Post di Antonio Martino
La crisi
del sistema bancario italiano costituisce una delle principali evidenze del
sistema-euro applicato all’economia nazionale. Difatti, sulla gestione del
credito si sono viste succedere tutte le sfumature che colorano il triste
quadro degli ultimi trent’anni: fascinazione monetarista, obbedienza cieca e
assoluta ai diktat di Bruxelles, svendita del patrimonio pubblico per servire
il gretto capitale nazionale, incompetenza e malafede nella direzione degli
istituti, asservimento completo alle direttive europee fino all’assurdo del bail-in introdotto a rotta di collo per
benmeritare agli occhi dei padroni della colonia Italia.
In questa sede non si vuole analizzare il
problema economico- ormai acclarato e da altri e ben più competenti in materia sviscerato
nei dettagli-, bensì si cerca di evidenziare un’alternativa di struttura che
possa evitare a quello che fu uno dei pilastri della crescita italiana la fine
comatosa e la svendita assoluta.
1. Essere stati per essere
Una breve panoramica storica per inquadrare nella giusta prospettiva
l’analisi.
Il sistema bancario italiano, faticosamente
emerso durante la fase di sviluppo giolittiano all’alba del Novecento, si
ispirò per influenza di quel capitale al modello cd. Renano, cioè la banca
mista-universale: chiaro esempio, la Banca Commerciale Italiana nata a Milano
nel 1894 su iniziativa tedesca. Questo tipo di istituto aveva le seguenti
caratteristiche (da wikipedia):
· Autorizzato ad operare sia nel breve
(esercizio del credito) che nel medio-lungo periodo (attività finanziarie e di
investimento);
· Autorizzato a svolgere attività in due modi:
mediante servizio del credito e mediante concessione di quote partecipative
nelle imprese.
Ci interessa evidenziare la commistione tra
capitale industriale- sempre caratterizzato in Italia da asfissia di liquidità
azionaria- e quello bancario, creato per l’appunto allo scopo di garantire
flussi di cassa e immobilizzi alla grande industria nascente.
Nel dettaglio, “Lo statuto di una banca mista prevedeva che tale istituto potesse
compiere operazioni di diversa durata temporale;
ciò significa che esse potevano quindi raccogliere depositi, che erano
operazioni a breve in quanto i risparmi erano ritirabili in qualsiasi momento,
ed indirizzare tali depositi ad attività di credito industriale, operazione di
lungo termine che prevedeva durate di dieci o più anni per i rendimenti.”
Questo scarto tra operazioni a breve
(risparmiatori) e immobilizzi (credito industriale) presentava evidenti
criticità. In base al ciclo economico, infatti, la difficoltà di rientro delle
imprese avrebbe creato notevoli difficoltà alle esigenze di liquidità dei
depositanti. A ciò si aggiunga il cruciale problema del controllo incrociato:
maggiore era la esposizione dell’istituto nell’azienda, più grande diveniva la
commistione tra banca e industria, fino a non distinguere più creditore e
debitore in un gioco perverso di scatole cinesi e scalate di borsa. E’ il caso
dell’Ansaldo dei fratelli Perrone; indebitati con la Banca italiana di sconto,
forti dell’immenso potere dell’azienda durante la Grande guerra, essi avevano
ottenuto il controllo della loro creditrice senza colpo ferire (la vigilanza
bancaria, allora come oggi, era del tutto inefficace…e inefficiente). Colpiti
dalla crisi di riconversione postbellica, il gruppo tentò di ottenere ancora
capitali dalla Comit con un tentativo di scalata azionaria non riuscito. Il
risultato fu il fallimento dell’Ansaldo e il crollo della Bis: le
partecipazioni industriali furono trasferite al Consorzio per la Sovvenzione
sui valori industriali, antenato dell’IRI. Per i risparmiatori il rimborso
medio fu tra il 65 e il 75% grazie all’intervento di una cordata di istituti
pubblici.
Il caso Perrone è soltanto un esempio tra i
tanti di quel periodo. I confini tra capitale industriale e finanziario erano
rotti: le partecipazioni di comit, credito italiano e banco di Roma al sistema
produttivo italiano assommavano al 1930 a 12 miliardi in
bilancio per circa 14 miliardi di raccolta. I nodi della banca mista vengono al
pettine: la crisi di Wall Street e la grande depressione mandano
sostanzialmente in bancarotta tutte le future b.i.n.
Il governo fascista affida la risoluzione del
problema a un gruppo di tecnici raccolti attorno alla figura di Alberto
Beneduce, tra i quali ruolo decisivo avrà Donato Menichella. Questa “covata”,
si badi bene, lascia del tutto fuori dal progetto di riforma Banca d’Italia e
la sua burocrazia, con il pieno avallo di Mussolini e del Ministro delle
finanze Jung. Con tre distinte convenzioni la triade comit-credit-banco di roma
cedono allo stato il capitale azionario e relative partecipazioni industriali:
in sostanza, pur rimanendo società di diritto privato esse vengono “irizzate” e
sottoposte al controllo dello stato.
Il risultato normativo è il R.D.L. 12 marzo
1936, n. 375. “Disposizioni per la difesa del risparmio e per la disciplina
della funzione creditizia.”, basato su un lungo lavoro di preparazione che ci
permette di cogliere appieno la mutata finalità della banca nell’economia italiana.
Citiamo per evidenziare il cambio di passo una relazione interna all’IRI:
“…quello
che è certo è che nel credito troviamo l’unico strumento veramente efficace col
quale sia possibile regolare e dirigere, secondo i bisogni della Nazione, lo
sviluppo della sua economia. Il credito
è quindi funzione dello Stato: si
tratta di ripartire la utilizzazione di una ricchezza che perde il suo carattere privatistico, in quanto
è la
raccolta di una enorme massa di cittadini a favore di determinate categorie di
attività economica: nessun diritto individuale può giustificare in questo
campo la assoluta libertà.”
Il punto dirimente viene affrontato subito
dopo: “Funzione preminente dello Stato è oggi dirigere e
indirizzare lo sviluppo economico del Paese (…) i capitali monetari non
applicati direttamente al lavoro e non sottoposti al rischio produttivo
devono rendere meno. Ne conseguirà una spinta all’applicazione diretta alle
produzioni, ossia una espansione dell’attività di lavoro.” (da La legge
bancaria. A cura di Mario Porzio, Il Mulino 1981, pag. 321).
Pur essendo all’apogeo del regime fascista,
il trait d’union con la concezione pubblicistica del credito e del risparmio
espressa in Costituzione è evidente, così come cruciale risulta l’affermazione
circa la eutanasia della rendita a mezzo diminuzione del tasso di interesse.
Con questo passaggio l’Italia si dota di un sistema creditizio in grandissima
parte pubblico, incardinato come segue:
-
banche d’interesse nazionale (Comit, Credit,
Banco di Roma): società per azioni,
detenute dall’IRI;
-
istituto
di credito di diritto pubblico (banco di Napoli, di Sicilia, di Sardegna, Monte
dei Paschi, San Paolo, BNL): controllati
direttamente dal Tesoro;
-
casse di risparmio: controllate dal Tesoro;
-
aziende di credito: possono essere private, come la Banca Nazionale dell’Agricoltura;
A queste si accompagnano le banche popolari e
i monti di pegno, gli “istituti Beneduce” (Crediop, ICIPU), il risparmio
postale gestito da Cdp. Sugli istituti di credito a medio termine (il più
importante sarà Mediobanca, seguito dal Medio credito centrale e altri) non ci
dilunghiamo in questa sede.
E’ importante in questa fase ricordare come
la l.b. prevedesse un organo di controllo, Ispettorato
per la Difesa del Risparmio e per
l'Esercizio del Credito, dotato di importanti poteri coattivi, prontamente
cassato nel 1944 sotto la spinta di
Banca d’Italia, gelosa delle sue prerogative in merito. L’istituto di
emissione, sulla scorta della riforma in oggetto, vede la sua natura
trasformarsi in istituto di diritto pubblico cui capitale sociale è partecipato
a vario titolo da banche (pubbliche) e casse di risparmio. In questa fase,
sulla scia della guerra d’Etiopia e la fine del gold standard, la possibilità
di finanziamento del Tesoro presso l’istituto di emissione è praticamente
illimitata: sarà il sempre pronto Einaudi nel 1947 a far reintrodurre il limite
dello scoperto in conto corrente, fedele al suo terrore del torchio gemente.
I vantaggi di avere la piena disponibilità del sistema creditizio per
uno Stato che vuole intervenire
nell’attività economica sono innegabili. Si
può infatti obbligare il sistema ad assorbire una quota voluta di titoli di
debito pubblico al tasso politico deciso
dal Governo; si può determinare la riserva obbligatoria per manovrare la
liquidità monetaria; si possono indirizzare i capitali su settori strategici;
si gestisce direttamente il mercato valutario.
In questo senso, tutta la Prima Repubblica è
dominata dalla banca pubblica. Il capitale finanziario è sottoposto a una forte
repressione, essendo il mercato borsistico quasi inesistente, mentre il
risparmio popolare è intercettato in larga parte dall’amministrazione postale e
dalle casse di risparmio. Volente o nolente, il miglior impiego della rendita
diviene l’attività produttiva, con i riflessi positivi del caso e confermando
quanto voluto in sede di riforma da Menichella e soci.
Il “mercato” bancario è fortemente
regolamentato. La cd. “foresta pietrificata” vede una regolazione minuziosa
circa l’apertura di nuovi sportelli, la fusione e la costituzione di nuovi
istituti, la gestione delle masse monetarie. La banca diventa un servizio
pubblico di alto livello: si hanno clienti,
non consumatori. Gli istituti non ragionano in termini di profitto o di
creazione di valore, perché non hanno investitori da remunerare o dividendi da
distribuire: la partecipazione estera al sistema bancario è pressoché
irrilevante. Come sempre, è la leva europea a scardinare uno degli ordinamenti
più efficienti del Mondo: i fallimenti bancari nel periodo 1945-1990 possono
grosso modo ricondursi ai casi Sindona e Calvi, ambiti straordinari e assai
oscuri. Mettere i soldi in banca diviene
un sinonimo di sicurezza e di fiducia nell’Italia del risparmio e della
crescita.
Naturalmente, doveva venire l’Europa a scardinare tutto.
3. Voglio essere Gordon Gekko
La prima direttiva CEE è del 1977 (77/780/CEE
del Consiglio, del 12 dicembre 1977), in cui si introducono concetti del tutto
alieni alla realtà italiana. Si inizia a parlare di banca come impresa (art. 1), di concorrenza e
produttività, di aumento dell’offerta dei servizi. Non a caso, la direttiva
viene recepita in Italia solo nel 1985 (D.P.R. 27 giugno 1985, n. 350), in un
contesto politico ed economico assai mutato. Si confronti a titolo d’esempio
l’articolo d’apertura del decreto citato:
“L'attivita'
di raccolta del risparmio fra il pubblico sotto ogni forma e di esercizio del
credito ha carattere d'impresa, indipendentemente dalla natura pubblica o
privata degli enti che la esercitano.”
Con quello della legge bancaria:
“La raccolta del risparmio fra il pubblico sotto ogni forma e
l'esercizio del credito sono funzioni di interesse pubblico regolate dalle
norme della presente legge.”
Da qui in poi il combinato disposto tra
ingerenza comunitaria, insipienza della classe politica nazionale, crisi della
Prima Repubblica, caos monetario del 1992, apriranno la strada al disastroso
processo di privatizzazione.
Nel dettaglio, la convergenza prevista dalla
seconda direttiva (89/646/CEE del Consiglio, del 15 dicembre 1989) e dagli
accordi di Basilea (BASILEA I) impone la trasformazione degli istituti di
credito di diritto pubblico in società per azioni: è la famigerata legge Amato
(L. 218/1990). La trasformazione in spa produce una serie di sconquassi inevitabili,
tra cui la sottocapitalizzazione dei banchi meridionali, la difficoltà
debitoria di gran parte degli stessi (venuta a mancare la garanzia di stato);
il difficile percorso di trasformazione vedrà la scomparsa di istituti di
credito secolari e ben localizzati nel territorio (banco di
Sicilia, banco di Napoli), la progressiva dispersione di esperienze peculiari
sula via del capitale estero (BNL), la fine ingloriosa (MPS). Le casse di
risparmio finiranno inglobate in processi di fusione tendenti a distruggere la
radicazione territoriale e il legame fondante con le realtà di riferimento: su
tutti, domineranno le fondazioni bancarie, creazioni incomplete e oggetto di
numerose controversie.
La tabula rasa diviene completa con la
dismissione del patrimonio IRI e la privatizzazione delle tre b.i.n., tra il
1994 e il 1995, a quotazioni largamente inferiori al valore di mercato.
Ricordiamo che in Germania non fu affatto necessario privarsi del sistema
creditizio pubblico per entrare nell’euro, così come il processo di
concentrazione delle banche francesi non ha visto intromissioni estere.
La grande ipocrisia del liberismo ha così
permesso la distruzione del patrimonio bancario pubblico in nome di una
concorrenza mai vista, considerato il grado di concentrazione oligopolistica
del mercato italiano, retto da due colossi, e impoveritosi in maniera
impressionante di presenza nel territorio a favore di una progressiva e
inarrestabile “commercializzazione” dell’attività: dalla banca di diritto
pubblico alla banca-assicurazione il passo è stato breve e brutale.
Inutile poi ribadire le conseguenze dell’euro
e della crisi del 2008 su un sistema oramai basato su spa private più attente
all’estrazione del valore che al servizio alla clientela. In cinque anni sono
falliti più istituti che nei cinquant’anni precedenti: basta (e avanza) per
capire la traiettoria.
4. Stato banchiere o
banchieri-stato
La carrellata storica, incompleta e parziale,
serviva a mostrare come in un passato non troppo lontano è esistita
un’alternativa pubblica- efficace ed efficiente- che ha tutelato meglio e più a
lungo il risparmio e i risparmiatori. I fatti degli ultimi anni evidenziano
come il potere delle banche- capitale finanziario- è tale in un’economia
liberale che per forza di cose influenza l’andamento del governo e
dell’economia ben più a fondo dei partiti e delle istituzioni democratiche. La
questione, in sostanza, è tra stato banchiere e banchieri-stato, cioè tra il
controllo pubblico del credito e dominio privato dei banksters sulla repubblica.
Basta infatti un ordine di vendita allo scoperto di n-btp per
sconvolgere la vita pubblica rebus sic stantibus,
e tanto meno non appare possibile attuare un ritorno alla sovranità monetaria
(se ancora interessa a qualcuno, beninteso) nel quadro di un sistema bancario
troppo esposto alle influenze estere e alla volubilità di borsa. A ciò si
aggiunga che la moria di istituti non potrà che aumentare stante l’€- assetto basato su direttive sempre più capestro, deflazione
strutturale e npl svenduti e svalutati. E che dire poi delle conseguenze della
digitalizzazione e delle fintech in regime di laissez-faire?
Dell’intromissione brutale delle banche nel mercato delle
assicurazioni sanitarie e previdenziali, con innegabili ingerenze sulle deficienze-
indotte- del sistema sanitario nazionale e del sistema pensionistico pubblico?
In uno scenario così vasto, la separazione del Glass-Steagall Act non basta,
poiché è oggi dirimente operare sulla proprietà (pubblica o privata) e non
tanto sull’attività in sé. La specializzazione risulta infatti una condizione necessaria ma di per sé non certo
sufficiente.
Pertanto il ritorno al controllo pubblico del
credito è un’esigenza profonda, oggettiva, irreversibile se si vuole davvero
ripristinare un minimo di legalità costituzionale in Italia. Per dirla con
Lenin,
“Per
combattere seriamente il dissesto finanziario e l'inevitabile bancarotta, non
v'è altro mezzo che quello di rompere
in modo rivoluzionario con gli interessi
del capitale e di organizzare un controllo veramente democratico, cioè «dal basso», il controllo degli
operai e dei contadini poveri sui capitalisti (…) Le banche, come è noto, sono
i centri della vita economica moderna, i principali gangli nervosi di tutto il
sistema capitalistico dell’economia nazionale. Parlare della “regolamentazione
della vita economica” ed eludere il
problema della nazionalizzazione delle banche significa o dar prova della più crassa
ignoranza, o ingannare “il popolino” con parole pompose e promesse
magniloquenti che si è deciso in anticipo di non mantenere».”
La nazionalizzazione come atto, in
conclusione, sarebbe soltanto la premessa della socializzazione di fatto della
vita economica attraverso la partecipazione cosciente dal basso delle classi
lavoratrici nel processo principe dell’attività capitalistica, cioè la gestione
del potere del capitale attraverso la leva del credito e del debito. Nel quadro
di una democrazia sociale pluriclasse, informata al fine dell’eguaglianza
sostanziale, l’esistenza del grande capitale finanziario in forma di grande gruppo bancario privato non può esistere. In
soldoni, slegare dalla logica del profitto la banca socializzata
significherebbe togliere alla classe dominante uno strumento di potere
formidabile, dall’altro dotare le classi del Lavoro di un meccanismo
determinante per impostare una politica economica tesa alla realizzazione della
giustizia sociale e del progresso civile e morale.