l’ONU, quale organismo esponenziale della concorde volontà della comunità internazionale di instaurare un ordinamento regolato dal diritto e, quindi, per definizione, volto a mantenere la pace e la sicurezza con la sistematica prevenzione della guerra, non abbia potuto affermare il suo ruolo con sufficiente effettività, non implica affatto che si debba tornare ad un ordinamento internazionale di stampo ottocentesco, retto solo dalla imposizione incombente della potenza militare.

Se non altro perché la potenza militare è, da sempre, un riflesso della forza economica e demografica (ora, si ritiene, meno, ma non tanto quanto ci si illude di poter affermare) e - all’interno di un mondo comunque variamente unificato dall’adozione del modello capitalistico che si afferma con l’evoluzione produttiva incentrata sulle grandi macchine – della, normalmente consequenziale, superiorità tecnologica. La deriva qui segnalata fa paventare un mondo che competa economicamente, sui mercati globalizzati, in un modo sotterraneo e feroce, impegnando, contro la propria volontà cosciente, la totalità dei comuni esseri umani nella creazione di gigantesche entità politiche, monopoliste delle capacità finanziarie e tecnologiche, per arrivare ad una contendibilità della superiorità militare, ieri dell’Inghilterra imperiale, oggi degli Stati Uniti e domani chissà, in un processo infinito e incontrollabile di traumi distruttivi. Cioè un diritto internazionale inteso come anarchia globale incentrata sulla regola dei pochissimi Stati molto forti che si scontrano tra loro, schiacciando i tanti molto deboli.

3.1. Una ricognizione delle effettive norme fondamentali del Trattato Nord Atlantico e la “deriva” verso un evanescente nuovo significato giuridico.

Tuttavia, proprio in diritto, l’atlantismo, inteso come appartenenza al trattato Nato e conseguente rispetto degli obblighi derivanti da esso, non risulta avere connessioni con la guerra in corso: l’Ukraina infatti non appartiene alla Nato (sebbene abbia posto nella sua più recente costituzione l’obiettivo dell’adesione, creando uno dei più evidenti presupposti del “casus belli”) onde non si applica, com’è stato finora evidente, l’art.5 del Trattato (per cui “le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o in America settentrionale, sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti” abilitando ciascuna di esse all’esercizio armato del diritto di legittima difesa “riconosciuto” dall’art.51 dello Statuto delle Nazioni Unite”).

Tuttavia, quel che più conta, è che la Nato, sempre in linea di diritto, non assume alcun compito di sistema accentrato di garanzia per l’attuazione del diritto internazionale, cioè di “poliziotto del mondo”, non prevedendo il relativo trattato, in alcun modo, obblighi in tal senso per i paesi contraenti, sia in danno di paesi non contraenti che non siano aggressori di uno Stato-membro, sia, ed è quel che rileva nel caso di specie, a favore di qualsiasi paese terzo.

Al contrario, l’art.1 del trattato Atlantico pone uno scopo giustificativo esattamente opposto, cioè quello di perseguire principalmente la composizione “con mezzi pacifici di qualsiasi controversia in cui potrebbero essere coinvolte” le parti del trattato, dovendo queste comunque in modo da astenersi “nei loro rapporti internazionali, dal ricorrere alla minaccia o all’uso della forza assolutamente incompatibile con gli scopi delle Nazioni Unite.[1]

Tant’è che l’art.2, dissipando ogni equivoco riguardo alla coincidenza “di scopo giustificativo” della Nato con le finalità statutarie delle Nazioni Unite recita “Le parti contribuiranno allo sviluppo di relazioni internazionali pacifiche e amichevoli, rafforzando le loro libere istituzioni, favorendo una migliore comprensione dei principi su cui queste istituzioni sono fondate, e promuovendo condizioni di stabilità e di benessere. Esse si sforzeranno di eliminare ogni contrasto nelle loro politiche economiche internazionali e incoraggeranno la cooperazione economica tra ciascuna di loro o tra tutte.”. Il rafforzamento della capacità individuale e collettiva di resistere ad un attacco armato, viene solo all’art.3 del Trattato stesso.

Questa sorta di rinvio alla primazia del mantenimento della pace e della sicurezza affidato alle Nazioni Unite, come riconoscimento vincolante per gli aderenti alla Nato, trova conferma pure nell’art.7, che pone una direttiva pro-ONU e sostanzialmente volta a privilegiare la risoluzione pacifica delle controversie, direttiva altrettanto vincolante per tutti i paesi-membri della Nato, -compresi gli Stati Uniti in verità -, e che vale, necessariamente, anche nei confronti degli altri paesi della comunità internazionale: “II presente Trattato non pregiudica e non dovrà essere considerato in alcun modo lesivo dei diritti e degli obblighi derivanti dallo Statuto alle parti che sono membri delle Nazioni Unite o la responsabilità primaria del Consiglio di Sicurezza per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali”.

Va soggiunto che, sempre nel quadro così enunciato dalla lettera delle previsioni fondamentali del Trattato, caratterizzanti il suo scopo ed oggetto essenziali, “l’invito” (perché di invito e non di auto-candidatura parla l’art.10 del Trattato stesso) ad aderire alla Nato, è subordinato esplicitamente alla condizione che tale allargamento sia “in grado di favorire lo sviluppo dei principi del presente trattato e di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale”. 

Senza dubbio, tale condizione vale, o dovrebbe valere, per le “improvvise” ventilate adesioni di Svezia e Finlandia, come pure per l’aspirazione ad aderire della stessa Ukraina. Ora va di moda negare addirittura l’accerchiamento tattico e strategico della Russia, ma è oggettivamente dubbio che il posizionamento in questi paesi di sistemi di armamento missilistico antinucleare e offensivo-nucleare, se non altro per la distanza estremamente vantaggiosa di tali Stati rispetto al cuore della Russia, possa  contribuire alla sicurezza della regione, anche secondo un elementare test di logica; logica che ci dice invece che tali adesioni, a maggior ragione per il momento storico in cui vengono ipotizzate, appaiono oggettivamente mirate a rendere insostenibile la situazione politico-militare della Russia, innescando un suo “metterla con le spalle al muro”, col rischio crescente di un, prima inimmaginabile, esteso conflitto nucleare.

4. Alcune brevi conclusioni di real-politik.

Veniamo ai fatti di oggi e cerchiamo verificare che cosa, in diritto, e, in ultima analisi, nella vita socio-economica dei paesi Ue, comporterebbe “questo” atlantismo, più o meno immaginario, così tanto invocato, sia ai fini di un percorso di negoziato di pace, sia in termini di delineazione dell’esatta natura del conflitto in corso:

l’Italia ha prestato il suo consenso alle sanzioni finora decise in sede eurounitaria; vige il principio dell’unanimità, come abbiamo visto, e quindi la valutazione è frutto di una forte scelta politica. Forte perché la rapidità di tali decisioni comuni non appare aver adeguatamente ponderato l’impatto sull’economia dei paesi-membri “sanzionanti”, già di per sé alle prese con una ripresa economica resa difficile dalle tensioni sui prezzi energetici e delle materie prime e dei semilavorati importati (aumento inflattivo generalizzato ma specificamente appuntatosi su ciò che ci siamo comunque vincolati a importare per rispettare il quadro obbligatorio delle c.d. rivoluzioni green e digitale).

Questa ripresa dell’inflazione da importazione precede l’inizio della guerra e origina da un combinato disposto di: a) auto-vincolo della domanda pubblica dei paesi-membri verso finalità prioritarie di investimento normativamente stabilite a livello Ue; b) connessi mancati investimenti, a livello mondiale, nel settore estrattivo e infrastrutturale energetico; c) conseguente insorgere delle aspettative rialziste dei mercati finanziari sui prezzi di prodotti che, rimangono invece, indispensabili sia per gestire la nostra capacità produttiva essenziale, sia per condurre con successo la c.d. fase di transizione, sia per rendere minimamente sostenibile, per le imprese e l’occupazione, il modello finale di economia che si vorrebbe instaurare.

Tutto ciò determina il pericolo imminente di renderci dipendenti strutturalmente dalle commodities e dalle tecnologie importate dalla Cina e dai suoi ulteriori hub asiatici di delocalizzazione. L’aggravamento ulteriore di tale situazione, a seguito delle sanzioni, si situa proprio nell’incertezza delle relazioni politiche e giuridico-commerciali internazionali che ne deriva (dando lo spunto all’accelerazione di quel sotterraneo e feroce lavorio di competizione economica tra grandi potenze che abbiamo visto portarci verso una restaurazione, amplificata dalla tecnologia, dell’ordinamento internazionale ottocentesco basato sulla potenza militare come prodotto di supremazia economico-finanziaria e superiorità tecnologica).

Insomma, occorreva ponderare i benefici, modesti, della funzione di deterrenza sanzionatoria verso la Russia con i costi della crescente incertezza politica rispetto al reale modello di specializzazione produttiva che, complessivamente, caratterizza il regime Ue e, ancor più quello dell'Eurozona, e rispetto al quale, già di per sé, risultava velleitaria la politica industriale incentrata sull’adozione forzata del green e del digitale e sulla disincentivazione dell’uso produttivo degli idrocarburi.

Si è inoltre provveduto ad una sorta di sequestro (con subentrata minaccia di confisca) delle riserve monetarie della Banca centrale russa, adottando una “contromisura” che non ha precedenti neppure nel blocco dei beni e nell’embargo petrolifero adottati contro il Giappone (1940-41) alla vigilia della seconda guerra mondiale, allorché, però, la situazione di guerra imminente riguardava direttamente gli Stati Uniti, non considerabili come “paese terzo”. 

Ma, nell’attuale situazione, in cui vige la moneta fiat e non il gold standard, e comunque le “riserve” valutarie vengono registrate elettronicamente e si appostano per lo più all’estero (come anche buona parte di quelle in oro), dentro un sistema di pagamenti controllato dagli Usa e dall’Ue, ciò genera uno sconvolgimento nella fiducia, appunto, del sistema dei pagamenti internazionali e in quello valutario; ciò obbliga, per giustificata cautela, tutti i paesi del mondo a rivedere l’assetto monetario internazionale fondato sul dollaro e, peraltro, sull’euro. Un assestamento verso questa esigenza comune alla parte più popolosa (ed anche, ormai, produttiva) del mondo, rischia di risolversi in un boomerang di medio periodo dagli effetti devastanti sia economici sia di tipo bellico.

In una sintesi conclusiva, si può dire che la pace si afferma ancor più come necessaria, sebbene intesa non come tregua, più o meno stabile (che arriverà per spontanea azione delle parti belligeranti, prima o poi, dato l’adattarsi, alle condizioni inevitabilmente emergenti “dal campo”, degli obiettivi dell’offensiva russa) ma come composizione di interessi sostanziali che facciano capo a tutti gli attori coinvolti: la crisi economica strutturale, e quindi prolungata e difficilmente risolvibile, in cui rischia di entrare l’Unione europea, - a differenza degli Stati Uniti che dispongono di ben altre risorse e sono in grado di calibrare le proprie politiche industriali addirittura avvantaggiandosi dell’auto-riduzione produttiva che si è variamente imposta l’Ue -, ci inserisce in una lotta contro il tempo per il raggiungimento di una soluzione pacifica negoziale.

Ma i segnali che arrivano dalle cancellerie europee e dalle reiterate dichiarazioni dei responsabili della politica estera e della sicurezza europee, depongono in senso contrario ad una consapevolezza del tunnel in cui si è infilata l’Unione stessa. L’auspicio è che, senza dover troppo a lungo brutalizzare le vite dei cittadini italiani, ed europei in genere, la realtà dei fatti porti le nostre classi di governo a un maggior senso dell’interesse generale della Nazione, correggendo gli eccessi di aggressività e gli equivoci giuridico-internazionali in cui ora, sotto la spinta interessata degli Stati Uniti, appaiono invece indugiare. La prospettiva peggiore è che non ci si accorga che accanto al conflitto guerreggiato tra Russia e Ukraina, si instauri e si prolunghi una vera e propria offensiva punitrice dell’Unione europea, prigioniera impotente delle sue contraddizioni e delle sue ambiguità originarie e successivamente rafforzatesi.  



[1] art.1 “Le parti si impegnano, come stabilito nello Statuto delle Nazioni Unite, a comporre con mezzi pacifici qualsiasi controversia internazionale in cui potrebbero essere coinvolte, in modo che la pace e la sicurezza internazionali e la giustizia non vengano messe in pericolo, e ad astenersi nei loro rapporti internazionali dal ricorrere alla minaccia o all'uso della forza assolutamente incompatibile con gli scopi delle Nazioni Unite”.