Post di Arturo
1.
Mi rendo conto che ci sono questioni più drammatiche sul tappeto.
Tuttavia
anche la cultura, magari per una volta non ridotta a svago per turisti, non è
indegna di una considerazione attenta per forze politiche e civili che ritengono
la democrazia costituzionale abbia ancora le sue buone ragioni.
2.
Non solo infatti la cultura costituisce un bene costituzionalmente protetto
(art. 33), ma rappresenta anche un fondamentale contesto di analisi e interpretazione
della Costituzione, secondo plausibili argomentazioni avanzate da un autorevole
filone della giuspubblicista, prima di tutto tedesca, legata all’ermeneutica,
ossia la c.d. “scienza della cultura”.
Il punto
fondamentale, in fondo abbastanza banale, è questo: “La cultura costituzionale esige piuttosto un minimo di continuità e di
chances di oggettivazione, è l’esito del
lavoro costituente di più generazioni. Quanto alla sostanza, il concetto
(ancora da chiarire) della “cultura politica” ha un più marcato riferimento al
processo politico, intendendo le basi culturali del comportamento democratico. La cultura costituzionale è più ampia e
include tutte le basi culturali di una comunità costituita che sono rilevanti
per la sua costituzione, anche in quelle parti che non si riferiscono ai
meccanismi di investitura, esercizio e controllo del potere politico.” (P.
Häberle, Per una dottrina della costituzione come scienza della cultura,
Carocci, Roma, 2001, pag. 39).
Ossia
le costituzioni democratiche non spuntano come funghi nel bosco, ma sono il
frutto di un impegno autoriflessivo, talvolta assai conflittuale, che si
estende su un arco di tempo comprendente più generazioni di una comunità, che è
a sua volta calata in una civiltà con alcuni secoli di storia, anche giuridica,
alle spalle. Questa profondità storica fornisce i materiali per una altrettanto
profonda autoriflessione collettiva, purché ovviamente essi vengano conservati
e criticamente studiati.
2.1.
Di nuovo, e non casualmente, il riferimento agli antichi può fornirci qualche
spunto utile:
“La creazione di un tempo pubblico non è meno importante d’una simile
creazione di uno spazio pubblico. Per tempo pubblico non intendo l'istituzione
d’un calendario, d'un tempo “sociale”, d'un sistema di riferimenti temporali
sociali - cosa che, naturalmente, esiste dovunque - ma l’emergere di una
dimensione in cui la collettività possa esplorare il suo passato in quanto
risultato delle proprie azioni, e in cui si apra un avvenire indeterminato come
campo delle sue attività. Questo e davvero il senso della creazione della
storiografia in Grecia. E sorprendente che, rigorosamente parlando, la
storiografia non sia esistita che in due soli momenti della storia dell'umanità:
in Grecia antica e nell’Europa moderna, cioè nelle due società dove si e
sviluppato un movimento di messa in discussione delle istituzioni esistenti. Le
altre società non conoscono che il regno incontrastato della tradizione e/o la
semplice “consegna per iscritto degli avvenimenti” effettuata dai sacerdoti o
dai cronisti dei re. Erodoto, al contrario, dichiara che le tradizioni dei
greci non sono degne di fede. Il gesto dello scrollarsi di dosso la tradizione
e la ricerca critica delle “vere cause” vanno naturalmente di pari passo. E
questa conoscenza del passato e aperta a tutti: Erodoto, si narra, leggeva le
sue Storie ai greci riuniti in
occasione dei Giochi olimpici (se non e vero è ben trovato). E la “Orazione
funebre” di Pericle contiene una carrellata sulla storia degli ateniesi dal
punto di vista dello spirito delle generazioni successive - sintesi che arriva fino al tempo presente e
che indica con chiarezza nuovi compiti per l’avvenire.” (C.
Castoriadis, L’enigma del soggetto, Edizioni Dedalo, Bari, 1998, pag. 214).
Si
tratta a ben vedere di un aspetto particolare di quel concetto generale,
apparentemente un po’ oscuro, che l’idealismo tedesco e Marx definivano Gattungswesen, ossia “vita di specie”, e che Rawls
(Lezioni di storia della filosofia politica, Feltrinelli, Milano, 2009, s.p.) mi
pare sia riuscito spiegare con apprezzabile chiarezza: “gli esseri umani
sono un genere - o specie - naturale particolare nel senso che essi producono e
riproducono collettivamente le condizioni della loro vita sociale nel corso del
tempo. Ma, allo stesso tempo, le loro forme sociali si evolvono storicamente
secondo una certa sequenza fino a che alla fine si sviluppa una forma sociale
che è più o meno adeguata alla loro natura di esseri attivi e razionali, i
quali, per così dire, creano, operando assieme alle forze della natura, le
condizioni della loro completa auto-realizzazione sociale. L’attività
attraverso la quale si realizza questa espressione è un’attività di specie: cioè,
è l’opera cooperativa di molte generazioni ed è portata a termine solo dopo un
lungo periodo di tempo. In breve: è il lavoro della specie nel corso della
sua storia.”
3.
Se la privazione della storia costituisce quindi una forma di alienazione, la notizia di una sua diminutio
nelle tracce della prima prova scritta dell’esame di maturità (comunque
recuperabile nelle tracce della tipologia B, il saggio argomentativo) non può
che dispiacere, ma l’enfasi di cui è stata fatta oggetto rischia di minimizzare
la gravità di una situazione di emarginazione che è l’effetto di scelte
pluridecennali.
I
dati relativi alla presenza di storici nell’Università lasciano spazio a pochi
dubbi: “Tra docenti e ricercatori, negli
ultimi due decenni c’è stato un tracollo di insegnamenti storici. I medievisti
sono oggi 156: erano 240 nel 2001. I modernisti scendono da 368 a 225, mentre
nello stesso periodo la storia contemporanea ha perso 89 professori (da 462 a
373). «Ci siamo ridotti a una riserva indiana», sintetizza Emilio Gentile, uno
dei grandi maestri di storia ora in pensione.” Manca il dato degli
antichisti, ma ho il sospetto che sia se possibile ancora più allarmante.
Non
so se negli ultimi anni abbiate avuto occasione di parlare con ragazzi delle
superiori. Nel caso, avrete forse avuto occasione di verificarne la spaventosa
ignoranza della storia, nazionale e non: il passato viene percepito come una
sfocata e inintelligibile melassa in cui vagano Costantino, Napoleone e
Mussolini, in disordine sparso.
Non
è un caso che il tema storico sia stato negli anni il meno scelto dagli studenti: “solo lo 0,6% ha affrontato il tema sulle foibe
nel 2010; il 4,7% si è cimentato su Hannah Arendt e
lo sterminio degli ebrei nel 2012; l’1,3% dei candidati nel 2013 ha
scelto il tema sui Brics e il 3,8% nel
2014 ha affrontato la comparazione tra l’Europa del 1914 e quella del 2014.” (sulla predominanza della
memoria, piuttosto che sulla vera e propria storia, nei titoli, dovremo tornare).
Difficile
pensare che fenomeni del genere non si inquadrino in un disegno più ampio.
Indizi
vanno come sempre cercati prima di tutto nell’avamposto del neoliberismo, ossia
gli Stati Uniti.
4.
Questo articolo di Patrick Deneen, docente
di political theory presso la prestigiosa University of Notre Dame, mi pare
offra spunti di riflessione preziosi. L’autore è un conservatore, ma questo non
toglie nulla alla pertinenza della sua analisi, anzi: la provenienza sociale e
ideologica conferiscono una particolare credibilità alla critica di un
economicismo senza politica perché senza storia.
Ve
ne traduco alcuni brani: “I miei studenti
sono degli ignoranti. Sono assai simpatici, piacevoli, affidabili, per lo più
onesti, benintenzionati e senz’altro per bene. Ma i loro cervelli sono in gran
parte vuoti, privi di qualsiasi conoscenza sostanziale che possa considerarsi
il frutto di un’eredità o di un dono delle generazioni precedenti. Sono il
culmine della civiltà occidentale, una civiltà che ha dimenticato le sue
origini e i suoi obiettivi e, di conseguenza, ha raggiunto un’indifferenza
quasi totale riguardo a se stessa.
E’ difficile essere
ammessi nelle scuole dove ho insegnato, Princeton, Georgetown e ora Notre Dame.
Gli studenti di queste istituzioni fanno ciò che è loro richiesto: sono
eccellenti risolutori di test, sanno perfettamente cosa bisogna fare per
ottenere una A in ogni corso (ossia raramente si appassionato e si applicano a
una qualsiasi materia), costruiscono curricula perfetti. Sono rispettosi e
cordiali con gli adulti, accomodanti, anche se rozzi (come rivelano frammenti
di conversazioni), con i loro pari. Rispettano la diversità (senza avere la
minima idea di cosa sia) e sono esperti nell’arte del non giudicare (almeno in
pubblico). Sono la crema della loro generazione, i signori dell’universo, una
generazione che aspetta di dirigere l’America e il mondo.
Provate però a far loro
qualche domanda sulla civiltà che erediteranno e preparatevi a sguardi
sfuggenti e preoccupati. Chi ha combattuto le guerre persiane? Qual era la
posta in gioco nella battaglia di Salamina? Chi fu il maestro di Platone e chi
i suoi allievi? Come è morto Socrate? Alzi la mano chi ha letto sia l’Iliade
che l’Odissea. I racconti di Canterbury? Paradiso perduto? L’Inferno?
Chi era Paolo di Tarso?
Cos’erano le 95 tesi, chi le aveva scritte e quale ne fu l’effetto? Qual è
l’importanza della Magna Carta? Dove e come morì Thomas Becket? Cosa accadde a
Carlo I? Chi era Guy Fawkes e perché esiste un giorno a lui dedicato? Cosa
accadde a Yorktown nel 1781? Cosa disse Lincoln nel suo secondo discorso di
insediamento? Nel primo? Chi sa menzionarmi uno o due argomenti avanzati nel n.
10 del Federalista? Chi l’ha letto? Che cos’è il Federalista?
E’ possibile che alcuni
studenti, grazie a casuali scelte dei corsi o a qualche eccentrico insegnante
all’antica, conosca la risposta ad alcune di queste domande; ma molti studenti
no, e nemmeno a domande simili, perché non sono stati formati per conoscerle.
Nella migliore delle ipotesi possiedono conoscenze casuali, ma altrimenti sguazzano
nell’ignoranza sistematica. Non vanno incolpati per la loro profonda ignoranza
di storia, politica, arte e letteratura americana e occidentale: è il marchio
distintivo della loro formazione. Hanno imparato esattamente ciò che è stato
richiesto loro: essere come efemere, vivi per caso in un presente fugace.
L’ignoranza
dei nostri studenti non è un difetto del nostro sistema educativo: è il suo
coronamento.
Gli sforzi di diverse generazioni di filosofi e riformatori ed esperti di
politiche pubbliche di cui i nostri studenti (e molti di noi) non sanno nulla
si sono combinati per produrre una generazione di ignoranti. La pervasiva
ignoranza dei nostri studenti non è un semplice accidente o un risultato
sfortunato ma correggibile, solo che assumessimo migliori insegnanti o
variassimo la lista di letture al liceo.
Abbiamo preso la brutta e
acritica abitudine di ritenere che il nostro sistema educativo sia guasto, ma in
realtà marcia a tutto vapore: ciò che intende produrre è amnesia culturale, una totale mancanza di curiosità, agenti
indipendenti privi di storia e obiettivi educativi organizzati come processi
senza contenuto, con un uso acritico di parole chiave come “pensiero critico”,
“diversità”, “modi di conoscere”, “giustizia sociale” e “competenza culturale”.
I nostri studenti costituiscono il risultato di un impegno sistematico a
produrre individui senza un passato, per cui il futuro è terra straniera,
numeri senza cultura in grado di vivere ovunque e svolgere qualsiasi tipo di
lavoro, senza farsi domandi sui suoi scopi o fini, strumenti perfetti per un sistema economico che esalta la
“flessibilità” (geografica, interpersonale, etica). In un mondo del genere,
possedere una cultura, una storia, un'eredità, un impegno verso un luogo e
persone particolari, forme specifiche di gratitudine e di riconoscenza
(piuttosto che un impegno generalizzato e senza radici verso la "giustizia
sociale"), un forte insieme di principi etici e norme morali che affermano
limiti definiti a ciò che si dovrebbe o si dovrebbe non fare (a parte “non
giudicare”) sono ostacoli e handicap. Indipendentemente dall’indirizzo o corso
di studi, il principale obiettivo della moderna educazione è di piallar via
ogni residuo di specificità e identità culturale o storica che potrebbe ancora
restare attaccata ai nostri studenti, per renderli perfetti impiegati per una
politica ed economia moderne che penalizzano impegni profondi. Gli sforzi volti
in primo luogo a promuovere l’apprezzamento per il “multiculturalismo” sono
sintomo di un impegno a svuotare qualsiasi particolare identità culturale,
mentre l’attuale moda della “differenza” segnala un impegno totale alla
deculturazione e omogeneizzazione.
[…]
Con la percezione che un sistema economico globalizzato
richiedeva lavoratori sradicati che potessero vivere ovunque e svolgere
qualsiasi compito senza porsi domande sui relativi obiettivi ed effetti,
il compito principale dell’istruzione divenne instillare certe disposizioni,
piuttosto che una cultura ben fondata: flessibilità, tolleranza, “competenze”
prive di contenuto, astratte “forme di apprendimento”, elogio per la “giustizia
sociale”, anche nel contesto di un’economia in cui “il vincitore si prende
tutto” [winner-take-all economy], e un feticismo per la differenza che lasciava senza risposta il
perché tutti ricevessero la stessa educazione in istituzioni indistinguibili.
All’inizio questo ha significato lo svuotamento delle peculiarità locali,
regionali e religiose in nome dell’identità nazionale; ora quella delle
specificità nazionali in nome di un
cosmopolitismo globalizzato che richiede il deliberato oblio di ogni trattato
culturalmente caratterizzante. L’incapacità di rispondere a domande banali
sull’America o l’Occidente non è la conseguenza di una cattiva educazione, ma
il segno di un successo educativo.
Soprattutto l’unica
lezione che gli studenti ricevono è quella di considerare se stessi individui
radicalmente autonomi in un sistema globale fondato su un comune impegno alla
reciproca indifferenza. E’ questo impegno che ci lega come popolo globale. Ogni
residuo di cultura comune interferirebbe con questo imperativo primario: una cultura
comune implicherebbe che condividiamo qualcosa di più denso, un’eredità che non
abbiamo creato e un insieme di impegni che implicano limiti e lealtà
particolari. La prassi e la filosofia antiche hanno elogiato la “res publica”,
una devozione verso gli affari pubblici, ciò che condividiamo; noi abbiamo
invece creato la prima “res idiotica”
mondiale, dal termine greco “idiotés”, ossia individuo.”
Si
conferma così l’osservazione di Castoriadis: la cancellazione della storia è
del tutto funzionale alla obliterazione della politica, alla possibilità di
pensare il futuro in una dimensione collettiva che trascenda l’appiattimento
sull’eterno presente di un insensato “andare avanti”, per riprendere la
citazione di Joan Robinson riportata in questo post.
5.
In Europa poi la “storiofobia” acquista una curvatura particolare, per certi
versi ancora più assurda, individuata, fra gli altri, da Pierre Manent (La
raison des nations, Gallimard, Parigi, 2006, pag. 47) in questi termini: “Siamo separati dalla nostra storia politica
dal sipario di fuoco degli anni 1914-1945. Prima: una storia colpevole, perché
culmina nel fango di Les Éparges e sulla rampa di Auschwitz. Dopo: eccoci
risorti, senza battesimo né conversione, nella veste bianca di una democrazia
infine pura, ossia non nazionale, il cui unico programma politico è mantenere
la sua innocenza. Dobbiamo ristabilire la consapevolezza della continuità della
storia europea, invece di supporre che siamo usciti cinquant’anni fa - diciamo:
al momento della formazione delle prime istituzioni europee - da lunghi secoli
di paganesimo nazionale”.
Ennesimo
esempio di questa interessata rimozione, il recente e surreale “appello per l’Europa” di sindacati
confederali e Confindustria, tutti insieme appassionatamente contro “quelli che intendono mettere in discussione
il progetto europeo per tornare all’isolamento degli Stati nazionali,
richiamando in vita gli inquietanti fantasmi del novecento.”
A
parte la sciocchezza dell’isolamento, è straordinaria l’idea di un’Unione
Europea monda di ogni e qualsiasi continuità con la storia del Novecento (per
non parlare dei secoli precedenti): è quel luogo comune di cui parla Manent,
che anche qui avevamo individuato e definito “mito della purezza delle origini”.
6.
L’argomento ci consente tra l’altro di riallacciarci alla questione, cui avevo
accennato sopra, della tanto insistita quanto culturalmente superficiale
“memoria”, in particolare, appunto, delle tragedie novecentesche. Che non
costituisce una smentita alla tesi di Deneen, proprio il contrario.
6.1.
Tralasciando la specifica funzione “purificatrice” che svolge in Europa,
elementi che aiutano a chiarire la natura del fenomeno li possiamo ancora una
volta trovare negli Stati Uniti.
In
un breve ma denso saggio, che mi permetto di consigliare agli insegnanti -
L’eredità di Auschwitz, Einaudi, Torino, 2014 - Georges Bensoussan, responsabile
editoriale del Memoriale della Shoah di Parigi (uno che di memoria dovrebbe
intendersene, direi…), scrive: “Abbandonando
l’ambito storico in senso stretto, la shoah si vede cosí investita di «verità eterne» che offrono
l’occasione di un insegnamento civico sotto tutti i punti di vista.
Strumentalizzata, questa memoria collettiva stempera il genocidio in una
lezione sulla tolleranza a cui potrebbero ugualmente prestarsi altri
avvenimenti storici. Ma questa diluizione della tragedia cela i percorsi che
hanno condotto al crimine di massa. Se la visita al Memoriale di Washington
indubbiamente commuove i visitatori, si ha la sensazione che il breviario di
tolleranza di ciascuno e le sue convinzioni ne escano rafforzati.
La shoah è dunque diventata una
sorta di bussola morale. L’avvenimento si è trasformato in un simbolo del «male
eterno» e della «cattiva natura» dell’uomo. Oggetto di un consenso che non
impegna a niente (amare il bene e detestare il male), questo insegnamento
diventa un surrogato ideologico in una società priva di un progetto collettivo.
In un’atmosfera di pentimento, la shoah invita
ciascuno a fare un «esame di coscienza» chiedendosi come avrebbe agito nel
1942. Questo moralismo sfocia in una nuova liturgia che lascia da parte
l’analisi politica sull’humus intellettuale del massacro. Gli Stati Uniti sono così diventati il luogo per eccellenza di una
memoria vana.”
Le
conclusioni di Bensoussan sono perentorie e più che condivisibili: “abbiamo
bisogno di un pensiero critico, non di un dovere di memoria”.
Il
pensiero critico ci metterebbe però davanti prospettive un po’ più scomode del
“catechismo per benpensanti” a cui è ridotto
l’odierno antifascismo: “Bettelheim scriveva
in Sopravvivere (Feltrinelli, Milano 1988): «Il fascino della competenza tecnica ha soffocato il senso umano», e
più avanti, nella stessa opera, notava che «questo genere di orgoglio
professionale che rendeva quegli uomini così pericolosi è sempre d’attualità: è
caratteristico delle società moderne».”
Esempi
di questa disumanità tecnocratica penso ne vengano in menti fin troppi.
Più
in profondità il sistema dei campi ha reso evidente una breccia della nostra
modernità, ossia la sempre attuale possibilità che una porzione dell’umanità diventi “di troppo”:
“Questo progetto nichilista non è scomparso nel 1945. Si è trasformato. Il
nostro presente resta infestato da questo veleno, l’uomo continua a essere di
troppo, come dimostra ogni giorno l’ordine economico che dovrebbe garantire la
nostra sopravvivenza.”
Chiaro
che riflessioni siffatte riuscirebbero solo di inciampo a una greve vulgata
mediatica che decontestualizza e banalizza il passato per strumentalizzazioni
che si risolvono poi sempre, sia pure con una certa gamma di variazioni sul
tema, nell’eterna accusa del pensiero antidemocratico, quella di pericolosa irrazionalità
delle masse (pure qui un riferimento all’antichità, come quello contenuto nella citazione di Canfora che avevo
riportato, non guasta).
6.2.
A guardar bene la “memoria” svolge pure un’altra funzione, anch’essa tutt’altro
che benefica. Per individuarla occorre prima introdurre le riflessioni condotte
da Andrea Zohk in un notevole articolo, di cui vi
consiglio lettura integrale, su un particolare risvolto patologico del
liberalismo: “L’aver stigmatizzato la
dimensione positivo-propositiva del valore e l’aver conferito legittimità
residua solo al ‘non subire danno’ ha fatto del discorso etico contemporaneo il
regno del ‘vittimismo’. L’unico argomento che il discorso etico liberale considera
generalmente vincente e legittimo è infatti quello in cui a qualcuno viene
attribuito il ruolo di vittima di qualcosa: della sfortuna, delle circostanze,
della natura, della società, delle iniziative altrui quali che siano. Le
battaglie retoriche su chi ha diritto a cosa vengono combattute tendenzialmente
a colpi di vittimismo, dove il punto
fondamentale consiste nello stabilire chi ha sofferto di più, chi è stato più
vittima.”
“Naturalmente, siccome
ogni essere umano ha in sé una pluralità di aspetti, ogni individuo o gruppo
reale nel momento in cui appare come vittima dissimula altri aspetti sotto cui
è anche portatore di istanze propositive, desideri positivi, brame e progetti.
Perciò si può sempre giocare anche contro questo gruppo di vittime prima facie
la carta del vittimismo, facendoli apparire a loro volta come ‘carnefici’ di
altri.
In questa battaglia di
vittimismi l’unico esito certo è la proliferazione di una cultura della
menzogna opportunistica, della passività aggressiva, della ricerca di scuse, e
di contro il deperimento della sfera etica con la sua sempre maggiore
incapacità di muovere, animare, vivere e far vivere.”
Mi
pare piuttosto evidente che il moltiplicarsi compulsivo di “giornate del
ricordo”, lungi dall’alimentare una riflessione critica sul passato, non fa
altro che fornire ulteriore materiale a questa frammentazione vittimista di un
possibile discorso pubblico. In effetti se ne sono accorti anche gli storici: Giovanni
De Luna nel suo La Repubblica del dolore, Feltrinelli, Milano, 2010, scrive ad
esempio: “si delinea un effettivo
incoraggiamento alla costruzione di altrettanti recinti chiusi sulle proprie
rivendicazioni, necessariamente in concorrenza gli uni con gli altri,
sovradeterminati da una particolare esperienza dolorosa personale, così che
tutto quello che scaturisce dalla centralità delle vittime, sembra comunque
voler trasformare lo Stato in una "federazione" di interessi
particolari.”
7.
Sono solo accenni di un discorso che meriterebbe ben altra articolazione, ma
che bastano a conferire una certa consistenza alla tesi fondamentale relativa
al rapporto tra storia, politica e Costituzione avanzata dalla “scienza della
cultura”: l’impossibilità di una scissione del legame fra demos e ethnos. Il
popolo che attraverso la Costituzione si costituisce volontariamente come
insieme di cittadini è una “cristallizzazione culturale”, per usare
un’espressione di Kolakowski, che emerge da una realtà storica che lo precede e
lo rende possibile. Si tratta certo di una razionalizzazione e di una creazione
volontaria, ma senza profondità storica non ci sarebbe niente da razionalizzare
e nessuna base su cui creare: per dirla con Castoriadis, la Costituzione non è
necessaria, ossia è voluta, ma non è di certo nemmeno accidentale.
In
fondo, come dicevo all’inizio, si tratta di una banalità, tanto che a volte
viene ammessa perfino da Habermas, per esempio quando parla di “una
doppia codificazione della
cittadinanza. Essa è per un verso lo statuto definito dei diritti del
cittadino e, per l’altro, l’appartenenza alla cultura di un popolo.” (Lo
Stato-nazione europeo. Passato e futuro della sovranità e della cittadinanza,
in Id., L’inclusione dell’altro. Studi
di teoria politica, Feltrinelli, Milano, 2002, pag. 127).
L’
antidemocraticità del rifiuto di ogni legame - naturalmente anche polemico, come
abbiamo visto - col passato, emerge chiaramente nella stravaganza delle teorie
sulla presunta capacità democratica costituente di un fantomatico popolo che ne
sia privo: mi riferisco ovviamente al moltitudinarismo negriano, delle cui
assurdità, per mia fortuna, s’è già occupato a sufficienza Paolo di Remigio, e che per quanto
mi riguarda, riprendendo la similitudine del punto 2, chiamerei “micologia
costituzionale”.
8.
In conclusione, mi auguro sia chiara per tutti l’importanza della storia:
perché è indispensabile per articolare criticamente e consapevolmente un “noi”,
perché l’universale dell’umanità esiste nel particolare dei popoli, perché, e
permettetemi di ricorrere a Jung (Psicologia analitica e concezione del mondo,
in C. G. Jung, Opere, a cura di L.
Aurigemma, Bollati Boringhieri, Torino, 1969-1998, vol. VIII, p. 407), strappare
l’uomo della storia per rinchiuderlo in un presente “che si estende al breve periodo fra la nascita e la morte […] genera un sentimento di accidentalità
e insensatezza che ci impedisce di vivere la vita con quella ricchezza di
significati che essa richiede per essere completamente vissuta. La vita si
appiattisce e non rappresenta più compiutamente l’uomo.”