(post di Sofia)
1. Il 28 dicembre l'Aula
della Camera ha avviato la terza lettura della legge di
Bilancio 2019. Una corsa contro il tempo (causata anche dalle trattative
con l’Unione Europea) per evitare l'esercizio provvisorio per cui nella notte,
la commissione Bilancio di Montecitorio ha approvato, con i voti di M5s-Lega e
l'opposizione di Pd e Forza Italia, il mandato al relatore, e il via libera
alla trasmissione del provvedimento all'assemblea senza discutere né votare
(come già al Senato in seconda lettura) i circa 350 emendamenti presentati.
La Camera, con 327 voti
favorevoli e 228 contrari, ha votato il 29 dicembre la questione di fiducia
posta dal Governo sull'approvazione, senza emendamenti ed articoli aggiuntivi,
dell'articolo 1 del disegno di legge: Bilancio di previsione dello Stato per
l'anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021
(A.C. 1334-B), nel testo della
Commissione, identico a quello approvato dal Senato.
La manovra ha avuto il via libera finale e
definitivo dall'Aula della Camera, con 313 sì e 70 no, il 30 dicembre a cui è
seguita la firma del Presidente della Repubblica.
2. Come riporta IlSole24ore,
da un esame dei resoconti parlamentari
delle sedute, negli ultimi due passaggi - al Senato prima e alla Camera
poi - viene fuori che il testo è rimasto all’esame delle due Commissioni per un
totale di 45 ore circa. In Commissione
al Senato, l’esame è durato oltre 28 ore, 7 ore per il passaggio alla
Camera.
Non cero una novità, tanto che nell’intervento tenuto in aula
alla Camera il 28 dicembre, riportato nei resoconti parlamentari, il presidente
Roberto Fico ha ricordato alcuni precedenti in cui si è proceduto direttamente
al voto del mandato senza aver votato nessun emendamento: «Seduta delle
Commissioni riunite bilancio e finanze del 13 dicembre 2011 e 21 luglio 2009,
Commissione bilancio del 7 dicembre 2007». E poi ancora: «La seduta della I
Commissione del 31 luglio 1996, 1997, 2000, 2006, delle Commissioni IX e XI nel
1998, dell'VIII Commissione nel 1996, della VI Commissione il 17 ottobre 1996;
la III Commissione il 26 novembre 2015».
Sul fronte della discussione dei provvedimenti di bilancio,
da un controllo effettuato meramente sui resoconti d’aula, e con riferimento
alla Camera, viene fuori che le discussioni sulla legge di Bilancio sono
durate, nel 2016 e nel 2017, circa 11 ore, compresa la discussione sulla
questione di fiducia.
3. Il Pd presenta ricorso alla Corte Costituzionale, ritenendo l’incostituzionalità dell’iter a tappe forzate del
ddl Bilancio e sollevando un
conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sull'iter di approvazione
della legge.
Il presidente della Corte Costituzionale ha fissato con
decreto la trattazione dell’ammissibilità del
ricorso nella Camera di consiglio del 9 gennaio 2019.
Secondo il deputato e costituzionalista Stefano Ceccanti, il
ricorso - presentato
dal capogruppo del Partito democratico al Senato Andrea
Marcucci e da altri 36 senatori del Pd - metterebbe in evidenza la violazione
dell'articolo 72 della Costituzione, “secondo
il quale ogni testo legislativo deve essere esaminato dalla commissione di
merito e votato articolo per articolo dall'Aula”. Il ricorso,
sostanzialmente, sembrerebbe basarsi sull'idea che un gruppo parlamentare sia
un potere dello Stato e che quindi possa avanzare un ricorso diretto alla
Consulta, così come prevede l'articolo 134, secondo comma della Costituzione.
In attesa
del pronunciamento della Corte, si sono già espressi diversi costituzionalisti.
Secondo Ugo De Siervo, costituzionalista, ex presidente della Consulta, un ricorso alla Consulta per
conflitto di attribuzione non sarebbe possibile perchè i conflitti intervengono tra i poteri supremi dello Stato. E un partito non rientra nella categoria di
tali poteri.
La medesima
tesi è confermata da Cesare
Pinelli, docente di Diritto pubblico alla Sapienza.
Mentre Francesco
Clementi, docente di Diritto Pubblico all'Università di
Perugia e tra i promotori del ricorso, ne sostiene l’ammissibilità, ritenendo che il
conflitto tra poteri dello Stato è risolto dalla Corte costituzionale se
insorge tra organi competenti a dichiarare la volontà del potere. Nel caso di
specie, a presentare il ricorso è un decimo dei parlamentari di un gruppo, per
cui, il ricorso sarebbe ammissibile perché presentato da una quota di un gruppo
parlamentare, e non da un partito (la cui legittimazione è espressamente stata
esclusa dalla Corte).
Giovanni
Guzzetta, docente
di Diritto Pubblico a Tor Vergata, ritiene che ci si trovi in un terreno ignoto (ed in effetti non
risultano precedenti simili) ma che comunque i margini per l'ammissibilità del
ricorso ci sarebbero in quanto “i gruppi
parlamentari sono menzionati dalla Costituzione come articolazioni delle Camere”.
Tuttavia, lo stesso costituzionalista deve ammettere che c'è una grande
continuità tra il governo Conte e i governi precedenti, perché tutti hanno scavalcato
il Parlamento e fatto ricorso all'utilizzo dei maxiemendamenti.
4. Al di là delle diverse opinioni finora espresse, comunque,
la decisione di
ammissibilità da parte della Corte costituzionale sul ricorso del gruppo Pd
Senato deve in sostanza rispondere a una domanda fondamentale, ossia se nella
categoria dei poteri dello Stato prevista dall'articolo 134 della Costituzione
può o no rientrare un gruppo parlamentare.
Infatti, il conflitto di attribuzione tra poteri
dello stato (c.d. conflitti interorganici), insorge tra
organi statali, cioè tra articolazioni organizzative appartenenti al medesimo
soggetto (lo Stato, appunto) e riguardano comportamenti (azioni e/o omissioni)
o atti lesivi delle attribuzioni costituzionalmente previste. Secondo la
giurisprudenza della Corte costituzionale, non sono ammessi conflitti meramente
ipotetici: è necessario che il comportamento (o l’atto) sia suscettibile di
produrre una lesione concreta dell’altrui attribuzione.
La giurisprudenza della Corte costituzionale, comunque, per
riconoscere un potere dello Stato, richiede: che esso sia almeno menzionato
dalla Costituzione; che gli competa una sfera di attribuzioni costituzionali;
che ponga in essere atti in posizione di autonomia e indipendenza; che questi
atti siano imputabili allo Stato.
Per quanto riguarda la legittimazione ad essere
parte (attore o convenuto) di un conflitto interorganico, tale conflitto deve
insorgere «tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà
del potere cui appartengono» (l. n. 87/1953). La legittimazione a sollevare conflitti
di attribuzione spetta non necessariamente all'organo gerarchicamente superiore
nell'ambito di un potere, ma a quello che può manifestare in via definitiva la
volontà del potere cui appartiene.
5. Ebbene, un gruppo parlamentare
(o meglio una parte di un gruppo come nel caso di specie) risponde a questi
requisiti così da potersi vedere riconosciuta la legittimazione a sollevare un
conflitto di attribuzione?
Al momento non pare sussistano dei precedenti sui
gruppi parlamentari, e quindi possono essere di ausilio gli altri precedenti
della Corte.
La Corte costituzionale ha ammesso, nel tempo, la
legittimazione di una serie di organi che va ben al di là della tradizionale
tripartizione (legislativo, esecutivo e giudiziario) e che pure, a stretto
rigore, non sarebbero organi di vertice: oltre, infatti, ai singoli rami
del Parlamento (v. Corte Costituzionale,
19/07/2018, n.163 che riconosce la
legittimazione delle Camere ma non dei singoli parlamentari - per cui v. anche
le ordinanze 20 maggio 1998, n. 177; 14 aprile 2000, n. 101; 17 luglio 2009, n.
222; 16 giugno 2016, n. 149 - e n, 164 che esclude la legittimazione del
singolo cittadino nella sua qualità di elettore; v. anche nello stesso senso
Corte Costituzionale, 21/12/2017, n.280 e Corte Costituzionale, 28/11/2016 , n.
256), al Consiglio dei ministri e ad ogni
singolo giudice e pubblico ministero (con la motivazione che il potere
giudiziario costituisce un potere diffuso, cioè non soggetto al principio
gerarchico; Magistratura), sono
legittimati a un sollevare conflitto di attribuzione anche il Presidente della Repubblica, la stessa Corte costituzionale, la Corte dei conti, il Consiglio superiore della
magistratura (nonché la sua Sezione disciplinare),
le Commissioni parlamentari di
inchiesta, la Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la
vigilanza dei servizi radiotelevisivi (c.d. Commissione di vigilanza sulla
RAI), il Presidente del Consiglio dei ministri (solo per le attribuzioni di
rilievo costituzionale a lui riservate), il Ministro della giustizia,
nonché, addirittura, figure esterne allo Stato-apparato, come il Comitato
promotore di un referendum abrogativo, anche se limitatamente
per ciò che attiene allo svolgimento del procedimento referendario. È stata
negata, invece, la legittimazione ai partiti politici (Corte
Costituzionale, 28/11/2016 , n. 256).
Sulla base di questi precedenti, quindi, il ricorso sarebbe
inammissibile se si considerasse proposto da un partito politico (o parte di
esso) ma anche da singoli parlamentari proprio perché non sono organi
competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui
appartengono.
Significativo è il precedente caso di
cui all’ordinanza n. 277/2017. La Corte costituzionale ha rigettato la tesi,
pure adombrata in dottrina, di «concorrenza potenziale tra la legittimazione
tanto del singolo parlamentare quanto della camera di appartenenza», escludendo
«la tesi dell’assorbimento dell’interesse del singolo parlamentare nell’organo
assembleare, stante non solo l’autonoma rilevanza di esso, ma anche l’attualità
dell’interesse» (v. Luca Grimaldi e Cosimo Pietro Guarini “Su alcuni conflitti di
attribuzione tra poteri dello Stato sollevati a seguito della «situazione
venutasi a creare» con le ultime leggi elettorali”
che a sua volta richiama A. MORRONE, Note sul ricorso del singolo parlamentare
per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, in R. BIN, G. BRUNELLI,
A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), “Il caso Previti”. Funzione parlamentare
e giurisdizione in conflitto davanti alla Corte, Torino, 2000, 121 ss., 134).
Come già notato in dottrina, però,
«ricostruire la posizione del parlamentare come titolare pro quota della
sovranità nazionale attribuita al popolo dall’art. 1 Cost. o del potere di
determinare la politica nazionale (richiamando dunque l’art. 49 Cost. in relazione
ai partiti politici) o sulla base della sua funzione di rappresentante della
nazione (art. 67 Cost.) non pare affatto decisivo al fine di individuare una
sfera costituzionalmente assegnata al parlamentare e lesa dall’approvazione di
una legge illegittima».
Peraltro, nell’ordinanza
n. 280 del 2017 la Corte pare anche aver escluso una possibile estensione della
sfera di legittimazione al conflitto «sino a ritenerla comprensiva di un
asserito diritto alla regolarità delle procedure parlamentari» o lamentando
violazioni regolamentari.
Come già evidenziato dalla Corte
costituzionale a partire dalla sentenza 2 novembre 1996, n. 379 la possibile
enucleazione di «diritti» del singolo parlamentare non deve condurre
automaticamente a considerare tali diritti quali attribuzioni rilevanti ai
sensi dell’art. 37, l. n. 87 del 1953 e, quindi, alla prospettiva del suo
(ammissibile) accesso alla sede del conflitto tra poteri. Anche nell’ordinanza
n. 149 del 2016 la Consulta ha riconosciuto che dalle disposizioni costituzionali
deriva «la titolarità, in capo a ciascun parlamentare, del potere di iniziativa
legislativa, che si estrinseca non solo con la presentazione di proposte di
legge, ma altresì con la formalizzazione di emendamenti ai progetti di legge in
discussione e con la partecipazione ai lavori delle Commissioni parlamentari,
anche se di esse non si faccia parte»; essa, però, ha anche chiaramente
affermato che «le eventuali violazioni di mere norme regolamentari e della
prassi parlamentare lamentate dai ricorrenti debbono trovare all’interno delle
stesse Camere gli strumenti intesi a garantire il corretto svolgimento dei
lavori, nonché il rispetto del diritto parlamentare, dei diritti delle
minoranze e dei singoli componenti».
In questa prospettiva (cfr. quanto
sostenuto da M. VILLONE, La legge elettorale dal conflitto politico al
conflitto tra poteri) non c’è dubbio, ad esempio, che al parlamentare sia
consentito presentare emendamenti a un testo in discussione. Ma è altrettanto
certo che l’emendamento può essere precluso, senza che si giunga al voto, ad
es. per l’approvazione di altri emendamenti o per limiti alla emendabilità di
determinati testi (legge finanziaria, di stabilità, leggi di bilancio). Può
presentare proposte di legge o mozioni, ma senza alcuna pretesa che siano
sottoposte al voto in commissione o aula. Ha diritto a prendere la parola, che
però gli può essere concessa, negata, tolta».
In definitiva, quindi, se la Corte
prendesse ad esame il ricorso presentato dai parlamentari, sia come singoli,
sia come raggruppamento, il ricorso sarebbe inammissibile.
6. Ma il medesimo
discorso può valere anche per i Gruppi
parlamentari (e ancor più per una parte di un gruppo parlamentare).
Giuseppe Ugo Rescigno ha definito i gruppi parlamentari come
«l'unione dei membri di un ramo del Parlamento appartenenti allo
stesso partito che si costituiscono in unità politica con
un'organizzazione stabile ed una disciplina costante di gruppo». Dal punto
di vista pratico costituisce la proiezione di un partito politico in parlamento
(parliamentary party). Sostanzialmente, quindi, i gruppi parlamentari
svolgono un ruolo essenziale nella formazione delle opinioni. Esaminano i principali oggetti (elezioni e
affari correnti) prima che siano sottoposti ai Consigli e tentano di trovare
un’intesa su una posizione comune che i deputati possano difendere davanti al
Consiglio stesso.
Quindi anche se gli art. 72 e 82 della Cost. fanno accenno ai
gruppi parlamentari (mentre sono i Regolamenti, solitamente a prevedere che
ciascun deputato debba appartenere a un Gruppo parlamentare) ad
essi non compete una precisa sfera di attribuzioni costituzionali né
per le composizioni, articolazioni e funzioni su viste, possono definirsi
poteri dello Stato. Benchè mai, proprio per il fatto di essere una minoranza (e
nel caso di specie una minoranza appartenente all’opposizione) possono essere competenti a dichiarare definitivamente
la volontà del potere - ossia le Camere
- cui appartengono (tenuto conto che la funzione legislativa può essere
definitiva solo quando è espressione della maggioranza dell’Assemblea).
Questo dato mette in rilievo anche un ulteriore
motivo di improcedibilità del ricorso, ossia una assoluta mancanza di
interesse. Infatti, anche ammettendo che le motivazioni di ricorso siano
corrette e che si sarebbe dovuta seguire una procedura di approvazione del DDL
diversa, il risultato per questa ridotta minoranza non sarebbe certamente
cambiato perché la maggioranza avrebbe comunque fatto valere le proprie
prerogative.
Sotto il profilo soggettivo, quindi, della legittimazione,
non vi dovrebbero essere margini di ammissibilità del ricorso.
Sarà da vedere, però, se la Corte costituzionale, posto il
carattere policentrico del nostro ordinamento costituzionale, e quindi la non
corrispondenza tra funzione e potere, e considerando inoltre la differenza che
si pone tra attribuzione (che si fonda su disposizioni costituzionali) e
competenza (che, essendo la misura dell'attribuzione, trova la sua fonte in
disposizioni legislative), tenderà a ridurre o meno l'importanza
dell'organo-soggetto per aumentare quella dell'oggetto, ponendo l'attenzione
più che sulle attribuzioni, sulla natura costituzionale degli interessi.
7.
Ciò detto, non potrà negarsi, forse, che gli accadimenti siano stati tali da
aver messo fortemente «sotto stress» le procedure parlamentari, anche su
presupposti e con implicazioni, per certi versi, inediti e che un certo rilievo
possa avere anche l’utilizzo dello strumento della fiducia.
Ma anche su questo aspetto, va ricordato che la questione di fiducia pur
non essendo prevista esplicitamente dalla nostra Costituzione (ma affermatasi
nella prassi salvo poi assumere vera e propria natura consuetudinaria), è
considerata implicitamente consentita dall’ordinamento costituzionale in
diretta connessione con la natura “bilaterale” del rapporto fiduciario tra
Parlamento e Governo e con i conseguenti profili di responsabilità politica
(passiva di quest’ultimo ed attiva del primo) che ne derivano (e comunque
prevista nei regolamenti parlamentari). Essa, infatti, è ormai generalmente
considerata, anche sulla base di quanto previsto dalle norme regolamentari oltre
che da prassi parlamentari ininterrotte, non solo un istituto “immanente” al
sistema costituzionale, ma anche una delle implicazioni proprie del rapporto di
fiducia così come costituzionalizzato nel nostro ordinamento.
Ciò non toglie che, proprio nella
prospettiva dei rapporti interni al Parlamento, la Corte stessa, potrebbe considerare
(ove la situazione fosse stata correttamente impostata dal PD) gli aspetti di
maggiore problematicità relativi ai rilevanti effetti della questione di
fiducia.
E’ lo stesso Giudice dei conflitti,
infatti, ad aver sostenuto, nell’ordinanza n. 277 che resta impregiudicata «la
configurabilità di attribuzioni individuali di potere costituzionale per la cui
tutela il singolo parlamentare sia legittimato a promuovere un conflitto fra
poteri» e che la questione di fiducia è, comunque, «idonea, in astratto, a
incidere sulle attribuzioni costituzionali dei membri del Parlamento, che
rappresentano la Nazione senza vincolo di mandato (art. 67 Cost.)», perché
finisce col limitare il potere di emendamento dei singoli parlamentari
direttamente tutelato dalla Carta costituzionale e “rafforzato” proprio nei
casi in cui è prevista la riserva d’Assemblea.
Insomma, sulla base dei precedenti il
ricorso presentato dal PD dovrebbe essere dichiarato improcedibile e/o
inammissibile per non essere una parte del gruppo parlamentare ricorrente un
Potere dello Stato, ma viste le sorprese riservateci dalla Corte in precedenti
e non lontane occasioni, non ci resta che attendere il 9 gennaio.