(Nota preliminare: questo post sarà "lungo e doloroso", ma, se vi va, almeno avrete saputo fino in fondo cosa e come pensano "ufficialmente" nonchè come si formano le distorsioni dell'informazione PUD€.
Mettetevi comodi e indugiate pure leggendo, o "rileggendo", i vari links)
1. Il 25 luglio si avvicina ma l'Italia non riesce, proprio come in quella circostanza, a esprimere nulla che non sia una miope incomprensione delle cause che l'hanno portata all'attuale disastro.
Il quadro davanti a noi è sconfortante e c'è solo da scegliere sulle voci che testimoniano la più totale incomprensione delle radici della congiuntura; se dovessimo inseguirle tutte nel loro complesso, allo sconforto si aggiungerebbe un'opera di raccolta di "prove a carico" che francamente dovrebbe essere lasciata ad altre sedi. Ci limitiamo a tratteggiare un percorso esemplificativo ma non meno eloquente.
La crisi italiana è una crisi da domanda, innescata da un vincolo monetario che tra tassi di cambio reale e dottrina della banca centrale indipendente, ha cumulato i suoi effetti per anni, portando alla attuale incapacità italiana di reggere qualsiasi crisi esterna tra quelle che un mondo, complessivamente in mano al capitalismo finanziario, avrebbe inevitabilmente prodotto. Coinvolge tutta l'UEM, e con essa il mondo, perchè l'Italia non è il paesello che il PUD€ ci propina a reti unificate, terrorizzandoci con la storiella della "liretta" e altre oscene inesattezze.
Dobbiamo ancora dimostrare che è una crisi da domanda, che deriva dall'applicazione delle teorie monetariste e neo-classiche che sulla repressione della domanda, in termini di deflazione salariale e di banca centrale volta esclusivamente al controllo della stabilità dei prezzi, impera incontrastata (ormai solo) in Europa?
Fate voi, a me parrebbe persino eccessivo ritornarci sopra.
Abbiamo più volte analizzato come della domanda aggregata non solo la spesa pubblica sia una componente fondamentale, ma addirittura "centrale", per la sua capacità, unica, di attivare il moltiplicatore in funzione anti-ciclica. Molto più dei pretesi sgravi tributari che ci riportano..ad Haveelmo.
Ma sgolarci su questi elementari principi macroeconomici non servirà a molto se non si individuano le responsabilità di chi ha sbagliato marchianamente a non tenerne conto, e non li si estromette dalla gestione della politica economica e fiscale del Paese. Avendo tra l'altro, violato la Costituzione e l'obbligo di tutelarne i principi operativi che avevano assunto nell'assumere incarichi istituzionali di governo.
Ma tutto questo, in uno "stato di alterazione" che ha ormai del paradossale, continua a sfuggire ai protagonisti della vita politica e mediatica italiana.
2. Partiamo da questo articolo della Stampa. Dove, in variegata (nelle sue possibili motivazioni ufficiali) ottica 25 luglio, ci si interroga. "E l'intero stato maggiore berlusconiano manifesta sorpresa che un fior di tecnico come Saccomanni non sia ancora riuscito a raschiare dal fondo del barile le coperture necessarie per scongiurare l'aumento Iva (2 miliardi nel 2013, 4 miliardi a regime). Quasi una briciola, protestano scandalizzati, a fronte di una spesa pubblica monstre: possibile che non se ne venga a capo?" Aggiungendo "«Saccomanni prenda personalmente in mano le leve», lo incalzano nel Pdl, «e soprattutto punti con decisione i piedi in Europa».
Dove il cerbero occhiuto da combattere, quello che ci vieta di sforare i conti o anche solo di provarci, viene additato nel direttore generale degli Affari Economici e Finanziari della Commissione europea, l'uomo che materialmente stila le raccomandazioni ai vari Paesi, dà o leva le patenti di affidabilità finanziaria. Germanico come Frau Merkel? Niente affatto.
È Marco Buti, italianissimo. Ma, se possibile, ancora più inflessibile di un tedesco. Gli viene rimproverato da destra (e anche un po' da sinistra) di essere troppo «europeo», insomma di non muovere un dito per la Patria in pericolo, diversamente dai super-funzionari francofoni e anglofoni.
Anzi, nel timore di non apparire equanime, di trattarci con una severità che sconfinerebbe nel sadismo... Per cui Saccomanni, sempre nella visione barricadera del Pdl, dovrebbe affrettarsi a mettere in riga Buti e tutti quelli che un profetico Giorgio Gaber, nel '73, già bollava come «i tecnocrati italiani».
3. Parrebbe scontato che si debba approfondire la figura di questo Buti. Ma in realtà, dando per acquisito che il "più Europa" e l'eurotecnocrazia non possono che agire in un modo, per evidenti limiti culturali e esigenze di autodifesa irreversibili, non entreremo, per ora, salvo qualche divertente precisazione in un altro post, nel bunker dell'euro-follia.
L'idea che invece è fonte di una incomprensione profonda del quadro cognitivo scientifico, e quindi l'ostacolo pratico politico-culturale di maggior rilievo, è riassunta in questo passaggio: "Quasi una briciola, protestano scandalizzati, a fronte di una spesa pubblica monstre".
Dal fronte "non piddino" del PUD€ questa idea approssimativa è reiterata ossessivamente di questi tempi.
E' l'idea, da noi più volte denunciata come inesatta, che si possa rilanciare la crescita finanziando sgravi fiscali attraverso il taglio della spesa pubblica. E Saccomani, ennesimo paradosso, mostrandosi cauto sul punto, finisce per essere, per ora beninteso, in una posizione più attendibile e razionale di quella sostenuta da coloro i quali non hanno proprio capito, con questi ennesimi accanimenti anti-spesa, la realtà della situazione e, più che altro, il bene dell'Italia.
4. Di questo diffuso e imprudente atteggiamento abbiamo testimonianza in questo altro articolo, dove tra le altre cose si afferma, rifacendosi a un noto studio di Giarda, abbondantemente qui citato, che dei 600 miliardi di spesa pubblica, il 45,3% è costituito dai costi di produzione dei servizi pubblici...
E qui già mi "casca l'asino" perchè lo studio, con grave inesattezza giuridica, e rifacendosi a criteri contabili che questi presupposti giuridici non possono nè ignorare nè scavalcare (esiste pur sempre il principio di riserva di legge e la distinzione sostanziale delle materie regolate dalla Costituzione), accomuna i servizi pubblici all'esercizio di pubbliche funzioni (pubblica sicurezza, istruzione, vigilanza sulla tutela del lavoro, potere repressivo fiscale, programmi e controlli sull'attività economica in funzione della dignità e della sicurezza umana, tutela ambientale, paesaggistica, archeologica), costituzionalmente obbligatorie e che, per di più - anche in uno Stato minimo di tipo hayekkiano- già in sè, sfuggono alla possibilità di comparazione con non ipotizzabili servizi "privati".
Si prosegue asserendo poi, sempre nell'articolo linkato, "l'Istat ha elaborato anche una stima: se la dinamica dei costi pubblici e privati fosse stata la stessa, lo Stato avrebbe risparmiato ben 73 miliardi di euro...Questo è il formaggio nel quale si annidano i topi grandi e piccoli". Ora questa è una solenne "imprecisione"...
Ovviamente mi attendo che, come spesso capita, esca fuori qualche "livoroso" che si aggira pieno di iperconvinzioni a origine mediatica, senza mai in interrogarsi come certe idee siano finite nella sua testolina, per dire "voi dite e cercate di dimostrare che non è vero che la spesa pubblica non è tagliabile in questa misura, (premessa in genere implicita), ma (frase fatidica) non sono d'accordo...".
Ecco, quello che segue non è scritto per codesti soggetti: anzi vi annuncio che i "non sono d'accordo", che dopo aver letto un post si trincerano dietro il luogocomunismo presuntuoso e arrogante di chi crede che, a prescindere (da dati, leggi economiche la cui validazione è tragicamente sotto gli occhi di tutti, e, come vedremo, persino dalle stesse fonti utilizzate per accreditare il "luogo comune"), continuano a ignorare le effettive dinamiche della crisi italiana, saranno bannati...perchè non abbiamo più tempo da perdere e la situazione, putroppo, è troppo seria per stare dietro a loro.
5. Dunque Giarda.
Vediamo cosa ha veramente detto il suo studio sulla presunta possibilità di tagliare la spesa pubblica per "ben 73 miliardi", messi lì un pò genericamente senza riferimenti al periodo in cui ciò si è prodotto e senza attenzione alle parole utilizzate nello studio stesso:
"I tassi di crescita della spesa reale al netto degli interessi si presentano, nei sei decenni a partire dal 1951, su un trend fortemente decrescente. Il tasso di crescita medio di decennio è stato dell’8% negli anni Cinquanta e si gradatamente ridotto a poco più dell’1% all’anno negli ultimi venti anni.
La regolarità della correlazione tra crescita della spesa e crescita del PIL rilevata sui tassi di crescita decennali non ha immediato riscontro negli andamenti della crescita di breve periodo, anno su anno. Gli andamenti annuali nella crescita della spesa in termini reali sono influenzati da una serie di fattori, tra i quali i rinnovi dei contratti del pubblico impiego, il quadro economico internazionale, le calamità naturali, il ruolo della politica anti-ciclica e degli stabilizzatori automatici e, forse, anche i cicli elettorali Per una prima verifica sulla questione se la relazione tra crescita della spesa e crescita del reddito possa considerarsi una relazione stabile nel tempo, sono costruite le figure 2 e 3 che mettono in relazione il tasso di crescita medio triennale della spesa pubblica in termini reali con l’analogo tasso di crescita del reddito, separatamente per i due periodi dal 1954 al 1989 e dal 1990 al 2010.
Dall’ispezione delle due figure e da semplici indicatori statistici si rileva che nel primo periodo la relazione tra crescita della spesa e crescita del reddito è più precisa e più forte dell’analoga relazione per il secondo periodo. Nel primo periodo prevale un trend autonomo, non spiegato, di crescita della spesa pari al 3,14% all’anno che prescinde dall’andamento del reddito, mentre nel secondo periodo tale trend autonomo è pari solo all’1,16% all’anno."
6. In realtà ciò che viene descritto è che, proprio perchè c'è il moltiplicatore, il taglio dei volumi assoluti della spesa, registrato nella seconda fase (era post divorzio&Maastricht) determina una crescita minore del PIL: si entra nell'era degli avanzi primari e dell'output-gap, la crescita si indebolisce e diviene sempre più difficile che la sua percentuale in relazione al PIL sia decrescente nonostante i tagli, dato che, come per il debito, il denominatore del rapporto cala nella sua tendenza o cala in termini assoluti, cioè si ha recessione.
Ciò che è confermato, anche se Giarda tralascia del tutto questa analisi (e c'era da aspettarselo!), dai passaggi successivi:
"Inoltre, nel primo periodo è più forte il collegamento tra crescita del reddito e crescita della spesa rispetto al secondo: il coefficiente che lega le due variabili nel primo periodo indica che per ogni punto percentuale di crescita del reddito reale si ha una crescita della spesa pari allo 0,75%; nel secondo periodo tale risposta è pari solo allo 0,34%. In entrambi i periodi la spesa pubblica cresce più rapidamente del reddito, sia per la componente autonoma che per la componente di dipendenza funzionale.
L’evidente correlazione tra i tassi di crescita della spesa pubblica e del PIL, pone la grande questione se si possa definire un rapporto di causalità o di dipendenza funzionale del primo rispetto al secondo e se, e in che misura, l’andamento dei due tassi di crescita possa essere analizzato in congiunzione con i fatti e le idee che hanno caratterizzato la storia del nostro paese... I tentativi di definire i fattori che influenzano la crescita della spesa pubblica nel tempo – e quindi spiegarne le ragioni – non hanno mai avuto troppo successo. Le spiegazioni originarie – riconducibili alle proposizioni di un famoso economista della scuola storica tedesca del 19° secolo (A. Wagner, 1882) – fanno riferimento alla relazione spesa pubblica-reddito, argomentando le ragioni per le quali la spesa pubblica sarebbe destinata, per sua natura, a crescere più rapidamente del reddito prodotto.
Le ragioni per questo esito si ritrovano nelle due ipotesi di un’elasticità della domanda di beni pubblici superiore all’unità e di una crescente costosità relativa dei beni destinati a costituire i consumi collettivi rispetto ai beni di consumo privato.
Sul primo aspetto, si osserva che la spesa complessiva, variamente classificata nelle sue componenti, può dipendere dall’andamento di variabili economiche, demografiche e sociali (e quindi da variabili che coinvolgono la diminuzione della domanda stessa, vincolata sotto il profilo valutario e...della spesa pubblica, e conseguentemente aumento della disoccupazione-sottoccupazione, ma anche di invecchiamento della popolazione e introduzione di diversi standards ambientali, dovuta al congestionamento e alla pressione antropica-produttiva, ndr.) che possono presentare, in determinati periodi storici, dinamiche più accelerate della dinamica del reddito reale.
A ciò si aggiunga che la crescita della spesa è strettamente legata all’andamento del gettito: la struttura del sistema tributario può generare, per esempio via di progressività, una dinamica di gettito pure superiore alla crescita dell’economia. Un’elasticità della spesa pubblica rispetto al reddito superiore all’unità non è sempre necessariamente il risultato di preferenze orientate a favorire i consumi collettivi"
Ma guarda un pò! E dire che dopo parlano pure degli stabilizzatori automatici e della crescita della durata della vita, correlata al sistema pensionistico e alla "sanità"...a tutto detrimento dell'istruzione, ma non per un motivo ineluttabile, no certo, quanto per l'irrompere dei vincoli di bilancio, all'indebitamento e al debito complessivo, affidati alla efficiente solerzia dei mercati alla ricerca di rendimenti, niente meno!NDR.
"Sul secondo aspetto, sono note le proposizioni di W.Baumol (1965), che sottolineano il carattere peculiare dei processi di produzione pubblica, la loro forte dipendenza dal fattore lavoro e l’associato basso grado di progresso tecnico; in unione con politiche retributive nel pubblico impiego che legano le retribuzioni pubbliche all’andamento delle retribuzioni del settore privato, ne deriva un bias strutturale per costi di produzione nel settore pubblico che crescono strutturalmente più rapidamente dei costi di produzione dei beni privati..."
Qui si travalica in una affermazione un pò paradossale, dato che la presunta "innovazione tecnologica" e gli investimenti sull'organizzazione pubblica risultano piuttosto...azzerati - come viene ammesso in altra parte dello studio stesso-, e non esiste alcuna riprova empirica di quanto potesse essere ancora attuale la tesi di Baumol formulata in era pre-digitale e, certamente, senza considerare che uno Stao potesse per decenni bloccare le assunzioni di nuove professionalità necessarie!
7. "Nei tempi più recenti si è evidenziato il condizionamento della dinamica dei tassi d’interesse sulla spesa per interessi, legato all’accumularsi dei disavanzi nel tempo e alla separazione della sovranità monetaria dalla sovranità fiscale. Si è anche sottolineato il ruolo principale-agente, ovvero il peso che nelle decisioni politiche sulla spesa pubblica è venuta ad assumere la lettura che gli organi politici danno delle preferenze dei loro elettori. Si aggiunga infine il peso crescente che gli obiettivi redistributivi – spesso mal posti – sono venuti ad assumere nella coscienza collettiva e nella lettura che di essi viene data dal sistema politico.
In altre parole, le spiegazioni della crescita della spesa pubblica sono una sorta di nightmare dal punto di vista teorico e, forse peggio ancora, dal punto di vista della verifica empirica....La struttura demografica, economica e sociale dell’Italia è profondamente mutata nel corso degli ultimi 60 anni.
Ci si può interrogare se i mutamenti intercorsi nel periodo siano sufficienti per giustificare la triplicazione della quota della spesa pensionistica nella spesa complessiva. La dinamica dei numeri indurrebbe a qualche riflessione da farsi in altra sede. La spesa per le pensioni è stata ripetutamente influenzata da decisioni politiche nel corso dei sessant’anni che consideriamo: in una prima fase con l’estensione dei benefici a categorie che non avevano mai contribuito al prelievo previdenziale, con età di pensionamento molto basse e con la definizione di regole molto generose di crescita delle prestazioni; in una fase successiva, con interventi diretti a rimuovere gli istituti più aggressivi e anomali che determinavano la crescita della spesa, infine con la riforma del 1995 e le successive sue integrazioni. Nel corso degli anni Ottanta l’incidenza della spesa per consumi pubblici sul totale della spesa – che era stata in progressiva riduzione nel periodo dal 1951 al 1980 – è rimasta sostanzialmente invariata. Nello stesso periodo, si sono però verificati importanti cambiamenti nella sua struttura interna: alcune delle funzioni di spesa hanno visto aumentare in modo significativo il loro peso e altre lo hanno visto ridursi in misura corrispondente.
La Tabella 4 evidenzia i principali cambiamenti occorsi nel periodo: Spiccano per l’entità delle variazioni l’aumento della quota della spesa sanitaria e delle spese per servizi generali, che passano dal 42,0% nel 1980 al 44,8% nel 2000, al 47,6% del totale nel 2009 e, d’altro lato, la riduzione della quota della spesa per l’istruzione che scende dal 25,7% nel 1980 al 22,5% nel 2000, al 20,0% del totale nel 2009.
Per le altre funzioni, si osserva un aumento della quota delle spese per la protezione dell’ambiente che accompagna la riduzione delle quote delle spese per la difesa (dal 7,1% al 6,9%, peraltro in ripresa dal 2000 anno nel quale era scesa fino al 5,9% del totale), per l’ordine pubblico, sicurezza e giustizia (che mostrano un andamento in crescita passando dal 9,0% al 10,3% nel 2000, per poi scendere all’8,7% nel 2009) e per gli affari economici (in lenta e graduale discesa dal 7,3% nel 1980 al 6,7% nel 2009). Il cambiamento nella struttura della spesa per consumi collettivi, con la crescita della quota della spesa sanitaria e la corrispondente riduzione della quota della spesa per l’istruzione, è stato molto significativo."
8. MA ECCO IL PASSAGIO CRUCIALE CHE GLI "ITALIAN TEA PARTY" NON HANNO BEN "INTERIORIZZATO":
"C’è qualche evidenza di questi fenomeni nella storia della spesa pubblica italiana? Misurare la costosità relativa dei consumi collettivi rispetto ai consumi privati è ambizione di tutti i sistemi statistici, anche se si tratta di una ambizione non facile da realizzare perché dei servizi collettivi si conoscono le spese sostenute dalle amministrazioni pubbliche, ma si hanno solo informazioni limitate sul volume fisico dei beni prodotti con quelle spese: nell’istruzione si conosce il numero degli studenti, ma non quanto è aumentato il valore del capitale umano; nella sanità si conosce il numero degli assistiti, ma non il valore della vita salvata; nella giustizia e nella sicurezza si conosce il numero dei giudicati o dei tutelati, ma poco di più.
Difficoltà di computo a parte, l’ISTAT annualmente rileva l’importo dei consumi collettivi a prezzi correnti e stima i loro valori a prezzi costanti; il rapporto tra le due serie definisce il deflatore, ovvero l’indice di prezzo dei beni di consumo collettivo, che trasforma i valori di spesa monetaria in valori di produzione. Tale indice di prezzo può essere messo a confronto, nella sua dinamica, con l’indice dei prezzi dei beni di consumo privati. Il rapporto tra le due grandezze definisce l’indice di costosità relativa.
E POI, ECCO CHE ARRIVA LA PRECISAZIONE DEL VALORE OPERATIVO, CONSEQUENZIALE A QUANTO EVIDENZIATO DALLO STESSO STUDIO NEL PASSO APPENA RIPORTATO, DEL FAMOSO CALCOLO ISTAT DI COMPARAZIONE:
"Ponendoci una domanda che non ha un grande contenuto operativo, ma che stimola qualche riflessione per la Parte II di questo lavoro, ci si può interrogare: "se i prezzi dei beni di consumo collettivo (i deflatori costruiti dall’ISTAT ai fini della costruzione dei quadri di contabilità nazionale a prezzi costanti) fossero cresciuti negli ultimi 40 anni con la stessa velocità dei prezzi dei beni di consumo privati (come rilevati dall’ISTAT), quale sarebbe stata la spesa per i beni di consumo collettivo prodotti nel 2010 ?" La risposta a questa domanda è molto agevole dal punto di vista numerico ed è la seguente: "la spesa per consumi collettivi nel 2010 sarebbe risultata pari a 236,5 miliardi di euro, contro l’importo di 328,6 miliardi rilevato per le spese effettivamente sostenute, con una differenza in meno di 92,1 miliardi di euro". L’esercizio ha natura forse paradossale, però aiuta a riflettere sulle condizioni di offerta dei beni di consumo collettivo che il settore pubblico produce o acquista per metterli a disposizione del cittadino.
I processi produttivi di oggi sono non radicalmente dissimili da quelli di 60 anni fa: si caratterizzano per assenza di innovazione, per essere regolati, nel bene e nel male, soprattutto dal diritto amministrativo e per la presenza di politiche retributive che, in quanto legate soprattutto, se non esclusivamente, alla dinamica dei salari nel settore privato, sono svincolate da ogni considerazione dei risultati ottenuti e dei guadagni di efficienza e produttività."