1. Nessuno si interroga su quanto costi esattamente armare delle navi - che magari in precedenza erano addette al trasporto di merci ricavandone un corrispettivo- e dunque, rinunciando ai precedenti noli commerciali, per tenerle continuamente in navigazione, pagando i relativi carburanti, il personale di bordo delle varie qualifiche e quello di terra per il supporto logistico/tecnologico e per il disbrigo delle pratiche portuali di ormeggio e rifornimento.
Allo Stato, a cui non si perdona nessuno spreco, - che poi consiste nel fatto stesso che non affida al mercato privato ogni suo possibile compito-, costa(va) tanto: la "versione" Mare Nostrum, delle operazioni di salvataggio (previo pattugliamento), costava allo Stato italiano 9,5 milioni al mese; quella Frontex, e Triton, in apparenza notevolmente di meno, cioè circa 2,9 milioni al mese.
Almeno stando al livello di finanziamento apprestato dall'UE: ma dato il "volume" incrementale di sbarchi in Italia, nel corso degli ultimi anni, questo finanziamento UE deve necessariamente essere pro-quota e quindi non sufficiente a coprire gli interi costi dell'operazione: e ciò, includendo, appunto, l'attuale apporto di navi mercantili, cioè di armatori privati (che dovrebbero essere prescelte dall'UE in base a criteri che si devono presumere trasparenti e conseguenti ad accertamenti sui requisiti finanziari e di capacità tecnica degli armatori interessati).
2. Poiché il volume di "salvataggi" si è addirittura incrementato rispetto alla fase Mare Nostrum, se ne deve dedurre che il costo differenziale che sostiene l'iniziativa privata, rigorosamente no-profit, sia quantomeno, per approssimazione, superiore ai 6,5 milioni al mese.
Questo intervento al Senato dell'onorevole Arrigoni, precisa le ipotesi appena fatte, supportandole coi dati ufficiali resi disponibili dal governo e delineando lo scenario complessivo, di tenuta del sistema finanziario pubblico e del tessuto sociale, che ne consegue:
"Vorrei descrivere il fenomeno in Italia.
Nel
triennio 2014-2016 gli ingressi e gli sbarchi sono stati 505.000, ma -
attenzione - solo via mare. A questi dovrebbero aggiungersi le migliaia
di persone che entrano via terra, dall'Austria e dalla Slovenia in
particolare, cioè da Paesi dell'area Schengen, dove noi non imponiamo il
diritto di Paese di primo ingresso.
Dall'inizio dell'anno al 20 marzo 2017 sono già
entrate via mare più di 18.000 persone, pari a oltre il 32 per cento
(in più) rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.
Perché do i dati dell'ultimo triennio?
Dalla
fine del 2013, anno in cui si sono registrati 42.330 ingressi, c'è stata
un'impennata degli sbarchi grazie - lo sottolineo - alle operazioni
Mare nostrum (introdotta dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013)
e, poi, Triton.
Negli obiettivi, quelle missioni internazionali
avrebbero dovuto costituire un deterrente per gli scafisti e diminuire
le morti in mare.
Come i dati dimostrano, i risultati hanno invece visto
un aumento esponenziale degli ingressi, a maggior ragione dopo
l'attività delle navi delle organizzazioni non governative da settembre
dello scorso anno.
In secondo luogo, si sono incrementate - e di
molto - le morti in mare.
Do alcuni dati forniti dall'Organizzazione
internazionale per le migrazioni. Dal 1990 al 2012 (ossia in un arco di
ventitré anni) sono state registrate 2.711 morti nel Mediterraneo. Nel
2013 il numero è stato pari a 477 (comprese le 388 morti nella strage di
Lampedusa del 3 ottobre). Dopo l'operazione Mare nostrum il numero
delle morti si è innalzato: nel 2014 è stato pari a 3.270, nel 2015 a
3.771 e lo scorso anno a oltre 5.000. Nei primi due mesi del corrente
anno i morti sono già oltre 500.
Veniamo alle organizzazioni non
governative, di cui questa mattina ha parlato il procuratore della
Repubblica di Catania Zuccaro in sede di Comitato parlamentare di
controllo sull'attuazione dell'accordo di Schengen.
Dal settembre 2016
appartenenti a una decina di organizzazioni non governative non
italiane, la metà con sede in Germania, spuntate come funghi - come dice
Frontex, non collaborano con le attività di polizia e di intelligence
- dispongono di 13 navi battenti bandiera di Paesi poco collaborativi
con le nostre magistrature che stazionano stabilmente - h24 - al limite
delle acque libiche e si fanno notare da facilitatori scafisti, che così
inviano verso di loro gommoni precari, di produzione cinese, carichi di
immigrati che vengono salvati e trasportati in Italia.
Nel complessivo anno 2016, queste organizzazioni
non governative hanno compiuto, da sole, il 30 per cento dei soccorsi
in mare nelle aree di ricerche e soccorso. Nei primi due mesi del 2017,
operando a pieno regime, hanno svolto il 50 per cento dei soccorsi e, in
barba a quanto previsto dalla Convenzione dell'ONU sul diritto del
mare, se ne guardano bene dal portare i migranti salvati nel porto più
vicino e sicuro, di Zarzis, in Tunisia, ma si dirigono direttamente in
Italia.
Queste navi, super equipaggiate e dotate di
droni sofisticati, hanno dei costi di navigazione elevatissimi, stimati
in circa 10.000 euro al giorno cadauna.
Chi finanzia tutto questo?
È
questa un'invasione pianificata a tavolino?...
È inaccettabile che dei privati si sostituiscano allo Stato per
realizzare, di fatto, un corridoio umanitario verso il nostro Paese. Ci
domandiamo se queste organizzazioni non governative favoriscono
l'immigrazione clandestina in Italia.
Esse dovrebbero essere indagate
non solo ai sensi del cosiddetto articolo 12 della legge Bossi-Fini, per
favoreggiamento del reato di immigrazione clandestina, ma anche per
omicidio colposo.
Anche la procura di Catania correla le attività
di queste ONG con l'aumento delle morti, visto che le organizzazioni
criminali ricorrono a gommoni sempre più inadeguati (gommoni cinesi dove
si muore persino per schiacciamento) mettendo alla guida non scafisti,
che si sono fatti furbi, ma gli stessi migranti, dotandoli semplicemente
di bussola e cellulare, per i quali non è nemmeno configurabile il
reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.
Dopo gli ingressi, veniamo al numero delle
richieste di asilo nell'ultimo triennio: sono state "solo" 300.000
contro i 500.000 ingressi.
Dove sono andati i 200.000 che non hanno
fatto richiesta di asilo? Nel triennio, di questi 300.000 richiedenti,
solo 220.000 sono state le richieste esaminate dalle Commissioni
territoriali. Nel 2016 le richieste di asilo sono state 123.600 (il 50
per cento in più rispetto al 2015) e nelle prime settimane del 2017
registriamo un aumento del 60 per cento rispetto al pari periodo del
2016. Sempre lo scorso anno sono state "solo" 91.100 le richieste
esaminate, e di queste il 60 per cento sono state respinte. Dunque,
nonostante l'aumento delle commissioni territoriali (che da diciotto
mesi sono state elevate a 48) cresce costantemente la coda delle persone
in attesa di esame della richiesta di asilo: al 10 marzo - lo dice il
presidente della Commissione nazionale per il diritto d'asilo, il
prefetto Trovato - le pendenze in ordine alle richieste di asilo sono
120.000.
Analizzando tali richieste si scoprono, poi,
cose davvero interessanti.
Le nazionalità più numerose che chiedono
protezione internazionale in Italia non sono quelle che hanno
effettivamente bisogno di protezione internazionale (soglia che la UE
stabilisce nel 75 per cento).
La prima nazionalità a fare richiesta
d'asilo è la Nigeria con l'otto per cento di riconoscimento di
protezione; la seconda è il Pakistan con il 23 per cento; la terza il
Gambia con il cinque per cento; la quarta il Senegal con il quattro per
cento; la quinta la Costa d'Avorio con l'otto per cento; la sesta
l'Eritrea con il 74 per cento (di richieste accolte).
Insomma, per quantità di richieste di
asilo bisogna arrivare al sesto posto per trovare gli eritrei e
addirittura all'undicesimo per trovare gli afghani, entrambe nazionalità
che hanno effettivamente bisogno di protezione internazionale, ma che
registrano numeri bassi.
Prime riflessioni. Questo spiega perché negli
ultimi due anni la percentuale di rifugiati media è del cinque per
cento, mentre quella di coloro che ottengono protezione sussidiaria è
del 14 per cento; cioè a meno del 20 per cento (uno su cinque) degli
esami delle richieste di asilo si riconoscerà la protezione
internazionale. I dati dimostrano, dunque, che la gran parte di coloro
che chiedono asilo sono migranti economici, dunque irregolari,
clandestini... Questi sono messi nel sistema di accoglienza per anni.
Tra le nazionalità di migranti in ingresso
balzano all'occhio i pakistani, che ottengono il tre per cento di stato
di rifugiato e il cinque per cento della protezione sussidiaria, e che
dunque sono prevalentemente migranti economici, dunque clandestini. I
numeri ci dicono che i pakistani sbarcati nel 2016 sono molti meno (il
20 per cento) rispetto a quelli che hanno chiesto asilo: 2.770 sono
sbarcati, 13.510 hanno richiesto asilo nel 2016. Sono forse stati
paracadutati nel nostro Paese? No. Qual è allora la motivazione?
Percorrendo la rotta dei Balcani - che quindi non è totalmente
interrotta, nonostante noi Europa, noi Italia, diamo sei miliardi al
sultano Erdogan per bloccarla - i
pachistani e altri migranti, venendo dal Medio Oriente, passano
attraverso i confini terrestri, soprattutto austriaco e sloveno, che
sono Paesi di area Schengen, che dunque non sono controllati.
Dove emerge con tutta forza il lato più
significativo dell'emergenza?
È nel sistema di accoglienza, che registra
una situazione che diventa ogni giorno sempre più esplosiva. Elevati
ingressi più foto segnalamenti a tappeto che ci ha imposto l'Europa ,
hanno determinato un'esplosione dei numeri che sta facendo collassare il
sistema di accoglienza dove vengono assistiti i sedicenti profughi.
Alla fine del 2013 erano 22.000 nel sistema di accoglienza; a fine 2014
erano 66.000, a fine 2015 erano 104.000, alla fine dello scorso anno
176.000, con spese enormi a carico del nostro Paese; spese passate da
1,6 miliardi del 2013, con un contributo dell'Unione europea di soli 100
milioni di euro, a 4 miliardi del 2016, con soli 112 milioni di
contributo dell'Unione europea: un contributo che non si avvicina
neanche a meno del 3 per cento del costo complessivo.
L'impatto fiscale
dell'emergenza migranti tocca quasi lo 0,3 per cento del nostro PIL;
oltre il 60 per cento di questi 4 miliardi è speso per l'accoglienza: un
esborso con spreco enorme di risorse. È una follia.
Assistiamo al fatto
che per un periodo medio di due o tre anni (a volte anche quattro) ci
sono molte persone che per l'80 per cento non hanno diritto alla
protezione internazionale, con l'automatica conseguenza che l'80 per
cento dei posti nel sistema di accoglienza (quasi 140.000) è dato da
strutture temporanee, case private o condomini, alberghi, resort
gestiti da cooperative in odore di affari o da albergatori falliti,
spesso individuati dai prefetti che scavalcano i sindaci. Tutto ciò
avviene con costi economici e sociali enormi, incombenze enormi per i
Comuni".
3. Insomma: nella "filiera" industrializzata della importazione di immigrati, che all'80% compiono accessi illegali nel nostro territorio, i costi, sono altissimi: certamente nella fase di trasporto via mare, che viene generosamente privatizzata da organizzazioni che prescelgono la destinazione-Italia, a prescindere dai presupposti effettivi e dalla corretta applicazione dello sbandierato "diritto del mare".
Se mi muovo su segnalazione di chi si è posto in navigazione, entro le acque sovrane libiche, già sapendo che non sarà in grado di navigare fino alla (unica) destinazione prescelta, l'Italia, si tratta visibilmente di un espediente.
Non è salvataggio, ma l'utilizzazione programmatica di più vettori, in oggettivo coordinamento tra loro, per una destinazione predeterminata e avulsa dalle regole del diritto del mare: le mete portuali più prossime, Tunisia e Malta, paiono infatti ignorate dai "salvatori-secondo-il-diritto-del-mare"che navigano allo scopo esclusivo, e dichiarato, di andare a raccogliere chi si mette in mare solo per finire in pericolo e essere "salvato"!
E questo meccanismo, dunque, nulla ha a che fare coi criteri di accidentalità del soccorso da apprestare in mare, e tantomeno coi criteri di prossimità in cui si sviluppa normalmente il soccorso "accidentale" e non predisposto; è, cioè, un "soccorso" apprestato da parte di chi abbia, come privato, un'unica ragione per navigare: quella di stazionare nei pressi delle acque territoriali libiche per completare la tratta illegalmente intrapresa e segnalata dagli scafisti o, per essi, dai passeggeri "addestrati" dei gommoni!
Se mi muovo su segnalazione di chi si è posto in navigazione, entro le acque sovrane libiche, già sapendo che non sarà in grado di navigare fino alla (unica) destinazione prescelta, l'Italia, si tratta visibilmente di un espediente.
Non è salvataggio, ma l'utilizzazione programmatica di più vettori, in oggettivo coordinamento tra loro, per una destinazione predeterminata e avulsa dalle regole del diritto del mare: le mete portuali più prossime, Tunisia e Malta, paiono infatti ignorate dai "salvatori-secondo-il-diritto-del-mare"che navigano allo scopo esclusivo, e dichiarato, di andare a raccogliere chi si mette in mare solo per finire in pericolo e essere "salvato"!
E questo meccanismo, dunque, nulla ha a che fare coi criteri di accidentalità del soccorso da apprestare in mare, e tantomeno coi criteri di prossimità in cui si sviluppa normalmente il soccorso "accidentale" e non predisposto; è, cioè, un "soccorso" apprestato da parte di chi abbia, come privato, un'unica ragione per navigare: quella di stazionare nei pressi delle acque territoriali libiche per completare la tratta illegalmente intrapresa e segnalata dagli scafisti o, per essi, dai passeggeri "addestrati" dei gommoni!
3.1. Ma il fatto saliente, al di là della totale anomalia del meccanismo di trasporto di massa chiamato forzatamente salvataggio (se si ha riguardo alle invocate regole dei "diritto del mare"), è che, solo per il segmento della fase di entrata-trasporto entro il territorio nazionale, dal mare, dei soggetti privati sostengono costi altissimi.
E quindi, posto che il finanziamento ufficiale UE copre, a malapena, meno di un terzo dei costi complessivi, e che ragionevolmente appare esclusivamente un (limitato) cofinanziamento della spesa sostenuta dal nostro Stato, chi li finanzia?
E quindi, posto che il finanziamento ufficiale UE copre, a malapena, meno di un terzo dei costi complessivi, e che ragionevolmente appare esclusivamente un (limitato) cofinanziamento della spesa sostenuta dal nostro Stato, chi li finanzia?
E' credibile che, in un'€uropa afflitta dalla disoccupazione strutturale più alta dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla deflazione salariale che l'accompagna in termini di calo dei salari e della capacità di spesa della maggior parte della popolazione, questi finanziamenti siano attinti da spontanee, costanti e ragguardevoli microdonazioni di cittadini privati?
4. E poi: non è strano che, registrandosi all'interno dell'€uropa, un un crescendo preoccupante di povertà assoluta, i cittadini comuni, pur impoveriti (tranne una fascia di elite sempre più ristretta e ricca), sentano la spinta umanitaria soltanto per coloro che risiedono in altri paesi e considerino con indifferenza la povertà di chi gli sta accanto e condivide, con loro, l'appartenenza alla stessa comunità sociale e territoriale?
Ma se non appare verosimile che siano le spontanee e straordinariamente costanti donazioni dei cittadini privati a garantire l'altissimo livello di finanziamento delle operazioni navali delle ONG, almeno finchè non sia compiuta un'operazione di oggettiva e doverosa trasparenza sui loro bilanci, la domanda è non tanto "chi veramente le finanzi", ma "perché le finanzi".
5. Se la finalità delle ONG nord-europee, come per lo più risultano essere, fosse umanitaria, cioè di sollievo della condizione di povertà, anche considerata in chiave internazionale, avrebbero come logico e immediato scenario quello di soccorrere la massa crescente dei poveri assoluti che si sta inarrestabilmente stabilizzando in €uropa, (e proprio in paesi (€uropei) diversi da quelli in cui hanno sede le ONG, le ONLUS e le associazioni internazionaliste della "solidarietà").
Magari, se queste attivissime protagoniste del tanto vagheggiato "terzo settore", avessero pure un'etica incline all'analisi veritiera dei fatti, non farebbero solo azioni assistenziali sugli effetti della povertà, ma si attiverebbero per rimuoverne le cause; cioè, denunziando l'austerità fiscale che disattiva il welfare pubblico, mediante la riduzione dei deficit pubblici e della relativa spesa, considerata, dalle istituzioni UE e dai governi ad esse obbedienti, improduttiva; una riduzione che è alla base di questa stessa dilagante povertà.
6. Ma né questa azione assistenziale riguardante i cittadini poveri €uropei, né questa denunzia delle sue cause notorie ed oggettive, appaiono minimamente interessare l'azione delle ONG "umanitarie".
Forse i diritti umani, prima di tutti quelli all'esistenza libera dalla miseria che, un tempo, in €uropa si connetteva alla dignità del lavoro, non pertengono anche ai disoccupati degli Stati mediterranei coinvolti nell'eurozona e ai loro figli (ammesso che non ci si debba curare delle cause, altrettanto chiare, per chi vuole spiegarsele, della crisi demografica €uropea, v. p.2, dopo 30 anni di feroci politiche deflazioniste e di liberalizzazione del mercato del lavoro)?
6.1. Eppure la situazione della povertà assoluta, in €uropa, non può non essere definita allarmante, per chi avesse qualche minima razionale preoccupazione per le popolazioni che gli vivono accanto:
"L’Europa delle povertà
Uno dei misuratori indiretti della crisi in corso e delle
diseguaglianze in crescita da decenni è senz’altro quello delle povertà.
Guardando agli ultimi dati Istat, in Italia balza agli occhi il
livello raggiunto dalla povertà assoluta. Che è poi quella povertà più
radicale, perché se quella relativa si misura sul reddito medio, quella
assoluta ha a che fare con i beni essenziali per la vita e la
sopravvivenza.
Negli ultimi dieci anni mai si era registrato un dato
simile in relazione ai singoli individui: nel 2015 sono 4.598.000, il
7,6% della popolazione, erano il 6,8% nel 2014. Sotto il profilo della
povertà relativa, la cui soglia nel 2015 è attestata su 1.050,95 euro
per due persone, i dati non sono più confortanti: anche qui crescono
proporzionalmente di più i singoli delle famiglie, rispettivamente
8.307.000 (il 13,7% del totale, era il 12,9% nel 2014) e 2.678.000
famiglie, il 10,4% (era il 10,3%).
Una disamina approfondita delle povertà in Europa e in Italia è contenuta nel nuovo Rapporto sui diritti globali.
Il Rapporto sui diritti globali, realizzato dalla associazione Società INformazione e dalla sua redazione,
promosso dalla CGIL, nel suo ultimo volume, il 14°, giunto da poco in
libreria, contiene come sempre un capitolo dedicato al tema delle
politiche sociali, curato da Susanna Ronconi. Il Focus del capitolo
quest’anno è dedicato alle diseguaglianze nella salute.
Proponiamo qui un estratto dalla sezione del capitolo Il Contesto.
Qui scaricabili l’indice generale del volume, la prefazione di Susanna Camusso e l’introduzione di Sergio Segio.
...
*****
L’economia non decolla, il welfare non tutela
Con buona pace per l’obiettivo di lotta alla povertà della strategia comunitaria Europe 2020
– ridurre di 20 milioni il numero degli europei a rischio povertà ed
esclusione entro lo scadere del 2020 – il trend è sostanzialmente
stabile, il minimo decremento medio dello 0,1% registrato nel 2014
rispetto all’anno precedente viene infatti dopo la netta e costante
crescita nel periodo 2009-2013, e non riesce a recuperare i valori
pre-crisi: nell’Unione Europea con 28 Paesi membri (UE28) è povero (in
relazione a tutti e tre gli indicatori AROPE, rischio povertà,
deprivazione materiale e bassa intensità lavorativa) il 24,4%, 122
milioni di persone, nel 2008 era 23,8%.
I dati più negativi sono in Romania (40,2%), Bulgaria (40,1%) e
Grecia (36%), tuttavia mentre i primi due Paesi hanno un tasso elevato
ma in calo rispetto al 2013, la Grecia – sottoposta come noto al
Memorandum della Troika – registra un incremento anche nell’ultimo anno,
dopo un trend in impressionate escalation tra il 2008 e il 2014: +7,9%.
I Paesi con meno poveri sono Repubblica Ceca (14,8%), Svezia (16,9%),
Olanda (17,1%), Finlandia (17,3%) e Danimarca (17,8%). L’Italia si
colloca in posizione critica, con il 28,3%, 4 punti sopra la media UE28,
ed è uno dei Paesi, insieme a Grecia, Spagna, Cipro, Malta e Ungheria,
che dall’anno della crisi ha registrato un costante aumento delle
povertà, con +2,8%. Segno non solo di una economia che non decolla, ma
anche di un sistema di welfare che non tutela e non bilancia gli effetti
sociali della crisi.
Secondo un trend ormai purtroppo consolidato, sono bambini e ragazzi
under18 a essere maggiormente penalizzati: sono poveri nel 27,8% dei
casi, oltre 3 punti in più del dato medio, con gli usuali picchi di
Romania e Bulgaria (51% e 45%), ma anche con i dati di Ungheria (41,4%),
Grecia (36,7%), Spagna (35,8%). I fattori che più espongono i minori
alla povertà sono la posizione occupazionale dei genitori, il loro
livello di istruzione, la numerosità del nucleo famigliare e l’accesso a
misure di sostegno e servizi; in maggiore svantaggio anche i figli di
immigrati".
7. Questo la mappa EUROSTAT sul rischio povertà nel continente europeo:
Questa, oltrettutto, è una situazione che, proprio per i cittadini europei, è senza futuro: il futuro, cioè i bambini di oggi, appare sempre più compromesso dalla emarginazione, dalla miseria materiale e culturale, a cui sono esposti come destino esistenziale immutabile, in numeri che risultano sempre più spaventosi:
7.1. Notare che, se per paesi come quelli dell'Europa orientale, questa situazione di diffusa povertà assoluta è notoriamente "derivata" dal passaggio ormai ultraventennale all'economia di mercato - il che fa già dubitare della sua efficacia nel determinare l'innalzamento costante del benessere e dell'equità sociale- per il meridione italiano, quello spagnolo e per la Grecia, si tratta di una condizione obiettivamente indotta dalla moneta unica, e precisamente dalle politiche fiscali considerate TINA per il suo mantenimento.
Dunque, una condizione non solo auspicata e ritenuta tecnicamente e eticamente giusta dalle istituzioni UEM, ma anche destinata a strutturarsi e, viste le ulteriori raccomandazioni fiscali che vengono date ai paesi appartenenti all'eurozona, ad aggravarsi.
Certamente, e in modo sensibile, non appena si manifestasse una qualche crisi esogena (o endogena) di tipo finanziario, come già nel 2008, alla quale si risponderebbe, per vincolo normativo supremo scolpito nella pietra dei (vari) trattati €uropei, con dosi aggiuntive di austerità fiscale.
8. Dunque, queste ONG internazionaliste non sentono alcuna esigenza prioritaria di rivolgere le loro attenzioni umanitarie ai poveri greci, spagnoli o italiani (o almeno bulgari e rumeni)?
Non si rendono conto che entrare pesantemente nella catena di montaggio dell'importazione massificata di ulteriori poveri, da insediare proprio nei territori di paesi così provati dall'austerità fiscale e dalle infinite riforme strutturali impoverenti, aggrava la situazione di una parte così consistente dei loro "concittadini" europei e rende sempre più disperata la situazione di bambini (bambini!) europei in povertà assoluta, giunti, nell'area emergenziale del mediterraneo, - proprio quella in cui operano per immettere i nuovi disperati, la cui presenza aggrava la situazione di impotenza fiscale degli Stati ad intervenire-, a percentuali di oltre un terzo della popolazione infantile?
8.1. Non sarebbe il caso, anzitutto, di soccorrere queste fasce di popolazione autoctona, stabilizzare il benessere sociale nei paesi europei, proprio per poi consentire, anche agli immigrati dall'Africa e dalla zone più povere dell'Asia, di avere in €uropa, tutti insieme e in una condizione di effettiva sostenibilità sociale, un futuro che non sia di scontro permanente tra masse di miserabili in inevitabile attrito fra loro?
Non si rendono conto che ammassare poveri in zone dove disoccupati e poveri "autoctoni" sono già un problema drammatico e, nel paradigma istituzionale €uropeo, irrisolvibile, non significa "salvare vite umane" - e già i numeri dei morti in mare danno torto a questo fine salvifico e ricattatorio contro ogni buon senso-, ma innescare la situazione esplosiva di una miseria a livelli ottocenteschi che pareva sconfitta in €uropa?
E fu sconfitta per buone ragioni, completamente dimenticate dalle ONG e dalle istituzioni UE: dopo la seconda guerra mondiale, per l'affermarsi delle democrazie sociali in cui l'intervento dello Stato, garantiva lo sviluppo armonico del capitalismo, coniungandolo con la priorità dell'occupazione e della tutela pubblica, cioè democratica e legalmente prevista, dei più deboli (che sono i lavoratori e le loro famiglie).
E fu sconfitta per buone ragioni, completamente dimenticate dalle ONG e dalle istituzioni UE: dopo la seconda guerra mondiale, per l'affermarsi delle democrazie sociali in cui l'intervento dello Stato, garantiva lo sviluppo armonico del capitalismo, coniungandolo con la priorità dell'occupazione e della tutela pubblica, cioè democratica e legalmente prevista, dei più deboli (che sono i lavoratori e le loro famiglie).
9. Evidentemente non sono interessate a rendersene conto: la cultura delle ONG è improntata, rispetto a questo tragico scenario, che in Europa non ha mai condotto a nulla di buono, alla più totale indifferenza.
E se c'è questa programmatica, anzi, organizzata, indifferenza, rimane il pesante interrogativo: perché le ONG, e cioè i misteriosi finanziatori privati che le istituiscono, e che inevitabilmente appaiono essere soggetti economicamente molto forti (non certamente identificabili con i cittadini medi impoveriti, il cui contributo non pare obiettivamente sufficiente a giustificarne gli imponenti strumenti di azione organizzata) operano in questo modo?
Perché i sottostanti finanziatori, che normalmente si muovono secondo la logica dell'investimento rapportato al rendimento finanziario più profittevole, compiono, in definitiva, questo tipo di "investimenti" nella miseria e nella destabilizzazione sociale di un intero continente?