Riprendiamo la pubblicazione dei post su questo blog per un intervento da me tenuto al Convegno "Fermare la guerra" svoltosi a Roma lo scorso 27 maggio 2022.
Al titolo originario andrebbe aggiunto un "sottotitolo" che origina dalle (brevi...per motivi di spazio; molto altro si potrebbe aggiungere) conclusioni di real-politik: si potrebbe formularlo come un rinvio alla consapevolezza che L'Unione europea sia, in un modo che non appare ben chiaro alla sua stessa governance, un paese oggetto, a sua volta, di un'apertura di ostilità, fatta per ora di costrizioni e di risposte non ben ponderate, e, un domani, di risvolti sulla crescita e la stabilità finanziaria al suo interno, che la porrebbero in una situazione di co-belligeranza, politicamente ed economicamente contraddittoria ed insostenibile, verso l'intero mondo "non occidentale"; e questo risalterebbe all'interno di una spiralizzazione conflittuale che non corrisponde affatto all'interessi dei popoli che vivono entro lo spazio dell'Unione economica e monetaria e del suo "mercato unico".
https://twitter.com/nytimes/status/1533564338983903238?s=20&t=Pxx4e6XgDHYBCPIucAwm8Q
Quale pace e quale guerra? - CONVEGNO “FERMARE LA GUERRA”
PREMESSA - Fermare la guerra è una proposizione che dovremmo assumere nel
senso più elevato ed umanistico: cioè, intesa come restaurare la pace. In
astratto, la pace è la fine del conflitto tra Russia e Ucraina, come
composizione dei rispettivi interessi contrapposti in un assetto stabile che
consenta di risolvere ogni aspetto controverso che contrappone i due Paesi,
ripristinando normali relazioni di diritto internazionale. Più riduttivamente,
potremmo intenderla come fine stabilizzata dello scontro armato in corso, a
prescindere, in un certo senso, dal ripristino di reciproche relazioni
internazionali normalizzate tra le parti (il che, con tutta evidenza, non
sarebbe un gran risultato, per i rischi di ripresa dello scontro armato, rivelati
dalle posizioni attuali assunte dalle parti belligeranti, ove, appunto, non si
risolvesse il sostanziale conflitto di interessi che le contrappone).
In concreto, dovremmo porci la domanda preliminare sulla reale
origine e natura del conflitto cui stiamo assistendo: solo definendo questo
aspetto potremmo immaginare un qualsiasi percorso di pace, in entrambi i sensi
predetti (“pieno” e “riduttivo”), che potremmo chiamare, rispettivamente “pace
sostanziale” e “tregua (tendenzialmente) stabile”.
2.
La posizione italiana tra violazione dell’obbligo generale di neutralità e i
limiti della co-belligeranza.
Darò ovviamente dei flash, delle brevi sintesi, poiché anzitutto la
materia è in fieri, e dunque sfugge
alla razionalità del dibattito, caratterizzata da un’emotività tanto più propagandistica
quanto più, nel punto di vista italiano politico-mediatico, si accentua, all’interno
dell’opinione pubblica, l’idea che noi saremmo “con una parte”, impegnati a
fianco dell’Ucraina contro un paese aggressore che ha violato, (si dice), senza
alcuna giustificazione e possibile graduazione di responsabilità, il fondamentale
precetto internazionale (considerato di ius
cogens) relativo al divieto dell’uso
della forza, o che saremmo addirittura co-belligeranti
(o quasi), attraverso la fornitura di armi e assistenza di intelligence all’Ucraina.
In realtà, ognuno di questi passaggi che portano alla nostra
posizione sono, sul piano del diritto internazionale, piuttosto controversi poiché,
come vedremo, basati – se pure c’è questa preoccupazione – su un implicito
quadro di regole opinabili e in conflitto tra loro. Dunque, permane
un’oggettiva incertezza sulla liceità/legittimità delle complessive iniziative
assunte dall’Italia, tra l’altro nel quadro della politica estera e di sicurezza comune dell’Unione europea. Quest’ultima,
com’è noto, è soggetta al principio di unanimità (art.24.2. TUE), in quanto non
rientra tra le esplicite competenze esclusive o concorrenti dell’Unione (cfr;
artt.3 e 4 TFUE); in questa situazione normativa, e stante anche la delicatezza
costituzionale delle azioni intraprese, solo un approfondito e ben informato
dibattito parlamentare avrebbe consentito di chiarirne la rispondenza alla
volontà popolare e la conformità ad un ordinamento internazionale che promuova
la pace e la giustizia tra le Nazioni, ripudiando la guerra come mezzo di
risoluzione delle controversie internazionali (come recita l’art.11 Cost.)
2.1.
Il limite in evoluzione della cobelligeranza all’interno del concetto di guerre
di “nuova generazione”.
La cobelligeranza è un termine
coniato per varie anomale convergenze di sforzo bellico contro un nemico comune
durante la seconda guerra mondiale; così per la spartizione della Polonia tra
Germania e Russia nel 1939 (il patto Molotov-Von Ribbentrop non era di alleanza
ma di reciproca neutralità); per la cooperazione della Finlandia a fianco della
Germania nazista nel periodo 1941-1944, non divenendo mai un paese formalmente
ascrivibile alle c.d. potenze dell’Asse; nonché, per la posizione italiana
nella seconda guerra mondiale dopo l’8 settembre 1943. Si tratta dunque di un
concetto indicativo della controversa compartecipazione, a fianco di un altro
Stato, ad un conflitto armato contro un nemico comune, ma al di fuori del
necessario presupposto di un preesistente accordo di alleanza (John P Grant e
J.Craig Barker, Parry and Grant Encyclopaedic Dictionary of International Law,
Oxford University Press, 2 ottobre 2009, pp. 102).
Diciamo subito: dai principi della Carta delle Nazioni Unite, come
precetto ormai assumibile come diritto internazionale generale, al pari del divieto di minaccia o uso della
forza, è riconosciuta la valenza generale dell’obbligo di neutralità in caso di conflitto tra paesi terzi, (com’è
nel caso della guerra in corso per i paesi dell’Unione europea), entrambi
connessi, sia pure con molti dubbi sul contenuto operativo dei precetti stessi,
al c.d. principio di non ingerenza negli
affari degli altri Stati (emerso, con alterne fortune nei tempi recenti
dalla Dichiarazione dell’Assemblea generale della NU contenuta nella ris. 9
dicembre 1981 n.36/103), che:
a) si pone come obbligo complementare e coessenziale a quello,
derivante dall’adesione al trattato ONU, di partecipare al sistema collettivo
accentrato di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, sancito
dallo Statuto delle Nazioni Unite, o
b) si pone quantomeno come un comportamento dovuto sul piano
internazionale perché funzionale alla effettività dell’impegno al ripudio della
guerra e al perseguimento collettivo, il più ampio possibile, della soluzione
pacifica delle controversie internazionali, impegno comunemente assunto dalle
Costituzioni della generalità degli Stati democratici prevalenti nella comunità
internazionale.
Ed infatti, anche laddove non si ritenga (com’è opinione
prevalente) affermato l’accentramento della risoluzione delle controversie presso
le Nazioni Unite come un principio certo di diritto internazionale generale, la neutralità
rispetto ad un concreto conflitto implica simultaneamente un’esigenza di
attivazione, ben diversa dalla neutralità come atteggiamento unilaterale di uno
Stato assunto in via preventiva erga
omnes, tipicamente il caso della Svizzera.
In questa ottica, la neutralità
attiva, lungi dal porsi come l’adesione ad un pacifismo amorale, per così
dire “inerte” ed egoistico, rimane il
logico presupposto di quell’obbligo di partecipazione costruttiva al
mantenimento di un ordinamento internazionale che persegua la pace e la
giustizia tra le Nazioni, che si esplica nel promuovere concretamente e con
immediatezza, non solo nelle enunciazioni astratte di principio, ogni possibile strumento di risoluzione
pacifica delle controversie. Il dubbio
sorge, semmai, riguardo ai limiti di
liceità della tipologia e della misura quantitativa di questi strumenti, quando
si giunge a porre delle contromisure o ritorsioni sanzionatorie, da parte di
Stati terzi: in pratica circa il rispetto dei principi generali di reciprocità e di non ingerenza.
Tale obbligo di neutralità quantomeno implica che ciascun paese
terzo rispetto alle parti di un conflitto armato mantenga una “imparzialità” che gli consenta di rafforzare
e incentivare, nella comunità internazionale, la convinzione condivisa che sia
operante la regula iuris sulla prioritaria
ed immediata attivazione dei mezzi riconosciuti di diritto internazionale per una
soluzione pacifica della concreta controversia in atto. Ciò eviterebbe e preverrebbe, attraverso una coerenza continua di
atteggiamenti, l’ulteriore indebolimento
della spinta comune ad un sistema incentrato sull’azione delle Nazioni Unite,
proprio perché tanto più coerente e propagato, rispetto a tutti i paesi della
comunità internazionale, risulta il mantenere questa imparzialità, tanto più
forte e credibile sarà la legittimazione a promuovere la pace.
E ciò vale anche nel caso in cui tale paese decidesse che l’atto commesso da una delle parti (appunto,
l’aggressore; ma emerge anche, dal quadro attualissimo dei numerosi conflitti
in corso, che molto dipende da CHI sia
questo aggressore, entro una geo-politica a forte narrazione soggettiva e
auto-suggestiva) sia ritenuto “intollerabile”
in quanto concretizzante un illecito internazionale che ponga direttamente ed
estesamente in pericolo la sicurezza e le pacifiche relazioni in Europa.
E proprio su quest’ultimo aspetto si è acceso il dibattito in
Italia, poiché l’allargamento cronologico
della considerazione delle vicende che hanno coinvolto i reciproci rapporti
tra Russia e Ukraina, quantomeno rende
opinabile, ai fini di una “imparziale” valutazione di liceità e di una
graduazione delle responsabilità sul piano del diritto internazionale, isolare
l’atto, come dire, “finale” dell’aggressione militare russa, da tutto il
contesto di eventi che l’hanno preceduta nel tempo (almeno dal momento del
“distacco” dell’Ukraina dall’ex Unione sovietica).
Sulla cobelligeranza c’è da chiarire che, l’attuale
classificazione delle forme di guerra in
tipologie di diversa “generazione” – radicabili nell’equivalenza funzionale
a atti ostili bellici di nuove forme,
tecnologiche e finanziarie, di contromisura
o di ritorsione adottate da paesi
che non abbiano lo status di
“paese leso” rispetto al paese “aggressore”-, rende ancor più opaco il
quadro giuridico internazionale, in costante trasformazione erosiva rispetto
all’ideale dell’accentramento presso il sistema dell’ONU. La più recente
dottrina (JAMES CARDEN, US a
‘co-belligerent’ in Ukraine war, legal expert says. US and allies warned on
‘violations of a neutral’s duties of impartiality and non-participation in the
conflict’, Asia Times, 19 aprile 2022), ritiene che la “neutralità” si perda, e si assuma lo stato di cobelligeranza
quando: a) si dichiari guerra; b) si partecipi in misura significativa alle
ostilità; o (3) operando con violazioni sistematiche o sostanziali dei propri doveri
di imparzialità e non partecipazione.
E’ chiaro che proprio quest’ultima
ipotesi è quella che pone maggiori problemi sul
tema della cobelligeranza, considerando che vengono considerate “guerra” di
nuova generazione anche la guerra cibernetica e quella finanziaria, mentre è
pacifico che la fornitura di armi e sistemi d’arma rilevi allorché divenga sistematico
e conclamato.
D’altra parte, autorevole dottrina ritiene che le stesse misure di carattere economico
possano costituire illecito, in
forma di violazione del principio di non ingerenza e di autodeterminazione dei
popoli, qualora tale misure siano contemporaneamente
e sistematicamente prese all’unico scopo di influire sulle scelte dello
Stato straniero (Conforti, Diritto Internazionale, p.225).
2.2.
La “linea rossa” che forse è stata già superata.
Si assume, peraltro, che la
mera violazione dell’obbligo di neutralità rispetto a un conflitto tra paesi
terzi non attribuisca di per sé la qualificazione di belligerante o
co-belligerante; si avrebbe piuttosto, nella recente e, peraltro non
consolidata elaborazione dei giuristi e dei politologi, una condizione di “neutralità qualificata” (Shweta Desai, France to deliver CAESAR
artillery guns, shells to Ukraine, Anadolu, 22.04.2022.), termine di cui
invano si cerca una definizione univoca, proprio perché si tenta di definire la
posizione di chi adotta una serie di varie misure di rappresaglia o,
semplicemente, ritorsive (le c.d. sanzioni), non potendo però vantare la
qualità di Stato aggredito e neppure “leso” (le ritorsioni e le, meno “gravi”
contromisure, sono strumento di autotutela di diritto internazionale a
disposizione dello Stato che si ritenga leso da un illecito internazionale
altrui; Conforti, op. cit., pag.375 ss.).
Più realisticamente, si propone il concetto che l’assunzione dello status di
co-belligerante, specialmente nel caso, cui assistiamo oggi, - di fornitura
di armi e di assistenza di intelligence, di
appoggio alla c.d. guerra cibernetica,
e di adozione di una pesantissima contromisura qual è il blocco delle riserve
della banca centrale russa - potrebbe derivare dal superamento di una “linea
rossa”: questa dovrebbe consistere nella sistematicità e nella decisività
di tali forniture ed appoggi rispetto alla determinazione e possibilità di un
Paese di ingaggiare e, più che altro, di proseguire il proprio sforzo armato
(ignorandone i prodromi e gli sviluppi, senza dover ricercare una pacifica
soluzione negoziale, preventiva o successiva che sia). Insomma, il conflitto
tra Stati terzi non deve trasmodare in una guerra condotta nella sostanza, da
un certo Stato “dominante” e dai suoi alleati, “per interposto Stato”, o, come
si dice, in una guerra “per procura”.
3.
Atlantismo senza alternative “morali” e realtà delle previsioni fondamentali
del Trattato Nord Atlantico.
Pochi aspetti del diritto risentono attualmente di una devastante
incertezza e della riduzione ad un senso comune tanto conformista e per sentito dire, quanto aggiustato a
posteriori sullo svolgimento degli eventi, quanto il diritto internazionale.
Ed invero – anche al di là delle, non casuali, previsioni verbose
e pedisseque dei trattati internazionali più vari (sempre più diffusamente
scritti in tal modo, col proposito di renderne incontrollabili i contenuti alla
percezione delle comunità sociali degli Stati contraenti), mai come oggi il
diritto internazionale generale, quello che fu inizialmente teorizzato come espressione
di un diritto naturale e, come tale, razionalmente percepito come doveroso dalla
comunità delle Nazioni Civili, presenta un cedimento alla indefinibilità dei
precetti vigenti e alla brutalità dei rapporti di forza.
Tuttavia, alcuni caveat,
sul piano del diritto internazionale possono essere formulati per evidenziare
le problematiche che ostacolano tutt’ora
la composizione pacifica del conflitto in corso, ma anche un eventuale percorso
che veda l’Italia come soggetto attivo nello spendere i c.d. “buoni uffici”, o nell’esprimere dal
suo interno personalità che esperiscano una “mediazione” o siano componenti di una commissione di c.d. conciliazione (la conciliazione è
considerata dalla Carta dell’ONU e da un certo consolidamento del diritto delle
organizzazioni internazionali come una metodologia privilegiata, tra le altre,
di risoluzione pacifica delle controversie; cfr; Capo VI, art.33-38 della Carta
e, sulla mediazione mediante i c.d. “termini di regolamento” dettati dal
Consiglio di Sicurezza, l’art.37, che affianca il – molto teorico- potere di
raccomandazione mediatorio dell’Assemblea; art. 14).
Anzitutto, si parla, con un’eccessiva foga di “atlantismo” per definire la posizione italiana sul conflitto in
corso, considerata senza alternative moralmente accettabili.
Ciò, in primo luogo, fa per implicito identificare, curiosamente, la Nato come istituzione preposta, in
qualche imprecisato modo, alla funzione di garante erga omnes del diritto internazionale e di sanzionatrice globale degli
illeciti internazionali commessi contro Stati NON facenti parte dell’alleanza;
ma la Nato è definita essenzialmente per il suo carattere di alleanza militare, - peraltro difensiva e inoltre
originata e giustificata da una contrapposizione politico-militare per
“blocchi” (specificamente all’interno dell’Europa), che sarebbe in realtà
storicamente superata da decenni.
Tant’è che la più recente letteratura gius-internazionalista va
cercando, senza molto successo, un “nuovo ruolo” della Nato, creando in via
politologica e non di diritto, un diritto internazionale pattizio immaginario, esattamente come si parla
di finalità e realtà operativa dell’Unione europea in base alle suggestioni di
un diritto europeo “immaginario”, o sicuramente non vigente ed oggetto
esclusivamente di wishful thinking (https://www.dirittoconsenso.it/2021/01/07/futuro-nato-nuove-sfide-cambiamenti-necessari/, dove emerge comunque, come nelle discussioni sul futuro
dell’Unione europea, “la divergenza di priorità tra paesi membri”) ; ciò perché
entrambe le tesi si muovono dall’ignorare o dal forzare le effettive previsioni
dei rispettivi trattati.
L’effetto, forse non del tutto consapevole (almeno a livello di
sentimento popolare), di tale neo-senso comune, anzi mediatico, delegittima direttamente la ragion d’essere
delle Nazioni Unite e supera d’un balzo ogni ipotizzabile valenza del principio
di non ingerenza; ed anzi, con un’inquietante ripetizione della Storia, e
per quanto sia utopica la costante aspirazione a creare un’effettiva “Autorità
mondiale della Pace”, questo depotenziamento si accentua via via che si afferma
in modo concomitante questa narrazione del preteso ruolo ultra vires della Nato, proprio perché l’insieme delle previsioni
che disciplinano le attività degli organi delle Nazioni Unite, funzionali al
raggiungimento dei suoi elevati scopi, riposano in realtà su un’ondivaga e mai
raggiunta adesione, diffusa e costante, dell’intera comunità internazionale
alle raccomandazioni della sua Assemblea o, comunque, all’unanime volontà
espressa dal Consiglio di Sicurezza.
Ma una delle poche conclusioni certe per gli studiosi di diritto
internazionale e per le stesse decisioni delle varie corti nazionali e
internazionali è che “in un ordinamento come quello
internazionale…manca un sistema accentrato di garanzia per l’attuazione del
diritto”; cfr. Conforti, op. cit., pag.376, proprio in tema
dell’adozione delle misure di c.d. “ritorsione”, tra cui, entro i limiti
sopradetti, possono farsi rientrare le attuali sanzioni adottate; peraltro, ed
è questo uno dei punti maggiormente trascurati nel dibattito italiano (ma non
francese o tedesco o ungherese), con la sopportazione di costi asimmetrici, da
parte degli Usa e dalla ben più onerata Unione europea.
Il fatto che l’ONU, quale organismo esponenziale della concorde
volontà della comunità internazionale di instaurare un ordinamento regolato dal
diritto e, quindi, per definizione, volto a mantenere la pace e la sicurezza
con la sistematica prevenzione della guerra, non abbia potuto affermare il suo ruolo con sufficiente effettività,
non implica affatto che si debba tornare ad un ordinamento internazionale di
stampo ottocentesco, retto solo dalla imposizione incombente della potenza
militare.
Se non altro perché la potenza militare è, da sempre, un riflesso della forza economica e demografica
(ora, si ritiene, meno, ma non tanto quanto ci si illude di poter affermare) e
- all’interno di un mondo comunque variamente unificato dall’adozione del
modello capitalistico che si afferma con l’evoluzione produttiva incentrata
sulle grandi macchine – della, normalmente
consequenziale, superiorità tecnologica. La deriva qui segnalata fa paventare
un mondo che competa economicamente, sui mercati globalizzati, in un modo sotterraneo e feroce, impegnando, contro la propria volontà
cosciente, la totalità dei comuni esseri umani nella creazione di gigantesche entità politiche, monopoliste delle
capacità finanziarie e tecnologiche, per arrivare ad una contendibilità della
superiorità militare, ieri dell’Inghilterra imperiale, oggi degli Stati Uniti e
domani chissà, in un processo infinito e incontrollabile di traumi distruttivi.
Cioè un diritto internazionale inteso come anarchia
globale incentrata sulla regola dei pochissimi Stati molto forti che si
scontrano tra loro, schiacciando i tanti molto deboli.
3.1.
Una ricognizione delle effettive norme fondamentali del Trattato Nord Atlantico
e la “deriva” verso un evanescente nuovo significato giuridico.
Tuttavia, proprio in diritto, l’atlantismo, inteso come
appartenenza al trattato Nato e conseguente rispetto degli obblighi derivanti
da esso, non risulta avere connessioni con la guerra in corso: l’Ukraina infatti non appartiene alla Nato
(sebbene abbia posto nella sua più recente costituzione l’obiettivo
dell’adesione, creando uno dei più evidenti presupposti del “casus belli”) onde non si applica, com’è stato finora evidente, l’art.5 del
Trattato (per cui “le parti convengono
che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o in America
settentrionale, sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti”
abilitando ciascuna di esse all’esercizio armato del diritto di legittima
difesa “riconosciuto” dall’art.51 dello Statuto delle Nazioni Unite”).
Tuttavia, quel che più conta, è che la Nato, sempre in linea di
diritto, non assume alcun compito di sistema
accentrato di garanzia per l’attuazione del diritto internazionale, cioè di
“poliziotto del mondo”, non prevedendo il relativo trattato, in alcun modo,
obblighi in tal senso per i paesi contraenti, sia in danno di paesi non
contraenti che non siano aggressori di uno Stato-membro, sia, ed è quel che
rileva nel caso di specie, a favore di
qualsiasi paese terzo.
Al contrario, l’art.1 del
trattato Atlantico pone uno scopo giustificativo esattamente opposto, cioè
quello di perseguire principalmente la composizione “con mezzi pacifici di
qualsiasi controversia in cui potrebbero essere coinvolte” le parti del
trattato, dovendo queste comunque in modo da astenersi “nei loro rapporti internazionali,
dal ricorrere alla minaccia o all’uso della forza assolutamente incompatibile
con gli scopi delle Nazioni Unite”.
Tant’è che l’art.2, dissipando ogni equivoco riguardo alla
coincidenza “di scopo giustificativo” della Nato con le finalità statutarie
delle Nazioni Unite recita “Le parti contribuiranno allo sviluppo di
relazioni internazionali pacifiche e amichevoli, rafforzando le loro libere istituzioni, favorendo una migliore
comprensione dei principi su cui queste istituzioni sono fondate, e promuovendo
condizioni di stabilità e di benessere. Esse si sforzeranno di eliminare ogni
contrasto nelle loro politiche economiche internazionali e incoraggeranno la
cooperazione economica tra ciascuna di loro o tra tutte.”. Il rafforzamento
della capacità individuale e collettiva di resistere ad un attacco armato,
viene solo all’art.3 del Trattato stesso.
Questa sorta di rinvio alla primazia del mantenimento della pace e
della sicurezza affidato alle Nazioni Unite, come riconoscimento vincolante per
gli aderenti alla Nato, trova conferma
pure nell’art.7, che pone una direttiva pro-ONU e sostanzialmente volta a
privilegiare la risoluzione pacifica delle controversie, direttiva altrettanto
vincolante per tutti i paesi-membri della Nato, -compresi gli Stati Uniti in
verità -, e che vale, necessariamente, anche nei confronti degli altri paesi
della comunità internazionale: “II presente Trattato non pregiudica e non
dovrà essere considerato in alcun modo lesivo dei diritti e degli obblighi
derivanti dallo Statuto alle parti che sono membri delle Nazioni Unite o la responsabilità primaria del Consiglio
di Sicurezza per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali”.
Va soggiunto che, sempre nel quadro così enunciato dalla lettera
delle previsioni fondamentali del Trattato, caratterizzanti il suo scopo ed
oggetto essenziali, “l’invito”
(perché di invito e non di auto-candidatura parla l’art.10 del Trattato stesso) ad
aderire alla Nato, è subordinato esplicitamente alla condizione che tale
allargamento sia “in grado di favorire lo sviluppo dei principi del presente trattato e
di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale”.
Senza dubbio, tale condizione vale, o dovrebbe valere, per le “improvvise”
ventilate adesioni di Svezia e Finlandia, come pure per l’aspirazione ad
aderire della stessa Ukraina. Ora va di moda negare addirittura
l’accerchiamento tattico e strategico della Russia, ma è oggettivamente dubbio che il posizionamento in questi paesi di
sistemi di armamento missilistico antinucleare e offensivo-nucleare, se non
altro per la distanza estremamente vantaggiosa di tali Stati rispetto al cuore
della Russia, possa contribuire alla sicurezza della regione,
anche secondo un elementare test di logica; logica che ci dice invece che
tali adesioni, a maggior ragione per il momento storico in cui vengono
ipotizzate, appaiono oggettivamente mirate a rendere insostenibile la
situazione politico-militare della Russia, innescando un suo “metterla con le
spalle al muro”, col rischio crescente di un, prima inimmaginabile, esteso
conflitto nucleare.
4.
Alcune brevi conclusioni di real-politik.
Veniamo ai fatti di oggi e cerchiamo verificare che cosa, in diritto,
e, in ultima analisi, nella vita socio-economica dei paesi Ue, comporterebbe
“questo” atlantismo, più o meno immaginario, così tanto invocato, sia ai fini
di un percorso di negoziato di pace, sia in termini di delineazione dell’esatta
natura del conflitto in corso:
l’Italia ha prestato il suo consenso alle sanzioni finora decise
in sede eurounitaria; vige il principio dell’unanimità, come abbiamo visto, e
quindi la valutazione è frutto di una forte scelta politica. Forte perché la
rapidità di tali decisioni comuni non appare aver adeguatamente ponderato
l’impatto sull’economia dei paesi-membri “sanzionanti”, già di per sé alle
prese con una ripresa economica resa difficile dalle tensioni sui prezzi
energetici e delle materie prime e dei semilavorati importati (aumento
inflattivo generalizzato ma specificamente appuntatosi su ciò che ci siamo
comunque vincolati a importare per rispettare il quadro obbligatorio delle c.d.
rivoluzioni green e digitale).
Questa ripresa dell’inflazione da importazione precede l’inizio
della guerra e origina da un combinato disposto di: a) auto-vincolo della domanda pubblica dei paesi-membri verso
finalità prioritarie di investimento normativamente stabilite a livello Ue; b) connessi mancati investimenti, a
livello mondiale, nel settore estrattivo e infrastrutturale energetico; c) conseguente insorgere delle
aspettative rialziste dei mercati finanziari sui prezzi di prodotti che,
rimangono invece, indispensabili sia per gestire la nostra capacità produttiva
essenziale, sia per condurre con successo la c.d. fase di transizione, sia per
rendere minimamente sostenibile, per le imprese e l’occupazione, il modello
finale di economia che si vorrebbe instaurare.
Tutto ciò determina il pericolo imminente di renderci dipendenti
strutturalmente dalle commodities e
dalle tecnologie importate dalla Cina e dai suoi ulteriori hub asiatici di delocalizzazione. L’aggravamento ulteriore di tale
situazione, a seguito delle sanzioni, si situa proprio nell’incertezza delle
relazioni politiche e giuridico-commerciali internazionali che ne deriva (dando
lo spunto all’accelerazione di quel sotterraneo e feroce lavorio di
competizione economica tra grandi potenze che abbiamo visto portarci verso una
restaurazione, amplificata dalla tecnologia, dell’ordinamento internazionale
ottocentesco basato sulla potenza militare come prodotto di supremazia
economico-finanziaria e superiorità tecnologica).
Insomma, occorreva ponderare i benefici, modesti, della funzione
di deterrenza sanzionatoria verso la Russia con i costi della crescente
incertezza politica rispetto al reale modello di specializzazione produttiva
che, complessivamente, caratterizza il regime Ue e, ancor più quello dell'Eurozona,
e rispetto al quale, già di per sé, risultava velleitaria la politica
industriale incentrata sull’adozione forzata del green e del digitale e sulla disincentivazione dell’uso produttivo
degli idrocarburi.
Si è inoltre provveduto ad una sorta di sequestro (con subentrata
minaccia di confisca) delle riserve
monetarie della Banca centrale russa, adottando una “contromisura” che non
ha precedenti neppure nel blocco dei beni e nell’embargo petrolifero adottati
contro il Giappone (1940-41) alla vigilia della seconda guerra mondiale,
allorché, però, la situazione di guerra imminente riguardava direttamente gli
Stati Uniti, non considerabili come “paese terzo”.
Ma, nell’attuale situazione,
in cui vige la moneta fiat e non il gold standard, e comunque le “riserve”
valutarie vengono registrate elettronicamente e si appostano per lo più
all’estero (come anche buona parte di quelle in oro), dentro un sistema di
pagamenti controllato dagli Usa e dall’Ue, ciò genera uno sconvolgimento nella
fiducia, appunto, del sistema dei pagamenti internazionali e in quello
valutario; ciò obbliga, per giustificata cautela, tutti i paesi del mondo a
rivedere l’assetto monetario internazionale fondato sul dollaro e, peraltro,
sull’euro. Un assestamento verso questa esigenza comune alla parte più popolosa
(ed anche, ormai, produttiva) del mondo, rischia di risolversi in un boomerang di medio periodo dagli effetti
devastanti sia economici sia di tipo bellico.
In una sintesi conclusiva, si può dire che la pace si afferma
ancor più come necessaria, sebbene intesa non come tregua, più o meno stabile
(che arriverà per spontanea azione delle parti belligeranti, prima o poi, dato
l’adattarsi, alle condizioni inevitabilmente emergenti “dal campo”, degli
obiettivi dell’offensiva russa) ma come composizione di interessi sostanziali
che facciano capo a tutti gli attori coinvolti: la crisi economica strutturale,
e quindi prolungata e difficilmente risolvibile, in cui rischia di entrare
l’Unione europea, - a differenza degli Stati Uniti che dispongono di ben altre
risorse e sono in grado di calibrare le proprie politiche industriali addirittura
avvantaggiandosi dell’auto-riduzione produttiva che si è variamente imposta
l’Ue -, ci inserisce in una lotta contro il tempo per il raggiungimento di una
soluzione pacifica negoziale.
Ma i segnali che arrivano dalle cancellerie europee e dalle
reiterate dichiarazioni dei responsabili della politica estera e della
sicurezza europee, depongono in senso contrario ad una consapevolezza del
tunnel in cui si è infilata l’Unione stessa. L’auspicio è che, senza dover
troppo a lungo brutalizzare le vite dei cittadini italiani, ed europei in
genere, la realtà dei fatti porti le nostre classi di governo a un maggior
senso dell’interesse generale della Nazione, correggendo gli eccessi di
aggressività e gli equivoci giuridico-internazionali in cui ora, sotto la
spinta interessata degli Stati Uniti, appaiono invece indugiare. La prospettiva peggiore è che non ci si
accorga che accanto al conflitto guerreggiato tra Russia e Ukraina, si instauri
e si prolunghi una vera e propria offensiva punitrice dell’Unione europea,
prigioniera impotente delle sue contraddizioni e delle sue ambiguità originarie
e successivamente rafforzatesi.