1. Pubblicare i post di Bazaar è sempre un piacere. Ma, a mio parere, le sue vette le raggiunge (sempre più, segnando una crescita della ricerca molto positiva) nei commenti: cioè quando esprime con immediatezza il suo pensiero brillantemente sintetico e capace di spaziare nella interdisciplinarità (carattere della conoscenza che su questo blog, tentiamo di fornire).
Mi pare perciò molto utile riportare, ai consueti fini di miglior preservazione, i due principali commenti da lui prodotti in margine al precedente post.
Li modificherò leggermente, per separarne il senso pregnante dall'occasione "dialettica" che ha dato spunto al secondo di essi, ("occasio" che non risulta essenziale alla comprensione). Semmai integrerò in premessa alcuni passaggi per raccordarli con concetti che, nel complesso del blog, sono stati già esposti.
2. Parlando dell'ostacolo concreto alla reintroduzione della monetizzazione dell'indebitamento del settore pubblico, - idea che, comunque prospettata, risulta preannunziare una svolta epocale comparabile a quella, di opposto senso socio-economico, del monetarismo e della banche centrali indipendenti- avevamo detto che questo stava nel dover ammettere di essersi sbagliati.
La questione non è ovviamente da poco: alla fine degli anni '70, coloro che imposero, in tutto l'Occidente (democratico) il mutamento di paradigma delle politiche economiche e fiscali, non ammisero di essersi sbagliati, ma accusarono di errore, irreversibile e insanabile, chi aveva, sia pure con incertezze e ambiguità, adottato il modello politico-economico keynesiano.
3. Si poté riaffermare così che l'inflazione è il "male unico", la disoccupazione uno stato transitorio, prevalentemente determinato da soggettive frizioni volontarie contrarie all'adeguamento riequilibratore (del livello salariale), le crisi sono solo delle fasi di opportuna riconduzione, alla razionalità naturale del mercato, di situazioni socialmente "perturbate" (un sano aggiustamento), la moneta e il deficit pubblico sono neutrali, sicché, il pareggio di bilancio e la privatizzazione bancaria della moneta, costituiscono i perni del naturale equilibrio allocativo cui deve tendere la società (meglio se governata a livello mondiale, e con una moneta privata totalmente denazionalizzata).
Insomma, si trattò allora di un avvicendamento, talora graduale, talora brutale, di classi dirigenti formalmente decidenti (da quelle della politica nazionale delle democrazie sovrane a quella impersonale espressa a livello sovranazionale dai "mercati"): alcuni di coloro che seguivano il precedente paradigma, poterono rimanere nella classe dirigente solo a condizione di cambiare radicalmente la propria opinione, e facendolo entro un tempo ragionevole (oltre il quale non gli sarebbe più risultato utile a fini autoconservativi).
Abbiamo avuto dunque la rivoluzione, deflazionista e post-fordista (nel senso proprio di concezione del valore e del potere d'acquisto del "lavoro"), del tecnicismo-pop.
4. Oggi, invece, la ricalibratura del paradigma, finora accennata, ma che rischia di divenire un processo tumultuoso - dovendo prevenire un crack finanziario ed economico mondiale incontrollabile, per il ripresentarsi di "secular stagnation" e di debt-deflation senza rimedi istituzionali efficaci a disposizione-, proviene dagli stessi che devono ammettere l'errore; e non solo, ma che, proprio grazie a ciò, pretendono di mantenere la propria qualità di decidenti formali, cioè di titolari di istituzioni di governo che tendono naturalmente a preservare se stesse, e cercano così di continuare a riflettere la classe decidente sostanziale per conto della quale hanno finora agito.
Quindi: il potere, formale-istituzionale, appare intraprendere una correzione a fini di conservazione della classe dirigente sostanziale.
Normalmente, nella Storia, operazioni di questo tipo non riescono.
Per ragioni molto pratiche e radicate nella natura umana (almeno da qualche millennio...): la permanenza al potere, (specialmente quello sostanziale, non esposto cioè alla visibilità e agli strali della democrazia elettorale, ancorché idraulica), porta di per sé a mal tollerare i compromessi e tende a far ritenere "eccezionale", in base a una stima di costi/benefici comunque a proprio vantaggio, ogni concessione.
Il potere, in altri termini, difficilmente si autoriforma, ma accetta solo compromessi transitori e dettati dal criterio della stretta utilità alla propria stabilizzazione (rammentiamo, ove ce ne fosse bisogno, quanto è scritto nella homepage sotto il titolo del blog).
5. Ed è questo, a ben vedere, lo sviluppo che chiarisce Bazaar nei commenti che riportiamo. Come e perché, dunque, non ci sia da essere ottimisti sulla prospettiva di un ragionevole e indolore correzione politica, economica e culturale:
"L'ostacolo «psicologico e culturale» è peggiore di quello che può sembrare.
Dietro alla legge di Say e all'offertismo si cela una forma di sociopatia che trascende gli interessi materiali della classe redditiera e finanziaria: si nasconde quel mostro mentale e psichiatrico da cui è stato abortito il razzismo. Il classismo.
Il classista, ovvero il liberista, giustifica ogni sua infantile incontinenza come espressione di libertà nei confronti della massa parassitaria.
Sì, "parassitaria", visto che gli esseri inferiori che formano le classi subalterne vivono grazie alla magnanimità dei dominanti, che han concesso loro l'ingiusto privilegio di non vivere come bestie tramite la progressività delle imposte e tramite lo Stato sociale.
E qui entra in gioco la teoria del valore.
Se il valore fosse prodotto dai proprietari, dai padroni, da chi controlla il capitale - tali perché axiologicamente "superiori", "migliori" - allora la legge di Say non può non essere valida: la volontà di produrre - oltre che distruggere! - valore deve spettare a questa classe, senza il minus habens che deve lavorare per vivere.
Gli esseri inferiori vivono grazie all'elemosina del padrone, fintanto che non si riproducano troppo e non sporchino: altrimenti è necessario - come per tutte le bestie - abbatterli.
Se è invece la domanda a fare l'offerta - e la domanda dipende dal livello dei salari - allora è il lavoro a creare valore. Lo stesso imprenditore lo crea in quanto lavoratore.
Ma, se fosse così - ossia la legge di Say, come il monetarismo, non è valida - allora parassite sono le classi dominanti.
È un bel dilemma: queste, proprietarie dei mezzi di produzione e di repressione - dopo aver distrutto completamente la massima forma di umanità quale è l'Arte - pensano di sostituire il lavoro umano con quelle delle macchine, più o meno consapevoli che, quando il lavoratore salariato sarà sostituito completamente da robot - le macchine potranno fare anche a meno dei padroni.
Ma staranno sicuramente già pensando come ibridarsi con la nuova tecnologica classe dominante....
Il problema del conflitto distributivo nella post-modernità è soprattutto un problema psichiatrico."
6. La teoria del valore si pone, lo ricordiamo, il problema, sempre presente in ogni fase storica della società organizzata, di come remunerare le varie categorie di partecipanti al processo produttivo (inevitabile data la compresente "materialità" della natura umana), cercando di individuare, (secondo visioni storicamente mutevoli), i criteri di ripartizione e attribuzione della quota di valore che ciascuna categoria aggiungerebbe.
Naturalmente, poiché nella società capitalista la creazione di valore scaturisce da processi di produzione sempre più "potenti" e sempre più velocemente e diversificatamente trasformativi, rimane sempre impalpabile il quantificare il valore da attribuire al ruolo creativo, all'ideazione trasformativa del "reale" (materiale), cioè all'attività di primo impulso (l'investimento e l'organizzazione della produzione) affidata a quella elusiva figura che è "l'imprenditore"; sempre più spesso, non più coincidente con il proprietario dell'impresa (cioè dei mezzi della produzione).
Ma questo non sarebbe un problema normativamente (cioè per l'ordinata convivenza sociale) insormontabile, se si volesse accedere all'idea che quello che sappiamo con certezza è che una volta fissata la regola di ripartizione, cioè riconosciuta stabilmente l'esistenza della quota del lavoro, questo sia legato alla dignità e al benessere dell'essere umano come valore supremo (interno alla stessa fissazione della regola). Ed è ciò che, nell'attuale esperienza storica, tentavano di stabilire le Costituzioni democratiche (intrinsecamente pluriclasse, perché ogni classe di esseri umani è considerata in ragione del valore del proprio apporto di lavoro).
Perciò, anche la figura del "proprietario" e "dell'ideatore della produzione", rientrano in tale categoria: cioè gli esseri umani, assumono ciascuno un ruolo attivo e coordinato (ad un livello necessariamente superiore alla singola unità produttiva), che consiste in un apporto di lavoro conforme alle proprie specifiche capacità; queste possono essere riconosciute anche come molto elevate, ma non possono mai condurre a disconoscere il valore dell'altrui apporto, e quindi del' altrui ricomprensione nella stessa categoria di "esseri umani".
Tutti sono comunque socialmente impegnati nella comune esperienza della vita terrena (che a livello di ogni individuo ha un termine e impone di confrontarsi con questa realtà, parificatrice di ogni possibile esistenza).
7. Questo ordine di pensieri, che consente di regolare la società, preservare il senso comune di umanità, e riservare il meglio (qualitativo) delle proprie forze alla comprensione dell'esperienza esistenziale, è palesemente legato alla metafisica: ma non nel senso che postula necessariamente una divinità intenzionale, e precisamente individuabile (al punto di poterci entrare metodologicamente in rapporto), che sia ordinatrice del mondo e della Vita, quanto nel senso che la fenomenologia della vita stessa è ricerca (o anche "testimonianza") di significato trascendente l'esperienza sensoriale diretta; ogni essere umano, invariabilmente è portatore (o "origine") di un "pensiero" che si concretizza in una descrizione sintattico-verbale della realtà che facciamo incessantemente a noi stessi (provate a fermare il flusso del pensiero che ci racconta di ciò che stiamo vivendo, ben al di là ci cosa stiamo sensorialmente percependo...).
La nostra esperienza esistenziale, come esseri umani, è così connotata proprio dalla compresenza di una personale "intenzionalità", ben più vasta dell'accumulo di dati sensoriali, (e persino di memorie emotive: ma non voglio estendere il discorso), che ci rinvia a realtà "astratte", come principale oggetto della rappresentazione del mondo e del tempo (non abbiamo mai direttamente visto il centro della Galassia-Via Lattea, e neppure Kuala Lumpur, e neppure la Casa Bianca, per sapere che esistono e che, date certe condizioni, la loro esistenza influenza la nostra, in modi che, tra l'altro, non sono anticipatamente prevedibili dal punto di vista personale: senza questo agire dell'intenzionalità, neppure le scienze naturali sarebbero state estendibili oltre un mero livello classificatorio e descrittivo empirico, e saremmo fermi a tassonomie che priverebbero l'intuizione del suo ruolo sintetico di propulsione cognitiva).
8. Dunque, la metafisica, o altrimenti detto, (a mio parere), la fenomenologia intenzionale dell'esistenza, sono coessenziali a qualsiasi autodefinizione di sè, per qualunque essere umano: cioè coessenziali a quella consapevolezza in cui consiste la stessa percezione di esistere (che non potrà mai essere limitata dalla mera percezione dei soli dati sensibili).
La percezione, dunque, è attività di interpretazione (ermeneutica) che, grazie alla intenzionalità (rappresentativa) trascendente i più ristretti dati sensoriali, ci consente di (tentare di) comprendere l'esistenza come fenomenologia complessa, sociale ma, ove non si fosse privati del proprio benessere essenziale, anche astratta, cioè rapportata al senso del tempo come modalità dell'Infinito.
In questo ordine di idee, è illuminante il secondo commento di Bazaar che, in fondo, ci dice perché non possiamo non dirci keynesiani, (ove ci ponessimo a definire, come punto di partenza del processo cognitivo, i fenomeni sociali ed economici).
Senza una metafisica, cioè senza l'intenzionalità astratta che consente di definire il senso condiviso dell'esistenza, comune a noi tutti esseri umani, l'individualismo metodologico e la negazione della fenomenologia del "sociale", ci priverebbero di ogni possibile "allineamento" utile, ma, prima ancora, "significativo", tra individui della stessa specie: non parleremmo di nulla che fosse effettivamente comunicabile a parole (venendo a mancare ogni ragione di comunicazione intersoggettiva non strumentale) e il linguaggio sarebbe una finzione che dissimula l'attesa opportunistica dell'aggressione allo scopo di sottomettere qualsiasi "oggetto"(anche un essere umano) che risulti al momento "utile" (ma, per definizione, in senso individualistico e "disallineato" da qualsiasi altro essere umano).
Certo, contraddicendoci, esprimeremmo questa visione a parole, ma ogni regola sociale, ogni affermazione verbale, sarebbe solo autoriferita e soggetta alla selvaggia tensione all'affermazione del nostro immediato e concreto responso sensoriale.
Nulla potrebbe de-legittimare la cieca aggressività dell'uomo sull'uomo e ogni individuo sarebbe autorizzato alla illimitata affermazione di sé fino al solo limite del rapporto di forza (necessariamente soggetto all'equilibrio del tempo: anche i più forti invecchiano). La società ne verrebbe distrutta, e infatti ne viene distrutta, e il senso dell'esistenza sarebbe ridotto a una serie brutale di reazioni automatiche alle spinte istintive e sensoriali, salvo pentirsene non appena si diviene inevitabilmente troppo deboli per affermare le proprie ragioni con la forza:
"...a differenza della vulgata empirista e positivista, il pensiero umano in quanto tale implica una metafisica.
La Domanda e l'Offerta sono due concetti metafisici che hanno una propria fenomenologia e di cui è possibile rilevare empiricamente le manifestazioni ontiche.
I concetti "singolare" e "plurale" sono concetti metafisici.
Il liberista, come da tradizione anglosassone ed empirista, nega la metafisica per imporre l'individualismo metodologico, in modo da negare l'esistenza del concetto di società, che - altrimenti - avrebbe un insieme di proprietà che non corrispondono alla somma di quelle dei singoli individui.
Questo è il motivo per cui i neoclassici cercano in tutti i modi di "microfondare" l'economia.
E questo è il motivo per cui di fatto Keynes si distacca dal liberalismo per proporre una forma di socialismo solo apparentemente non anti-caiptalista, come notava Röpke, a proposito di fantomatiche "terze vie" ed economie "miste".
La "fallacia di composizione" è la morte tanto dell'economia di Marshall quanto della filosofia di Smith e Paley, nel momento in cui esiste una scienza che descrive la fenomenologia di un oggetto metafisico come la società non come somma di singole individualità razionali: la macroeconomia.
Questa è basilare teoria dei sistemi complessi.
Ora: la polemica...come al solito, nasce dalla mancata comprensione della doppia natura delle nostre disavventure.
Da una parte esiste una crassa ignoranza nelle materie economiche, risolvibile teoricamente con la divulgazione scientifica, dall'altra esiste un gigantesco problema di carattere culturale ed ideologico (che lei si ostina a chiamare "antropologico").
In questo relativismo nichilista, grufolano i porci della grande finanza e la schiera di leccaculo in conflitto di interessi per definizione, quindi, in malafede.
Basta insegnare la macroeconomia e Keynes?No.
Perché esiste a priori un gravissimo problema ideologico e culturale di carattere totalitaristico, tanto a "destra" quanto a "sinistra" della falsa dialettica politica.
Questo è parte del lavoro che si prova a fare segnatamente in questi spazi (e, anche se in modo più velato, su Goofynomics)".