giovedì 31 ottobre 2019

IL DESTINO DELL'ITALIA (10): SANITA' PUBBLICA E PRIVATIZZAZIONI



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(Questo post in realtà...sono due post: la contestualizzazione dei  2 "poderosi" argomenti corrisponde all'esigenza di concentrazione per consentire di cogliere meglio il quadro complessivo della "manovra", in meno tempo, e coglierne perciò la portata disperdendo le forze di...concentrazione su meno post).

1- Tagliare la copertura pubblica gratuita alla alla cura della salute aumentando contribuzione al SSN e spiazzando sul settore privato la relativa spesa delle famiglie.
1.1. Un discorso analogo a quello svolto con riguardo al "controllo" della spesa in pensioni investirà, dentro l'agenda FMI, anche il costo del servizio sanitario nazionale.
Questo costo, in termini reali, cioè ove rapportato all'intera variazione (nominale) del PIL, è già in costante diminuzione, negli ultimi anni (applicativi del percorso verso il pareggio strutturale di bilancio): e ciò, nonostante l'ampliamento della sfera dei beneficiari, dovuto all'aumento della percentuale di popolazione anziana e alla crescente assistenza fornita a numeri sempre più ampi di immigrati (regolari e non) che sostanzialmente, nella vasta maggioranza, non sono in condizioni di contribuire a finanziare il servizio.
Ce lo dicono sia la Corte dei conti, sia un profluvio di studi in cui, (ad es; in questo dossier, del maggio 2019, della Camera dei deputati) si sottolinea che, nonostante la negativa, crescita del PIL reale registratasi complessivamente a partire dal 2008, la diminuzione della spesa pubblica sanitaria rispetto al PIL è risultata "più efficiente" che nel resto della pubblica amministrazione! 
Questo un estratto del quadro consuntivo della Corte dei conti aggiornato al giugno 2019 (riportato dal "Quotidiano Sanità"): 

"I dati di contabilità nazionale dimostrano l’efficacia dei controlli economici e contabili adottati negli ultimi anni dal settore sanitario, la cui spesa, pari a 115,4 miliardi nel 2018, è cresciuta del 60,8% nel periodo 2000/2008, e di appena il 3,7% negli anni 2009/2018. Al più moderato profilo di crescita hanno contribuito tutte le componenti del conto economico, che presenta variazioni annuali in valore assoluto negative per le uscite dovute ai redditi da lavoro dipendente (dal 2009 al 2017) e la farmaceutica convenzionata (dal 2009 al 2018), mentre più problematico appare, per il governo dei conti, il controllo della spesa farmaceutica ospedaliera; quest’ultima, spinta dalla costosità delle nuove terapie farmacologiche, è uno dei principali fattori di crescita dei consumi intermedi (+25% nel periodo 2009/2018, +1,7% nel 2018 rispetto al 2017, di cui +6,5% solo la farmaceutica), che nello scorso anno ha determinato un’eccedenza di spesa (rispetto al tetto programmato del 6,89% del Fondo sanitario nazionale) di circa 2 miliardi
...La parsimoniosità del settore nell’assorbire risorse finanziarie emerge anche dal confronto con le uscite a carico delle altre principali voci di spesa del Conto consolidato delle pubbliche amministrazioninegli anni 2014/2018 il tasso medio di variazione della spesa sanitaria è stato pari all’1% (a fronte di una crescita media, nel periodo 2005-2009, del 4,2%), inferiore quindi a quello della spesa corrente, netto interessi, non sanitaria (1,3%), mentre le uscite per prestazioni previdenziali ed assistenziali in denaro sono cresciute ad un tasso circa doppio (+1,8%). In valore assoluto ciò ha significato, nel periodo 2013- 2018, un incremento cumulato di spesa per il SSN di 5,8 miliardi, a fronte di un aumento delle uscite per prestazioni sociali in denaro (di tipo previdenziale e assistenziale) pari, complessivamente, a circa 29 miliardi.
...Nel 2017 la spesa sanitaria pubblica in Italia è stata pari al 6,6% del Pil, un valore inferiore di circa tre punti percentuali a quella in Germania (9,6%) e Francia (9,5%), di un punto percentuale rispetto al Regno Unito, e di poco superiore a quella di Spagna (6,3%), Portogallo (6,0%) e Repubblica Ceca (5,8%). I dati Ocse relativi all’arco temporale 2000/2017 mostrano, soprattutto a partire dal 2009, la progressiva perdita di peso del comparto sanitario sul Pil rispetto a quello dei maggiori paesi europei: se nel 2000 Francia e Germania spendevano per il servizio sanitario due punti percentuali di Pil in più rispetto all’Italia (rispettivamente 7,5, 7,7 e 5,5%), nel 2017 il divario è cresciuto a sfavore dell’Italia di tre punti percentuali. Anche l’indicatore della spesa pro capite mostra il sottodimensionamento relativo di quella italiananel 2017 la spesa pubblica italiana (espressa in dollari a parità di potere di acquisto) è stata pari a 2.622 USD, ossia inferiore del 35% a quella francese (4.068 USD) e del 45% a quella tedesca (4.869 USD), con un divario che cresce, rispetto a quello dell’anno 2000, rispettivamente di 10 e di 15 punti percentuali."

1.2. Questo sottodimensionamento e ridimensionamento della parte pubblica della spesa (sempre tenendo conto di condizioni sociali e demografiche che aumentano invece la platea dei beneficiari) si riflette naturalmente in un aumento della spesa per cure sanitarie posto a carico dei redditi delle famiglie:
"...Se nel 2008 l’incidenza della spesa out of pocket (spesa diretta delle famiglie) sulla spesa sanitaria totale era sostanzialmente simile in Francia (21,8%), Germania (23,8%) e Italia (22,3%), nel 2017 il divario a sfavore dell’Italia è di circa 10 punti percentuali; Francia e Germania, nello scorso decennio, hanno perseguito politiche mirate ad incrementare il grado di copertura pubblica della spesa totale, mentre l’Italia l’ha ridotta, è ciò fa sì che l’Italia, pur avendo una spesa complessiva (pubblica e privata) inferiore del 57% a quella tedesca e del 42% a quella francese, abbia una spesa privata pro capite (655 euro) di poco inferiore ai livelli francese (665 euro) e tedesco (668 euro).
...I dati statistici relativi al periodo 2001-2017 mostrano una flessione, dopo il 2009, della spesa sanitaria pubblica in percentuale della spesa totale (pubblica e privata), e un incremento di quella direttamente sostenuta dalle famiglie (out of pocket), malgrado la sostanziale stagnazione dei redditi seguita alla recessione del 2009 (nel 2017 il Pil pro capite reale in Italia è risultato ancora inferiore del 6,2% a quello del 2008); nel 2017 la spesa out of pocket ha raggiunto i 39,7 miliardi, pari a un valore pro capite nazionale di 656 euro, segnando una crescita del 3,5% rispetto al 2016, e un’incidenza sul Pil pro capite nominale in aumento dall’1,9% (nel 2008) al 2,3% nel 2017. Nel 2017 le risorse pubbliche hanno coperto il 74% della spesa complessiva (152,8 miliardi), mentre la spesa diretta delle famiglie il 26,0 % (circa 39 miliardi, di cui 35,9 direttamente pagati dalle famiglie e 3,7 attraverso assicurazioni private)."

1.3. Mettendo insieme questi dati cosa si escogita per contenere ulteriormente la già declinante copertura pubblica della salute (art.32 Cost.) e dunque per incrementare il risparmio finanziario complessivo per mezzo dell'incisione sulla sanità pubblica?
"Entro il 31 marzo 2020 (ma il premier Giuseppe Conte ha già frenato sui tempi), sarà infatti messa in cantiere la riorganizzazione del sistema dei ticket sanitari, ovvero la quota che i contribuenti versano allo Stato come forma di «compartecipazione» per le prestazioni assistenziali diagnostiche o ambolatoriali specialistiche. Oggi i ticket sono fissati nella misura massima di 36,15 euro ma domani potrebbero essere ancorati al «reddito familiare equivalente» in base allo slogan «chi più ha, più paga». Ciò significa che il costo dei ticket crescerà in proporzione alla ricchezza calcolata non più in base al gettito Irpef ma anche al patrimonio, comprese rendite e case.
Una scelta solo apparentemente di buon senso e di equità sociale. I numeri, infatti, raccontano tutta un’altra storia. Il 71 per cento delle prestazioni della sanità pubblica è già oggi erogato a cittadini esenti dal ticket per motivi legati al reddito o al tipo di patologia grave o cronica. È solo il restante 29 per cento a concorrere a coprire le spese di un settore che, di suo, è già finanziato dalle tasse dei cittadini. Facile intuire, allora, che l’unico effetto che il riordino della materia voluta dal ministro neo comunista sarà quello di abbattere ulteriormente questa percentuale pagante che sceglierà, a parità di esborsi, di migrare verso il privato.
Il 9° Rapporto Rbm-Censis ha spiegato che circa venti milioni di connazionali saldano le cure mediche di tasca propria (la cosiddetta spesa out of pocket) mentre altri 6 milioni hanno rinunciato del tutto a curarsi. Inoltre, il 62 per cento di chi ha ricevuto una prestazione sanitaria nel pubblico ne ha richiesto almeno un’altra in quella a pagamento. E questo riguarda sia i redditi bassi (56,7 per cento) sia quelli alti (68,9 per cento). La stessa ricerca ha messo, inoltre, in evidenza che il 38 per cento dei redditi bassi si rivolge direttamente al privato senza passare per il pubblico.
Analoga percentuale è quella che riguarda quanti non sono riusciti a prenotare almeno una volta una prestazione nel pubblico per la chiusura delle liste d’attesa. Non è una sorpresa, quindi, che la spesa per la sanità privata sia arrivata a 37,3 miliardi di euro con un incremento del 7 per cento rispetto al 2004."

1.4. Dunque, l'oggettiva tendenza è quella di indurre il cittadino a migrare verso il privato, laddove se lo possa permettere (nonostante già finanzi il SSN con le imposte e tasse pagate alla fiscalità generale), nella consapevolezza che l'evidente dinamica del taglio reale della spesa pubblica sanitaria gli pone davanti "liste di attesa" che vanificano le più elementari esigenze di diagnosi e cura tempestive.
Ecco: una diffusa rieducazione a provvedere a proprie spese alla cura della salute, in deroga alla previsione costituzionale, sta avendo l'effetto de facto di privatizzare la sanità, spiazzandone la spesa dal settore finanziario pubblico a quello finanziario privato assicurativo. Tutto questo agevolerebbe progressivamente la sostanziale riduzione della spesa sanitaria pubblica, marginalizzata a prestazioni gratuite (urgenti e, giocoforza, sempre meno sostenute da mezzi e personale specialistico avanzati) per soli soggetti in condizioni reddituali di povertà o molti vicine ad essa. Ce lo dice lo stesso prof. Savona, in un recente intervento:
"Il prossimo governo, nella manovra autunnale, dovrebbe “rivedere il patto tra chi produce e chi ha bisogno di assistenza” perché “se io oggi ti do assistenza aggiuntiva e per farlo devo ridurre gli investimenti, sto peggiorando le condizioni della crescita e del lavoro“. Il suggerimento dunque è di smettere di “dare la sanità gratis a persone che sono in grado di pagarsela: il cittadino non può essere coperto da tutti i rischi".

1.5. Una buona tecnica incrementativa della segnalata tendenza, che potrebbe ben rientrare nell'agenda FMI, è agire simultaneamente su due livelli: abbassare la soglia della gratuità, assumendo un non inconsueto concetto di "ricchezza relativa" e aumentare il costo dei ticket fino a spingere fasce di popolazione crescenti a migrare verso il privato. Una tecnica del tutto analoga a quella utilizzata appunto per le pensioni.
Un esempio creativo potrebbe escogitarsi vedendo le condizioni di ammissione al ticket: una colpisce in particolare tra quelle attualmente vigenti, poiché non attiene a condizioni che manifestano in modo diretto un'evidente forma di disagio sociale: "cittadini di età inferiore a 6 anni e superiore a 65, appartenenti ad un nucleo familiare con reddito complessivo non superiore a 36.151,98 euro (CODICE E01)"
Agendo su questa attuale duplice soglia di esenzione, sarebbe sufficiente rideterminare l'età più elevata che dà diritto all'esenzione sulla data dell'effettiva età di pensionamento - nel 2020 portata a 67 anni - e ridurre la soglia di reddito, in coerenza con quella assunta per la super-contribuzione "solidale-intergenerazionale", che abbiamo visto ponibile alla fatidica soglia dei 28.000 euro (pensione mensile lorda superiore a circa 2100 euro, con applicazione, peraltro su ogni reddito, della "mitica" aliquota del 38%). Il ticket, poi, potrebbe essere aumentato nella sua soglia di base e, via via, in proporzione, per ogni crescente fascia di reddito (secondo la proposta del governo attuale).
Ne risulterebbe: 
a) un risparmio di spesa sanitaria netta, a regime, di qualche miliardo; 
b) un deciso incremento dello spiazzamento dell'onere delle cura dalla spesa pubblica a quella privata assicurativa.
Il calcolo del maggior gettito, e della minor copertura, è abbastanza complesso: tuttavia, essendo i dati disponibili, non è difficile immaginare un legislatore "creativo" e volto alla crescita inclusiva e sostenibile di lungo periodo, calibrare sobriamente il tutto per un consolidamento fiscale (strutturale) di un 2-3 decimali di PIL (dai 3,5 ai 5,2 miliardi). O magari anche di più, in una progressione "a tappe" pluriennale. E tutto questo per poter "aumentare gli investimenti" (pubblici?) e non sacrificarli...

2- Un piano quinquennale di privatizzazioni.
2.1. Qua parliamo della privatizzazione del settore societario-industriale a proprietà (o almeno "controllo") pubblico. 
Con una precisazione: per pensioni e sanità si tratta sostanzialmente di un sistema anch'esso di privatizzazione, sia pure indiretta - mediante de-finanziamento e disincentivi economici alla prestazione erogata dal pubblico - , ma concerne quelle che la Costituzione (art.32 e 38 Cost) ritiene essere funzioni pubbliche di primario interesse generale, fondative della Repubblica fondata sul lavoro (art.1 Cost.), e non meri servizi pubblici. Quindi una privatizzazione tout-court, per riforma legislativa abrogatrice dell'intervento e delle strutture pubbliche, incontrerebbe delle difficoltà notevoli nelle previsioni costituzionali, che sarebbero incompatibili con la immediatezza e il "fate presto" insiti nella realizzazione dell'agenda FMI.

2.2. Quanto alla privatizzazione in senso "proprio", nelle prospettive attuali, la fantasia di un illuminato legislatore statominimista, e dedito a perseguire la crescita mediante crowding-out, può esercitarsi con grande ampiezza. La parola d'ordine, lo sappiamo, è "abbattere l'enoooorme debito pubblico". 
Ora, l'ammontare del debito pubblico, in assoluto, è oggi all'incirca pari a oltre 2337 miliardi
Il valore delle partecipazioni pubbliche in società quotate si aggira intorno ai 35 miliardi: e ciò, considerate cumulativamente sia le partecipazioni direttamente in capo al Ministero dell'economia che a Cassa Depositi e Prestiti che, però, pur essendo controllata dallo Stato all'84%, è qualificabile come proprietario "privato" (essendo considerata market unit, cioè operatore finanziario "sul mercato"); pertanto la sua precedente acquisizione di quote dal Ministero è stata, ed è tutt'ora, pur con alcune perplessità ventilate in sede Ue, considerata una privatizzazione (per quanto attenuata dal punto di vista gestionale).

Un'operazione di totale dismissione delle sole partecipazioni dirette statali, avrebbe dunque effetti di cassa transitori sul deficit annuale (anche perché il collocamento potrebbe richiedere più di un anno) ma risultati modesti, se non quasi irrilevanti, sul debito pubblico. E questo non potendo esservi aggiunte, per l'appunto, neppure le ulteriori partecipazioni, anche in società non quotate, detenute da CC.DD.PP, tramite CdP Equity (già, in origine Fondo Strategico Italiano), che detiene partecipazioni, non sempre di controllo e peraltro nel quadro di accordi di partnership strategica con altri soggetti investitori (esteri), per circa 2,7 miliardi (a chiusura esercizio 2017).

2.3. Un'operazione di cessione totale e a breve termine dell'intero "pacchetto statale", pone inoltre un problema di sostituzione delle entrate derivanti, nel bilancio consolidato dello Stato, dai profitti distribuiti da tali società, aspetto che riduce, strutturalmente, e non transitoriamente, il sollievo transitorio, per l'indebitamento annuale dello Stato

In definitiva, considerata la redditività positiva delle "quotate" in mano allo Stato e i rendimenti decrescenti del titoli del debito pubblico che il corrispettivo della cessione andrebbe ad ammortizzare, vi sarebbe una perdita di flusso di cassa (di entrate) ben superiore all'onere attuale degli interessi passivi sul debito ammortizzato (v. qui, p.5
Senza parlare del problema più strettamente industriale, della perdita di gestione e controllo di filiere che alimentano la capacità competitiva, di investimento innovazione e ricerca, nazionali. Finché siano, appunto, all'interno del controllo nazionale. Ma questo problema non pare molto "sentito" nelle dichiarazioni dei responsabili politici dell'economia italiana.

2.4. Vi sono però ulteriori elementi di pubblica proprietà di società, variamente classificabili come industriali, che fanno capo al settore pubblico: sia statale, che regionale, che comunale che di "altri settori". Secondo i dati del Mef, emergenti dal "Rapporto sugli esiti della revisione straordinaria delle partecipazioni pubbliche" (tavola II, pag.18), del 2019, il numero delle partecipazioni societarie pubbliche, dunque anche non quotate, facenti capo ai vari Ministeri è pari a 207; quello complessivamente attribuibile alle varie amministrazioni locali (includenti anche le Regioni) è di 32.207 (e hanno risposto al censimento soltanto l'85% delle amministrazioni locali); gli enti previdenziali e assistenziali, poi, detengono altre 13 partecipazioni.
Il valore di bilancio complessivo di questa costellazione - che spazia, naturalmente dai servizi pubblici di fornitura di acqua, gas e elettricità, al manifatturiero, alla ricerca scientifica fino all'agricoltura -, non è riferito nel Rapporto; il dato più indicativo è che circa un terzo (il 34%) è in perdita. Ma per quanto riguarda la volontà dichiarata di mantenimento, e quindi di "non dismissione", la percentuale di quelle in perdita scende al 20% (dunque l'80% delle mantenibili, è in pareggio, 5%, o in utile, 75%).
La procedure di alienazione concluse positivamente, rispetto alla volontà dichiarata in sede di censimento (formula alternativa al recesso), sono state pari a un terzo di quelle per cui si era preso un impegno, e ha dato, finora, un corrispettivo di circa 420 milioni (Tabella V.24 a pag.46), riguardando un totale, estremamente eterogeneo quanto a fatturato e settori di attività, di 458 società.

Ma anche questo settore, in cui le dismissioni sono già "programmate", ipotizzando un ottimistico e solerte "pienone" da parte delle Amministrazioni locali, prevalentemente interessate alla cessione, la privatizzazione porterebbe, sì e no, ad un aggiuntivo introito di poco superiore a 800 milioni.

2.5. La realtà è che controllo e gestione delle multiutilities che gestiscono i principali servizi pubblici "a rete" sono già in (lucrosa) proprietà e/o controllo privati: 
la cessione generalizzata (per subentrato obbligo legale "riformatore") di eventuali e, ormai spesso minoritarie, partecipazioni pubbliche, sarebbe però possibile e lucrosa nell'ordine dei miliardi. Sempre ad avere un censimento dei valori di bilancio e degli utili netti distribuiti (che non pare esserci, essendo il Rapporto solo una radiografia delle cessioni di quelle in perdita). Il problema è la perdita di controllo pubblico sulla gestione, sull'effettivo andamento tariffario (che sia affidato a un'analisi dei costi effettivamente trasparente e comprensibile per un "utente medio"). 

E lo evidenzia bene il costituzionalista Bin (qui, p.4): 
"[...] qualsiasi legame con gli enti rappresentativi è reciso"; "i servizi pubblici hanno" quindi "perso ogni rapporto con il circuito della responsabilità politicapuò infatti un ente locale rispondere politicamente pro quota azionaria? Chi risponde della politica dei servizi pubblici, e a chi? Mentre appare irrisoria l’ipotesi che – soprattutto in situazioni dove il mercato non esiste – siano i consumatori lillipuziani a bilanciare il peso del colosso industriale, è però del tutto evidente che i cittadini sono completamente scomparsi dell’orizzonte: con loro è scomparsa la “comunità” quale destinataria dei servizi pubblici, e la politica come sede delle scelte sull’estensione, l’intensità e il carattere sociale degli stessi."

2.6. Concludendo: la decisione di procedere a ulteriori privatizzazioni di società che vedano le più varie forme di partecipazione pubblica, consistente per lo più in cessione di quote non maggioritarie - anche se, talora, come nel caso dell'ENI, sufficienti ancora a garantirne il controllo -, è oggettivamente una decisione di mera sostanza politica. 
Qualsiasi valutazione in termini di pura economicità è resa "labile", dal fatto che, nella realtà, i valori cedibili sono poco consistenti rispetto allo scopo ex se di ridurre il debito pubblico, e che si tratta in grande prevalenza di società che (quale che sia il collocamento a livello territoriale della loro proprietà) rendono al settore pubblico, come flusso di utili, più di quanto non siano gli interessi passivi sul debito pubblico che ne verrebbe ammortizzato.
Le società in questione, infatti, corrispondono, (ormai molto) in astratto, ai più vari interessi pubblici, diretti ed indiretti - sviluppo coordinato dell'economia industriale, attenuazione delle rendite nel settore delle utilities, caratterizzate strutturalmente dalla rendita di monopolio, o di oligopolio concentrato (o più spesso "concertato"). 
Ma il valore aggiunto del perseguimento di tali interessi, che sono evidentemente occupazionali, quantitativi e qualitativi, agli investimenti innovativi, alla gestione nell'interesse del potere di acquisto delle famiglie, è del tutto perduto: disperso nelle maglie complessive della disciplina che ne regola i rispettivi settori. E che, inutile sottolinearlo, ha tutta origine nel diritto europeo.

2.7. Uno dei "colpi" più magistrali che potrebbero essere messi a frutto, in termini sia di cassa che di ampiezza del controllo gestionale che verrebbe ad essere trasferito, - e che, pertanto, per la sua appetibilità per l'investitore estero non può essere trascurato - è la privatizzazione, cioè la cessione sul mercato finanziario "internazionale" (ulteriore, oltre a quelle già cedute alle Fondazioni bancarie) di quote di controllo, o comunque consistenti, della Cassa Depositi e Prestiti.  
La Cassa è, infatti, già una società per azioni (art. 5 del d.l. n. 269/2003 (“collegato” alla legge finanziaria 2004 - convertito, con modificazioni, dalla legge n. 326/2003); la stessa legge, altrettanto, già prevede (art. 5, comma 2), che  "altri soggetti pubblici o privati, tra cui sono indicate espressamente le fondazioni bancarie, possono detenere quote di capitale, purché nel complesso tali quote rimangano di minoranza". 

Sarebbe dunque sufficiente, per un legislatore "creativo e bene intenzionato" rimuovere questo limite di cui al comma 2, per consentire di negoziare l'entrata di altri soggetti privati, fino a consolidarne, magari mediante il complicato presupposto di una procedura infarcita di advisor e soggetti "collocatori", un controllo privatizzato. 

Si consideri che l'attuale 15,95% (in origine "era" il 30%...) dell'azionariato CC.DD.PP collocato presso le 65 fondazioni bancarie, è stato pagato 1 miliardo e 50 milioni (il valore azionario complessivo è fissato in 3.5 miliardi di lire). 
Lo sperimentato intervento (para)procedimentalizzato degli advisor (v. qui, pp. 8-9) porterebbe alla cessione ulteriori a valori presumibilmente ben accresciuti rispetto a quelli formali del capitale sottoscritto, considerato che la Cassa distribuisce profitti annuali "ben superiori" al 10% ai fortunati investitori delle Fondazioni che, soprattutto, possono fruire della previsione statutaria, all'art.30, sull'obbligo ("saranno assegnati") di distribuzione di utili. E magari con (il non facile) scorporo della "gestione separata" destinata al finanziamento degli enti territoriali pubblici.
E si consideri, non secondariamente che il controllo pubblico dell'Eni è sostanzialmente "blindato" nella Cassa: il Tesoro, infatti, possiede il 4,34 delle azioni, mentre CC.DD.PP. ben il 26,37% (il "colpo magistrale" potrebbe realizzare il sogno delle "sette sorelle" fin dai tempi di Mattei...).

2.8. In definitiva, quindi, un legislatore (policy maker ideale) determinato, potrebbe comunque perseguire la scelta di introdurre un regime ulteriore di privatizzazione, adeguatamente articolato per i vari settori societari e produttivi, statali e locali coinvolti, e, ricavarne alcune decine di miliardi: certamente, dovrebbe sapere di sacrificare definitivamente ogni residuo, anche solo potenziale, di perseguimento degli interessi generali sopraddetti, che corrispondono a precisi obiettivi politico-economici costituzionali "primari", indicati negli artt. 41, 42 e 43 della Costituzione. E prima ancora derivanti dai principi fondamentalissimi della Repubblica fondata sul "lavoro".
Ma, in alcun modo, il policy maker ideale, coerente con l'agenda FMI, potrebbe e vorrebbe tenerne conto: in questa scelta politica prevarrebbero gli obiettivi di "fare cassa", a un livello formale-contabile (per quanto inefficace e limitato), e, soprattutto, di far accedere il capitale degli "investitori esteri" a partecipazioni profittevoli, quasi prive di alcun rischio, immettendo nel sistema esausto dell'industria nazionale dosi massicce di irlandesizzazione.

(10- segue)

martedì 29 ottobre 2019

IL DESTINO DELL'ITALIA (9): IL "PANORAMA" DELLA MANOVRA DI SVOLTA. LE "PENSIONI D'ORO"


(Memento per policy maker ideali)

1. Chiediamoci dunque quali sarebbero le specifiche misure di politica economico-fiscale di realizzazione dell'Agenda FMI, introducibili dal policy maker ideale, una volta sopravvenuto uno "stato di eccezione", a presumibile radice bancaria, creato artificialmente per via istituzionale (in quanto direttamente discendente dall'incondizionata adesione dell'Italia all'Unione bancaria e alla riforma dell'ESM e, prima ancora, al fiscal compact).
Per compiere questa operazione previsionale ci serviremo dell'armamentario di principi di politica economica elencati in precedenza (qui, pp. 5.1.-5.4.) e li applicheremo al quadro finanziario pubblico italiano.

1.1. Che questa griglia di orientamenti decisionali sia affidabile, peraltro, ce lo conferma Mario Draghi stesso: cioè le sue stesse parole, riportate in un ritratto compiuto su Panorama in tempi "non sospetti", nello scorcio finale del 2012 e del governo Monti, allorché si ventilava, e subito si escludeva, che potesse arrivare a fare il premier in Italia (in vista delle elezioni del 2013), poiché, reduce dal successo del "whatever it takes, and believe me: it will be enough", si sottolineava "Eventualmente se ne riparlerà alla fine del suo mandato a Francoforte" (e giuro che al momento di scrivere questi post non ero a conoscenza di questo articolo).
Dunque Draghi, ci racconta Panorama
"...rispondendo al Financial Times sul tema delicatissimo dell’opinione pubblica tedesca eurodiffidente, ha spiegato di essere riuscito a dimostrare come non ci sia «nessun trade-off tra le politiche fiscali di austerità, da un lato, che devono proseguire, e la crescita o il recupero di competitività dall’altro. La restrizione fiscale può provocare una contrazione economica e un conseguente disagio sociale sul breve periodo, ma nel medio produce risultati positivi».
1.2. Questa, certamente, è un'allusione al crowding out: vedrete, la contrazione del bilancio pubblico porta a una contrazione economica (cioè della crescita; e a crescita già a zero, alla recessione). Ma poi, eh beh. poi...non dovendo più compensare le future tasse, consumerai e, soprattutto, investirai di più.
Stranamente, è la stessa narrazione del brasiliano speaker (da noi: presidente) della camera bassa del Congresso, laddove viene elogiato, per la sua intelligente moderazione, dal Financial Times, per aver manovrato abilmente per far approvare la "riforma delle pensioni": "la priorità è una riforma dell'ipertrofico settore pubblico brasiliano, che sarà seguita da una riforma delle tasse". "Il sistema pensionistico era visto dai brasiliani come troppo costoso e che beneficiava troppe poche persone". "Interessi di lobby groups". Naturalmente, si aggiunge, questo riforma andrà accompagnata da una revisione del regime dell'imposizione (presumibilmente, meno tasse sulle imprese e minori aliquote sui redditi in generale).
E come hanno risolto i privilegi delle lobbies (dei vecchi inutili?) Ce lo dice Reuters
"la riforma innalza l'età pensionabile ma anche il livello dei contributi a carico dei lavoratori. Risultato: 900 miliardi di reais di risparmione (207 miliardi di euro) attesi nei prossimi 10 anni. E conclude Reuters: "il governo, la banca centrale e "molti economisti" dicono che la riforma delle pensioni è indispensabile per spingere la fiducia, gli investimenti e, in definitiva, la crescita".
Bolsonaro chiosa "there's no alternative". 

2. Ridotta alle sue linee fondamentalissime relative alla manovra di bilancio, l'agenda FMI, (la cui attuazione dà senso alla grande svolta), si impernia su tre macro-obiettivi, di maggior impatto finanziario, tutti funzionali a quello principale (o "madre") del consolidamento fiscale credibile per porre in una stabile e decisa traiettoria verso il basso il rapporto debito pubblico/PIL.(v. p.4 e pp. 4.1-4.3.):
a) riportare tutte le pensioni, anche in corso di erogazione, al sistema contributivo ed abbassare i rendimenti dei contributi versati, adeguandoli alla aspettative di vita (in quanto crescenti);
b) fare un consolidamento di 2,5 punti di PIL lungo un periodo quinquennale, (0,5 all'anno, strutturale, aggiuntivo e da cumulare progressivamente) che per il suo volume coinvolge inevitabilmente il destino del servizio sanitario pubblico, gratuito e universale;
c) realizzare un programma di privatizzazioni credibile che dia luogo a effettive entrate.
Esaminiamo distintamente le misure realizzative di questi macro-obiettivi (in definitiva alquanto intrecciati tra loro).

3. Sistema pensionistico integralmente e immediatamente contributivo.
Su questo punto, esistono alcune notorie difficoltà di ordine costituzionale; per quanto un ricalcolo "retroattivo" delle pensioni retributive e semi-retributive in corso di erogazione, è ritenuto ammissibile, per la sentenza n.124/2017 della Corte costituzionale, nel quadro della (mitica) "solidarietà intergenerazionale" e delle "risorse limitate" (eh sì....), laddove la prestazione non trovi interamente giustificazione nel valore dei contributi versati neppure secondo il regime generale vigente durante il tempo di prestazione del lavoro in cui si è maturato il diritto pensionistico.
Solo che individuare queste situazioni di sovra-rendimento contributivo, in aumento rispetto al regime generale di calcolo pro-tempore (il "fu" retributivo), è estremamente difficile sia per il numero delle posizioni coinvolte, sia per la difficoltà di determinazione certa e coerente dell'ammontare della pensione non "giustificabile".

3.1. Ma tutti questi problemi sono stati in parte ovviati, negli ultimi decenni, proprio ricorrendo alla discutibile solidarietà intergenerazionale - a rigore non contemplata in Costituzione e anzi, secondo la migliore dottrina, contraria al suo impianto correttamente inteso (qui, p.11)-, attraverso il congegno della contribuzione di solidarietà sulle "pensioni d'oro". Che sia, però, "a tempo determinato" e distinta per fasce di reddito "progressive"; avendo la Corte più volte precisato (da ultimo con la nota sent. n.70/2015) che un tale sovraccarico di ritenute, per non divenire una tassazione aggiuntiva discriminatoria rispetto ad altri tipi di reddito di pari importo, deve essere temporanea: cioè prefissarsi un limite di tempo applicativo.

3.2. Ed infatti, ecco un commento ad una delle più recenti soluzioni di aggiramento dei (già sfibrati, dalla Corte) principi costituzionali (per la stessa Corte, si noti, in nomine €uropae, cioè dell'art.81 Cost. che limiterebbe ogni altro diritto previsto dalla Costituzione primigenia):
"Verificata l’impossibilità tecnica di effettuare un ricalcolo retroattivo sugli importi delle pensioni d’oro e, forse, anche la difficoltà di realizzare una sintesi politica sull'adesione al principio contributivo che ne stava alla base, l’esecutivo sembra aver molto limato i propri obiettivi. In pratica si limita a piantare una simbolica “bandierina” nel campo delle politiche di riequilibrio tra pensionati ricchi e poveri. Dal ricalcolo della pensione si passa infatti al contributo temporaneo (5 anni pare) di solidarietà. Verrebbero interessate dal provvedimento solo le quote di pensione superiori ai 90 mila euro secondo uno schema a scaglioni con aliquote crescenti. Si parte dal 10 per cento per la parte della pensione compresa tra 90 a 130 mila euro e si arriva a un massimo del 40 per cento sulla quota che eccede i 500 mila euro. Le aliquote intermedie sono del 20 per cento tra i 130 e 200 mila euro; del 25 per cento tra i 200 mila e i 350 mila euro e del 30 per cento tra i 350 e i 500 mila euro". 
Risultato: si lamenta, con toni indignati, che il gettito di tale "contributo di solidarietà" (inopinatamente "temporaneo")  sia stimato in soli 130 milioni a fronte di 260 miliardi di spesa pensionistica. Il problema, si dice, è che porre una simile soglia a 90.000 euro e con tale bassa aliquota iniziale intercetti e "perequi" solo poche migliaia di pensionati (circa 40.00: ricchi e iniqui verso le generazioni future).

3.3. Ma noi siamo qui per trovare le soluzioni...nella mente del policy maker ideale, zelantemente impegnato a realizzare l'agenda FMI.
E la soluzione, tenuto conto dei sempre più largheggianti orientamenti della Corte (e della stessa prescrizione del FMI di un consolidamento fiscale più intenso per un periodo quinquennale), potrebbe essere relativamente semplice. Cioè, tarare il concetto di pensione d'oro sulla effettiva dinamica dei salari di entrata attuali che sono, in misura rapidamente crescente, la "base" di contribuzione delle attuali e future pensioni. E per avere un indicatore legale e univoco di tale salario di entrata, basta far riferimento benevolo all'ammontare del reddito di cittadinanza (780 euro). Cioè assumendolo al suo massimo e sui valori attuali (che pare siano in procinto di essere ristretti...prima o poi).
Ora, le pensioni effettivamente previdenziali (e non assistenziali e estranee alla pregressa prestazione lavorativa), secondo l'Osservatorio INPS (2019), sono circa 13.800.000 milioni, per una spesa erogata (lorda) di 183 miliardi (quella previdenziale in senso proprio, non cumulata con quella assistenziale: quindi, non 260 miliardi). 
Di queste, sempre per l'Osservatorio, 10.929.466 sono inferiori a 750 euro (ma tale numero non distingue le previdenziali effettive al suo interno). Una cifra che assomiglia molto da vicino all'importo massimo, benevolo, del rdc (appunto 780 euro).
Direi, che policy-making in modo ideale, equo e solidale-intergenerazionale, possiamo considerare d'oro il triplo di tale importo (lordo) di 750-780 euro

3.4. Arrotondando per semplicità applicativa (in vero "spirito FMI"), diciamo a partire da 2000 euro lordi al mese in su. 
I pensionati che percepiscono oltre 2000 euro lordi al mese sono il 23,3% del totale: rapportato ai previdenziali effettivi, gli incisi dal contributo sarebbero dunque 3.215.400: una bella base contributiva rispetto ai suddetti 40.000. 
Basta imporgli una contribuzione solidale media (complessiva) del 15%rispetto ad aliquote progressive, per scaglioni tuttavia numericamente decrescenti, com'è logico -, non difficile da tarare disponendo oculatamente dei dati, e avremmo un gettito contributivo quantificabile in miliardi: diciamo, a occhio (il lavoro non possiamo, e non dobbiamo, farlo tutto noi), - attraverso un lavorio aggiustabile sull'ammontare della pensione media (12.478 euro) e sugli altri dati disponibili -, di circa 13,5 miliardi (15% su una base di prestazioni privilegiate di ipotizzabili circa 90 miliardi complessivi).

3.5. A questi occorre aggiungere il rallentamento della perequazione  all'inflazione, già (da anni e anni) effettuato per scaglioni progressivi, riespandendolo in misura più ampia di quella di recente mitigata nella manovra per il 2019 (ma non in quella per il 2020). Non facciamoci mancare nulla.
Può sempre "fruttare" un 4-500 milioni aggiuntivi (o anche più). 
Portando il "bottino" equo-solidale (lordo) intorno ai 14 miliardi.
E già avremmo un consolidamento fiscale di circa 0,8 punti di PIL, protraibile per 5 anni; sia pure con qualche ombra costituzionale (mi sentirei di dire: destinata a...dissolversi) sul cumulo temporale con il regime già esistente.

4. Mi direte: ma "questo contributo solidarietà porta a un giro di conto, avvantaggiando le restanti e più basse pensioni!".
Di questo c'è molto da dubitare, come si può vedere qui, infine, ("E’ destinato ad un Fondo all’interno dell’INPS di cui non è chiara la finalità, e sembra avere più natura tributaria che interna al “circuito endoprevidenziale”); dove, inoltre, si precisa che la riduzione, o sterilizzazione dell'adeguamento inflazionistico è certamente una riduzione permanente degli assegni pensionistici, anche quando sia "a tempo determinato".
Insomma, la tendenza è far stare peggio chi sta (un poco-poco) meglio e lasciare al peggio chi sta...peggio.
La questione del contributo solidaristico arriverà certamente alla Corte costituzionale (appunto): ma dalle sue più recenti sentenze, pare arguire che sulla effettiva destinazione all'aumento delle pensioni più basse, ovvero, più realisticamente, al generale finanziamento del bilancio dell'INPS (e quindi della spesa previdenziale/assistenziale tout-court), la Corte non ha intenzione di essere eccessivamente...fiscale.

5. Dunque, il nostro policy maker ideale, senza dover temere eccessive sferzate dal giudice delle leggi, ha già messo nel carniere:

a) 0,8 punti di consolidamento fiscale di durata quinquennale, lordo: che è quel che conta ai fini contabili del bilancio INPS. Certo, ci sarebbe il fatto che le pensioni sono tassate come qualsiasi altro reddito e si perderebbe il gettito corrispondente all'agire dell'aliquota marginale più elevata sulla parte decurtata; ma è pur vero che tutta la spesa previdenziale, e pensionistica, nelle statistiche, è sempre calcolata al lordo, ignorandosi, nei conteggi, che invece dà normalmente luogo a una bella sommetta di ritenute, imputate alle entrate in modo del tutto avulso. Infatti, le ritenute "Irpef" sulle pensioni ammontano a circa 2,5 punti di PIL (qui, p.2);

b) un consolidamento non solo transitorio, ma anche strutturale, poiché una certa parte, statisticamente preventivabile, dei percettori delle pensioni superiori ai 2000 euro lordi al mese, è destinato a...trapassare durante lo stesso periodo; e senza essere sostituito, per via della disciplina "mista" vigente e della crescente applicazione del contributivo puro, da subentranti aventi diritto a pensioni di ammontare equivalente (a parità di profilo professionale e di anzianità contributiva). Il calcolo di tale componente strutturale del "risparmio" non è agevole da effettuare, ma occorre ricordare che è comunque una traiettoria già in corso che verrebbe intensificata...volendo fare una stima, in base ai più recenti dati Istat sull'anno 2018, basti pensare che ogni anno i decessi, in Italia, sono, se riferiti alla popolazione di cittadinanza italiana, 251.000 in più delle nascite (439.747): ergo, muoiono oltre 690.000 persone che sono non solo, in larga maggioranza, percettrici di pensione previdenziale (quand'anche di riversibilità), ma anche, date le aspettative di vita, di prevalenti pensioni puramente retributive. Questo andamento, considerato il calo delle nascite annuali poi subentrato, si riflette in 2 fenomeni "risparmiosi": a) il calo del numero complessivo dei pensionati; b) il calo delle pensioni "medie" erogate. Come si può vedere da questo grafico,  riferito al 2017, tratto dal "Casellario centrale dei pensionati":
importo pensioni-2
Una decurtazione del 15% in media delle pensioni (relativamente) più alte, dunque, anche oltre il quinquennio di applicazione, accelererebbe strutturalmente il calo delle pensioni medie che di anno in anno, già registra una dinamica di decrescita inerziale, "a regime", del 6% e più (cioè una diminuzione autonomamente crescente, proprio scontando i trattamenti decrescenti dei nuovi pensionati: via via che entreranno in quiescenza sempre meno pensionati col sistema misto, cioè con l'esaurirsi della fase intertemporale della riforma Dini, questa diminuzione tenderebbe a scemare e, teoricamente, la pensione media a stabilizzarsi. Ma non è detto; poiché i mutamenti della disciplina del mercato del lavoro, nel frattempo, hanno sensibilmente cambiato "in pejus" il livello delle retribuzioni, di entrata e nella progressione, abbassandosi la "base contributiva"). 
Il calcolo dell'impatto strutturale è approssimativamente questo: ipotizzando una percentuale di percettori del 75% sui deceduti annuali, cioè una perdita di 517.000 assegni "retributivi"(presumibilmente "pieni"), e imputando il suddetto 23,3% dei "ricchi" su tale percentuale (circa 121.000 prestazioni), avremmo una caduta relativa, su tale fascia, del 15% da spalmare però sul totale, pari cioè a circa 3,5%, aggiuntivo sul complessivo: portando, nel periodo, ad un totale di caduta dell'assegno medio di circa il 10%. 
E, appunto, ipotizzando una benevola "costanza" della diminuzione inerziale, ciò determinerebbe una caduta dell'assegno medio, cumulata dal 2020 al 2024 (sempre calcolata per difetto), che lo porterebbe oltre il dimezzamento. E con la diminuzione di quest'ultimo, dell'intera erogazione pensionistica.
E va rammentato che il FMI, in aggiunta, prescrive anche di diminuire il rendimento (attuale) dei contributi, già ridotto allo 0,40 annuale...

c) un notevole impulso incentivante, a tutti coloro che abbiano redditi più elevati (basti considerare dove inizia l'aliquota del 38%: a 28.000 euro, soglia attuale di ricchezza "relativa" in mente legislatoris) a riversare il risparmio (quando c'è) sul settore assicurativo privato previdenziale. 
Già oggi gli italiani versano annualmente 16,3 miliardi ai fondi pensionistici della previdenza integrativa (facoltativa e per il lavoratore dipendente) e (soltanto) non più di qualche miliardo in polizze assicurative "private" per la vecchiaia; il settore, ci si lamenta, langue a causa della...scarsa istruzione e "propensione" degli italiani
Ma un siffatto incentivo all'allargamento del mercato finanziario italiano, per presumibili decine di miliardi, non dovrebbe mancare il "bersaglio" degli investitori esteri. E tale effetto non sarebbe attenuato, bensì, semmai, rafforzato dal mantenimento (nel tempo) di "quota 100": infatti, la decurtazione dell'assegno pensionistico INPS che essa comporta, può essere preventivamente attutita ricorrendo appunto alla sanità integrativa.

5.1. Anticipiamo subito che il consolidamento, transitorio e strutturale, in questione (superiore allo 0,8, e riportabile per un quinquennio) non verrebbe tutto addossato alle tasche dei pensionati "incisi": è da ritenere che, nel quadro più ampio composto dalle tre linee di intervento fiscale qui ipotizzate, sarebbe contemporaneamente concesso uno sgravio nell'imposizione sul reddito.
Siccome ciò si rifletterebbe su tutti i tipi di reddito (anche eventualmente coinvolgendo l'abolizione dell'Irap), non solo quello pensionistico, valuteremo lo sgravio possibile (cioè tendenzialmente compatibile col consolidamento medio, strutturale, annuale dello 0,5) sul complesso dei saldi della manovra immaginata. Per ora, ci limitiamo a sottolineare il motivo per cui abbiamo parlato di consolidamento lordo (e in parte temporaneo).

venerdì 25 ottobre 2019

IL DESTINO DELL'ITALIA (8): LO STATO DI ECCEZIONE (BANCARIO E ARTIFICIALE) E "L'AVVENTO"

Risultati immagini per Prodi Draghi al governo

1. Stiamo quindi arrivando al "dunque".
Cioè a cercare di capire come avverrà l'irlandesizzazione italiana a completamento della trasformazione in paese de-sovranizzato.
Abbiamo anzitutto da chiarire il "come" politico-istituzionale: per la piena efficienza di questa trasformazione "finale", occorrerebbe infatti che ci fosse un cambiamento di governo. 
E questo evento si dovrebbe compiere nella fase attuale, già di per sé piuttosto anomala, e che costituisce una variante debole e contraddittoria delle grandi intese (fra partiti neo-liberali che tentano di qualificarsi come progressisti).

1.1. Per una perfetta soluzione Citigroup (qui, p.4) però, ci vuole:
a) una certa chiarezza negli schieramenti, entro lo schema destra-sinistra, non offuscata dall'irrompere di partiti atipici, sovranisti e populisti. Quale che sia il significato che si vuole attribuire a tali termini: in modo generico e generalizzato, significa formazioni che calamitano il dissenso del populace (i perdenti dalla globalizzazione), intaccando il controllo del processo elettorale da parte delle forze neo-liberiste, di (formale) destra e sinistra; che marciano separate e colpiscono, da decenni, unite in "nome dell'€uropa". E pertanto, in Italia, il sovranismo assume un altrettanto vago senso sinonimico di anti-europeismo.
Su questo ricrearsi di schieramenti in senso tradizionale, almeno nella narrazione mediatica sempre più insistita, ci dovremmo essere (con la normalizzazione in corso del principale partito accusato di essere "populista" e la progressiva slavatura delle esplicite aspirazioni "sovraniste", sul fronte divenuto opposto).

b) conseguentemente, una maggioranza bipartisan (cioè spaghetti tea-party insieme a ordoliberisti esterofili) che appoggi un governo a forte immagine tecnico-istituzionale, legittimato da uno stato di eccezione (qui, pp. 4-6).

2. Andando a vedere quanto appena citato sulla "condizionalità e la triste metafora del memorandum", ci si avvede però che l'Italia è in una condizione apparentemente (molto) diversa da quella greca 2010-2015
Siamo attualmente in una fase durevole e rilevante di attivo delle partite correnti, con una "invidiabile" posizione patrimoniale netta sull'estero: -2,2 su PIL ad agosto 2019, secondo l'ultimo Bollettino Bankitalia; che ci riporta anche una confortante ripresa del saldo delle partite correnti, risalito, e ora al 2,9 su PIL
Dunque, nella suddetta sequenza instaurativa dello "stato di eccezione" dentro l'area valutaria euro, mancherebbe il passaggio per una crisi da debito commerciale verso l'estero.

3. Ma niente paura: la prospettiva è che tra stallo/quasi recessione tedesca, influente sulla nostra crescita export-led, e effetti recessivi della manovra che verrà varata (forse) da questo governo, in Italia si ricominci a parlare di banche cariche di insolvenze, incagli, NPL da smaltire più in fretta, e ricapitalizzazioni private, "di mercato", che vanno deserte, mentre quelle pubbliche saranno impedite dal dover tenere "i conti in ordine" e dal regime degli aiuti di Stato.

Notare che, già in questi giorni, si inizia a paventare il rischio, per le casse dello Stato-garante, legato all'emissione delle cartolarizzazioni (appunto garantite) degli NPL in cessione e alle difficoltà di ottenere i tassi di recupero previsti: dovuto essenzialmente al crollo dei valori delle garanzie immobiliari sottostanti.
Ma il problema è sistemico ed è di redditività (qui, p.3): gli interessi negativi, sia nel deposito delle riserve presso la BCE, sia in una quota crescente dei titoli obbligazionari emessi (specialmente nell'eurozona), si uniscono ai requisiti di capitalizzazione e alla strozzatura del credito - ed al suo volto simmetrico dell'austerità fiscale che svaluta costantemente le garanzie -, nel determinare il calo della redditività degli istituti bancari.

4. In tutto questo possibile bailamme, arriverà entro dicembre l'approvazione, in sede Ue, della riforma dell'ESM; c'è da presumere che, anche a causa dell'accavallarsi di voci sulle sofferenze bancarie e sull'andamento delle cartolarizzazioni, l'Ue-Eurogruppo (l'ESM riguarda solo i paesi dell'eurozona), chiederanno all'Italia di fare presto nella ratifica parlamentare.
E, non secondariamente, la Commissione potrebbe chiedere al governo anche una manovra aggiuntiva da effettuare nel "tipico" mese di aprile, in coincidenza col Def (a pena di spread che aumentano specularmente al possibile "congelamento" del nuovo QE, qui, p.10, non gradito alla maggioranza del board post-Draghi).

Un ulteriore dettaglio: la stessa pressione che potrebbe esercitare la Commissione sull'autorizzazione parlamentare alla ratifica, costituisce di per sé, nel quadro problematico appena descritto e scontando la discrezionalità dei "mercati" (e, più ancora della BCE, a gestione Lagarde), un motivo per accrescere gli spread.

A quel punto, come abbiamo visto, tra pressioni per la ratifica, indecisioni politiche e approvazione parlamentare raggiunta obtorto collo, ma pur sempre votata, sarà, in qualche modo, iniziato il vero effetto della riforma (qui, pp. 2 e 6, n.7)l'effetto minaccia "nucleare" in essa insito, cioè il condizionamento dell'intervento "straordinario" dell'ESM alla previa ristrutturazione del debito pubblico nazionale (da cui risoluzioni bancarie a cascata e bail-in potenziale di massa).

4.1. La minaccia incombente, prevedibilmente accentuata dalla Germania e dalla Commissione "Ursula", in cerca di correzioni di bilancio recessive, sarà sufficiente a creare il panico che giustifica lo stato di eccezione. A tutto questo potrebbe sovrapporsi, come di prammatica, un declassamento del rating del debito italiano (o la minaccia di farlo).
Non ultimo elemento, l'instabilità politica crescente nella maggioranza di governo, propagata dal possibile esito negativo delle varie consultazioni regionali.
Risultato: una pluralità di eventi che congiurano sull'aumento degli spread mentre sulla crisi bancaria, sempre in agguato, lo Stato si trova completamente sguarnito di spazi di intervento fiscale.

Non stiamo dicendo che l'ESM verrà applicato (con ristrutturazione preventiva e trojka successiva annessa): diciamo che il solo irrompere della (sottovalutata) minaccia, costituirà un elemento di destabilizzazione sociale, economica e mediatica, tale da costituire un eclatante fatto sopravvenuto sulla scena politica.

5. E quindi si rafforzerà l'esigenza dell'avvento del policy maker ideale (qui p.3), che sappia come farci uscire da questa situazione: e la cosa ironica è che, approvando incondizionatamente sia l'Unione bancaria che la riforma dell'ESM, l'esigenza ce la saremmo creata tutta da soli, senza avere alcuno dei problemi della Grecia.

5.1. Qui apriamo una digressione di tipo squisitamente politico.
Se rapportiamo questa situazione in fieri al 2020, dovremmo considerare anche che potrebbero esserci elezioni anticipate; evento improbabile, ma non da scartare, dipendendo, in buona parte, la sua fattibilità formale, dal "se" verrà depositata la richiesta di referendum sulla recente riforma costituzionale
Questo elemento complicherebbe leggermente il quadro preferito nella soluzione Citigroup: questa richiede che una maggioranza sia estremamente difficile da raggiungere e che si verifichi l'agevolazione di un governo di "tutti e di nessuno" nell'imporre misure pesanti di tagli alla spesa e di inasprimento fiscale.
Un risultato elettorale "fresco", invece, con la legge elettorale attuale e i probabili "numeri" raggiungibili dal centrodestra, renderebbe difficile gestire uno stato di eccezione il cui orientamento sia l'irlandesizzazione "finale" italiana.
In teoria.
In pratica, sarebbe difficile ma non impossibile: se non altro perché le stesse elezioni e, a maggior ragione, la vittoria del cdx, porterebbero, allo stato, un'accelerazione manovrata degli elementi di crisi, e di "minaccia", da parte dell'Ue, che aprirebbero la via al neo-stato di eccezione.
Quindi, anche in caso di nuove elezioni, potrebbe maturare lo stesso, sia pure in circostanze (in parte) differenti, l'esigenza del policy maker ideale.
Ma il cambio di governo, nell'ipotesi ritenuta più verosimile, (ove avvenisse), sarebbe affidato a un allargamento della maggioranza (di estensione oggi imprevedibile); tutto questo sia, sempre allo stato, attingendo transfughi da gruppi parlamentari oggi formalmente all'opposizione, sia in un rimescolamento bipartisan che potrebbe manifestarsi in funzione del "Chi" avrebbe il ruolo di guida dell'intero processo.


6. Torniamo all'avvento del policy maker ideale e della sua mission, fenomenologicamente sintetizzabile nella riduzione permanente all'impotenza della forza lavoro di fronte alla convenienza produttiva del capitale cosmopolita.

La "madre di tutte le soluzioni" italiane in questo senso, com'è noto, e come ci dice appunto il FMI (p.4), è abbattere il debito pubblico.
E il FMI ci dice pure in dettaglio come fare: e questo ci ribadisce  che il policy maker ideale che può realizzare questo "virtuoso" obiettivo deve possedere questo profilo:
a) "lo standing e la incorrotta forza politica di fare quel che ci chiede di fare il FMI" (p. 4.2.);
b) avere nella sua "cassetta degli attrezzi" politico-economica le convinzioni scientifiche (qui, p.5) relative ai seguenti punti (riduco al minimo, invitando ad andarsi a leggere la versione "espansa" linkata):
b1) la Legge di Say, attualizzata all'utilizzo di modelli (stocastici) di equilibrio macroeconomico fondati sulla funzione di produzione;
b2) la consequenzialità deficit pubblico-crowding out;
b3) l'effetto "saldi reali” (real balance effect);
b4) il c.d. trickle down .

7. Ora, chi potrebbe avere mai in Italia, questi requisiti simultanei?
In una risposta a caldo, poche persone: standing e forza politica sufficienti, esigono una dimensione istituzionale notoria all'opinione pubblica, e logicamente proiettata in un prestigioso record di rapporti con la governance economico-finanziaria internazionale. "Incorrotta", inoltre, va intesa dentro il bis-linguaggio mediatico mainstream: significa non "bruciata" o comunque implicata nell'azione di governo nazionale degli anni susseguitisi alla crisi del 2011.
Alcuni ne hanno un'idea piuttosto precisa: magari non così dettagliata sul piano...politico-economico e più...istintiva e personale.
Ed è un'idea che pare prendere corpo a livello di giornaloni e media: Sole 24 ore in anticipo su tutti, molto spinta in area del tradizionale centrodestra, senza disdegnare l'endorsement di Prodi. Vedremo se avremo uno spin in crescendo...
Ma la soluzione del "Chi?" è dunque così scontata?

8. Un'attenta ponderazione di tutti gli elementi in gioco, tuttavia, induce a un nuovo inciso politico, che riguarda, è inutile nasconderselo, l'individuazione in Mario Draghi del policy maker ideale.
Ad essere realisti, il suo diretto coinvolgimento come premier di un governo tecnico di grandi intese, è reso (soggettivamente) difficile dalla sua grande esperienza e competenza economica e istituzionale (può sembrare un paradosso...): cioè, sarebbe presumibilmente titubante a entrare in gioco in una partita che esiga lacrime & sangue a "la Monti", compromettendo in pochi mesi la popolarità e il prestigio che potrebbero invece legittimare l'elezione al Colle; la comprometterebbe l'intestarsi una fase di recessione che conseguirebbe, come lui non può non sapere, alla realizzazione dell'agenda FMI.
Certo, (e lo vedremo), ci sono alcune accortezze di politica economico-fiscale che possono limitare l'ampiezza di tale recessione: ma queste misure sarebbero comunque molto impopolari e il rischio di una parabola "Monti" non si addice ad un'ampia e convergente candidatura al Colle...E neppure alle fortune elettorali successive di chi gli darà appoggio in parlamento.

8.1. Stiamo sempre ragionando per supposizioni e queste potrebbero non incastrarsi.
Ma ai postulati che abbiamo assunto (interesse USA, convergente in buona parte con quello tedesco, al riorientamento degli investimenti finanziari sugli asset dell'intera attuale eurozona - e non solo su quelli tedeschi "in bolla"-, con svalutazione stabilizzata del dollaro; e, quindi, irlandesizzazione italiana che garantisca l'ambiente adatto, sia sul piano del mercato del lavoro che della stabilità monetaria/rischio futuro di cambio), potremmo aggiungerne un altro.
Si tratta di questo: oggi, con l'Ue che ti morde le caviglie ad ogni passo, e con l'atteggiamento pregiudizialmente negativo (sia pure per ragioni diverse) di Francia e Germania, nessuna persona intelligente, economicamente colta e dotata di esperienza istituzionale internazionale, potrebbe considerare molto appetibile fare il presidente del consiglio in Italia.
Si tratta, con un comprensibile ritardo temporale, dello stesso fenomeno che già si manifesta sulla (non)appetibilità di ricoprire il ruolo di sindaco nelle città (un fenomeno che è padre e figlio del pareggio di bilancio e, prima ancora, dei patti di stabilità finanziaria interni; cioè dello statominimismo).
Si spiega così la frase che Verderami, sul Corsera del 26 ottobre, attribuisce a Giorgetti:  «Draghi non ci pensa nemmeno a finire in quel manicomio. Altra cosa sarebbe il Quirinale...».

8.2. Però...è ben probabile che Draghi di questo si renda già conto benissimo e abbia in mente dei "rimedi".
A ben pensarci, a lui converrebbe andare a fare direttamente il Presidente della Repubblica, posizione di governo ormai trasformatasi de facto in primaria e, però, totalmente irresponsabile dell'andamento dell'economia (comunque, un obiettivo di politico di medio periodo).
Draghi, perciò, (l'uomo che più di tutti parrebbe poter attivare una fideiussione sulle difficoltà italiane con lo schiacciassassi delle regole, vecchie e nuove, dell'eurozona) potrebbe accordarsi con le forze politiche, in cambio di una candidatura de plano al Colle, per indicare un suo fidatissimo mandatario esecutore; naturalmente di un certo prestigio finanziario ed economico, con ciò rassicurando la sua (ampia) maggioranza, e gli ambienti finanziari internazionali, che questi agirebbe sotto la sua stretta forward guidance.

8.2.1. Se, in via di esempio logico-deduttivo, il centrodestra fosse parte di questo accordo, avrebbe un'ampia convenienza.
Nel mentre che un governo, comunque tecnico-emergenziale, si intesta la parte impopolare dell'impatto delle misure "agenda FMI" - liquidazione di sanità e pensioni pubbliche e ampie privatizzazioni, opportunamente mitigate dalla concessione di sgravi fiscali sia immediati che graduati nel medio periodo -, Draghi, da presidente della Repubblica, sarebbe presumibilmente benevolo verso la formazione di un governo dello stesso centrodestra, scaturente dalle elezioni politiche. L'atteggiamento pregiudizialmente ostile dell'Ue verrebbe così neutralizzato o, comunque, molto attenuato, rispetto alla situazione attuale (e, per converso, lo stesso Draghi sarebbe un presidente comunque in buoni rapporti genetici con la larga maggioranza del futuro parlamento).
E ciò, anche laddove queste elezioni siano successive alla sua elezione alla Presidenza da parte dell'attuale parlamento in seduta comune integrato, attenzione..., dai (58) delegati regionali, (a questo punto decisivi)!

8.3. Un accordo di larghe intese per un governo tecnico-istituzionale, comunque fondato sul perno del centrodestra rafforzato da forze centriste e variamente neo-liberali, (che abbondano in parlamento), non sarebbe difficile da raggiungere: anzi, risulterebbe nella convenienza di tutti, poiché, pur passando per una fase iniziale di difficoltà/recessione nella crescita di breve termine, vedrebbe tutti i partners convintamente riuniti nella "fede" in una crescita di medio-lungo periodo, senza più l'assillo della correzione del parametro del debito pubblico (qui, p.4, b): mediante la definitiva riduzione strutturale del deficit).
Insomma, si avrebbe una certa ampia condivisione, da parte di tutti e di nessuno, della fase di aggiustamento, nella fede che questa fase sarebbe risolutiva per restituire senso alla conquista del governo (da parte di chiunque vinca le successive elezioni).
Col dubbio, però, che i vantaggi così fortemente attesi, siano accompagnati da un forte resistenza popolare nelle classi medie, più incise dallo smantellamento privatizzatore del welfare che appare ormai inevitabile.

Rimane il fatto che chiunque sia il CHI in questione dovrà realizzare, ma sul serio, - altrimenti il suo avvento perderebbe senso e legittimazione - e senza potersene e volersene discostare troppo, l'agenda fissata dal FMI (p. 4- 4.3).
Vedremo quindi, nel prossimo post, con l'approssimazione più ridotta possibile, come questa agenda si convertirà in misure rapportabili alla situazione economica e patrimoniale italiana.

(8- SEGUE)