mercoledì 17 aprile 2019

STORIA E DEMOCRAZIA


Post di Arturo


1. Mi rendo conto che ci sono questioni più drammatiche sul tappeto.
Tuttavia anche la cultura, magari per una volta non ridotta a svago per turisti, non è indegna di una considerazione attenta per forze politiche e civili che ritengono la democrazia costituzionale abbia ancora le sue buone ragioni.


2. Non solo infatti la cultura costituisce un bene costituzionalmente protetto (art. 33), ma rappresenta anche un fondamentale contesto di analisi e interpretazione della Costituzione, secondo plausibili argomentazioni avanzate da un autorevole filone della giuspubblicista, prima di tutto tedesca, legata all’ermeneutica, ossia la c.d. “scienza della cultura”.
Il punto fondamentale, in fondo abbastanza banale, è questo: “La cultura costituzionale esige piuttosto un minimo di continuità e di chances di oggettivazione, è l’esito del lavoro costituente di più generazioni. Quanto alla sostanza, il concetto (ancora da chiarire) della “cultura politica” ha un più marcato riferimento al processo politico, intendendo le basi culturali del comportamento democratico. La cultura costituzionale è più ampia e include tutte le basi culturali di una comunità costituita che sono rilevanti per la sua costituzione, anche in quelle parti che non si riferiscono ai meccanismi di investitura, esercizio e controllo del potere politico.” (P. Häberle, Per una dottrina della costituzione come scienza della cultura, Carocci, Roma, 2001, pag. 39).
Ossia le costituzioni democratiche non spuntano come funghi nel bosco, ma sono il frutto di un impegno autoriflessivo, talvolta assai conflittuale, che si estende su un arco di tempo comprendente più generazioni di una comunità, che è a sua volta calata in una civiltà con alcuni secoli di storia, anche giuridica, alle spalle. Questa profondità storica fornisce i materiali per una altrettanto profonda autoriflessione collettiva, purché ovviamente essi vengano conservati e criticamente studiati.

2.1. Di nuovo, e non casualmente, il riferimento agli antichi può fornirci qualche spunto utile:
La creazione di un tempo pubblico non è meno importante d’una simile creazione di uno spazio pubblico. Per tempo pubblico non intendo l'istituzione d’un calendario, d'un tempo “sociale”, d'un sistema di riferimenti temporali sociali - cosa che, naturalmente, esiste dovunque - ma l’emergere di una dimensione in cui la collettività possa esplorare il suo passato in quanto risultato delle proprie azioni, e in cui si apra un avvenire indeterminato come campo delle sue attività. Questo e davvero il senso della creazione della storiografia in Grecia. E sorprendente che, rigorosamente parlando, la storiografia non sia esistita che in due soli momenti della storia dell'umanità: in Grecia antica e nell’Europa moderna, cioè nelle due società dove si e sviluppato un movimento di messa in discussione delle istituzioni esistenti. Le altre società non conoscono che il regno incontrastato della tradizione e/o la semplice “consegna per iscritto degli avvenimenti” effettuata dai sacerdoti o dai cronisti dei re. Erodoto, al contrario, dichiara che le tradizioni dei greci non sono degne di fede. Il gesto dello scrollarsi di dosso la tradizione e la ricerca critica delle “vere cause” vanno naturalmente di pari passo. E questa conoscenza del passato e aperta a tutti: Erodoto, si narra, leggeva le sue Storie ai greci riuniti in occasione dei Giochi olimpici (se non e vero è ben trovato). E la “Orazione funebre” di Pericle contiene una carrellata sulla storia degli ateniesi dal punto di vista dello spirito delle generazioni successive - sintesi che arriva fino al tempo presente e che indica con chiarezza nuovi compiti per l’avvenire.” (C. Castoriadis, L’enigma del soggetto, Edizioni Dedalo, Bari, 1998, pag. 214).
Si tratta a ben vedere di un aspetto particolare di quel concetto generale, apparentemente un po’ oscuro, che l’idealismo tedesco e Marx definivano Gattungswesen, ossia “vita di specie”, e che Rawls (Lezioni di storia della filosofia politica, Feltrinelli, Milano, 2009, s.p.) mi pare sia riuscito spiegare con apprezzabile chiarezza: “gli esseri umani sono un genere - o specie - naturale particolare nel senso che essi producono e riproducono collettivamente le condizioni della loro vita sociale nel corso del tempo. Ma, allo stesso tempo, le loro forme sociali si evolvono storicamente secondo una certa sequenza fino a che alla fine si sviluppa una forma sociale che è più o meno adeguata alla loro natura di esseri attivi e razionali, i quali, per così dire, creano, operando assieme alle forze della natura, le condizioni della loro completa auto-realizzazione sociale. L’attività attraverso la quale si realizza questa espressione è un’attività di specie: cioè, è l’opera cooperativa di molte generazioni ed è portata a termine solo dopo un lungo periodo di tempo. In breve: è il lavoro della specie nel corso della sua storia.


3. Se la privazione della storia costituisce quindi una forma di alienazione, la notizia di una sua diminutio nelle tracce della prima prova scritta dell’esame di maturità (comunque recuperabile nelle tracce della tipologia B, il saggio argomentativo) non può che dispiacere, ma l’enfasi di cui è stata fatta oggetto rischia di minimizzare la gravità di una situazione di emarginazione che è l’effetto di scelte pluridecennali.   
I dati relativi alla presenza di storici nell’Università lasciano spazio a pochi dubbi: “Tra docenti e ricercatori, negli ultimi due decenni c’è stato un tracollo di insegnamenti storici. I medievisti sono oggi 156: erano 240 nel 2001. I modernisti scendono da 368 a 225, mentre nello stesso periodo la storia contemporanea ha perso 89 professori (da 462 a 373). «Ci siamo ridotti a una riserva indiana», sintetizza Emilio Gentile, uno dei grandi maestri di storia ora in pensione.” Manca il dato degli antichisti, ma ho il sospetto che sia se possibile ancora più allarmante.
Non so se negli ultimi anni abbiate avuto occasione di parlare con ragazzi delle superiori. Nel caso, avrete forse avuto occasione di verificarne la spaventosa ignoranza della storia, nazionale e non: il passato viene percepito come una sfocata e inintelligibile melassa in cui vagano Costantino, Napoleone e Mussolini, in disordine sparso.
Non è un caso che il tema storico sia stato negli anni il meno scelto dagli studenti: “solo lo 0,6% ha affrontato il tema sulle foibe nel 2010; il 4,7% si è cimentato su Hannah Arendt e lo sterminio degli ebrei nel 2012; l’1,3% dei candidati nel 2013 ha scelto il tema sui Brics e il 3,8% nel 2014 ha affrontato la comparazione tra l’Europa del 1914 e quella del 2014.” (sulla predominanza della memoria, piuttosto che sulla vera e propria storia, nei titoli, dovremo tornare). 
Difficile pensare che fenomeni del genere non si inquadrino in un disegno più ampio.
Indizi vanno come sempre cercati prima di tutto nell’avamposto del neoliberismo, ossia gli Stati Uniti.


4. Questo articolo di Patrick Deneen, docente di political theory presso la prestigiosa University of Notre Dame, mi pare offra spunti di riflessione preziosi. L’autore è un conservatore, ma questo non toglie nulla alla pertinenza della sua analisi, anzi: la provenienza sociale e ideologica conferiscono una particolare credibilità alla critica di un economicismo senza politica perché senza storia.
Ve ne traduco alcuni brani: “I miei studenti sono degli ignoranti. Sono assai simpatici, piacevoli, affidabili, per lo più onesti, benintenzionati e senz’altro per bene. Ma i loro cervelli sono in gran parte vuoti, privi di qualsiasi conoscenza sostanziale che possa considerarsi il frutto di un’eredità o di un dono delle generazioni precedenti. Sono il culmine della civiltà occidentale, una civiltà che ha dimenticato le sue origini e i suoi obiettivi e, di conseguenza, ha raggiunto un’indifferenza quasi totale riguardo a se stessa.
E’ difficile essere ammessi nelle scuole dove ho insegnato, Princeton, Georgetown e ora Notre Dame. Gli studenti di queste istituzioni fanno ciò che è loro richiesto: sono eccellenti risolutori di test, sanno perfettamente cosa bisogna fare per ottenere una A in ogni corso (ossia raramente si appassionato e si applicano a una qualsiasi materia), costruiscono curricula perfetti. Sono rispettosi e cordiali con gli adulti, accomodanti, anche se rozzi (come rivelano frammenti di conversazioni), con i loro pari. Rispettano la diversità (senza avere la minima idea di cosa sia) e sono esperti nell’arte del non giudicare (almeno in pubblico). Sono la crema della loro generazione, i signori dell’universo, una generazione che aspetta di dirigere l’America e il mondo.
Provate però a far loro qualche domanda sulla civiltà che erediteranno e preparatevi a sguardi sfuggenti e preoccupati. Chi ha combattuto le guerre persiane? Qual era la posta in gioco nella battaglia di Salamina? Chi fu il maestro di Platone e chi i suoi allievi? Come è morto Socrate? Alzi la mano chi ha letto sia l’Iliade che l’Odissea. I racconti di Canterbury? Paradiso perduto? L’Inferno?
Chi era Paolo di Tarso? Cos’erano le 95 tesi, chi le aveva scritte e quale ne fu l’effetto? Qual è l’importanza della Magna Carta? Dove e come morì Thomas Becket? Cosa accadde a Carlo I? Chi era Guy Fawkes e perché esiste un giorno a lui dedicato? Cosa accadde a Yorktown nel 1781? Cosa disse Lincoln nel suo secondo discorso di insediamento? Nel primo? Chi sa menzionarmi uno o due argomenti avanzati nel n. 10 del Federalista? Chi l’ha letto? Che cos’è il Federalista?
E’ possibile che alcuni studenti, grazie a casuali scelte dei corsi o a qualche eccentrico insegnante all’antica, conosca la risposta ad alcune di queste domande; ma molti studenti no, e nemmeno a domande simili, perché non sono stati formati per conoscerle. Nella migliore delle ipotesi possiedono conoscenze casuali, ma altrimenti sguazzano nell’ignoranza sistematica. Non vanno incolpati per la loro profonda ignoranza di storia, politica, arte e letteratura americana e occidentale: è il marchio distintivo della loro formazione. Hanno imparato esattamente ciò che è stato richiesto loro: essere come efemere, vivi per caso in un presente fugace.
L’ignoranza dei nostri studenti non è un difetto del nostro sistema educativo: è il suo coronamento. Gli sforzi di diverse generazioni di filosofi e riformatori ed esperti di politiche pubbliche di cui i nostri studenti (e molti di noi) non sanno nulla si sono combinati per produrre una generazione di ignoranti. La pervasiva ignoranza dei nostri studenti non è un semplice accidente o un risultato sfortunato ma correggibile, solo che assumessimo migliori insegnanti o variassimo la lista di letture al liceo. 
Abbiamo preso la brutta e acritica abitudine di ritenere che il nostro sistema educativo sia guasto, ma in realtà marcia a tutto vapore: ciò che intende produrre è amnesia culturale, una totale mancanza di curiosità, agenti indipendenti privi di storia e obiettivi educativi organizzati come processi senza contenuto, con un uso acritico di parole chiave come “pensiero critico”, “diversità”, “modi di conoscere”, “giustizia sociale” e “competenza culturale”. I nostri studenti costituiscono il risultato di un impegno sistematico a produrre individui senza un passato, per cui il futuro è terra straniera, numeri senza cultura in grado di vivere ovunque e svolgere qualsiasi tipo di lavoro, senza farsi domandi sui suoi scopi o fini, strumenti perfetti per un sistema economico che esalta la “flessibilità” (geografica, interpersonale, etica). In un mondo del genere, possedere una cultura, una storia, un'eredità, un impegno verso un luogo e persone particolari, forme specifiche di gratitudine e di riconoscenza (piuttosto che un impegno generalizzato e senza radici verso la "giustizia sociale"), un forte insieme di principi etici e norme morali che affermano limiti definiti a ciò che si dovrebbe o si dovrebbe non fare (a parte “non giudicare”) sono ostacoli e handicap. Indipendentemente dall’indirizzo o corso di studi, il principale obiettivo della moderna educazione è di piallar via ogni residuo di specificità e identità culturale o storica che potrebbe ancora restare attaccata ai nostri studenti, per renderli perfetti impiegati per una politica ed economia moderne che penalizzano impegni profondi. Gli sforzi volti in primo luogo a promuovere l’apprezzamento per il “multiculturalismo” sono sintomo di un impegno a svuotare qualsiasi particolare identità culturale, mentre l’attuale moda della “differenza” segnala un impegno totale alla deculturazione e omogeneizzazione.
[…]
Con la percezione che un sistema economico globalizzato richiedeva lavoratori sradicati che potessero vivere ovunque e svolgere qualsiasi compito senza porsi domande sui relativi obiettivi ed effetti, il compito principale dell’istruzione divenne instillare certe disposizioni, piuttosto che una cultura ben fondata: flessibilità, tolleranza, “competenze” prive di contenuto, astratte “forme di apprendimento”, elogio per la “giustizia sociale”, anche nel contesto di un’economia in cui “il vincitore si prende tutto” [winner-take-all economy], e un feticismo per la differenza che lasciava senza risposta il perché tutti ricevessero la stessa educazione in istituzioni indistinguibili. All’inizio questo ha significato lo svuotamento delle peculiarità locali, regionali e religiose in nome dell’identità nazionale; ora quella delle specificità nazionali in nome di un cosmopolitismo globalizzato che richiede il deliberato oblio di ogni trattato culturalmente caratterizzante. L’incapacità di rispondere a domande banali sull’America o l’Occidente non è la conseguenza di una cattiva educazione, ma il segno di un successo educativo.
Soprattutto l’unica lezione che gli studenti ricevono è quella di considerare se stessi individui radicalmente autonomi in un sistema globale fondato su un comune impegno alla reciproca indifferenza. E’ questo impegno che ci lega come popolo globale. Ogni residuo di cultura comune interferirebbe con questo imperativo primario: una cultura comune implicherebbe che condividiamo qualcosa di più denso, un’eredità che non abbiamo creato e un insieme di impegni che implicano limiti e lealtà particolari. La prassi e la filosofia antiche hanno elogiato la “res publica”, una devozione verso gli affari pubblici, ciò che condividiamo; noi abbiamo invece creato la prima “res idiotica” mondiale, dal termine greco “idiotés”, ossia individuo. 
Si conferma così l’osservazione di Castoriadis: la cancellazione della storia è del tutto funzionale alla obliterazione della politica, alla possibilità di pensare il futuro in una dimensione collettiva che trascenda l’appiattimento sull’eterno presente di un insensato “andare avanti”, per riprendere la citazione di Joan Robinson riportata in questo post.


5. In Europa poi la “storiofobia” acquista una curvatura particolare, per certi versi ancora più assurda, individuata, fra gli altri, da Pierre Manent (La raison des nations, Gallimard, Parigi, 2006, pag. 47) in questi termini: “Siamo separati dalla nostra storia politica dal sipario di fuoco degli anni 1914-1945. Prima: una storia colpevole, perché culmina nel fango di Les Éparges e sulla rampa di Auschwitz. Dopo: eccoci risorti, senza battesimo né conversione, nella veste bianca di una democrazia infine pura, ossia non nazionale, il cui unico programma politico è mantenere la sua innocenza. Dobbiamo ristabilire la consapevolezza della continuità della storia europea, invece di supporre che siamo usciti cinquant’anni fa - diciamo: al momento della formazione delle prime istituzioni europee - da lunghi secoli di paganesimo nazionale”. 
Ennesimo esempio di questa interessata rimozione, il recente e surreale “appello per l’Europa” di sindacati confederali e Confindustria, tutti insieme appassionatamente contro “quelli che intendono mettere in discussione il progetto europeo per tornare all’isolamento degli Stati nazionali, richiamando in vita gli inquietanti fantasmi del novecento.”
A parte la sciocchezza dell’isolamento, è straordinaria l’idea di un’Unione Europea monda di ogni e qualsiasi continuità con la storia del Novecento (per non parlare dei secoli precedenti): è quel luogo comune di cui parla Manent, che anche qui avevamo individuato e definito “mito della purezza delle origini”. 


6. L’argomento ci consente tra l’altro di riallacciarci alla questione, cui avevo accennato sopra, della tanto insistita quanto culturalmente superficiale “memoria”, in particolare, appunto, delle tragedie novecentesche. Che non costituisce una smentita alla tesi di Deneen, proprio il contrario.

6.1. Tralasciando la specifica funzione “purificatrice” che svolge in Europa, elementi che aiutano a chiarire la natura del fenomeno li possiamo ancora una volta trovare negli Stati Uniti.
In un breve ma denso saggio, che mi permetto di consigliare agli insegnanti - L’eredità di Auschwitz, Einaudi, Torino, 2014 - Georges Bensoussan, responsabile editoriale del Memoriale della Shoah di Parigi (uno che di memoria dovrebbe intendersene, direi…), scrive: “Abbandonando l’ambito storico in senso stretto, la shoah si vede cosí investita di «verità eterne» che offrono l’occasione di un insegnamento civico sotto tutti i punti di vista. Strumentalizzata, questa memoria collettiva stempera il genocidio in una lezione sulla tolleranza a cui potrebbero ugualmente prestarsi altri avvenimenti storici. Ma questa diluizione della tragedia cela i percorsi che hanno condotto al crimine di massa. Se la visita al Memoriale di Washington indubbiamente commuove i visitatori, si ha la sensazione che il breviario di tolleranza di ciascuno e le sue convinzioni ne escano rafforzati.
La shoah è dunque diventata una sorta di bussola morale. L’avvenimento si è trasformato in un simbolo del «male eterno» e della «cattiva natura» dell’uomo. Oggetto di un consenso che non impegna a niente (amare il bene e detestare il male), questo insegnamento diventa un surrogato ideologico in una società priva di un progetto collettivo. In un’atmosfera di pentimento, la shoah invita ciascuno a fare un «esame di coscienza» chiedendosi come avrebbe agito nel 1942. Questo moralismo sfocia in una nuova liturgia che lascia da parte l’analisi politica sull’humus intellettuale del massacro. Gli Stati Uniti sono così diventati il luogo per eccellenza di una memoria vana.
Le conclusioni di Bensoussan sono perentorie e più che condivisibili: “abbiamo bisogno di un pensiero critico, non di un dovere di memoria”.
Il pensiero critico ci metterebbe però davanti prospettive un po’ più scomode del “catechismo per benpensanti” a cui è ridotto l’odierno antifascismo: “Bettelheim scriveva in Sopravvivere (Feltrinelli, Milano 1988): «Il fascino della competenza tecnica ha soffocato il senso umano», e più avanti, nella stessa opera, notava che «questo genere di orgoglio professionale che rendeva quegli uomini così pericolosi è sempre d’attualità: è caratteristico delle società moderne».
Esempi di questa disumanità tecnocratica penso ne vengano in menti fin troppi.
Più in profondità il sistema dei campi ha reso evidente una breccia della nostra modernità, ossia la sempre attuale possibilità che una porzione dell’umanità diventi “di troppo”: “Questo progetto nichilista non è scomparso nel 1945. Si è trasformato. Il nostro presente resta infestato da questo veleno, l’uomo continua a essere di troppo, come dimostra ogni giorno l’ordine economico che dovrebbe garantire la nostra sopravvivenza.
Chiaro che riflessioni siffatte riuscirebbero solo di inciampo a una greve vulgata mediatica che decontestualizza e banalizza il passato per strumentalizzazioni che si risolvono poi sempre, sia pure con una certa gamma di variazioni sul tema, nell’eterna accusa del pensiero antidemocratico, quella di pericolosa irrazionalità delle masse (pure qui un riferimento all’antichità, come quello contenuto nella citazione di Canfora che avevo riportato, non guasta).

6.2. A guardar bene la “memoria” svolge pure un’altra funzione, anch’essa tutt’altro che benefica. Per individuarla occorre prima introdurre le riflessioni condotte da Andrea Zohk in un notevole articolo, di cui vi consiglio lettura integrale, su un particolare risvolto patologico del liberalismo: “L’aver stigmatizzato la dimensione positivo-propositiva del valore e l’aver conferito legittimità residua solo al ‘non subire danno’ ha fatto del discorso etico contemporaneo il regno del ‘vittimismo’. L’unico argomento che il discorso etico liberale considera generalmente vincente e legittimo è infatti quello in cui a qualcuno viene attribuito il ruolo di vittima di qualcosa: della sfortuna, delle circostanze, della natura, della società, delle iniziative altrui quali che siano. Le battaglie retoriche su chi ha diritto a cosa vengono combattute tendenzialmente a colpi di vittimismo, dove il punto fondamentale consiste nello stabilire chi ha sofferto di più, chi è stato più vittima.”
“Naturalmente, siccome ogni essere umano ha in sé una pluralità di aspetti, ogni individuo o gruppo reale nel momento in cui appare come vittima dissimula altri aspetti sotto cui è anche portatore di istanze propositive, desideri positivi, brame e progetti. Perciò si può sempre giocare anche contro questo gruppo di vittime prima facie la carta del vittimismo, facendoli apparire a loro volta come ‘carnefici’ di altri.
In questa battaglia di vittimismi l’unico esito certo è la proliferazione di una cultura della menzogna opportunistica, della passività aggressiva, della ricerca di scuse, e di contro il deperimento della sfera etica con la sua sempre maggiore incapacità di muovere, animare, vivere e far vivere.
Mi pare piuttosto evidente che il moltiplicarsi compulsivo di “giornate del ricordo”, lungi dall’alimentare una riflessione critica sul passato, non fa altro che fornire ulteriore materiale a questa frammentazione vittimista di un possibile discorso pubblico. In effetti se ne sono accorti anche gli storici: Giovanni De Luna nel suo La Repubblica del dolore, Feltrinelli, Milano, 2010, scrive ad esempio: “si delinea un effettivo incoraggiamento alla costruzione di altrettanti recinti chiusi sulle proprie rivendicazioni, necessariamente in concorrenza gli uni con gli altri, sovradeterminati da una particolare esperienza dolorosa personale, così che tutto quello che scaturisce dalla centralità delle vittime, sembra comunque voler trasformare lo Stato in una "federazione" di interessi particolari.


7. Sono solo accenni di un discorso che meriterebbe ben altra articolazione, ma che bastano a conferire una certa consistenza alla tesi fondamentale relativa al rapporto tra storia, politica e Costituzione avanzata dalla “scienza della cultura”: l’impossibilità di una scissione del legame fra demos e ethnos. Il popolo che attraverso la Costituzione si costituisce volontariamente come insieme di cittadini è una “cristallizzazione culturale”, per usare un’espressione di Kolakowski, che emerge da una realtà storica che lo precede e lo rende possibile. Si tratta certo di una razionalizzazione e di una creazione volontaria, ma senza profondità storica non ci sarebbe niente da razionalizzare e nessuna base su cui creare: per dirla con Castoriadis, la Costituzione non è necessaria, ossia è voluta, ma non è di certo nemmeno accidentale.
In fondo, come dicevo all’inizio, si tratta di una banalità, tanto che a volte viene ammessa perfino da Habermas, per esempio quando parla di “una doppia codificazione della cittadinanza. Essa è per un verso lo statuto definito dei diritti del cittadino e, per l’altro, l’appartenenza alla cultura di un popolo.” (Lo Stato-nazione europeo. Passato e futuro della sovranità e della cittadinanza, in Id., L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano, 2002, pag. 127).
L’ antidemocraticità del rifiuto di ogni legame - naturalmente anche polemico, come abbiamo visto - col passato, emerge chiaramente nella stravaganza delle teorie sulla presunta capacità democratica costituente di un fantomatico popolo che ne sia privo: mi riferisco ovviamente al moltitudinarismo negriano, delle cui assurdità, per mia fortuna, s’è già occupato a sufficienza Paolo di Remigio, e che per quanto mi riguarda, riprendendo la similitudine del punto 2, chiamerei “micologia costituzionale”.


8. In conclusione, mi auguro sia chiara per tutti l’importanza della storia: perché è indispensabile per articolare criticamente e consapevolmente un “noi”, perché l’universale dell’umanità esiste nel particolare dei popoli, perché, e permettetemi di ricorrere a Jung (Psicologia analitica e concezione del mondo, in C. G. Jung, Opere, a cura di L. Aurigemma, Bollati Boringhieri, Torino, 1969-1998, vol. VIII, p. 407), strappare l’uomo della storia per rinchiuderlo in un presente “che si estende al breve periodo fra la nascita e la morte […]  genera un sentimento di accidentalità e insensatezza che ci impedisce di vivere la vita con quella ricchezza di significati che essa richiede per essere completamente vissuta. La vita si appiattisce e non rappresenta più compiutamente l’uomo.”