1.
Il quadro generale della congiuntura italiana nei suoi possibili sviluppi di
breve e medio termine.
Cerchiamo di approfondire l’evoluzione della situazione
italiana dentro l’eurozona all’incirca nei prossimi due anni (indicativamente). E cioé, appunto, entro un breve
periodo in cui si acutizzino i fattori recessivi esogeni (crisi strutturale e geopolitica, - cioè neo-multilaterale-, della globalizzazione asimmetrica) e endogeni all’eurozona (ulteriore consolidamento fiscale, pro-ciclico, determinato dagli obiettivi di
pareggio strutturale di bilancio derivanti dal modo in cui viene calcolato
l’output-gap dal working group che
supporta le prescrizioni impartiteci dalla Commissione Ue).
Nell’appunto sull’applicazione dell’art.65 TFUE, la
situazione italiana (attuale) viene riassuntivamente così descritta :
L’Italia attualmente si trova:
a) impossibilitata comunque a promuovere
politiche di crescita di c.d. “piena occupazione” (effettiva), e anzi
obbligata, dal fiscal compact e dalle sue linee guida applicative (qui, p.3), a perseguire
un aggiuntivo e forte consolidamento fiscale, induttivo di una probabile recessione che si aggiunge alla forte stagnazione “esogena” attualmente in
corso;
b) impossibilitata, di conseguenza, anche a
svolgere le politiche anticicliche (qui, pp. 5-8) la cui necessità e urgenza si manifesta a
causa della fase di stagnazione-recessione in cui, anzitutto, la Germania si
trova, “trascinando”, di conseguenza anche il nostro sistema produttivo che ne
è divenuto, per notori motivi, strettamente dipendente;
c) vincolata, entro breve tempo, (dato
l’atteggiamento, ormai da considerare negozialmente tanto irreversibile quanto
improvvido, assunto dai vari livelli di rappresentanza italiani), al “nuovo”
trattato ESM che implica, in caso di crisi economica in un singolo
Stato-membro, che l’intervento del fondo di salvataggio ci sia precluso a
priori dal mancato rispetto della regola del debito (limite del 60% su Pil
ovvero riduzione significativa negli ultimi esercizi); e ciò, si noti, tranne
il caso di previa ristrutturazione dei titoli del debito pubblico nazionale,
agevolata, anzi “incentivata”, nella stessa riforma dell’ESM, dall’estensione
operativa delle clausole CACS (cioè relative ai poteri dei creditori, in
maggioranze ora semplificate, di prescegliere una certa forma, ampiezza, e un
certo livello di sostanziale default).
2. La portata e gli effetti “sistemici” della riforma del
trattato ESM.
In questa sede si ritiene di approfondire il
punto c), poiché emerge come di primaria importanza per definire in concreto
l’ulteriore aggravamento della traiettoria inerziale (quindi in assenza dell’adozione
di rimedi “difensivi” da parte delle autorità di governo nazionale), di stress
economici, recessivi e distruttivi, cui verrà sottoposta l’intera società
italiana, portando alle estreme conseguenze l’ingestibilità e l’instabilità
politico-istituzionale.
L’entrata in vigore del “nuovo” trattato ESM
(complementare ai trattati Ue, ma sostanzialmente intergovernativo e diretto ai
soli membri dell’eurozona, e quindi costituente un vincolo aggiuntivo ed
autonomo rispetto al regime dei trattati stessi), nel corso del 2020 può essere
dato per scontato: appare infatti ormai impensabile, - date le posizioni favorevoli “in blocco”
finora espresse dall’Italia e l’aperta adesione (acritica) dell’attuale
governo-, che tale trattato “complementare” non sia definitivamente approvato,
come previsto, entro dicembre 2019. La successiva ratifica (che dovrà essere
adottata ai sensi dell’art.80 Cost., essendo appunto la sostanziale modifica di
un trattato, e non di una fonte di diritto europeo tipizzata, a suo tempo
soggetto a ratifica, promulgata nel luglio del 2012), risulta del pari
prevedibile ed entro lo stesso anno (salva crisi di governo subentrante prima
del compimento di entrambe le deliberazioni delle due camere…). [1]
Schematizziamo il clou delle novità, - di
regime dell’eurozona e di gestione delle crisi che possono (asimmetricamente)
colpire uno degli Stati ad essa aderenti-, che scaturiscono da questa
“riforma”.
Le nuove linee condizionali precauzionali
(PCCL- precautionary conditioned credit
line), mostrano criteri di ammissibilità agli aiuti impossibili, ove dovesse intervenire a favore di uno Stato che
versi nelle condizioni di debito/PIL e di “spazio” di indebitamento annuale dell’Italia
(in neretto le condizioni ostative più rilevanti):
(1) non essere in procedura di infrazione,
(2) da due anni non avere deficit superiore al 3%,
(3) anzi,
inferiore, come definito da un ‘indice strutturale’ diverso da paese a
paese,
(4) da
due anni, avere un debito inferiore al 60% ovvero averlo dibotto di almeno 1/20
della distanza dal 60%,
(5) non avere alcun disequilibrio
macroeconomico,
(6) avere accesso ai mercati dei capitali ‘a
termini ragionevoli’ (ma sconosciuti
nei loro esatti termini definitori),
(7) un debito estero sostenibile,
(8) un
settore finanziario non vulnerabile.
Criteri che il Consiglio dello ESM è libero di
applicare discrezionalmente, secondo linee di “aggiustamento” interpretativo non
ragionevolmente preventivabili e, anzi, potenzialmente discriminatorie (come
s’è già visto in tema di unione bancaria e discrezionalità relativa ai
presupposti di ammissione dei vari tipi di ricapitalizzazione pubblica
preventiva e di burden sharing a
carico degli obbligazionisti, non evitato a causa di una decisione della Vestager poi ritenuta illegittima dal
giudice europeo di primo grado; “caso Tercas”).
Infatti queste linee di intervento ordinario sono pensate, per così dire,
per Paesi che cadano in crisi…nonostante sé stessi: cioè che, - nonostante
siano in condizioni di osservanza dei criteri complessivi del Fiscal Compact e,
peraltro, essendovi riusciti pur in vigenza del regime dell’unione bancaria
nonché, per la verità, grazie alla “misteriosa” pregressa tolleranza sul deficit
(es; casi di Francia, Spagna, Portogallo nel periodo 2009-2017), riescano, allo
stato attuale, ancora a registrare una situazione di equilibrio macroeconomico (secondo gli indicatori che accompagnano
le regole del Fiscal Compact sugli squilibri macroeconomici); ciò in specie nei
conti con l’estero, nonché per quanto concerne le condizioni di accesso “sostenibile”
ai mercati per il finanziamento del debito pubblico.
In pratica, il nuovo
ESM ammette il salvataggio “ordinario”, dedicato ad un singolo Stato dell’eurozona,
come “caso impossibile”, al punto da rendere
i suoi strumenti di intervento anti-crisi in concreto del tutto irrilevanti
(tranne forse che per un salvataggio rivolto alla Germania o all’Olanda, caso della
cui verificazione, stante l’attuale pseudo-equilibrio dell’eurozona, ci sarebbe
da molto dubitare; peraltro, già per la Francia, l’attuale linea di deficit
perseguita dal governo Macron, risulterebbe escludente, - il condizionale è
d’obbligo, nel caso della Francia-, restringendo ulteriormente l’utilità concreta
dello strumento).
In difetto di queste condizioni “ideali”, e
concretamente paradossali, di concessione dell’intervento, viene poi previsto un “ESM loan”,
o linea di credito a condizioni rafforzate, sul modello d’azione tipico del FMI
(ECCL- Enhanced Conditions Credit Line),
per l’acquisto di titoli del debito pubblico del paese in crisi (da spread, e quindi di rifinanziamento), sia
sul mercato primario che sul secondario: e questo, però, solo se venga
valutato, sempre con fortissima discrezionalità, che “la generale situazione economica e finanziaria rimane forte ed il
debito pubblico sostenibile”.
Infatti, lo ESM è tenuto ad espletare,
preliminarmente, una analisi di sostenibilità del debito.
Complessivamente e senza dettagliare la
farraginosa disciplina in ogni sua ipotesi, - considerate, appunto, le eventualità effettive di intervento “utile” del Fondo - il Paese che chiede il
sostegno dello ESM, deve sapere in partenza che gli verrà chiesta
preliminarmente una ristrutturazione del debito.
Per rendere ancora più
agevole l’imposizione di questa pregiudiziale fase di condizionalità (fortemente
traumatica, nell’ordine degli eventi che concernono la vita di uno Stato
appartenente all’OCSE…), col Trattato,
le parti contraenti si impegnano a inserire, sin da subito, ed a
prescindere dal manifestarsi di prevedibili condizioni di crisi, in tutte le proprie nuove emissioni, le
clausole CAC (CAC-Collective Action
Clauses) Single Limb (estensive dell’attuale capacità dei creditori di
deliberare una ristrutturazione, tra i cui eventi presupposti, va rammentato, è
previsto anche il cambio di valuta del paese emittente).
Ma non è finita qui; solo dopo tale ristrutturazione, lo ESM potrà offrire un prestito, “soggetto a stretta condizionalità
(...) un programma di aggiustamento
macroeconomico”, d’intesa con Commissione, Bce, IMF, dunque “duro” come
sempre, per capirsi, come nel caso della Grecia. Il credito così concesso,
inoltre, darà luogo a un congruo utile, per livello di interesse previsto, allo
ESM, (evidentemente a compensare le perdite del resto del portafoglio,
investito in Titoli di Stato tedeschi e francesi). Mentre lo ESM ed i suoi
direttori si appropriano di piena immunità legale e penale.
3. Il riassetto “estremo” che l’ESM determinerà nel
funzionamento dell’eurozona.
Vediamo dunque quali saranno le novità
essenziali che deriveranno da questa nuova disciplina nel funzionamento, già di
per sé difficoltoso, dell’eurozona:
a) le difficoltà di collocamento del debito
pubblico determinate dagli spread, e
la quasi totale soppressione di ogni spazio di intervento
fiscale anti-recessivo degli Stati, potrebbero essere ovviate solo
attraverso il prestito del nuovo ESM, previa ristrutturazione/default, e non
più tramite l’OMT (Outright Monetary
Transaction): cioè l’effetto, essenzialmente “psicologico”, sui mercati
finanziari, del whatever it takes
pronunciato da Draghi nell’estate del 2012.
Quest’ultimo strumento, infatti, - nella sua forma di implicita e pura garanzia del debito pubblico apprestata dalla banca centrale (come accade nel rapporto tra banca centrale e emissioni del tesoro in ogni normale Stato dotato della propria moneta sovrana) -, non è mai esistito, (ove mai la “creatività” di Draghi gli avesse dato una effettiva esistenza…non mediatico-comunicativa), poiché, su rimessione della Corte costituzionale tedesca, la Corte di giustizia europea, con sentenza del giugno 2015, ha chiarito definitivamente che “l’attuazione del programma OMT è subordinata al rispetto integrale, da parte degli Stati membri interessati, di programmi di aggiustamento macroeconomico del Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF) o del Meccanismo europeo di stabilità (MES)”.
Quest’ultimo strumento, infatti, - nella sua forma di implicita e pura garanzia del debito pubblico apprestata dalla banca centrale (come accade nel rapporto tra banca centrale e emissioni del tesoro in ogni normale Stato dotato della propria moneta sovrana) -, non è mai esistito, (ove mai la “creatività” di Draghi gli avesse dato una effettiva esistenza…non mediatico-comunicativa), poiché, su rimessione della Corte costituzionale tedesca, la Corte di giustizia europea, con sentenza del giugno 2015, ha chiarito definitivamente che “l’attuazione del programma OMT è subordinata al rispetto integrale, da parte degli Stati membri interessati, di programmi di aggiustamento macroeconomico del Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF) o del Meccanismo europeo di stabilità (MES)”.
Ora, non sfugga che, in virtù del nuovo regime
dell’ESM, i programmi di aggiustamento macroeconomico vengono ancor più
inaspriti, erigendo a ipotesi unica, vincolante ed effettivamente applicabile,
il “metodo” utilizzato con la Grecia.
Appare perciò del tutto evidente che i problemi di crisi del debito pubblico, entro l’eurozona, - determinati anzitutto da evidenti difficoltà di ottenere un adeguato livello di crescita nonché di risolvere una crescente disoccupazione strutturale (e i suoi ovvii effetti di gettito tributario calante e di pressione all’aumento della spesa pubblica per “ammortizzatori sociali”), sono, (dal 2020 in modo ancor più vincolante), risolvibili solo attraverso il trauma della ristrutturazione del debito pubblico e con la sostanziale abrogazione dei già ristretti margini di intervento autonomo della banca centrale, a differenza di quanto accade per ogni altro Stato dotato di un proprio potere di emissione monetaria.
Appare perciò del tutto evidente che i problemi di crisi del debito pubblico, entro l’eurozona, - determinati anzitutto da evidenti difficoltà di ottenere un adeguato livello di crescita nonché di risolvere una crescente disoccupazione strutturale (e i suoi ovvii effetti di gettito tributario calante e di pressione all’aumento della spesa pubblica per “ammortizzatori sociali”), sono, (dal 2020 in modo ancor più vincolante), risolvibili solo attraverso il trauma della ristrutturazione del debito pubblico e con la sostanziale abrogazione dei già ristretti margini di intervento autonomo della banca centrale, a differenza di quanto accade per ogni altro Stato dotato di un proprio potere di emissione monetaria.
Va infatti rammentato che gli spread sono dipendenti da una condizione strutturale dell’eurozona:
cioè costituiscono il “premio”, crescente, di rischio relativo alla uscita di
uno Stato-membro, a causa dell’insostenibilità macroeconomica della moneta
unica, a sua volta dovuta alle condizioni permanentemente punitive, per la
crescita (e quindi per il calo del rapporto debito/PIL) implicite nel divieto
di bail-out degli Stati aderenti
(ovverosia, divieto di “solidarietà” fiscale dentro l’eurozona; artt.124 e 125
TFUE), nonché nel divieto della BCE di acquisto diretto dei titoli di debito
pubblico (art.123 TFUE).
A seguito della crisi del debito
pubblico, del salvataggio “psicologico” determinato dalla mera prospettazione
dell’OMT, e poi, decisivamente, del primo programma di acquisto dei titoli del
debito pubblico lanciato nel 2015 dalla BCE (QE), gli spread appaiono
inoltre strettamente collegati al permanere di un atteggiamento “attivo” della
stessa BCE, cioè legati al suo intervento (tramite banca centrale nazionale)
negli acquisti sul mercato secondario (in particolare per l’Italia),
mediante l’utilizzazione della liquidità, già immessa nel sistema, e riveniente
dal rimborso alle scadenze dei titoli detenuti in forza di tale QE (e di altri
precedenti facoltà di acquisto consentite alla BCE).
4. Riforma ESM, orientamento privilegiato alla
ristrutturazione del debito pubblico, e suoi effetti sul sistema bancario e sul
risparmio nazionale nel quadro dell’Unione bancaria.
In complemento a questo scenario di ulteriore
irrigidimento delle condizioni fiscali dell’eurozona, occorre considerare la
contemporanea vigenza della c.d. Unione bancaria e gli effetti collaterali, di
propagazione recessiva, che conseguirebbero, perciò, all’intreccio tra le due
discipline, quella dello ESM e quella, già applicabile, dell’unione bancaria.
Detto in estrema sintesi: con il vincolo di (paradossale
salvataggio previa) ristrutturazione del debito pubblico, ovvero con la
partecipazione del settore privato, detentore dei relativi titoli, alle
perdite, tutte le banche italiane andrebbero in default, con prevedibili conseguenze sistemiche.
La sequenza è: a) perdita vistosa dei corsi dei titoli, b) perdita conseguente di bilancio degli istituti bancari, c) esigenza di ricapitalizzazione a
livelli impensabili, e non appetibili, per qualsiasi investitore privato, d) contemporanea preclusione di qualsiasi
forma di ricapitalizzazione pubblica, non finanziabile sui mercati (ancorché
susseguente a burden sharing a carico
di azionisti e obbligazionisti…spesso piccoli risparmiatori), ergo: e) inevitabile bail-in di massa dei
correntisti e ondata recessiva (aggiuntiva a quella che avrebbe, in assunto,
giustificato il ricorso all’ESM!) di dimensioni epocali; ciò a causa della
massiccia distruzione di risparmio e, dunque, di investimenti e degli stessi
consumi (occorre infatti considerare la
c.d. propensione al consumo del risparmio liquido e persino, sebbene
inferiore, della ricchezza immobiliare, a valori drammaticamente descrescenti:
tali asset infatti sono sempre più
divenuti una riserva di consumo “eventuale”, legata all’incertezza e al calo
dei redditi delle famiglie).
4.1. Riassumendo:
a) la
BCE assume sì un ruolo sempre più
centrale nell’eurozona, ma ancor più di prima, “in negativo”: cioè
divenendo, in modo estremo, assolutamente neutrale
nelle sue (peraltro giuridicamente
vietate) funzioni di garanzia dell’azione fiscale degli Stati. L’indipendenza
pura (cioè estesa non alla mera “libertà” della BC dall’’indicazione
governativa di intervento sul mercato dei titoli al collocamento, ma come
espresso “divieto” di tale acquisto in, eventuale, “monetizzazione” del debito
pubblico stesso; v.art.123 TFUE) e dunque l’adesione all’idea neutrale della
moneta, confinano la BCE ad effettuare la vigilanza bancaria ed il (mero) finanziamento
del relativo settore secondo le pratiche di regolazione della massa monetaria
fisiologicamente legate a tale neutralità (in pratica, l’emissione di moneta di
banca centrale sarebbe assolutamente sigillata in un circuito che escluderebbe
qualsiasi diretta o indiretta connessione con la “dazione” a soggetti
dell’economia reale);
b) non a caso appare altamente improbabile, e anzi complementare alla riforma
dell’ESM, che, - in questa direzione impressa all’assetto dell’eurozona -, il
nuovo QE sia effettivamente portato a compimento…il che, tra l’altro,
equivale anche a una sostanziale
rinuncia al vano tentativo di riportare l’eurozona al target inflattivo del 2%,
compito già obiettivamente fallito col primo QE, e che risulta ora ostacolato
dall’intento aggiuntivo di vietare, col
nuovo ESM, i suoi effetti formalmente “secondari” (del QE): cioè quello di sostegno economico-fiscale agli Stati
(che tante opposizioni ha suscitato e, ancor più suscita ora, nella Germania e
nei suoi satelliti), nonché quello di
effetto svalutativo nei confronti del dollaro (effetto che potrebbe essere
rinunziato da Francia e Germania, come risulta dall’attuale decisa opposizione
delle rispettive banche centrali, per evitare uno scontro commerciale e
valutario con gli Stati Uniti);
c) tutto
il peso del riequilibrio interno all’EZ ricade sul finanziamento dell’ESM,
che si profila anticipatamente come: a) meramente
teorico in via di intervento ordinario, in condizioni fisiologiche; b) acutamente pro-ciclico, in caso di
intervento residuale e concretamente applicabile, determinando una punizione
“estrema” del paese che non reggerà la duplice condizione del pareggio di
bilancio e di una crescita priva di squilibri macroeconomici;
d) per
l’Italia, a cui appare “mirato” il nuovo regime dell’ESM, questa situazione
complessiva equivale a vincolo legale, fortemente sanzionato, a seguire una
rigida politica fiscale pro-ciclica e,
in prospettiva resa inevitabile, a sottoporsi alla ristrutturazione del proprio
debito pubblico con conseguenze bancarie sistemiche e un bail-in di massa
disastrosamente recessivo;
e) questo
scenario di imminente riforma rende perciò, va sottolineato, quasi obbligato, per l’Italia, un intervento precauzionale di
imposizione patrimoniale sul risparmio privato nei depositi bancari, - ovvero
un insieme di misure tributarie equivalenti (quanto a gettito)- nonché una
ulteriore accelerazione nel progressivo smantellamento del sistema
pensionistico e sanitario pubblico, che, ai fini del pareggio
strutturale di bilancio, risultano infatti i maggiori aggregati della spesa
pubblica (e la cui “incomprimibilità” politica viene considerata il principale
ostacolo ad una virtuosa appartenenza all’eurozona). Ma anche questa serie di politiche “precauzionali”, accelerate dalla
minaccia…del salvataggio ESM (!), risultano fortemente recessive, se non
esiziali per la nostra economia e per il minimo di coesione sociale che
caratterizza un paese democratico.
5. La segregazione nel
sistema Target2: una “quasi mediazione” per conservare l’euro e creare un
ibrido che potrebbe preparare alla sua dissoluzione concordata.
Di fronte ad una tale
ricetta per una fine disastrosa dell’eurozona, rimane sul tappeto un’ipotesi,
come dire, di “mediazione” (come vedremo non meno penalizzante, a seconda dei
suoi tempi e circostanze di adozione).
Il meccanismo in
pratica è stato già ventilato “sottovoce” da più parti.
Nella fase attuale, la
spinta di partenza sarebbe così riassumibile: se. in virtù del “nuovo” Trattato
ESM, le regole tedesche non reggerebbero alla prova dei fatti (inducendo un
collasso dell’EZ, proprio perché volutamente troppo costrittive), in realtà,
l’introduzione di una riforma così “minacciosa”, potrebbe essere il modo
migliore per costringerci ad accettare la
c.d. segregazione.
La segregazione consiste (sulla traccia di quanto
sperimentato dalla BCE nei confronti di Cipro e della Grecia) nella imposizione, all’interno del sistema di
pagamenti Target2, di un obbligo di preventiva prestazione di cauzione per ogni
pagamento in uscita proveniente da uno Stato considerato “debitore a rischio” (verso il rimanente
sistema delle banche centrali dei singoli paesi-membri e, per riflesso, verso i
sistemi bancari di tali paesi “creditori”).
Tale cauzione può assumere la forma di un deposito (presso la BCE) di
una certa quantità di riserve della banca centrale nazionale, in oro o valute
“forti”. Ma preso nella sua rigida forma giustificativa, avrebbe un limite
(l’ammontare di tali riserve, comparato con il volume dei pagamenti verso l’estero
dei residenti italiani), relativo all’onere sostenibile da parte della Banca
d’Italia, che sarebbe presto raggiunto (in pochi mesi).
Infatti, per un paese
che comunque presenta una forte componente di esportazioni, ma anche di
connesse importazioni per rifornire il proprio sistema di trasformazione
industriale, si avrebbe quasi certamente la concreta traslazione, da parte
delle autorità bancarie nazionali, dell’onere di prestazione della garanzia a
carico delle banche commerciali che eseguono gli ordini di pagamento in uscita.
Queste, a loro volta, agendo come mandatarie degli operatori economici che
importano, chiederebbero agli stessi o di sopportare il costo della garanzia,
ovvero, in termini più pratici, un sovrapprezzo rispetto a quello
corrispondente all’ordine di pagamento derivante dalla transazione di
importazione.
Analogamente, nel
sistema della segregazione, l’operatore
nazionale esportatore, maturando un credito con un profitto (al netto
dell’imposizione fiscale), che determina un attivo nelle partite correnti
commerciali, non potrebbe poi più
generare un pagamento in uscita nel sistema Target2 corrispondente
all’investimento, per lo più finanziario, di tale profitto netto: e ciò, appunto, senza doverne sopportare una
forte decurtazione a seguito della disposizione di “segregazione” (in sostanza,
per l’investitore italiano verso l’estero ciò comporta un aumento del prezzo
dello strumento finanziario estero prescelto; all’interno della sola eurozona,
peraltro). L’effetto pratico sarebbe che, pur
rimanendo l’Italia formalmente nell’eurozona, per gli acquisti dall’estero e
per le esportazioni di capitale (all’interno della sola eurozona), l’euro “italiano”
risulterebbe de facto svalutato nella
misura percentuale corrispondente all’ammontare della cauzione/costo della
garanzia imposta per un pagamento verso altri paesi dell’eurozona.
Ciò avrebbe un
vantaggio, sia pure costrittivo, consistente in una misura equivalente alla
restrizione delle importazioni (componente negativa del PIL), - vietata
dall’art.34 TFUE ma consentita dalla supposta specialità delle regole
applicabili dalla BCE -, nonché determinante un vincolo all’investimento
nazionale dell’eventuale surplus
delle partite correnti: tale
investimento “nazionale” del surplus
(aderendo all’idea che, tendenzialmente,
importazioni più costose avrebbero perciò un minor volume, e, sempre
tendenzialmente, il surplus
commerciale medesimo potrebbe addirittura risultare aumentato) sarebbe, in ipotesi, destinato a
rivitalizzare sia la domanda di titoli del debito pubblico che di beni
immobiliari.
In altri termini,
poiché l’Italia non è Cipro, ma un forte paese industriale manifatturiero, con
una consolidata vocazione esportativa, si avrebbe una sorta di ibrido “lira-euro”, ragionevolmente svalutato e, come vantaggio ipotizzato dai
tedeschi, una correzione abbastanza
rapida del loro saldo attivo Target2, che la Germania considera, in modo
unilaterale e controverso, come un attivo di riserve (in euro) della propria
banca centrale.
6. Osservazioni conclusive concernenti le prospettive
vincolate dell’evoluzione della situazione politica e di governo italiane.
Qualche osservazione finale che aiuti a comprendere
appieno la “svolta” che, senza apparente reazione alcuna da parte del governo
nazionale, si sta così profilando:
1) La riforma dell’ESM
risulta come una plateale accelerazione
della “germanizzazione” dell’eurozona: infatti, si tratta di regole tedesche
che non reggerebbero alla prova dei fatti per un debito pubblico e un'economia
delle dimensioni di quella ITA. La stessa entità della provvista di cui è
dotato l’ESM appare insufficiente a un salvataggio di tali dimensioni.
Oltretutto, l’ESM si risolve nella
“segregazione”, ovverosia in un vero e proprio sequestro “escludente” della (notevole)
contribuzione italiana all’ESM (che assommandosi a quella già erogata all’incorporato
ESFS, arriva a oltre 120 miliardi…).
2) Insomma, politicamente, ormai, la decisione finale sulla sopravvivenza o
meno dell’€urozona spetterà alla Bundesbank che, certo, potrà invocare il
mancato rispetto delle 'regole', ma dovrà assumersi l'onere della fine di un
meccanismo che, allo stato dei fatti, favorisce l'espansionismo francese (dato
che, vale la pena di rammentarlo, lo Stato francese e le banche francesi hanno
accesso “non sindacato” al credito BCE);
3) l'alternativa
alla segregazione, o, prima ancora,
all’applicazione “punitiva” del trattato ESM (pressione tedesca), è costituita dall’ottenimento di saldi
primari, pluriennali, del bilancio pubblico, dell'ordine di 3,5 - 4% del PIL (pressione francese),
economicamente insostenibili (per crescita e occupazione), ma pienamente
compatibili con uno sfruttamento coloniale,
ovvero la via €uropea, di trasformazione definitiva del sistema italiano: prima
di tutto costituzionale, secondo l’indicazione, ormai insistita da circa tre
decenni, data dalla tecnocrazia italica (e dall’insieme di forze economiche e
mediatiche che sostengono la permanenza nell’eurozona “ad ogni costo”);
4) il perseguimento di saldi primari di tale entità presupporrebbe,
piuttosto, una situazione di, almeno, moderata crescita (sebbene,
nell’eurozona, nell’accezione solowian-Barro-sargentiana,
cioè praticamente una lunga stagnazione). Per contro, come dovrebbe ormai
essere evidente a tutti, la globalizzazione, come s’è detto, si è inceppata, e
pare vicina al collasso nella sempre più paventata evenienza della prossima
crisi finanziaria globale (è, in estrema essenza, un problema di asimmetrie
istituzionali nell'applicazione del WashingtonConsensus, v. pp. 1-2, a cui sono soggetti i paesi OCSE, in primis USA e eurozona, ma
non altrettanto i paesi emergenti maggiori, come Cina e India, che hanno eroso
crescita, capacità produttiva e occupazione nei paesi OCSE, ricorrendo a uno
sviluppo caratterizzato da un forte intervento statale e da un incontrollato dumping sul costo e sulla tutela del
lavoro).
Ergo, l'aspirazione francese, a prendere il
controllo del sistema (finanziario, industriale e dei servizi) italiano, già
nel medio periodo, se rapportata alla congiuntura economica globale, risulta velleitaria (può risolversi in un boomerang, con una recessione che contagi l'intera eurozona);
così come appunto velleitaria è
l’ostinazione dello spaghetti €stablishment nell’assecondare l’espansionismo francese, promettendo
(da decenni), una crescita futura “competitiva”, senza potersi basare su alcun
ragionevole motivo macroeconomico che gli consenta di mantenere tale promessa…pagandone
appunto il costo in termini elettorali;
5) in questo quadro
globale, peraltro, trova spiegazione anche l'opposizione
francese (cioè della banca centrale di Francia: un fatto considerato
“sorprendente”…) al “nuovo” Quantitative Easing lanciato da Draghi.
Tale opposizione è ragionevolmente dovuta (v. qui, p. 8.1.): a) ai rendimenti negativi sulla gran
parte dei loro titoli del debito pubblico che gli stessi francesi stanno
subendo (permanendo in parallelo anche l’impossibilità politica per Macron di
realizzare le riforme strutturali alla "tedesca", e quindi di
sopportare il costo politico-sociale di politiche di (ulteriore) svalutazione interna; b) all'effetto svalutativo sul dollaro del QE, e alla conseguente
guerra daziaria (e anche valutaria) che ne deriverebbe (Trump deve aver parlato
chiaro a Macron all'ultimo G7 di settembre), che i francesi commercialmente e
geopoliticamente non possono permettersi (essendo gli Usa il primo paese di
destinazione, per volume, delle loro esportazioni).
6) Volendo accreditare
di una certa sostenibilità le politiche
di perseguimento del pareggio strutturale di bilancio, che l’attuale
governo persegue con molte incertezze, si renderebbe indispensabile un intervento “di riserva” della BCE alternativo al QE
(come abbiamo visto sopra parlando degli spread)...ma sarebbe sufficiente a compensare l'entità della recessione fiscalmente indotta? L'esperienza "Monti" e governi seguenti ci dice di no.
E qui giunge al pettine un nodo nevralgico: l'ESM "punitivo",
tedeschizzato, fondato appunto sulla
definitiva neutralizzazione di ogni possibilità di intervento della BCE, porterebbe
al riacutizzarsi entro breve di un conflitto franco-tedesco. Ed infatti, la Germania ha interesse a minacciare la
(imminente) ristrutturazione del nostro debito pubblico, se non altro
(nella migliore delle ipotesi), per consentire di imporci la “segregazione” e
assicurarsi un riequilibrio dei saldi Target2, (che, in controluce, prepara in
realtà o una German-exit o un’Ital-exit); vale a dire: la Francia ha bisogno di tempo e di politiche di consolidamento fiscale
che diluiscano nel tempo, in Italia, un effetto equivalente alla
ristrutturazione del debito italiano (come abbiamo visto), per assicurarsi
(in forza della tradizionale “cooperazione” politica interna di cui ha goduto finora) il completo
controllo finanziario e industriale della penisola.
7) Insomma: il valore operativo dell'ESM sta nell'imporlo
(all'Italia), come minaccia “estrema”; consiste cioè, in un certo senso, in una
sfida tedesca a imporci l'uscita. Però, prima regolando, a loro
favore, i saldi Target2 (cioè vogliono la liquidazione per rimpinguare di
riserve la loro moneta forte futura:
possibilmente, per loro, un euro senza l’Italia).
[1] Questa
la configurazione originaria dell’ESM: Il Meccanismo europeo di
stabilità (MES), detto anche Fondo salva-Stati (in inglese European Stability Mechanism;
ESM), è un'organizzazione internazionale a
carattere regionale nata come fondo finanziario europeo per
la stabilità finanziaria della zona euro (art.
3); è istituita dalle modifiche al Trattato di Lisbona (art. 136)
approvate il 23 marzo 2011 dal Parlamento europeo[1] e
ratificate dal Consiglio
europeo a Bruxelles il
25 marzo 2011[2][3].
Esso ha assunto però la veste di organizzazione intergovernativa (sul
modello del FMI), a motivo della
struttura fondata su un consiglio di governatori (formato da rappresentanti
degli stati membri) e su un consiglio di amministrazione e del potere,
attribuito dal trattato istitutivo, di imporre scelte di politica macroeconomica ai paesi aderenti
al fondo-organizzazione.[4]
Il Consiglio Europeo di Bruxelles del 9 dicembre 2011,
con l'aggravarsi della crisi dei debiti
pubblici, decise l'anticipazione dell'entrata in vigore del fondo,
inizialmente prevista per la metà del 2013, a partire
da luglio 2012.[5] Successivamente,
però, l'attuazione del fondo è stata temporaneamente sospesa in attesa della
pronuncia da parte della corte costituzionale della
Germania sulla legittimità del fondo con l'ordinamento tedesco.[6] La Corte Costituzionale Federale
tedesca ha sciolto il nodo giuridico il 12 settembre 2012,
quando si è pronunciata, purché vengano applicate alcune limitazioni, in favore
della sua compatibilità con il sistema costituzionale tedesco[7].
Il MES sostituisce il Fondo europeo di stabilità
finanziaria (FESF) e il Meccanismo europeo di
stabilizzazione finanziaria (MESF), nati per salvare dall'insolvenza gli stati di Portogallo e Irlanda,
investiti dalla crisi
economico-finanziaria.[8] Il
MES è attivo da luglio 2012 con una capacità di oltre 650 miliardi di euro, compresi
i fondi residui dal fondo temporaneo europeo, pari a 250-300 miliardi.[9][10][11]
Il MES è regolato dalla legislazione internazionale e
ha sede a Lussemburgo. Il fondo emette prestiti
(concessi a tassi fissi o variabili) per
assicurare assistenza finanziaria ai paesi in difficoltà e acquista titoli sul
mercato primario (contestualmente all'attivazione del programma Outright Monetary Transaction),
ma a condizioni molto severe. Queste condizioni rigorose "possono spaziare
da un programma di correzioni macroeconomiche al rispetto costante di
condizioni di ammissibilità predefinite" (art. 12). Potranno essere
attuati, inoltre, interventi sanzionatori per gli stati che non dovessero
rispettare le scadenze di restituzione i cui proventi andranno ad aggiungersi
allo stesso MES.[12] È
previsto, tra le altre cose, che "in caso di mancato pagamento, da parte
di un membro dell'Esm, di una qualsiasi parte dell'importo da esso dovuto a
titolo degli obblighi contratti in relazione a quote da versare [...] detto
membro dell'Esm non potrà esercitare i propri diritti di voto per l'intera
durata di tale inadempienza" (art. 4, c. 8).
Il fondo è gestito dal Consiglio dei
governatori formato dai ministri
finanziari dell'area euro, da un Consiglio di amministrazione (nominato
dal Consiglio dei governatori) e da un direttore generale, con diritto di voto,
nonché dal commissario UE
agli Affari economico-monetari e dal presidente della BCE nel ruolo
di osservatori. Le decisioni del Consiglio devono essere prese a maggioranza qualificata o
a maggioranza semplice (art. 4, c.
2).[12] Il
MES emette strumenti finanziari e titoli, simili a quelli che il FESF emise per
erogare gli aiuti a Irlanda, Portogallo e Grecia (con la garanzia dei paesi
dell'area euro, in proporzione alle rispettive quote di capitale nella BCE), e
potrà acquistare titoli di stati dell'euro zona sul mercato primario e secondario. Il fondo potrà concludere
intese o accordi finanziari anche con istituzioni finanziarie e istituti
privati. È previsto l'appoggio anche delle banche private nel fornire aiuto
agli stati in difficoltà. In caso di insolvenza di uno Stato finanziato dallo
MES, quest'ultimo avrà diritto a essere rimborsato prima dei creditori privati.