1. Nell'incapacità del pubblico dibattito - politico e mediatico- di focalizzare il vero tema politico intorno al quale ruotano sia i flussi del consenso sia la più sostanziale individuazione di politiche fiscali idonee a far uscire il Paese dalla crisi economica che lo attanaglia in modo irreversibile, e cioè la legittimità costituzionale ai sensi dell'art.11 Cost., o anche solo la "sostenibilità", del vincolo €uropeo, la cronaca politica trova il modo di evitare che la noia prenda il sopravvento.
Parlo di noia in quanto il flusso mediatico incalzante delle notizie sul fronte politico sono per lo più incentrate su questioni, dissidi e giochi di potere, in proiezione elettorale, che non toccano questo "vero" tema politico, così essenziale con riguardo al benessere ed alla democrazia del popolo italiano (e ciò, a differenza che nel resto dei paesi dell'UE; dove, come soprattuto nella importantissima Francia, e prima ancora, in Olanda, il tema dell'€uropa ha assunto, sia pure per motivi divergenti tra loro, quella centralità che la realpolitik gli attribuisce).
Ma, per l'appunto, l'irreal (o "surreal") politik italiana si anima, di tanto in tanto, con questioni che, magari considerate distrattamente dall'opinione di massa, sono in concreto piuttosto rilevanti nel caratterizzare l'effettivo assetto istituzionale che s'è generato in Italia dopo decenni di "vincolo esterno".
2. Parliamo della questione relativa al "quando" si terrano le prossime elezioni, secondo le "voci" riportate in questo articolo, in cui lo sviluppo ulteriore è questo:
"Dal 25 gennaio, da quando la Consulta ha cambiato i connotati all'
Italicum abolendo il ballottaggio, Renzi aveva sempre pensato che in
mancanza di un' intesa in Parlamento si potesse andare a votare con i
sistemi elettorali così come sono stati ritoccati dalla Corte
Costituzionale.
Invece, negli ultimi giorni, dal Quirinale è stato
alzato un disco rosso. Renzi ha saputo che, secondo Mattarella, con il
doppio Consultellum non si potrebbe neppure disegnare la scheda
elettorale. E che dunque, in mancanza di un'intesa in Parlamento,
l'epilogo più probabile sarà un decreto tecnico varato dal governo di
Paolo Gentiloni in gennaio.
Con
due conseguenze. La prima: a dettare il contenuto del provvedimento
sarebbe il capo dello Stato, visto che il premier ha sempre detto che
non spetta a lui occuparsi di legge elettorale. La seconda, considerati i
tempi di conversione del decreto e dei successivi adempimenti tecnici,
la data del voto potrebbe slittare al maggio del 2018.
Da qui la frustrazione di Renzi, il suo sentirsi
ostaggio della trattativa sulla legge elettorale. «Ma una cosa è certa»,
si affretta a dire uno dei suoi più stretti collaboratori, «il decreto
non potrà cancellare i capolista bloccati, né il premio di maggioranza
alla lista: il testo base resterebbe l' Italicum corretto, con l'
aggiunta della doppia preferenza di genere e l' armonizzazione delle
soglie di sbarramento».
E
qui, per l'ex premier, c'è un ulteriore problema: è probabile che
Mattarella, per garantire la presenza nel prossimo Parlamento di quasi
tutte le forze politiche, suggerisca una soglia bassa, estendendo anche
al Senato lo sbarramento al 3% dell' Italicum. E bye bye soglia dell'8%
al Senato. Renzi, invece, punta almeno al 5% in entrambe le Camere nella
speranza di cancellare i piccoli partiti. In primis il Mdp di Bersani e
D' Alema".
3. Va subito detto che il cronista politico ha una certa libertà di riferire ciò che le sue fonti confidenziali gli riferiscono: è chiaro che dal Colle più alto non sarà mai reclamata la prerogativa presidenziale di dettare il momento di adozione e il contenuto di un decreto-legge (in materia elettorale).
E va anche precisato che lo svolgimento a maggio delle elezioni è compatibile con le previsioni costituzionali in materia: l'art. 61 Cost., stabilisce che "le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti". Poiché, come si desume dal secondo comma dell'art.61 ("Finché non siano riunite le nuove Camere sono prorogati i poteri delle precedenti"), la fine del quinquennio di legittima durata delle Camere "precedenti" decorre dalla data di prima riunione delle nuove, e nel caso delle attuali tale "prima seduta" è avvenuta il 15 marzo 2013, aggiungendo i 70 giorni previsti alla scadenza del 15 marzo 2018, si arriverebbe a maggio inoltrato.
4. I problemi di legittimità costituzionale che pone tale "visione" della fine dell'attuale legislatura sono però altri.
Un primo problema era quello della stessa legittimazione delle Camere, in quanto formatesi in applicazione di una legge elettorale dichiarata illegittima (dopo nemmeno 10 mesi dalla prima riunione).
I dubbi al riguardo erano piuttosto forti, anche se ormai siamo di fronte al fatto compiuto, pregresso e annunciato per il futuro anno di legislatura residua.
4.1. La Corte aveva infatti richiamato il principio di continuità degli organi costituzionali fondamentali e l'obiezione era questa:
"Affermare come ha fatto la Corte, su questa scarna premessa (della
continuità dello Stato), che come si dice "prova troppo", che, "nessuna incidenza è in grado di spiegare la
presente decisione neppure con riferimento agli atti che le Camere
adotteranno prima di nuove consultazioni elettorali", significa confondere la continuità degli organi "essenziali" dello Stato,
- che è piuttosto, nella sostanza, continuità dell'applicazione delle
norme sulla costituzione dei suoi organi fondamentali (cioè proprio lo
svolgimento di elezioni e con norme legittime)-, con la continuità della posizione di vantaggio acquisita dai singoli individui che compongono accidentalmente uno di tali organi.
E', in altri termini, come affermare che,
nonostante il vizio di rappresentatività che soffre l'individuazione di
"quegli" individui" (eletti con legge incostituzionale), questi e solo questi possono svolgere le funzioni che l'organo deve svolgere a norma di Costituzione! Una giustificazione ben difficile da fornire, se si guarda alla realtà che dovrebbe contraddistinguere una democrazia!"
4.2. La sentenza della Corte aveva anche richiamato il principio della prorogatio e l'obiezione (sempre in sintesi) era quest'altra:
"...che sia per scadenza naturale o per scioglimento anticipato, la "fine" delle precedenti camere è il presupposto per la prorogatio dei poteri: cioè attiene, come è del tutto evidente, ad una fine certa e ormai proclamata di quella composizione degli organi (cioè della carica attribuita a determinati individui).
"...che sia per scadenza naturale o per scioglimento anticipato, la "fine" delle precedenti camere è il presupposto per la prorogatio dei poteri: cioè attiene, come è del tutto evidente, ad una fine certa e ormai proclamata di quella composizione degli organi (cioè della carica attribuita a determinati individui).
Ma la Corte costituzionale ha proprio negato tale presupposto.
Ha invece postulato, all'inverso, che la prorogatio sia motivo giustificativo per NON pronunciare la "fine" delle Camere (illegittimamente composte).
Cioè la Corte ha
fatto uso di un principio organizzativo (a giustificazione
emergenziale) derivante dalla "fine" delle Camere, per affermare che la
dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge elettorale
che ha individuato quei certi individui (composizione non ritenuta
rispondente alla rappresentatività dovuta per Costituzione!), NON comportasse la "fine" delle camere stesse.
E questo, poi, per legittimarne addirittura una sorta di illimitata durata in carica (nei limiti dei tempi della legislatura), richiamando a giustificazione proprio la norma che presuppone, in senso appunto inverso, la già avvenuta cessazione delle precedenti camere (quantomeno dalla pienezza della carica svolta in via ordinaria, cioè dalla legittimazione fisiologica, secondo Costituzione e democrazia).
Tutto il principio di prorogatio,
in ogni settore del diritto pubblico, presuppone questa irrevocabile
cessazione dei componenti (persone fisiche) dell'organo (pubblico) dalla
carica "ordinaria" ed il residuo ed ESCLUSIVO esercizio di funzioni urgenti e indispensabili (da ravvisare perciò con estrema cautela); dunque un esercizio di funzioni ASSOLUTAMENTE TEMPORANEO, ECCEZIONALE, E PREDERMINATO LEGALMENTE NEI TEMPI.
In termini pratici, il principio della prorogatio addirittura
spinge per il sollecito e pieno rinnovo della sua composizione mediante
l'esperimento delle procedure legali a ciò volte.
Nel caso specifico, proprio questa "inversione" di senso della prorogatio, nella forma per di più costituzionalizzata dall'art.61 Cost., fa emergere un risultato, per certi versi clamoroso: il richiamare correttamente, e non in senso invertito (e illogico) questo istituto avrebbe dovuto portare la
Corte ad escludere qualsiasi esigenza di posporre la caducazione della
composizione illegittima delle Camere, risultando comunque garantita, la
(solo eventuale) funzionalità di emergenza del potere legislativo in
caso di "fine" delle Camere, proprio dalla stessa prorogatio!
5. Ma un altro punto appare molto controverso: quello dell'idea che a gennaio, e curiosamente soltanto a gennaio, venga emesso un decreto-legge, atto normativo di iniziativa, e responsabilità politica, del governo, per regolare in modo armonico la legge elettorale con cui si voterebbe per entrambe le Camere.
In linea teorica, seguendo la lettera e la ratio dell'art.72, comma 4, della Costituzione, un decreto-legge in materia elettorale sarebbe precluso: occorrerebbe "sempre" (dice la norma costituzionale) seguire "la procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera".
Peraltro, è anche vero che una "prassi" di decreti-legge in materia elettorale è stata talora seguita.
Ma questa prassi, al di là della sua controversa legittimità in sé (per la difficoltà quasi invalicabile di individuare i limiti del contenuto legittimo su cui il decreto-legge potrebbe intervenire), è stata oggetto di un accurato scrutinio da parte della parte più attenta dell'attuale dottrina costituzionalistica.
5.2. Ve ne riporto i passaggi fondamentali, aggiungendo una evidenziazione mirata, dato che lo "stato di eccezione" risulta oggi ancor più "permanente" rispetto al momento in cui questo brano fu scritto, e che i limiti invalicabili alla decretazione d'urgenza nella materia elettorale risultano precisati e difficilmente valicabili anche per le misure elettorali "minori" ipotizzate allo stato. E questo considerato che comunque inciderebbero direttamente sul meccanismo di voto e sulla conseguente rappresentatività del parlamento (e non sono le soluzioni ipotizzate, in sé, il problema, ma lo strumento extraparlamentare e procedurale che segnerebbe questa disciplina correttiva):
"Certo non
appartengo a coloro che ritengono che il consolidarsi di una prassi basti a
legittimare comportamenti illegittimi (altrimenti perché dovrei insistere a
pagare le tasse, in Italia?), ma poi anche sulla prassi ci sarebbe molto da
dire: ed è questo il secondo aspetto su cui intendevo richiamare l’attenzione.
Una cosa – e di questo si
accorge anche Pizzetti – è
ritoccare qualche meccanismo della disciplina elettorale per farla funzionare a
dovere (per rimuovere possibili ostacoli alla sua corretta operatività),
un’altra è modificare l’hard
core del sistema elettorale, la trasformazione dei voti in seggi.
A parte il
fatto che quando il Governo ha usato la decretazione d’urgenza in materia
elettorale si è sempre trattato di aggiustamenti minimi e si è sempre mosso con
il consenso unanime delle Camere (e quando non lo ha conseguito le polemiche
sono state feroci), qui ci
si immagina addirittura che il Governo intervenga per scegliere tra opzioni
sulle quali gli stessi schieramenti parlamentari che lo sostengono sono
duramente divisi. Possibile che non si noti l’enormità dell’ipotesi?
Che
cosa c’è di più vicino ad un colpo di Stato “in doppio petto”, cioè ammantato
di forme legali, di un Governo che cambi le regole elettorali alla vigilia
dello scioglimento anticipato delle Camere, determinandone l’esito? Perché di
questo si tratterebbe, se si modificasse l’attuale (deprecabile) meccanismo del
premio di maggioranza, non c’è dubbio.
La sent. 161/1995, che viene richiamata, mi sembra indicare il confine
invalicabile da qualsiasi prassi.
In quella
occasione la Corte ha ammesso il conflitto di attribuzione contro i
decreti-legge osservando come, con riferimento ad essi, “il profilo della
garanzia si presenti essenziale e tenda a prevalere... su ogni altro”, perché
(sta ragionando attorno agli strumenti di impugnazione dei decreti) una
“limitazione nella garanzia costituzionale potrebbe... dar luogo a prospettive non prive di rischi
sul piano degli equilibri tra i poteri fondamentali, ove si pensi -
anche alla luce dell'esperienza più recente - al dilagare della decretazione
d'urgenza, all'attenuato rigore nella valutazione dei presupposti della necessità
e dell'urgenza, all'uso anomalo che è dato riscontrare nella prassi della reiterazione
dei decreti non convertiti... Rischi, questi, suscettibili di assumere connotazioni ancora più gravi
nelle ipotesi in cui l'impiego del decreto-legge possa condurre a comprimere
diritti fondamentali (e in particolare diritti politici), a incidere
sulla materia costituzionale, a determinare - nei confronti dei soggetti
privati - situazioni non più reversibili né sanabili anche a seguito della
perdita di efficacia della norma”.
Nel caso di specie, poi, la Corte dice
testualmente che “il divieto - desunto dall'art.
72, quarto comma, della Costituzione e richiamato dall'art. 15, secondo comma,
lettera b), della legge 13 agosto 1988, n. 400 - relativo alla materia
elettorale” non opera perché “il decreto in questione ha inteso porre una
disciplina che non viene a toccare né il voto né il procedimento referendario
in senso proprio, ma le modalità della campagna referendaria”.
Dunque, la Corte costituzionale sembra esprimere
un’idea molto chiara: l’hard core del sistema elettorale è sottratto alla
decretazione d’urgenza dalla costituzione stessa, non solo dalla legge 400.
Mi sfugge
davvero come questa sentenza possa essere superata.
Ma – sembra essere la risposta
– la situazione attuale dell’Italia è eccezionale, essendo evidente che “il sistema complessivo sia entrato,
nell’ultimo anno, in uno stato di conclamata e persistente eccezione, a
fronte del quale sono stati e tuttora sono necessari interventi straordinari e urgenti”:
lo mostrerebbe la stessa lunga (clamorosa e molto allarmante, a mio giudizio) sequenza di decreti-legge
emanati dai Governi a partire dall’estate 2010 e convertiti grazie al voto di
fiducia.
Questi – che
sembrerebbero essere segnali assai preoccupanti di sistematica violazione del
quadro costituzionale dei rapporti tra i poteri dello Stato – sono letti invece
da Pizzetti in una chiave assai diversa.
L’idea di
modificare la legge elettorale con decreto-legge non andrebbe infatti “valutata
e apprezzata soltanto sulla base della lettura della Costituzione formale: in
modo, cioè, del tutto avulso dal presente quadro complessivo, istituzionale,
politico, economico e sociale connotato da elementi peculiari difficilmente
riscontrabili nella storia della Repubblica”.
Ecco che al solito
emerge l’equivoca e sinistra immagine della “costituzionale materiale”:
le condizioni attuali “appaiono per molti versi ‘eccezionali’ rispetto al
sistema costituzionale delineatosi a séguito dei mutamenti della forma di
governo ‘materiale’ avvenuti a partire dalla precedente crisi ‘sistemica’ del
1992-1994”; “più ancora che l’emersione di singoli casi specifici di
straordinaria necessità ed urgenza che fondano l’adozione del decreto-legge, a norma
dell’art. 77 Cost., è dunque la stessa situazione generale del Paese, interna
ed esterna (europea e internazionale), a manifestare quei tratti di
straordinarietà, necessità e urgenza a provvedere che la Costituzione richiede
che sussistano per poter legittimamente adottare un decreto-legge”.
È proprio
vero che la storia non insegna più niente.
A nulla serve la drammatica lezione di Carl Schmitt
che “la regola stessa vive solo dell’eccezione”. A nulla sono servite le mille e mille pagine sulla
crisi del regime di Weimar.
Dimenticate
anche le remore e la preoccupazioni dei nostri costituenti, che hanno discusso
per ore dell’opportunità di ammettere un uso – strettamente regolato, s’intende
– del decreto-legge, senza però lasciare tracce nella nostra cultura giuridica,
a quanto sembra.
L'esperienza
ha infatti dimostrato come qualsiasi tentativo di regolamentazione e di disciplina
dell'emissione dei decreti-legge sia stata sempre esiziale, e non soltanto
sotto il regime fascista.
Essa ingenera da una parte la tentazione da parte del
Governo di abusarne per la più rapida realizzazione dei fini della sua
politica; dall'altra parte, vorrei dire, eccita la condiscendenza del Parlamento, il quale tende a
scaricarsi dei compiti di sua spettanza.
La
impossibilità di stabilire limiti rigidi (e quindi suscettibili di un efficace
sindacato giudiziario), accompagnata ai fenomeni di psicologia politica
accennati, portano fatalmente ad una invadenza dell'esecutivo in quelli che
sono i precipui poteri del legislativo.
Invadenza
dell'esecutivo significa predominio della burocrazia nella formazione della legge,
per la quale essa non ha, oltre che la responsabilità politica, neppure la preparazione
tecnica necessaria.
Sono le parole di un oscuro giurista
calabrese del passato, un certo Costantino Mortati:
L'esperienza ha infatti dimostrato
come qualsiasi tentativo di regolamentazione e di disciplina dell'emissione dei
decreti-legge sia stata sempre esiziale, e non soltanto sotto il regime
fascista. Essa ingenera da una parte la tentazione da parte del Governo di abusarne
per la più rapida realizzazione dei fini della sua politica; dall'altra parte,
vorrei dire, eccita la condiscendenza del Parlamento, il quale tende a
scaricarsi dei compiti di sua spettanza.
La impossibilità di stabilire limiti
rigidi (e quindi suscettibili di un efficace sindacato giudiziario),
accompagnata ai fenomeni di psicologia politica accennati, portano fatalmente ad
una invadenza dell'esecutivo in quelli che sono i precipui poteri del
legislativo.
Invadenza dell'esecutivo significa
predominio della burocrazia nella formazione della legge, per la quale essa non
ha, oltre che la responsabilità politica, neppure la preparazione tecnica
necessaria.
(A.C.,
seduta pomeridiana del 18 settembre 1947)."
In relazione all’incidenza della pseudo-prorogatio e della modifica per decreto dell’”hard core del sistema elettorale” sull’esito finale di “questioni, dissidi e giochi di potere in proiezione elettorale”, da segnalare l’increscioso acuirsi di alcuniprevedibili piccoli inconvenienti del non essere pienamente al riparo dal processo elettorale. Inconvenienti a cui, ad onta della sua evidente e peraltro orgogliosamente rivendicata continuità con il precedente, l’esecutivo attuale, con il suo meno criptato carattere tecnico, tende evidentemente a essere un po’ troppo poco sensibile.
RispondiEliminaPoi dice che tra Renzi e Padoan sono sempre state rose e fiori.
D’altra parte non è facile far entrare in testa a chi non è altrettanto ‘protagonisticamente’ parte in causa di quei giochi (perché di quel sistema di potere può tranquillamente tornare a presidiare il back-end) che la loro prima regola è che, finché il suddetto riparo non sarà formalizzato come condizione istituzionale permanente, la sua finestra di effettività per un governo politico non può estendersi troppo oltre la fase immediatamente post-elettorale di ogni legislatura.
Il che conferma che, si possono vincere le elezioni, e solo disattendendo il "lovuolel'€uropa", ma non si può sopravivvere al post-elezioni che, per il riprendere vigore del "lovuolel'€uropa", diviene entro pochi mesi un bagno di sangue del consenso.
EliminaL'unico modo di stabilizzare un indirizzo politico-€conomico al riparo dal processo elettorale, è istituzionalizzare la trojka per via di modifica dei trattati. Com'è infatti proposto dai progetti già positivamente esaminati dal Parlamento europeo.
E sempre con la speranza che la cosmesi per cui ciò sarebbe indispensabile alla pac€ funzioni, perché altrimenti i partiti che devono approvare incondizionatamente le modifiche e le nuove cessioni di sovranità, potrebbero non avere il consenso necessario.
Quindi, alla fine, perché il giochino riesca hanno bisogno di due condizioni: a) stati di guerra vari, incluso l'incombere del terrorismo islamico; b) qualche bella ondata di inchieste sulla corruzione; che giustifichino un ulteriore esautoramento degli effetti dei processi elettorali in favore di soluzioni tecnocratiche "emergenziali" e incontestabili.
La dialettica vuole che, chi chiama l'eccezione alla regola, non possa essere altri che colui che le regole le detta. Per costruzione. Ne consegue il celeberrimo e sintetico passo introduttivo di Teologia Politica per cui « sovrano è chi decide sullo stato di eccezione »
RispondiEliminaIl mercato, ovverosia le oligarchie finanziarie - rigorosamente kantiane nel loro cosmopolitismo, pacifismo e rigore morale - sono il sovrano.
Le bestie si devono selezionare darwinisticamente per centellinare gli schiavi che producono di più consumando meno, e per riprodurre qualche deviato sociopatico da piazzare come funzionario tecnocrate.
(Notare che la borghesia semicolta, accanita sostenitrice del fascismo di sinistra, e gli schiavi-elitisti di matrice liberale e federalista, sono quelli che inveiscono contro Schmitt dandogli... del "decisionista antiliberale")
(Comunque non si può soprattutto non notare l'italiano dei nostri padri costituenti....)