"E poi ci si stupisce che le partecipate pubbliche
continuino a vivere indisturbate nel loro mondo di sprechi. E che il
governo centrale non riesca a produrre norme incisive per smantellarle.
Il fatto è che la situazione non sembra cambiare nemmeno a monte. Si
prenda il ministero dell’economia, oggi retto da Pier Carlo Padoan,
ovvero la maxistruttura per la quale è transitata l’ultima legge di
Stabilità che contiene norme giudicate troppo timide sulle partecipate.
Ebbene,
ancora oggi dal dicastero di via XX Settembre dipendono 30 società
direttamente partecipate (ma considerando le controllate di secondo e
terzo livello il perimetro si estende a dismisura). Ora, tralasciando
società quotate come Eni, Enel e Finmeccanica, o le società più
importanti come Cassa Depositi, Poste e Ferrovie, nel calderone delle
30 oggi rientra di tutto..."
All'autore dell'articolo diamo sommessamente un paio di indicazioni (o anche tre):
a) andare a verificare, - se vuole dirla "tutta"-, anche le società partecipate degli altri ministeri (e la loro utilità, la giustificazione economica della loro istituzione, i risultati gestionali che ne sono conseguiti, il numero dei dipendenti e le relative modalità di assunzione, le retribuzioni degli amministratori, ecc.);
b) di non dimenticare che la spending review implica seria volontà politica di riallocare razionalmente (cioè entro i compiti relativi alle "prestazioni essenziali" previste dalla Costituzione) la spesa pubblica; e non di tagliarla soltanto, con effetti pro-ciclici disastrosi.
c) infine di leggersi questo post di Sofia, che ripubblico aggiungendo qualche link utile "sopravvenuto" (per i numerosi "vecchi e nuovi lettori").
Liberalizzazioni
e privatizzazioni sulla spinta di imposizioni comunitarie tese a
“realizzare”il libero mercato: alcuni fatti e dati.
1. Cenni al fenomeno delle liberalizzazioni e privatizzazioni.
Per quello che interessa in questa sede deve porsi l’attenzione al terzo comma dell’art. 41 “La
legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività
economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a
fini sociali”.
Proprio sulla base di tale ultima disposizione si è basata la
politica economica e industriale italiana dagli anni cinquanta alla
fine degli anni settanta del secolo scorso. Si trattava di una politica
economica imperniata sul
concetto cardine di programmazione economica che poteva avvenire anche
attraverso la limitazione o l’eliminazione della libera concorrenza
affidando l’esclusività della produzione, in determinati ambiti del
sistema economico, allo Stato (monopolio pubblico legale). Ciò anche
sulla scorta dell’art. 43 che stabilisce : “A
fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o
trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad
enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese
o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici
essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano
carattere di preminente interesse generale”.
A
partire dagli anni 80 questa impostazione incomincia a subire
cambiamenti sulla scorta dei mutamenti legislativi avviati dalla
comunità europea che esercita una forte spinta, da una parte, per una
liberalizzazione tra le diverse economie nazionali dell’UE e,
dall’altro, per una liberalizzazione all’interno dei paesi.
La
piena liberalizzazione dei mercati verso l’esterno è avvenuta sulla
base di vari atti o accordi comunitari (l’Atto Unico del 1987 basato sul libro bianco del 1985 per il completamente del mercato unico; la Direttiva 88/361/CEE sulla liberalizzazione del mercato dei capitali; il trattato di Maastricht e di Roma; le
direttive CEE sulla libertà di accesso e sulle garanzie di pari
opportunità delle imprese pubbliche e private nell’ambito del mercato
comunitario; la direttiva “Bolkenstein” 2006 che ha affermato la piena libertà di stabilimento e la libera circolazione dei servizi).
La
liberalizzazione all’interno è stata invece favorita dalle istituzioni
europee tramite direttive specifiche per ciascun singolo settore che
hanno imposto la liberalizzazione (con l’eliminazione delle imprese pubbliche ex monopoliste) e la privatizzazione
totale o parziale delle stesse. A cui si è aggiunta una massiccia
politica per la concorrenza che ha vigilato in tema di aiuti di Stato,
concentrazioni, abuso di posizione dominante, intese e che sanziona ogni
distorsione della libera concorrenza nell’ambito dei servizi di
rilevanza economica (ossia pressoché tutti).
Emerge comunque, già da questi pochi assunti, un quadro
che confligge in maniera stridente con il testo e lo spirito della
Costituzione economica italiana che avrebbe dovuto porre all’attenzione
delle istituzioni un serio problema di conflitti tra due fonti normative
primarie: da un lato i trattati europei di ispirazioni univocamente e rigidamente liberista, dall’altro la Costituzione
italiana che se pure è elastica ed aperta a molteplici soluzioni di
politica economica e industriale, è esplicitamente sensibile alla
centralità della programmazione.
La prima fonte ha finito per prevaricare sull’altra a tal punto che si è determinata una sorta di neutralizzazione della sostanza della Costituzione economica italiana
a favore di un’acritica adesione ai trattati comunitari, senza che
siano ancora del tutto chiari gli effetti di questa operazione. E certamente senza che da questa ondata di privatizzazione e liberalizzazione il Paese si sia avvantaggiato in alcun modo; anzi, al contrario (con Fanfani e...Massimo Florio che, rispettivamente, premettono e confermano la bontà dell'idea del Costituente).
Certo è che la legislazione comunitaria e gli imposti principi del libero mercato hanno
avuto un ruolo fondamentale e determinante nel processo delle
liberalizzazioni e delle privatizzazioni, depotenziando fortemente le
imprese pubbliche nazionali. Ed hanno portato ad una radicale modifica
del sistema economico pubblico interno, in parte, facilitato dalle disposizioni di cui agli artt. 41 e 43 della Cost.
La Costituzione,
infatti, con il suo riferimento generico all'iniziativa economica
pubblica (art. 41) riconosce allo Stato ed in generale ai pubblici
poteri il potere di svolgere attività a carattere imprenditoriale. La
portata di tale potere è assai più larga di quella indicata dall'art. 43
Cost.
Infatti
non vi sono limiti nella tipologia delle attività assumibili, sicché
non si dovrà trattare necessariamente di servizi pubblici, fonti di
energia o monopoli.
La materia, inoltre, non è soggetta a riserva di legge, per cui vi si può provvedere in via amministrativa.
In
tal caso, occorre solo che l'assunzione sia giustificabile per un
qualche interesse pubblico, alla pari di ogni altra azione
amministrativa (anche se in concreto questa condizione è stata spesso
superata autorizzando le assunzioni singolari direttamente con leggi).
Questo stato di cose (utilizzato in maniera distorta dal sistema politico italiano) insieme
ai condizionamenti e alle forzature comunitarie, ha portato ad un
progressivo cambiamento della forma giuridica dell'impresa pubblica
verso assetti più flessibili ed adeguati all'esercizio di attività
imprenditoriali ed, in particolare, la trasformazione delle
aziende autonome e degli enti di diritto pubblico in società di diritto
privato con risultati disastrosi per l’economia nazionale, di cui si forniscono solo alcuni dati e spunti di riflessione.
2. Le società pubbliche.
Le
società pubbliche sono uno strumento utilizzato dalle amministrazioni,
generalmente, per svolgere compiti istituzionali ad esse affidati per
legge e allo scopo dichiarato di:
- voler perseguire una maggior efficienza economica nella gestione di servizi pubblici;
- realizzare opere attraverso l’utilizzo di strumenti privatistici;
- sostenere l’attività di impresa e l’occupazione.
A fronte di tali scopi, senz’altro pregevoli, ciò a cui si è assistito è stato una crescita esponenziale di soggetti di natura privatistica, che difficilmente è avvenuta sulla base di idonei studi preliminari di convenienza economica e di analisi del mercato nel settore di riferimento. Al contrario, senza
alcuna indagine preventiva di necessità e opportunità, si è assistito
alla costituzione di società o comunque di figure soggettive alternative
agli ordinari uffici ed organi dell’ente, per ogni compito amministrativo.
Ma quel che è più grave è che, se pur nell’ottica di realizzare scopi significativi, si è avuta la proliferazione di società operanti sotto il controllo di forze politiche.
Sono queste, infatti, che incidono sui principali aspetti delle società pubbliche ossia:
- la loro costituzione,
attraverso l’individuazione di programmi e finalità che vengono
tacciati per essere assolutamente necessari alla realizzazione dei fini
istituzionali e nell’interesse della collettività, ma che molto spesso
rispondono a obiettivi “politici”, stabiliti discrezionalmente dalle
istanze di governo;
- la loro gestione,attraverso:
i. nomine dirette di amministratori da parte dei rappresentanti politici
che sono al governo (e che a loro volta subiscono le pressioni dei vari
livelli territoriali su cui operano o da cui provengono)
indipendentemente da qualunque idonea qualifica professionale e senza
alcuna delimitazione quanto a cause di incompatibilità e conflitti di interesse;
ii. impegnando risorse pubbliche nell’assunzione di personale senza procedure concorsuali.
Infatti, la forma giuridica prescelta sottrae queste imprese al regime
legale di determinazione delle piante organiche e delle assunzioni
mediante pubblico concorso, spostando di fatto il gioco clientelare
delle assunzioni su questi soggetti.
iii. impegnando ulteriori risorse per acquisizione di beni e servizi spesso eludendo e aggirando le procedure pubblicistiche di derivazione europea nella contrattazione relativa agli appalti.
Ovviamente, tutto questo è stato possibile anche per il fatto che a livello legislativo è mancata la delineazione di principi fondanti, di finalità che fossero riconosciute meritevoli di essere realizzate attraverso la forma societaria, di modalità sia preventive che successive di verifica sull’operatività, la economicità e la convenienza di tali soggetti.
E’
mancato un sistema di controllo effettivo sugli atti di spesa, così di
verifica\controllo della cessione\riacquisto delle partecipazioni
rispetto a soci privati (si pensi all’abolizione generalizzata
su tutta la p.a., del controllo preventivo di legittimità della Corte
dei conti sugli atti di gara per pubblici appalti).
A
ciò deve aggiungersi che la proliferazione del fenomeno ha trovato ampi
margini di manovra anche per l’irrompere delle nuove competenze
legislative esclusive delle regioni che si sono servite dell’istituto
societario allo scopo di voler sostenere la politica economica di
asserito sostegno al “privato”.
Anche
gli interventi legislativi, lontani dall’affrontare il problema in
maniera sistematica e strutturale, si sono nascosti dietro diversi
espedienti (prima la necessità di ristabilire equilibri concorrenziali,
poi di ridurre la spesa pubblica) per apportare tagli
in modo lineare, soprattutto a Regioni e enti locali che, lungi dal
rivedere in termini di efficienza le proprie strutture societarie, hanno
finito per tagliare i servizi spesso indispensabili per la collettività.
Le dimensioni del problema, acuite dalla sostanziale sottrazione alla concorrenza dell’attività di una parte di queste società, sono piuttosto oscure, in assenza
di una trasparente ricognizione dei dati relativi a bilanci, profitti,
ricapitalizzazioni in corso di attività e redditività degli investimenti.
L’entità delle dimensioni si
percepisce soltanto dalle ricadute in termini di spesa pubblica
dall’entità e disomogeneità degli interventi normativi nel settore; da
ultimo le recenti norme sulla spending review
che vanno ad interessare le società pubbliche, anche se è troppo presto
per comprendere se gli interventi previsti saranno adeguati alla
necessità di ripristino di situazioni di legalità, economicità ed
efficienza di cui ci sarebbe bisogno.
3. Alcuni dati numerici sull'entità del fenomeno.
Rinvenire
dati esaurienti sul numero e la tipologia delle società pubbliche e
sullo stato di salute economico-finanziario delle stesse per riuscire
quantomeno a comprendere se le amministrazioni sono riuscite a
perseguire gli scopi di pubblica utilità che si erano prefissate con la
loro costituzione, non è cosa agevole.
In
base all'articolo 1 della Legge n. 296 del 27 dicembre 2006
(“Operazione Trasparenza”) le Amministrazioni devono comunicare al
Dipartimento della Funzione Pubblica le partecipazioni in consorzi e
società partecipate.
Accedendo al sito www.consoc.it–per
l’anno 2011 si rinviene un file in
excel (http://www.perlapa.gov.it/web/guest/partecip2011) che dovrebbe
contenere le partecipazioni delle pubbliche amministrazioni in consorzi e
società partecipate.
Da questo documento le partecipazioni in consorzi/società/fondazioni (non quindi il numero di società) ammonterebbero a 39.357.
E si tratta comunque di dati relativi poiché la ricognizione è su base volontaria.
La Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, con l’Indagine sul fenomeno delle partecipazioni in società ed altri organismi da parte dei comuni e province del giugno 2010 ha fornito alcuni dati quantitativi del fenomeno che però si riferiscono all’arco temporale 2005-2008, sono stati rilevati 5.860 organismi partecipati da 5.928 enti (attenzione però perché si tratta solo di Comuni e Province, escluse quindi regioni e amministrazioni statali)
costituiti da 3.787 società e 2.073 organismi diversi (dati che sono
riportati nel documento n. 337 del 4.4.12 della Camera dei Deputati
rinvenibile su http://documenti.camera.it/leg16/dossier/Testi/BI0506.htm#_ftnref2).
La Corte dei Conti conferma che con
riferimento ai risultati economici delle società partecipate, nel
triennio 2005-2007, dall’indagine risulta che 568 società,
corrispondenti al 22,35% del totale, sono sempre in perdita.
L’area
di attività prevalente per le società sempre in perdita è quella dei
servizi diversi dai servizi pubblici locali (con il 63,32% delle società
sempre in perdita).
Nell’area
dei servizi pubblici locali, il settore che mostra la percentuale più
elevata di società in perdita è quello dei trasporti, seguito dal
settore dell’ambiente – rifiuti. La Corte
conferma che la costituzione e la partecipazione in società da parte
degli enti locali risulta essere spesso utilizzata quale strumento per
forzare le regole poste a tutela della concorrenza e sovente finalizzato
ad eludere i vincoli di finanza pubblica imposti agli enti locali.
Anche
l’ANCI ha estratto dal sistema informativo del registro delle imprese i
dati di tutte le imprese tra i cui soci al 31 dicembre 2010 figurava
almeno un Comune.
Il
risultato dell’estrazione ha dato 4.206 imprese (che si ribadisce sono
solo comunali). Dall’esame dei bilanci depositati, inoltre, l’ANCI ha
ricavato i seguenti dati: Valore della produzione complessivo 24.893.483.916, Costi del personale 7.254.217.511. Utile totale delle società in utile 824.662.289. Perdite totali delle società in perdita -581.216.033.
Vista l’impossibilità di avere
dati omogenei e certi con riferimento a tutto il territorio nazionale
(e questo è già indicativo di una ingiustificata distorsione del
sistema), i dati parziali su emersi servono comunque a comprendere
l’entità del fenomeno in termini economici, a cui si aggiungono
ulteriori e inammissibili alterazioni del sistema pubblico con
riferimento al regime di concorrenza, alle assunzioni del personale,
alle nomine degli amministratori ecc...
4. Considerazioni critiche conclusive.
Che il fenomeno societario si sia rivelato un autentico disastro per l’economia del paese
non lo dice solo la scrivente, ma si rinviene in atti e documenti
ufficiali che provengono anche dalle più alte cariche dello Stato.
Ad esempio il Documento della Camera dei Deputati n. 237 del 27.05.11 riporta: “Recentemente,
il legislatore è poi intervenuto ulteriormente sul fenomeno della
proliferazione delle società a partecipazione locale, con l’intento di
rimediare alle distorsioni di cui tale fenomeno è foriero: distorsione della concorrenza ed aggiramento dei vincoli di finanza pubblica in capo agli enti territoriali” (http://documenti.camera.it/leg16/dossier/testi/bi0409.htm), ed il doc. 337 del 4.4.12 ha aggiunto che “A
tale fenomeno distorsivo il legislatore ha ritenuto di dover porre
rimedio attraverso l’adozione di specifici divieti alla costituzione e
al mantenimento di società”.
Nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario 2012 (http://www.corteconti.it/export/sites/portalecdc/_documenti/documenti_procura/friuli_venezia_giulia/relazione_perlx_inaugurazione_dellxanno_giudiziario_2012.pdf) il Procuratore Regionale della Corte dei Conti per il Friuli Venezia Giulia-Trieste ha dichiarato: “E’
quindi da chiedersi se il ricorso allo strumento delle società per
azioni fornisca strumenti sufficienti e soprattutto adeguati ai bisogni
propri del sistema pubblico, dove l’obiettivo principale non è
il profitto, ma, al contrario, il conseguimento dell’efficienza e
dell’economicità dell’attività.
Proprio in un periodo, in cui, come quello attuale, la situazione finanziaria ed economica sfavorevole rende drammaticamente indispensabili comportamenti gestori che assicurino ai cittadini i servizi necessari senza il pericolo di sprecare risorse,
ormai limitate e, quindi, molto preziose, sembra proprio che il modello
societario rappresenti per i contribuenti più un pericolo che
un’opportunità” .
Ed aggiunge, mettendo in risalto una delle più importanti anomalie del sistema delle società pubbliche che “Lo strumento societario,
che è previsto nel diritto civile come naturalmente preordinato a
finalità di lucro, e che come tale risulta non sempre perfettamente
aderente alle esigenze del sistema pubblicistico, comporta,
laddove finanziato con capitale pubblico, l’ulteriore anomalia della non
coincidenza della figura del socio finanziatore (i contribuenti) con quella del socio titolare dei diritti di partecipazione sociale (la pubblica amministrazione partecipante). In buona sostanza mentre nel caso del privato investitore la decisione di assumere il “rischio”
di una partecipazione è diretta, nel caso delle partecipazioni
pubbliche il contribuente finanziatore paga i tributi per avere servizi,
scontando poi le conseguenze di decisioni di partecipazione societaria
assunte, talvolta avventatamente, dai singoli enti”.
Ed ancora “Non
possiamo esimerci dall’evidenziare che attraverso le società create
dagli enti locali e dalla Regione possono verificarsi situazioni di
dilapidazione del denaro pubblico, soprattutto quando i servizi, per i
quali sono state create e giustificate, non vengono resi o vengono resi
in maniera insufficiente e costosa. Una
recente sentenza (n. 402/2011) della Sezione Prima Centrale di Appello
della Corte dei Conti ha condannato gli amministratori di un comune e di
una società controllata per la costituzione e la gestione antieconomica
di una partecipata. Contrariamente a quanto affermato nello statuto e
negli atti costitutivi, la società non sarebbe stata utilizzata per
rendere più efficienti ed economici i servizi dell’ente locale, ma per
perseguire scopi occupazionali…L’utilizzo di strumenti, di per sé
legittimi, quali le partecipate, al solo scopo di eludere i vincoli di
finanza pubblica e le regole di contenimento della spesa, costituiscono
un comportamento gravemente colposo se non addirittura doloso che è
produttivo di danni erariali e coinvolge la responsabilità degli
amministratori locali e regionali da verificare nel giudizio davanti
alla Corte dei Conti…
Difatti
alcune inchieste di questa Procura hanno riguardato situazioni di
turbative di aste pubbliche, di utilizzo indebito di finanziamenti
pubblici, se non addirittura di appropriazione di denaro pubblico. I
fatti accertati potrebbero essere solo la punta emersa di un grosso
iceberg…La mancanza di effettivi controlli sia nelle procedure di scelta
dei soggetti privati, cui affidare le forniture di servizi o gli
appalti pubblici sia nelle fasi successive di esecuzione dei contratti
di servizi e di lavori costituiscono situazioni di pericolo, in cui
possono insinuarsi scambi di favori o dazioni di denaro”.
Sconcertanti,
poi sono anche i dati giudiziali che emergono dal discorso. Il
Procuratore (e si evidenzia che i dati riguardano il solo territorio del
Friuli) riferisce che “Le citazioni emesse nel 2011 contengono richieste di risarcimento danni per un importo complessivo di euro 10.372.902,05…Deve
essere, comunque, osservato che, a seguito degli atti istruttori e
degli inviti a dedurre formulati da questa Procura Regionale, sono state
recuperate somme per un importo complessivo di euro 11.701,24”.
La
sintesi su riportata sulle società pubbliche induce ad un atteggiamento
assolutamente critico nei confronti di questo fenomeno che ha
determinato enormi perdite per la finanza pubblica ma
che soprattutto induce a forme di avversione e repulsione per un
sistema che palesemente favorisce clientelismi, favoritismi,
compravendita di voti politici e quant’altro.
Nonostante
il legislatore si sia avveduto della gravità del fenomeno e abbia
tentato di porre rimedio stabilendo anche limiti alla costituzione di
nuove società e alla dismissione di alcune di esse si è ancora ben
lontani dal raggiungimento di risultati soddisfacenti.
Invero
anche le nuove disposizioni introducono importanti deroghe che
confermano la volontà del legislatore di mantenere in vita il modello
della società a partecipazione pubblica strumentale, quando invece negli
ultimi tempi (v. Rapporto Assonime, ma anche il Rapporto CER) alcune
riflessioni avevano auspicato il superamento della forma societaria per
il ritorno a modelli pubblicistici coerenti con la natura delle
attività svolte oppure avevano suggerito sistemi di risanamento rimasti inascoltati (rapporto dell’OCSE sulla governante delle State Owned Enterprises - SOE).
Così
come il legislatore non ha previsto meccanismi preventivi per la
valutazione della convenienza e dell’opportunità di costituire società,
non ha previsto la ricognizione di quelle già costituite al fine di verificarne la convenienza; non sono state introdotte norme che predeterminino i requisiti di nomina degli amministratori; non sono stati introdotti i controlli preventivi di legittimità della Corte dei conti sugli atti ed
in particolare su quelli di avvio della contrattazione relativa agli
appalti per tutti i soggetti tenuti all’osservanza delle regole
dell’evidenza pubblica, inclusi quelli societari.
In conclusione, anche l’ultima riforma, per la necessità di ridurre la spesa pubblica sulla
spinta di propulsioni europeiste e pressioni comunitarie (ancora una
volta), sembra aver perso un’altra occasione per rivedere un impianto in
cui principi e norme pubblicistiche e privatistiche convivono in un
connubio improbabile e per questo difficilmente gestibile, ma
che per converso si presta a facili elusioni, distorsioni, giochi di
potere e clientelismi che hanno quale unica conseguenza lo sperpero di
ingenti risorse economiche pubbliche e il disfacimento del sistema dei servizi pubblici in danno della collettività.