Proviamo a fare un quadro delle macro-tendenze politico-economico-finanziarie che agiscono nella situazione attuale.
Con l'avvertenza che questo "fattore" vive, ormai, probabilmente, solo sul piano mediatico-esteriore e, quindi, neppure rimarrà come veramente sostanziale in tutta la vicenda. Ed infatti, le conseguenze di questo errore appaiono, ormai, irreversibilmente all'opera e, al tempo stesso, potrebbero divenire "rivelatrici" (cioè involontariamente smascheranti) di una più ampia evoluzione (che emergerà nel seguito del nostro "racconto").
Questo ha a che vedere con il concetto di monopolio quale si configura all'interno del neo-liberismo "no-limits", affermatosi con Maastricht.
In linea teorica (dovremmo precisare: statica), in un ambiente "liberista", che cioè esclude l'intervento dello Stato lasciando ogni correzione al "mercato", in quanto unica forza "naturale" razionale ed efficiente, un monopolio corrisponde simultaneamente ad una posizione di forza (rendita) sul rispettivo mercato e ad una posizione di influenzamento-capture del governo.
Stiamo ragionando, infatti, del liberismo , cioè della ipotesi del "controllo istituzionale" delle dinamiche sociali da parte del capitale, secondo l'ipotesi di Kalecky: cioè un costituzione materiale oligarchica che si riprende ciò che, ormai solo formalmente, era "concesso" dalla Costituzioni democratiche.
Solo che questa condizione teorica di monopolista, sempre nella stessa ipotesi liberista, è transitoria: più i mercati si aprono più è probabile che altri operatori si aggiungano, rimuovendo per forza "evolutiva" irresistibile, le eventuali barriere all'accesso sul mercato (precedentemente in situazione di monopolio).
In effetti, dal "colloquio Lipman" emerge come il monopolio sia o una patologica iniziativa dello Stato, in odiosa tutela di "privilegi" di soggetti ritenuti immeritevoli (es; servizi pubblici gestiti dallo Stato con politiche tariffarie variamente "socializzate" a favore della massa degli "utenti-cittadini"), ovvero, una condizione destinata a cessare non appena l'accesso al mercato si apra, sempre più, nella sua naturale dimensione sovranazionale, costituendo, nella dissoluzione degli Stati nazionali, la "Grande Società", affidata all'equilibrio dei prezzi, stabiliti dalla incessante evoluzione naturale della competizione tra proprietari-operatori economici.
E non lo era perchè si trattava del mercato televisivo che è strettamente intrecciato con quello della informazione. Il principale canale di informazione per l'opinione pubblica.
Quindi, in una fase iniziale, (che nell'ambiente "liberista" è intrinsecamente provvisoria), si è registrata una situazione di vantaggio nella comunicazione che poteva avere, ed ha avuto, decisive ricadute politico-elettorali, orientando appunto, su questo piano, le scelte di una parte consistente dell'elettorato.
E ciò aveva come ulteriore ricaduta, ed è questo il passaggio più volte dimenticato, di lasciare al fruitore della rendita politico-elettorale derivante dal monopolio privato del mercato televisivo, una notevole prospettiva di controllo "quasi-totalitario" del sistema: grazie anche all'affermarsi del sistema elettorale maggioritario, ed alla legislazione a governance parlamentarizzata sulla televisione-servizio pubblico, la rendita politico-elettorale così inestricabilmente costruita a partire dal settore "privato", dava diritto anche ad essere "azionista di riferimento" del sistema pubblico di informazione.
Con alterne vicende, nel corso del ventennio di funzionamento di questa duplice proiezione della rendita di posizione del monopolista, ma, comunque con un certa efficacia.
Cosa che conferma la formula neo-liberista del "controllo istituzionale" ed elide, in partenza, la già pallida efficacia della disciplina (europea) in chiave antitrust. La quale ammette gli oligopoli col limite del "non" abuso della posizione dominante, ma quest'ultimo è difficilissimo da rilevare, specie in caso di assetto di mercato normativamente predisposto.
La finanziarizzazione del controllo dei mass media, in primis i "giornaloni" (non solo in Italia), e l'inarrestabile rafforzamento della prevalenza del diritto europeo, cioè della situazione di controllo istituzionale sovranazionale, a seguito di una ben nota situazione di crisi. Che, peraltro, era programmaticamente non solo prevedibile, ma anche puntualmente attesa (cfr; fatidico Financial Times del 4 dicembre 2001).
A quel punto, infatti, è scattata una situazione emergenziale assoluta, in cui- attenzione- la crisi era di quelle istituzionalmente ingestibili, a causa della perdita della sovranità monetaria, già iniziata con il "divorzio" e accentuata dalla BCE indipendente "pura"; questa crisi non indicava, in realtà, sul piano dei fatti e dei dati, una prevalente responsabilità del monopolista televisivo, in quel frangente anche "controllore" politico. Ma, mediaticamente, questa responsabilità gli è stata comunque attribuita.
Con ciò nascondendo la cause reali della crisi -questa moneta unica e questo trattato-, e dando luogo ad una colossale falsificazione sui "rimedi", costruita sulla omogeneità, sovranazionalizzata, delle reiterate versioni falsificate circa la urgenza di questi pseudorimedi; programmati a tavolino da decenni, per fini del tutto diversi dalla risoluzione della presunta crisi.
a) da un lato non poteva rifiutare la versione strategica della crisi e dei suoi rimedi quale programmata dalle stesse forze che, in qualche modo, lo avevano fino ad allora legittimato e lasciato nella sua posizione di rendita;
b) dall'altro, quand'anche lo avesse fatto in modo aperto, avrebbe anche, simultaneamente, autodenunciato se stesso come iniziale partner del disegno (quand'anche "riluttante"; ma il discorso non cambia).
Cioè come certezze unquestionable che, mediaticamente, in un circuito tra autorevolezza assolutamente presunta e spinta "credibile" dell'idealismo "europeo", finiscono per precostituire ogni possibile descrizione della realtà disponibile ai cittadini, e ogni possibile schema di azione di chiunque si trovi a governare gli interessi nella Nazione.
Questa clamorosa incomprensione della portata della dispersione della sovranità, trova conferma attuale nella altrettanto clamorosa cantonata, presa dall'ex monopolista: e cioè pensare che il problema da lui incontrato, consistesse nella debolezza istituzionale dell'Esecutivo, costretto a ragionare e mediare con i Poteri parlamentare-legislativo e amministrativo-localistico, oltre che, naturalmente, con il Potere giurisdizionale (che si ha un bel dire a voler definire "ordine" e non Potere; si tratta solo di una ristretta ed elittica visione dell'art.104 Cost. che, se letto in buona fede, non lascia spazio ad equivoci).
Dunque, il monopolista è stato ed è tutt'ora vittima non tanto del Potere giurisdizionale: questo "fronte" è, in fondo, un fatto determinato da "contingenze", conseguenti alla debolezza culturale nel proporre la propria legittimazione come governante, fondandola eccessivamente sulla qualità di monopolista (in realtà a protezione pubblica genetica) e narrandola, inopportunamente, come merito di "grande industriale".
Egli è stato piuttosto vittima (tutt'ora, pare, inconsapevole) del processo di dispersione della sovranità, che non ha scorto e che, comunque, non intendeva contrastare, preferendo, anzi, fare propri la gran parte dei temi neo-liberisti, intesi come "jingles" differenzianti rispetto ad una presunta sinistra-comunista.
Quest'ultima, invece, non esisteva più nelle forme rudimentali condensate in quei "jingles", che, per un consistente periodo, sono servite per calamitare il consenso (iniziale e successivo, ma in posizione di forza, come abbiamo visto, in costante erosione).
La c.d. "sinistra", anzi, aveva consolidato e strutturato, in termini di radicale ridisegno, praeter Costitutionem della legislazione interna, il patto d'acciaio con le forze neo-liberiste sovranazionali.
Cioè, in pratica, sul piano del metodico perseguimento di un DISEGNO RESTAURATORE DEL CAPITALISMO ANTE CRISI DEL '29, legato, sul piano ideologico-politico a von Hayek e, sul piano economico più "applicativo" (espresso nei meandri delle policies patteggiate da banchieri e consulenti finanziari incaricati di governare l'UEM), al monetarismo e alla sua evoluzione, neo-classica, delle supply side economics; tutte diramazioni della teoria economica, comunque, favorevoli alle oligarchie finanziarie e alla ossessione antistatale, antiinflattiva e antilavoristica.
Ma ciò risulta, psicologicamente e culturalmente, molto difficile, se non del tutto improbabile: tant'è vero che la parte più consolidata di questo sistema di potere ragiona ormai su orizzonti che scontano la uscita di scena del partner "liquidato" e ormai, ai loro occhi, fuori dal "patto di sindacato" di controllo.