martedì 31 ottobre 2017

LA L€GGE DEL TAGLIONE (DEL DEBITONE). HIC MAN€BIMUS OPTIM€

Poi l'Italia brucia e i viadotti crollano? Accettate virilmente...
1. Tagliare la spesa pubblica, si sa, è segno di virile credibilità di fronte ai mercati e a l'€uropa. D'altra parte, invece, gli investimenti effettuati con spesa pubblica, spesso unificati nella categoria (sempre di spesa pubblica) "misure supply side", risultano virtuosi. E quando c'è la virtù, come ben sanno gli innamorati, "le dimensioni non contano".

La spesa pubblica totale in percentuale del PIL e di quella al netto degli interessi passivi e degli investimenti sono caratterizzate da un trend nettamente crescente dal 2000 al 2009. Il picco massimo della spesa totale viene raggiunto nel 2009 con una percentuale sul PIL pari al 51,1% (il dato è quello successivo rispetto alla revisione del Pil di settembre 2014). Il Documento di economia e finanza prevede cali consistenti nei prossimi anni, mentre le spese correnti primarie scenderanno al 40,1% nel 2020.

La spesa totale in conto capitale in Italia è stata superiore alla media dell’area euro dal 2000 fino al 2008. Dal 2010 le politiche di contenimento della spesa pubblica hanno comportato una maggiore riduzione della spesa in conto capitale rispetto alla media UE. Il divario tra le due aree è spiegato soprattutto dall’andamento della componente degli investimenti.

2. Ma ecco infatti, nel disegno di legge di "stabilità" per il 2018, le rispettive dimensioni della cr€dibilità rapportate a quelle della virtù:
La manovra -secondo il documento- avrà un impatto positivo sui tassi di crescita del pil in termini di differenziale tra lo scenario programmatico e quello tendenziale ammonta a "0,3 pp in ciascuno degli anni 2018 e 2019".
Nel dettaglio, ammontano a 3,5 miliardi i tagli della spesa pubblica per il 2018 [n.b.: sono tagli strutturali, quindi, a differenza delle "decontribuzioni" e degli "investimenti pubblici" sono 3,5 miliardi trascinati nella loro intera misura per ogni futuro esercizio di bilancio] che andranno a copertura delle misure della Legge di Bilancio.
Altre coperture da 'entrate aggiuntive' allo studio nell'ambito della lotta all'evasione di alcune imposte vengono quantificate in 5,1 miliardi di euro.
Le risorse per la competitività e l'innovazione, che includono anche le decontribuzioni per i giovani, nel 2018 ammontano a 338 milioni; 2,1 mld nel 2019 e quasi 4 miliardi nel 2020. Gli stanziamenti per lo sviluppo che comprendono le spese per gli investimenti pubblici saranno pari a 300 milioni nel 2018, che passeranno a 1,3 miliardi nel 2019 e a 1,9 miliardi nel 2020. I fondi per la lotta alla povertà, reddito di inclusione sociale incluso dunque, sono 600 milioni nel 2018, 900 milioni nel 2019, 1,2 nel 2020.
La Commissione aveva risposto al ministro Padoan in modo interlocutorio. Evidentemente, la manovra 2018 non convince neppure se l’obiettivo concordato dovesse essere una riduzione del disavanzo strutturale dello 0,3% del Pil. L’esecutivo comunitario vorrebbe ricevere maggiori precisazioni dal governo entro martedì. La situazione è complicata dal fatto che Bruxelles prevede una significativa deviazione dei conti pubblici anche per quanto riguarda il 2017.
In particolare, la Commissione fa notare che «l’aumento previsto della spesa pubblica primaria netta è superiore all’obiettivo di una riduzione di almeno l’1,4%» (stesso problema è notato per il 2017). La lettera di Bruxelles è per certi versi di maniera (una manciata di paesi, tra cui la Francia, ha ricevuto una richiesta di informazioni). Non c’è desiderio di mettere in difficoltà il governo Gentiloni a ridosso del voto
Interessante è il riferimento alla spesa legata all’emergenza migranti. Nel chiedere dettagli, Bruxelles sembra pronta a tenerne conto nel calcolare l’obiettivo di riduzione del deficit. Ciò detto, la Commissione deve far rispettare il Patto; chiede manovre precise; e vuole coprirsi le spalle da eventuali critiche di paesi insoddisfatti da ciò che ritengono una eccessiva discrezionalità nell’analisi dei bilanci".

4. In questo simpatico e ormai consueto siparietto, ogni cosa è illuminata dalla condivisa fede incrollabile nell'austerità espansiva: teologia che Stiglitz, quando vuole, demolisce in modo esemplare...probabilmente contando sul fatto - rassicurante- di rimanere inascoltato.
Ciò che distingue il gioco delle parti annuale Italia vs Commissione UE, sono diversi gradi di separatezza dal modello teologico germanico: il fiscal compact che, se realmente non lo si volesse  incorporare nei trattati, tanto varrebbe recederne, come sarebbe possibile in ogni momento, indipentemente dalla perdurante vigenza del (pallido) art.81 Cost..
Tuttavia, quanto a teologia dell'austerità espansiva, le nostre tradizioni non sarebbero seconde a nessuno, come ci riporta Francesco Maimone con annessa analisi di Federico Caffè: Adoratori della deflazione selvaggia e del taglio alla spesa pubblica, da sempre.
ADDENDUM- Anche perché, il modello di crescita presunta, che con dovizia ci illustra anche l'Istat, sottolineando come esso costituisca un modello normativizzato via Commissione UE,  è quello che prevede che la crescita stessa sia determinata ESCLUSIVAMENTE dalle forze dell'offerta.


5. Ne emerge, da "tempi non sospetti", una teorizzazione morale, virile e credibile, di rara chiarezza:
Nel III Rapporto della Commissione Economica presentato all’Assemblea Costituente del 18 ottobre 1946 (Problemi monetari e commercio estero - Interrogatori, questionari, monografie), veniva interrogato l’allora ragioniere generale dello Stato, Gaetano Balducci, per chiarire la situazione della tesoreria onde trarre prospettive per il futuro. Anche allora bisognava “sanare” il bilancio dello Stato! 
Baffi chiese a Balducci: “Si potrebbe fare economia in qualche settore? ”. 
La risposta di Balducci fu la seguente:
… Su questo sono un po’ pessimista, perché purtroppo non si riesce a far comprendere tale verità nemmeno agli uomini politici responsabili. Quando un paese si trova nella situazione economica in cui si trova il nostro, tante spese bisogna assolutamente abbandonarle, anche se sono un prodotto della civiltà. Bisogna avere il coraggio di scendere dal livello di civiltà in cui si era. Per esempio (è doloroso dirlo), le spese di assistenza sociale, le spese di istruzione, ecc. non solo vengono tenute al livello di prima, ma anzi si vogliono aumentare, mentre, viceversa, ciò non è possibile…” [Rapporto cit., 108].

Per tale ragione nel 1949 – a Costituzione in vigore – Federico Caffè non poteva che stigmatizzare il mito della “deflazione benefica e risanatrice” che affermava essere alimentato “dalla corrente più autorevole (o comunque più influente) dei nostri economisti, e pedissequamente ripetuto dai politici, sia pure con la consueta riserva, di carattere del tutto retorico, che esclude una loro adesione «a una politica di deliberata deflazione». In realtà non occorre che uno stato di deflazione si manifesti in quanto deliberatamente voluto dalle autorità politiche; se esso, comunque, si manifesta, una eventuale inazione delle autorità di governo implica una loro grave responsabilità, in quanto la deflazione, non meno e forse ancor più della inflazione, è uno stato patologico che non si sana attraverso l’azione spontanea delle forze di mercato”.
Egli si rendeva conto che in Italia non fossero possibili allora “… alcune forme di manovra del debito pubblico del genere di quelle seguite negli Stati Uniti e nell’Inghilterra in base alla tecnica della finanza funzionale e ai canoni della politica economica «compensatoria». Ma anche gli obiettivi più modesti di una spesa pubblica in funzione anticiclica e di interventi stimolatori molto più blandi… sembrano irraggiungibili di fronte alla visione strettamente contabile e computistica degli organi in parola, ai quali pare ben improbabile fare accogliere un giorno l’idea che possa essere utile talvolta non già far quadrare i bilanci, ma tenerli in squilibrio. Alla fine gli organi agiscono con la testa degli uomini che li dirigono…”.

5.1. E ricordando con “sgomento” le citate parole di Balducci, Caffè proseguiva:
“…Quando si aggiunge che, parlando di spese di istruzione, egli precisa che intende riferirsi addirittura ai maestri elementari, si può comprendere quale irrimediabile sconforto debba arrecare la consapevolezza che idee simili prevalgano in organi pubblici in posizione strategica agli effetti della manovra della politica economica…  
CHE SENSIBILITÀ DI FRONTE AI PROBLEMI DELLA DISOCCUPAZIONE potrà avere chi ritiene eccessiva la spesa per l’istruzione o per i servizi sociali in Italia? 
Non si tratta di necessaria impopolarità che qualcuno deve anche assumersi. Si può essere impopolari dicendo che certe spese non debbono essere fatte, ma si può esserlo dicendo, invece, che devono essere trovati i mezzi per poter sostenere le spese stesse, ad esempio con una tassazione più incisiva o più perequata.
Nella preferenza accordata a una alternativa anziché all’altra vi è già un concetto di scelta che implica preoccupazioni per certi interessi di gruppo anziché per altri … Alla deflazione pretesa «risanatrice», non meno che all’inflazione, SONO LEGATI INTERESSI PARTICOLARI CHE SI AVVANTAGGIANO DELLA SITUAZIONE CHE NE RISULTA, A DANNO DELLA PARTE PIÙ ESTESA DELLA COLLETTIVITÀ…
” [F. CAFFE’, Il mito della deflazione, Cronache sociali, n. 13, 15 luglio 1949].
Quindi, tenetelo a mente: “bisogna avere il coraggio di scendere dal livello di civiltà” in cui eravamo, altro che concorsone con l€uro ed il fiscal compact..."

5.2. Sulla tomba dell'Italia, nella prospettiva dell'imminente decesso voluto (a grandi intese) per la prossima legislatura, scriveranno il seguente epitaffio (e il senso è ovviamente invertito): 
Hic man€bimus optim€

domenica 29 ottobre 2017

INTERNAZIONALISMO, COSCIENZA NAZIONALE E TUTELA DEL LAVORO



http://slideplayer.it/slide/551849/1/images/6/I+patrioti+:+italiani+prima+dell%E2%80%99Italia.jpg
(Alberto sintetizza meglio di me che mi dilungo su un ampio fronte di implicazioni).

1. Muoviamo da una ben precisa premessa, perché, se la si dimentica, non ha pregiudizialmente senso parlare delle forme istituzionali; o, ancor peggio, discutere di tali forme, prescindendo dalla premessa che stiamo per svolgere, finisce inevitabilmente per essere una mera conseguenza di modelli adottati in adesione ai rapporti di forza. Ecco dunque la premessa: il punto è CHI GUIDA, sfruttando la propria forza economica preponderante e il controllo culturale che discende dai suoi "centri di irradiazione", il linguaggio e la direzione del processo di trasformazione istituzionale, dettandone l'agenda; anche se, com'è tatticamente normale che accada, eserciti questa "guida" in modo non palese rispetto all'opinione di massa (ed alle varie forze politiche che di tale agenda si fanno promotrici).


2. In fondo, gli schemi "ideali(zzati)", nella contemporaneità dell'attuale ordine internazionale dei mercati, siano essi definiti  "filosofici" (qui, pp. 2.1.- 2.2.) ovvero "politologici", hanno tutti il tratto comune di sottintendere la gerarchia economica neo-liberista e, quindi, il mercato del lavoro (gerarchizzato), conveniente alla vulgata dei centri di irradiazione, rafforzando la presa del capitale "cosmopolita" sulle (in)coscienze delle masse, accuratamente indotte a rendere prioritaria la sola preoccupazione per il conflitto sezionale (in una pletora di "identità contrappositive" di cui, per ora, la Catalogna risulta la pietra dello scandalo, ma che presto prolifereranno; oh, se prolifereranno!). 

Basta leggersi questi commenti di Francesco Maimone, con la dovuta attenzione, per capire che la destrutturazione degli Stati nazionali è un obiettivo indispensabile per l'affermazione dell'ordine del mercato globale...e che di fronte a questa pletora di insitita idealizzazione (qui, p.9), batti e ribatti, finalmente, il momento è giunto. Nulla potrà fermarli...

3. Dello schema generale abbiamo già parlato:
“Bisogna infatti tener conto che coloro che realmente costituiscono la classe di governo (mondializzata e perciò stesso "globalista") , cioè, seguendo l'aforisma propiziatorio di Reichlin, "i mercati" (v. p.8), sono ideologicamente indifferenti alla forma delle istituzioni che, di volta in volta, debbano realizzare l'indirizzo politico da ESSI prestabilito (dai lontani albori dell'epoca successiva alla prima guerra mondiale). 
Anzitutto però, una precondizione deve essere chiara: una ghost institution di governo sovranazionale, - appoggiata dal capitale nazionale, "vassallo per definizione" (e lo constatava già Gramsci nel 1919-1920, qui p.10, subito prima che le "Conferenze" promosse dalla Fed fissassero il paradigma macroeconomico ancor oggi perseguito)-, trova la sua indispensabile affermazione ove posta in grado di realizzare il proprio indirizzo politico extra e contra Constitutionem, "rendendo irrilevanti" le forme, le finalità sostanziali, e le procedure costituzionali "effettive" di un ordinamento nazionale. In pratica, i trattati L€uropei rendono i "mercati" LA istituzione, cioè la Legge ad applicazione incontrastabile; le istituzioni formali di un preciso territorio sono per definizione relegate ad un ruolo, estremamente flessibile, di esecuzione secondaria (se e fino a quando siano ritenute necessarie a finalità sedative)".

3.1. L'aperta volontà di scardinamento delle Costituzioni sociali democratiche, che pongono la tutela del lavoro al di sopra di quella della proprietà (attenzione: tutelando certamente anche questa in quanto sia il "frutto" del lavoro e non della rendita e dell'accumulo "espropriativo" del valore del lavoro), coincide tout-court quindi con la destrutturazione degli Stati nazionali, per aperta indicazione di "politologi" e "filosofi-economisti" . 

 4. Il problema è capirsi sul perché l'internazionalismo del  capitale e della globalizzazione, istituzionalizzata dai trattati liberoscambisti, come "primo motore" della dichiarata de-istituzionalizzazione degli Stati nazionali, sia radicalmente "altra cosa" rispetto all'internazionalismo dei lavoratori (e stavolta traduco dall'inglese). Partiamo dai fondamentali del pensiero liberal-internazionalista (dei mercati):
"Sulla "politica della porta aperta" propugnata da Einaudi, sintetizzo, in un passaggio significativo, quanto complessivamente riportato da Francesco Maimone:
"Le norme restrittive della emigrazione che vanno sorgendo nei paesi nuovi o vecchi SONO IL LIEVITO DELLE GRANDI GUERRE FUTURE, SONO LA NUOVISSIMA FORMA DI PROTEZIONISMO che si innesta sul vecchio protezionismo ad opera di quelle classi medesime che più gridano contro i dazi affamatori…. vi è un paese che dai dilettanti viene descritto come un paradiso terrestre, come il paese dove non si sciopera, dove la società socialista futura va a grado a grado attuandosi senza conflitti cruenti e senza inutili dibattiti dottrinali e che è altresì la terra promessa del nuovissimo protezionismo operaio. Quel paese, vasto come l’Europa, potrebbe albergare milioni di cinesi e di giapponesi, potrebbe offrire il campo, come lo dimostrano i rapporti dei nostri consoli e di inviati speciali del Governo nostro, alla colonizzazione proficua di molte centinaia di migliaia, per non dire anche di milioni, di italiani. Ma a tutto ciò si oppone l’esclusivismo gretto e feroce di un piccolo manipolo di genti, che in nome della democrazia ha messo l’ipoteca su un intero continente e vuol riserbarlo ai propri sperimenti di barbarie medioevale".
 
"Basti ricordare che (ringraziando come sempre Arturo) le circostanze che diedero origine alla I° Internazionale:
«Militanti principalmente inglesi e francesi erano affluiti a Londra, anzitutto per raccogliere la solidarietà con le varie lotte di liberazione nazionali in corso, includenti quelle per l'indipendenza Polacca e per l'unificazione Italiana, nonché per supportare il Nord contro il Sud schiavista nella guerra civile americana. 
La seconda ragione per dar vita a una tale organizzazione  era perché, in una recente fase recessiva, erano stati fatti tentativi, da parte dei datori di lavoro, di mettere gli uni contro gli altri i lavoratori inglesi e francesi, attraverso l'uso di lavoro "immigrato" mirato a fiaccare gli scioperi. I sindacalisti di entrambi i lati della Manica volevano contrastare questa smaccata strategia di “divide et impera»

Quindi le prime ragioni per cui fu fondata la Prima Internazionale furono l’appoggio a lotte per l’indipendenza nazionale e la prevenzione dell’uso di lavoratori immigrati in funzione antioperaia.
Andiamo avanti: «Quando i lavoratori del settore dell'abbigliamento entrarono in sciopero a Edimburgo e a Londra, per esempio, le IWMA furono in grado di impedire ai rispettivi padroni di "importare" manodopera "rompi-sciopero" dall'Europa e dalla Germania.» (Fonte)
Ci fosse bisogno di conferme : «Le condizioni quotidiane di lotta (specialmente in tali paesi comparativamente avanzati come Gran Bretagna e Francia), suggerivano ai lavoratori l'esigenza di formare un sindacato internazionale di forze proletarie per un buon numero di obiettivi. Tra questi si possono menzionare: la condivisione di esperienze e conoscenze; gli sforzi congiunti a supporto delle riforme sociali e per il miglioramento delle condizioni della classe lavoratrice; la prevenzione dell'import di lavoratori stranieri per aggirare gli scioperi; etc. In tal modo la lotta nel settore industriale diede slancio alla formazione dell'Internazionale dei lavoratori.» (Fonte).

6. Che piaccia o meno rispetto alla propria personale ideologia, la via verso la democrazia è stata tracciata - in primis - dai socialisti. E va riscoperta tutta l'opera ripulendola dall'orwelliana falsa coscienza dei "liberali di sinistra e di destra"."
"Tornando, non casualmente, alle vicende americane, vale la pena citare dal rapporto del Comitato sull’immigrazione, interno al marxista e combattivo American Socialist Party, pubblicato nel 1908 (qui la fonte da cui citerò: pagg. 75-77).
Il Comitato raccomanda di vietare l’immigrazione, in particolare “da specifiche e definite nazioni. Queste "eccezioni"si riferivaon all'immigrazione di massa dalla Cina, dal Giappone, dalla Corea, e dall'India negli Stati Uniti
Noi reclamiamo l'incondizionata esclusione di tali  razze, non quali razze di per sé, — non come persone con caratteristiche fisiologiche definite- ma per l'evidente ragione che queste persone occupano una definita porzione della Terra nella quale risulta così indietro lo sviluppo moderno dell'industria, psicologicamente così come economicamente, che esse (persone) costituiscono un arretramento, un ostacolo e una minaccia ai progressi della parte più coraggiosa, militante ed intelligente della popolazione della classe lavoratrice.
Gli elementi più grandi e potenti della nostra classe dominante, i grandi capitalisti, i reali e effettivi avversari della classe militante dei lavoratori, sono i veri beneficiari dell'immigrazione da tali paesi, ed essi (grandi capitalisti), - ben consapevoli del fatto che questi immigranti sono abituati a uno standard di vita ben più basso, e non si assimilano facilmente con gli altri elementi della popolazione-, usano ogni mezzo, legale e illegale, per incoraggiare l'immigrazione di tali popolazioni, funzionali al mantenimento di standards di vita più bassi, e costituenti un fattore formidabile al fine di perpetuare la divisione tra i lavoratori, subordinando le questioni di classe all'antagonismo razziale, e in tal modo prolungando il sistema di sfruttamento capitalistico.
[Sostituite all'antagonismo razziale quello, ad effetti distraenti del tutto analoghi, "etnico", interno ad uno stesso popolo insediato entro confini politici sufficientemente vasti per dar luogo a una certa differenziazione culturale "localistica", e avrete un'equivalente, ed evidente, applicazione dello stesso principio del "divide et impera"].

6.1. Naturalmente (prosegue il contributo di Arturo) erano esclusi i rifugiati politici, di cui si riteneva doverosa l’accoglienza.
Ovvero, in generale: “L’unione dei “proletari di tutto il mondo” nel conflitto di classe interno a ciascuna nazione è inconcepibile, a meno di ipotizzare che i rapporti di forza tra capitale e lavoro siano sufficientemente omogenei nei diversi contesti geopolitici. Prima vengono i rapporti di forza all’interno delle singole nazioni e i loro esiti: se questi sono abissalmente diversi, allora nelle nazioni più sviluppate un conflitto interno alla classe lavoratrice, indigena e immigrata, è inevitabile, con conseguente indebolimento generale del suo potere contrattuale.” (Barba e Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, Imprimatur, Reggio Emilia, 2016, s.p.).
7. Sono perfettamente consapevole che queste analisi e queste fonti storiche, in molte occasioni, sono state ripetute e sviluppate nelle loro diverse "proiezioni" sulla situazione attuale della nostra Patria, ma ho ritenuto che fosse utile (ancora una volta) richiamarle in un discorso riassuntivo che le collegasse con immediatezza. E ciò affinchè fosse correttamente interpretabile una delle più importanti ragioni che legittimano la nostra Costituzione, resa evidente da questo (ormai) celebre brano di Lelio Basso, che indica al contempo PERCHE' e COME il lavoro, inteso nella sua più ampia accezione costituzionale (sempre fornitaci da Basso, in modo attualizzato alla struttura attuale del mercato "ad oligopolio concentrato" qui, p.2) possa difendersi dagli effetti reali e tangibili del disegno €uropeista:
"l’internazionalismo del proletariato si fonda sull'unità e sulla solidarietà di popoli in cui tutti i cittadini, attraverso l'abolizione dello sfruttamento di una società classista, conquistano LA PROPRIA COSCIENZA NAZIONALE… il nostro internazionalismo non ha nulla di comune con questo COSMOPOLITISMO di cui si sente tanto parlare e con il quale si giustificano e si invocano queste unioni europee e queste continue rinunzie alla sovranità nazionale. L’internazionalismo proletario NON RINNEGA IL SENTIMENTO NAZIONALE, non rinnega la Storia, ma vuol creare le condizioni che permettano alle nazioni diverse di vivere pacificamente insieme. 
Il cosmopolitismo di oggi che le borghesie nostrane e dell'Europa affettano è tutt'altra cosa: è rinnegamento dei valori nazionali per fare meglio accettare la dominazione straniera… Noi sappiamo che in questa lotta il proletariato combatte insieme per due finalità e che in questa lotta esso ACQUISTA CONTEMPORANEAMENTE LA COSCIENZA DI CLASSE E LA COSCIENZA NAZIONALE, ponendo le basi per un vero internazionalismo, per una federazione di popoli liberi che non potrà essere che socialista! (Vivissimi applausi e congratulazioni)” [L. BASSO, discorso del 13 luglio 1949, in Il dibattito sul Consiglio d’Europa alla Camera dei deputati, ora in Mondo operaio, 10 settembre 1949, 3-4-]."

8. Invitiamo altresì a rileggere le parole di Basso, di qualche mese anteriori, riportate quali  "Intervento sul disegno di legge “Ratifica ed esecuzione dello Statuto del Consiglio d’Europa firmato a Londra il 5 maggio 1949, Camera dei deputati, 25 maggio 1949" (qui, p.3). Ne riporto uno stralcio:
Il Consiglio europeo, cioè, è la maschera PROGRESSISTA, IDEALISTA che deve coprire due realtà brutali: LA MANOMISSIONE ECONOMICA CHE L’IMPERIALISMO, IL GRANDE CAPITALE AMERICANO, ESERCITA SULL’EUROPA E LA POLITICA DEL BLOCCO OCCIDENTALE IN FUNZIONE ANTISOVIETICA.
Tradurre questa politica nel linguaggio del federalismo, esprimere cioè questa realtà di sopraffazione e di soperchieria in termini ideali, è un mezzo che serve a fare accettare questa politica a molta gente in buona fede, per poi servirsi di tutta questa gente in buona fede come specchio per le allodole onde trascinare certi strati della popolazione dalla stessa parte...".