giovedì 30 giugno 2016

LA NON MOSSA DI HOLLANDE NELLA LUNGA ESTAT€ CALDA E LA SOLITUDINE ITALIANA


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1. Persino Huffington Post deve registrare la situazione "lunare" di impasse. Come avevamo detto, non ci sono neppure le potenzialità e il bagaglio concettuale per cambiare i trattati
Si finge che siano applicabili e sostenibili e si prosegue quasi allegramente incontro al disastro:
"E dunque la campagna elettorale [nei rispettivi paesi e soprattutto in Germania] e gli interessi nazionali bloccano l’Unione persino nell’era Brexit. “L’Europa ha preso una sberla e quando prendi una sberla sei sotto shock”, giustifica Renzi. Ma il premier sa che non potrà ottenere cambiamenti storici e retromarce. E si predispone per acchiappare tutto quello che “serve all’Italia nell’ambito delle attuali regole”.
Questa mattina, per dire, in consiglio europeo ha difeso Spagna e Portogallo, sotto attacco perché rischiano la procedura di infrazione per deficit eccessivo. “Ma Rajoy ha detto che lo ha ridotto dal 9 al 5, Costa ha spiegato che per la prima il deficit portoghese è sceso sotto il 3”, racconta Renzi. “Io ho dato ragione a Madrid e Lisbona, anche se la discussione non ha riguardato l’Italia che ha un deficit all’1,8, il più basso degli ultimi dieci anni”. Il punto è che “se Spagna e Portogallo vengono sanzionate per dei decimali allora l’Europa crea un ‘mostrum giuridico’: vuol dire che non hanno colto il senso di ciò che serve oggi”.
Insomma i Trattati non cambieranno, ma si potrà continuare a negarli. Nell’inedita era Brexit, ognuno in Europa continua a tirare acqua al suo mulino. L’Italia torna a casa con 1,4 miliardi di euro in più nel fondo di sviluppo e coesione, frutto di un ricalcolo tecnico, e 500 milioni per il ‘migration compact’. “So che servirebbe ben altro ma il benaltrismo non mi interessa: intanto c’è questo”, dice il nuovo Renzi “keynesiano”, pronto per la politica del “un pezzo per volta” che vige in Europa.
Sempre che regga. Ufficialmente tutti i leader negano l’effetto domino, dopo il referendum britannico. Ma nella riservatezza dei meeting se ne parla eccome. La paura è questa. Tanto più che questo periodo di incertezza potrebbe durare più a lungo di due mesi. I 27 leader si danno appuntamento per il 16 settembre: vertice informale a Bratislava. Ma nessuno sa se per quella data Londra avrà attivato l’articolo 50 che la accompagna fuori dall’Unione. Dopodichè, recitano le conclusioni finali del vertice, si potranno avviare i negoziati per stabilire nuovi rapporti tra Ue e Gran Bretagna come “paese terzo”.
2. A parte la circostanza che il deficit italiano non risulta essere all'1,8, né nel 2015, in cui è stato pari al 2,6 e con un avanzo primario "solo" all'1,5, né, in base al DEF, per il 2016 (pari al 2,3), difendere lo sforamento della Spagna, oltre a prevenire (piuttosto debolmente, data la prassi instauratasi ormai contro l'interesse nazionale italiano) pesanti obiezioni ad un probabile sforamento italiano nello stesso 2016, (per non parlare del 2017 quando è previsto un roboante 1,7), non pare una tattica vincente: considerando il diritto dei trattati de facto, disparitario, da "estorsione", riservato da anni, ossia da sempre, all'Italia.
Non mi pare però che si possa parlare di "interessi nazionali" agitati per bloccare chissà quali misure salvifiche dell'€uropa altrimenti realizzabili, da parte di Italia, Spagna, Portogallo e via dicendo.

3. Quello che appare invece evidente è che il "blocco", cioè la precisa non-volontà di reagire alla Brexit e di ripensare l'assetto ordoliberista dei trattati, con tutte le sue conseguenze distruttive delle economie di tutti-tranne-uno, la Germania, corrisponda solo all'interesse nazionale di quest'ultima. Gli altri non possono che cercare disperate difese e sopravvivere, senza però disporre, per antica scelta politica delle varie elites nazionali, delle "risorse culturali" per uscire dalla crisi.
Il fatto è che, come abbiamo visto, per la Germania, quello dell'€uropa è un mondo felice e pieno di libertà. Punto.
O il mercato comune sarà liberista o correrà rischio di cadere nel collettivismo (p. 208):
Nel mercato comune... o si fa strada lo spirito del liberismo ed avremo allora un’Europa felice, progressiva e forte, o tentiamo di accoppiare artificiosamente sistemi diversi ed avremo perduta la grande occasione di una integrazione autentica. Una Europa dirigisticamente manipolata dovrebbe, per sistema, lasciar paralizzare le forze di resistenza contro lo spirito del collettivismo e del dominio delle masse, e illanguidire il senso di quel prezioso bene che è la libertà.
La politica di armonizzare, uguagliare, compensare è (p. 208): quanto mai pericolosa... Lo sviluppo tendenzialmente inflazionistico in alcuni paesi (con rigidi corsi dei cambi!) è da riferire, non da ultimo, anche alla concessione di prestazioni sociali superiori alle possibilità di rendimento dell’economia nazionale.
4. Il tracciato è segnato e il moto uniformemente accelerato della Germania non tollera deviazioni, crisi bancaria italiana o meno; tutto è irrilevante di fronte a questa "utopia ordoliberista" che realizza la società tecnocratica, FORMIERTE GESELLSCHAFT, intangibile (per gli altri), e la competitività assoluta per la Germania.
E dunque perché, in questo trionfo nazionale vittorioso, dovrebbero voler cambiare qualcosa?




5. Il massimo dello sforzo pensabile (se di pensiero razionale si può parlare), non riguarderà l'economia del continente, in cui viene considerata totalmente "salutare" la lezione impartita ai paesi deboli e debitori, Italia in testa, di imparare a vivere "entro le proprie possibilità": l'unico e solo piano di rilancio riguarda la sicurezza e l'integrazione militare e il pienamente connesso "migration compact". Così era previsto prima del Brexit, quando lo si paventava soltanto; così è rimasta l'agenda effettivamente praticabile dopo il Brexit. 
E questo scenario si realizza col sigillo decisivo di Hollande che, a ben vedere, è l'uomo che oggettivamente avrebbe in mano la carta vincente per modificare l'assetto dell'unione e della stessa moneta unica.

6. Ma dalla Francia non c'è comunque da attendersi alcun colpo di scena: meno che mai "solidarietà" (negozialmente decisiva) sulla situazione bancaria (italiana). 
Mentre i tedeschi fanno i "duri", attendendo la inevitabile tosatura dei risparmiatori italiani (in un modo o nell'altro: camuffandola magari di illusione finanziaria), torna alla ribalta una Deutschebank che scricchiola, potendo ciò costituire il backfire sulla intransigenza tedesca: forse che la Francia pensa che "ne rimarrà soltanto uno"? 


7. Un calcolo miope, certo: ma nell'€uropa accecata dall'ordoliberismo delle regole automatiche e non negoziabili, anche la metafora di un gioco al massacro che non ha più nulla di cooperativo.  
Molto egoistico, piuttosto, anzi, improntato alla preservazione del proprio fortilizio, avendo posto in sicurezza frontiere e liquidità del sistema bancario, e in attesa, quasi beffarda, del crollo di qualcun altro.
Facendo finta, ad esempio, che esistano regole interne all'Unione bancaria che consentirebbero di evitare di far ricadere sui risparmiatori-contribuenti, in applicazione irrinunciabile del fiscal compact, il costo della ricapitalizzazione "pubblica" del sistema bancario italiano. Ovvero, dell'acquisto, totalmente o parzialmente "pubblico", dei debiti in sofferenza (che continuano a generarsi per via delle politiche di applicazione del fiscal compact!).
8. L'Italia è sola, più che mai, e si affida al wishful thinking tardivo.


Questa è l'€uropa dell'ipocrisia, dell'ostilità strisciante di tutti contro tutti e, sotto-sotto (neppure troppo),  distruttiva dell'altro
Paludata di inutili vertici e inutili dichiarazioni, in un minuetto che assomiglia alla vigilia della prima guerra mondiale.
Da qui al vertice del 16 settembre sarà una lunga estate calda...

martedì 28 giugno 2016

GERMANIA "ANNO ZERO": ZERO REFLAZIONE E ZERO REVISIONI DEI TRATTATI. OPEN YOUR EYES!

http://www.quotehd.com/imagequotes/authors6/leonardo-da-vinci-artist-quote-blinding-ignorance-does-mislead-us-o.jpg

1. Accadono cose strane: il Regno Unito (che non ha una Costituzione scritta e che perciò ha una certa "libertà" nel qualificare gli eventi della propria politica interna) ha svolto un referendum consultivo per uscire dall'UE e, adesso, deve ancora adottare la decisione formale che attiva la procedura di recesso ai sensi dell'art.50 del TUE, affidando tale decisione al prossimo governo, che si formerà in esito a nuove elezioni, conseguenti alle dimissioni del premier Cameron. 
Cosa perfettamente legittima, dato che il referendum consultivo non impegna in modo vincolante la volontà del parlamento, e del governo che si regge sulla maggioranza parlamentare. Una situazione che, in realtà, si verificherebbe pure in Italia in caso di svolgimento di un analogo referendum (comunque altamente sconsigliabile finché si permane nell'eurozona); ammesso che questo fosse legittimamente realizzabile su un trattato già in vigore, e sempre che si risolva l'oziosa questione del tipo di fonte - legislativa ordinaria o costituzionale- che lo dovrebbe prevedere (oziosa se si ammette che il suo esito non sarebbe, appunto, vincolante per gli organi supremi di indirizzo politico).

2. La reazione dell'UE - o meglio dell'UEM- dovrebbe essere quella di  una profonda riflessione che porti gli Stati "trainanti" della c.d. integrazione europea a interrogarsi sulle cause del disagio diffuso in quasi tutti i paesi-membri e preveda delle conseguenti contromisure: diciamo subito che, stante l'impianto normativo dei trattati, le norme essenziali che li caratterizzino e la visione politico-economica (ordoliberista) che esse riflettono, tali contromisure dovrebbero condurre ad una revisione dei trattati. 
E non solo, ma ad una revisione mirata a mutare lo scenario essenziale che determina il disagio diffuso: vale a dire, l'egemonia commerciale e industriale tedesca e i suoi effetti di lungo corso sull'assetto sociale dei paesi che appartengono anzitutto all'eurozona ma, non secondariamente, a tutta l'Unione,e dunque in termini derivati dalla impostazione fiscale e dall'idea di desovranizzazione degli Stati nazionali che, comunque, deriva dall'adesione all'UE.
Ma subito, l'idea di una revisione dei trattati, senza la quale la causa prima del disagio di tutta l'Europa "federata" non sarebbe minimamente intaccato, viene scartata e posta al di fuori di qualsiasi agenda.

3. Ieri si è svolto il vertice Merkel-Hollande-Renzi per discutere la linea da tenere sulle future (e ancora incerte nei tempi) iniziative da assumere per fronteggiare il Brexit: tanto per cominciare, posto che di revisione dei trattati non parla alcun resoconto mediatico dell'incontro, c'è da registrare una frasetta buttata là dall'Huffington post (che dobbiamo ritenere ben attrezzato a parlare di cose €uropee): “Perché noi tre? Perché siamo i paesi più popolati d’Europa e siamo i paesi fondatori. L’anno prossimo celebreremo i 60 anni dei Trattati a Roma…”, concede Hollande che pure è il meno entusiasta del terzo incomodo, Renzi.

Se si dovesse, anche mantenendo una certa riservatezza, pensare ad una revisione dei trattati,  - ma la stessa riservatezza su tale intenzione non ha molto senso, dato che opinioni pubbliche e "mercati" sarebbero invece rassicurati da una sua ragionevole esternazione pubblica - Hollande dovrebbe essere perfettamente cosciente che l'Italia sarebbe, oggi più che mai, il più importante alleato per condurre in porto un'operazione tanto complessa e difficile. 

4. Ma i contenuti stessi del colloquio di ieri, così come riferitici dai media, ci parlano solo di una Germania attendista, che non ha alcun interesse ad allargare il discorso oltre la fissazione di linee generali di un futuro accordo di recesso con il Regno Unito e di un Hollande che non sembra aver avanzato, o sostenuto con energia, proposte convergenti su quelle avanzate dall'Italia.
In realtà, il complesso della discussione comunicata all'esterno, non fa emergere alcuna intenzione di revisione dei trattati: e lo diciamo per coloro che credono che si possa discutere con la Germania per chiedere misure riequilibratici che presuppongono, per necessità logica, tale revisione
Facciamo un esempio che nella situazione contingente, è il più significativo e attuale.
Supponiamo cioè che si muova, in una formale trattativa di salvezza dell'eurozona (e, con essa, della parte più importante del  motore presuntamente "cooperativo" europeo) una richiesta alla Germania di reflazionare: cioè di rivalutare, per via di politiche fiscali (espansive) e del lavoro (adeguate politiche salariali), il proprio tasso di cambio reale, allentando la pressione sulla correzione imposta agli altri paesi in termini di svalutazione interna (e quindi di politiche deflattive operate tramite austerità fiscale nonchè discipline del mercato del lavoro che, attraverso disoccupazione e precarizzazione accentuate, portino alla riduzione dei salari nominali, riallineandoli alla rispettiva produttività reale, cioè inseguendo la Germania sul piano delle sue proprie politiche deflattive anticipate dalla fine degli anni '90). 

5. Per poter ottenere un qualche risultato in questa direzione, occorrerebbe che il sistema sanzionatorio attuale, praticamente a effetti nulli, fosse profondamente rivisto: invece della procedura avviata, nel 2013 (!) dalla Commissione per lo squilibrio eccessivo dei conti esteri tedeschi non s'è saputo più nulla e la Germania continua imperterrita nel suo atteggiamento mercantilista. 
In pratica, il quadro legale europeo, sugli squilibri da avanzo eccessivo delle partite con l'estero, è un mero palliativo sprovvisto di qualsiasi persuasività normativa.

Va poi precisato che senza intaccare questo pseudo-sistema di inefficace correzione del più anticooperativo degli squilibri macroeconomici, con ciò arrivando a una revisione dei trattati e delle fonti da esso derivanti (in particolare del regolamento concernente la Macroeconomic Imbalance Procedure — MIP), l'Italia non ha alcun speranza di vedere accolta la proposta avanzata dal nostro premier di "avere margini di flessibilità per tagliare l’Irpef e per gli investimenti".
Una tale pretesa, infatti, allontanerebbe l'Italia dalla strada della correzione svalutativa interna imposta dal bench mark della produttività reale e del CLUP tedesco, portando l'Italia stessa, e non la Germania, a reflazionare e, quindi, a subire ancora di più la pressione competitiva dei prodotti tedeschi (e non solo) sul nostro mercato interno, rimangiandosi, mediante un ritorno al disavanzo estero, la poca crescita che tali misure, comunque molto limitate nelle dimensioni che sarebbero consentite, potrebbero innescare.

6. E dunque, se in astratto, la richiesta italiana è "tatticamente" posta in modo ragionevole, (“si tratta di rendere esplicito che andar via dall’Unione non è indolore, altrimenti rischiamo l’effetto domino”, dice una fonte italiana vicina al premier. Come si fa? Rendendo l’Ue più funzionale, più giusta, più attraente. Quando arrivano a discutere del documento comune del vertice di oggi, Renzi riesce a ottenere che la nuova agenda fatta di “difesa delle frontiere esterne”, dunque terrorismo e immigrazione, e di “crescita” siano legata ad un “calendario stretto e a impegni precisi”. Proprio per “rispondere alle sfide poste dal referendum britannico”), gli strumenti pratici messi sul tappeto sono di ben scarsa efficacia rispetto alla dimensione del problema strutturale esistente.
Giusto chiedere un "calendario stretto e impegni ben precisi", ma non c'è un quadro di norme che obblighino la Germania a fare alcunché di significativo nella direzione che sarebbe concretamente utile, tranne che concordare, ovviamente, che l'uscita dall'Unione, dopo il "fattaccio Brexit", non debba essere indolore. 
Il resoconto fa pensare, piuttosto, a un dialogo fra sordi, dove Hollande neppure è entusiasta della presenza italiana al vertice della "crema", e la Merkel propina le solite concessioni che, nel linguaggio consolidato del diritto europeo (quello della forte competizione tra Stati sul mercato unico a "economia sociale di mercato" fondato sulla "stabilità dei prezzi"), non significano nulla
Infatti, Per il momento però Renzi si accontenta della promessa inserita nel documento finale:
Per ogni paese della zona euro, saranno necessari ulteriori passi per rafforzare la crescita, la competitività, l’occupazione e la convergenza anche nel campo sociale e fiscale”.
Non c'è niente da fare: in €uropa, a trattati invariati, la crescita si ottiene solo con la maggior "competitività" e questo significa stabilità dei prezzi e livello di (dis)occupazione compatibile con essa: cioè, alta disoccupazione strutturale e, inevitabilmente, effetti destabilizzanti della stessa immigrazione (che, in questo contesto è l'epifenomeno dell'economia sociale di mercato, non la causa prima effettiva della situazione insostenibile dell'eurozona e dell'intera UE).

7. La verità è che ci sono ragioni storico-economiche profonde che impediscono di considerare possibile una modifica dell'assetto socio-economico imposto dai trattati europei; ragioni che affondano le radici un un'incoercibile cultura politica dei tedeschi che non è una semplice riserva "mentale" rispetto all'intera costruzione europea, ma una vera e propria conditio sine qua non, in assenza della quale è più probabile che la Germania esca, essa stessa, dall'UE-UEM, ma dopo aver lottato strenuamente con tutta la sua enorme influenza politico-economica, piuttosto che fare concessioni.
E queste ragioni storico-economiche, bisogna dirlo, corrispondono pure all'approccio dominante con cui l'Italia si è avvicinata alla costruzione europea, cioè in funzione di un'ammirazione incondizionata verso l'impostazione tedesca, attribuibile compattamente a tutti gli ital-costruttori dell'€uropa, da decenni e decenni: questa ammirazione conduce a un atteggiamento automatico di "imitazione a qualunque costo", sicché, all'interno delle classi dirigenti italiane, esistono resistenze al mutamento di paradigma €uropeo probabilmente non minori di quelle tedesche.
E certo questo non depone in senso favorevole alle prospettive di una risolutiva ed oculata revisione dei trattati e, tantomeno, ad un mutamento spontaneo delle politiche economico-commerciali, e fiscali, della Germania.  

8. Per chi volesse misurare come la "strana coppia" Italia-Germania, un tempo creatrice dell'Asse, oggi convinta assertrice del deflazionismo e del libero mercato (del lavoro), sia saldata ab origine nella sede della costruzione europea, basta richiamare l'analisi ammirata, dell'impostazione politico-economica tedesca, compiuta dal principale "padre italiano" del federalismo europeista a cui è dovuta la serie di iper-convinzioni, ipostatizzate e sacralizzate, che tutt'ora caratterizzano la cultura €uropea delle nostre classi dirigenti e mediatiche.

Ce ne aveva riferito di recente Arturo, riportandosi un lungo brano di Einaudi:
"Le prediche inutili", Einaudi, Torino, 1959, pagg. 296 e ss.: il capitolo si intitola "E' un semplice riempitivo!" A che si riferisce il nostro? All'aggettivo "sociale" dell'economia sociale di mercato. Sappiamo già che cosa ne disse Hayek, vediamo che ci racconta Einaudi.
“Quando giunse in Italia la notizia della nuova vittoria dei democristiani nelle recenti elezioni generali per la Germania occidentale e si seppe che la vittoria era stata dovuta al prestigio del cancelliere Adenauer, che negli anni di suo governo aveva dato prova di essere uomo di stato, forse il maggiore tra quelli oggi in carica, ed al successo della politica economica di Ludwig Erhard, ministro dell’economia e si disse che quella politica economica era general­mente reputata liberale o liberista, subito fu replicato da varie parti democristiane e socialistiche, che, si, qualcosa di liberale c’era in quella politica, ma non tanto da cancellare quel che di interventistico o dirigistico o sociale vi è nella dottrina comune ai partiti che si dicono democristiani, laburisti, socialdemocratici o socialisti; e si aggiunse da taluno che quel che vi era di liberale o liberistico nella politica del professor Erhard si spiegava con la ricchezza tedesca, con la copia delle materie prime possedute dalla Germania, con il grado di avanzamento della sua industria, con la piena occu­pazione di cui godono i lavoratori di quel paese.”

“Questioni grosse, che non possono essere toccate di passata, qui, dove invece si vuol rispondere unicamente al quesito: quale è stata la politica economica di Erhard, quella politica, il cui successo grandioso ha contribuito in cosi notabile parte, e taluno dei commentatori forestieri disse massimamente, a confermare la maggioranza degli elettori tedeschi nella loro opinione favorevole al governo di Adenauer?
Qualche incertezza nasce dalla denominazione che lo stesso Erhard ha dato alla sua «politica sociale di mercato», dove l’aggettivo «sociale» par dominante e siffatto da dare un’impronta caratteristica all’insieme. 
Chi non legge al di là dei nomi e dei titoli, osserva: politica «sociale» e quindi non politica «liberale» di mercato; quindi un mercato si, ma soggetto alla socialità, quindi subordinato e guidato dallo stato, unico rappresentante della società intera.
Al «sociale» si appigliano massimamente coloro i quali aborrono, come il diavolo dall’acqua santa, dal «liberale »; e cercano persuadere se stessi e sovrattutto gli ascoltatori e lettori, in cui intravedono un elettore, che il liberalismo di Erhard non è il liberalismo tradizionale, classico, quello dei liberisti; ma è un altro, tutto nuovo di zecca, non mai conosciuto prima, il quale si attaglia benissimo al socialismo, al corporativismo, al partecipazionismo, al solidarismo, al giustizialismo, ed a tutti gli altri -ismi, dei quali in sostanza essi continuano ad essere gli adepti.”

Tant’è; non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire; epperciò seguiteremo per un pezzo a vedere la gente dalle idee confuse divertirsi a far ballare le parole sociale, liberale, socialità, mercato, intervento, regolazione, statizzazione, socializzazione, concorrenza sfrenata e falsata, giusta e vera; ed il ballo, essendo di mere parole, sarebbe adatto per tutti coloro, e sono i più, i quali non vanno al di là delle parole ed immaginano di attrupparsi in parti politiche che paiono combattersi, sol perché si buttano addosso l’un l’altra parole prive di contenuto. Meglio è far parlare direttamente l ’Erhard; il quale, per fortuna nostra, ha scritto di recente un libro, egregiamente voltato in italiano col titolo Benessere per tutti.”
Per evitare confusione, metterò in corsivo le parole di Ehrard. Dunque: 
“Il principio della libertà economica si riassume (p. 8):
In primo luogo nella libertà di ogni cittadino di determinare i proprii consumi e la propria vita nel modo che, entro i limiti delle sue disponibilità finanziarie, corrisponda alle idee e ai desideri personali di ciascuno e [in secondo luogo nella] libertà dell’imprenditore di produrre c di smerciare ciò che, secondo la situazione del mercato, vale a dire secondo le manifestazioni dei bisogni di tutti gli individui, egli ritiene necessario c profìcuo.

9. Continua Einaudi: 
"La politica di mercato diventa «sociale» grazie al mezzo adoperato all’uopo. Mezzo è la concorrenza e basta questa, senz’altri amminicoli, ad ottenere l ’effetto «sociale». Siccome i politici si contentano dell’aggettivo, l ’Erhard volontieri indulge all’innocuo vezzo linguistico (p. 2):
Attraverso la concorrenza si consegue una socializzazione del progresso e del guadagno e per di più si tiene desto lo spirito di iniziativa individuale.”
“Il sistema di una economia sociale di mercato inspirata ai principii liberali ha avuto un successo di gran lunga superiore a qualunque specie di dirigismo (pp. 54-55):
La riuscita di un triplice accordo che dovrebbe essere l’ideale di ogni economista di moderno stampo liberale: aumentando la produzione e la produttività e in proporzione con essa anche i salari nominali [mi auguro non vi sfugga che questa è esattamente quella che Paolo Pini ha chiamato la “regola di piombo” sui salari di Mario Draghi], l’accrescimento del benessere, grazie a prezzi stabili o magari decrescenti, va a beneficio di tutti...
La nostra politica economica avvantaggia il consumatore; egli solo è misura e giudice di ogni processo economico. Questa politica dell’economia sociale di mercato ha dato al mondo intero la dimostrazione che i suoi principii della libera concorrenza nella produzione, della libera scelta dei consumi, come pure della libera espansione della personalità, garantiscono successi economici e sociali migliori di qualunque specie d’economia ufficialmente diretta e vincolata.”


Concorrenza vorrebbe dire lotta ai monopoli ma 
L’Erhard, consapevole della difficoltà di una lotta diretta contro i monopoli, non si dilunga tuttavia sul problema. Evidentemente preferisce i mezzi indiretti di lotta. Prima fra tutte la stabilità della moneta (p. 8):
Chi prende sul serio l’impegno [dell’aumento del benessere] deve essere pronto ad opporsi energicamente a qualunque attacco contro la stabilità della nostra moneta.
L’economia sociale di mercato non è immaginabile senza una coerente politica monetaria.
[Vi contrastano], ad esempio, gli accordi fra datori di lavoro e maestranze, il cui effetto ha già condotto a superare con l’aumento dei salari quello della produzione, contravvenendo cosi al principio della stabilità dei prezzi. Lo stesso rimprovero si può fare agli industriali se per rimediarvi o per proprio tornaconto credono di potere cavarsela con un rialzo dei prezzi. La colpa diverrebbe addirittura disastrosa, se qualcuno osasse provocare un processo deliberatamente inflazionistico, per poter cosi rimborsare con maggiore facilità i crediti ottenuti.”
“I dirigisti sono i peggiori nemici della stabilità monetaria ed il controllo delle divise è sinonimo di disordine (p. 179):

Non si dà forse prova di una addirittura grottesca degenerazione quando si registra la peggiore forma del disordine, cioè ramininistrazione forzosa delle divise, sotto la rubrica « ordine »? Dovremmo liberarci una buona volta anche dall'idea che l’ordine regni pienamente là dove il maggior numero possibile di persone sono occupate a imporre regolamenti ed a moderare il disordine. Se non si vede nessuno che si occupi del mantenimento dell’ordine, ancora troppi credono, sbagliandosi di grosso, che cosi non possa esservi ordine di sorta. Alla stessa stregua in tutte le conversazioni europee non sarebbe da pensare soltanto a ciò che abbiamo da mettere a posto; dovremmo pensare altrettanto a ciò che possiamo o meglio dobbiamo abolire per rendere possibile uno sviluppo naturale e organico dell'Europa...
Chi riuscisse ad abolire l'amministrazione forzosa delle divise avrebbe fatto per l'Europa più di tutti i politici, statisti, parlamentari, imprenditori e funzionari presi insieme.”

Il dirigismo monetario prepara la guerra (p. 192):
Il beneficio della liberalizzazione e il maleficio del controllo delle divise vanno d’accordo come il fuoco e l’acqua. Il controllo delle divise è per me il simbolo del male quale che sia la veste sotto la quale appare; dal controllo delle divise traspirano la maledizione e l’odore della preparazione bellica e della guerra, dal cui disordine distruttore esso è nato.
Le sanzioni automatiche valgono più di quelle concordate fra stati. Ai tempi del regime aureo la cattiva condotta economica e finanziaria di un paese dava luogo senz’altro, senza uopo di accordi internazionali, alle necessarie sanzioni (p. 169):

Se ai tempi della valuta aurea un paese sovrano avesse creduto di poter rinunciare a una politica economica e finanziaria bene regolata e a una giudiziosa politica creditizia, o, in altre parole, se un paese avesse professato qualche ideologia contrastante con questo postulato dell’ordine interno e dell’equilibrio, le conseguenze del suo contegno si sarebbero ben presto fatte sentire. E le conseguenze le avrebbe dovute sopportare esso stesso. Allorché, in regime monetario a base aurea, si era esaurita la possibilità di afflusso di capitali o quella di deflusso dell’oro non v’era potenza al mondo capace di salvare dalla caduta il corso del cambio del paese. Al tempo della valuta aurea non venivano impartiti ordini né da istituzioni né da persone. Esisteva il comando anonimo, impartito dal principio regolatore, dal sistema. Esso però non era gravato da idee di sovranità nazionale, né dalle fisime di una possibile autonomia politico economica, né da preconcetti o suscettibilità di qualunque genere.”.
10. E, nel prosieguo dell'esposizione, si comprende anche come, se poi invece del comando anonimo servono i memoranda del MES, come la Corte di Giustizia ci insegna, va bene lo stesso.
“La stabilità della moneta non vive da sé. Viga il sistema aureo o quello della moneta regolata, affinché ad esempio il principio del mercato comune europeo duri, occorre (p. 172), come in passato per il regime aureo, non ricchezza o forza, ma solo la modesta nozionc che né uno stato né un popolo possono vivere al disopra delle «proprie condizioni ».
Se si vuole che la moneta sia stabile, importa innanzitutto mettere in ordine la propria casa. Perciò l’Erhard è scettico rispetto al toccasana dell’europeismo se questo non è preceduto ed accompagnato dall’ordine interno (p. 169):
In America vige una massima che suona: stability and converlibility begin at home (stabilità e convertibilità cominciano in casa). È proprio ciò che manca in Europa...
Un paese membro può giungere ad essere maturo per l’integrazione soltanto quando è risoluto non solo a ristabilire il suo ordine interno, ma anche a conservarlo irremissibilmente...
Si pensi, ad esempio, solo alla dottrina di Keynes, allo spendere per creare disavanzo, alla « politica del danaro a buon mercato » con tutti gli annessi e connessi.”

Quindi Erhard è favorevole sì all’integrazione europea, ovviamente purché liberista
Non sarebbe certo ragionevole concedere ai singoli paesi membri mano libera per regressi sulla via dell’integrazione, di modo che, presentandosi, ad esempio, difficoltà nella bilancia dei pagamenti, potessero venire impiegate clausole protettive, in virtù d’una propria sovranità, rimessa in vita per l’occasione. 
Né è buona soluzione che il paese in questione... possa venire successivamente costretto ad abrogare queste clausole protettive, qualora una decisione in tal senso venga presa da una maggioranza qualificata. Non c’è bisogno di molta fantasia per capire che una decisione del genere, costituendo un atto poco amichevole, non potrebbe, in pratica, essere quasi mai adottata.

O il mercato comune sarà liberista o correrà rischio di cadere nel collettivismo (p. 208):
Nel mercato comune... o si fa strada lo spirito del liberismo ed avremo allora un’Europa felice, progressiva e forte, o tentiamo di accoppiare artificiosamente sistemi diversi ed avremo perduta la grande occasione di una integrazione autentica. Una Europa dirigisticamente manipolata dovrebbe, per sistema, lasciar paralizzare le forze di resistenza contro lo spirito del collettivismo e del dominio delle masse, e illanguidire il senso di quel prezioso bene che è la libertà.
La politica di armonizzare, uguagliare, compensare è (p. 208):
quanto mai pericolosa... Lo sviluppo tendenzialmente inflazionistico in alcuni paesi (con rigidi corsi dei cambi!) è da riferire, non da ultimo, anche alla concessione di prestazioni sociali superiori alle possibilità di rendimento dell’economia nazionale. Poiché nel campo politico un adeguamento nelle prestazioni sociali non può avvenire mai verso il basso [che pessimismo ingiustificato!], ma solamente verso l’alto, ne deriva la conseguenza che anche quelle economie nazionali le quali avevano potuto finora conservare un ordine equilibrato, o vengono spinte per forza, a loro volta, su quella via rovinosa, o devono scontare la colpa altrui sotto la forma dell’applicazione di clausole protezionistiche da parte dei loro contraenti.”

Conclusioni di Einaudi
“Gli estratti da me insieme cuciti nelle pagine precedenti chiariscono il significato sostanziale dell’aggettivo «sociale» ficcato in mezzo alle parole « politica di mercato », che sono il vero sugo della dottrina di Erhard. 
Non pochi anni or sono Ferdinando Martini, assillato da una anziana signora britannica, la quale non rintracciava nei vocabolari della lingua italiana una parola molto usata nel parlare comune veneto e di cui gli imbarazzati amici italiani avevano una certa ritenutezza a dichiararle il senso, la tranquillò con: «la non si confonda, signorina, gli è un semplice riempitivo ». 
In senso diverso ed opposto, anche il qualificativo « sociale » è un semplice riempitivo. A differenza di quello del Martini, che è di gran peso per la persistenza dell’aggregato umano, il riempitivo « sociale » ha l’ufficio meramente formale di far star zitti politici e pubblicisti iscritti al reparto «agitati sociali».”

11. Se si è avuta la pazienza di seguire queste analisi e queste "prediche", e l'intreccio condiviso del pensiero di Einaudi e Erhard, si spiega molto bene cosa possa significare la apparente "concessione" (sulla crescita!) che la Merkel avrebbe elargito nel documento finale del vertice di ieri.
Ma, senza aggiungere altro discorsi fatti in fin troppe occasioni, si comprende anche come una trattativa per far reflazionare la Germania, o anche concedere a un paese "debitore" dell'eurozona una maggior flessibilità fiscale, scivolando, agli occhi dei tedeschi e dei nostrani liberal-europeisti, nel "vivere al di sopra dei propri mezzi", sia completamente al di fuori di ogni possibile orizzonte culturale, direi del bagaglio concettuale, disponibile alla classe dirigente che governa l'€uropa. 

E che non vorrà, a qualsiasi costo, rinunciare alle sue prerogative: meno che mai attraverso un “calendario stretto e a impegni precisi”, nel senso di rivedere dei trattati che, allo stato, consentono legittimamente all'impostazione tedesca di intendere ogni rilancio della stessa €uropa solo e sempre come un inasprimento delle condizioni di consolidamento fiscale mediante "regole automatiche" e nella ricerca della stabilità dei prezzi e della moneta, facendo esclusivamente  pagare ai propri partners più "deboli" ogni aggiustamento. 
Salvo, da parte della Germania, non considerare a sè applicabile alcuna regola - tra l'altro non propriamente "automatica" (quanto invece all'acqua di rose")-, in tema di squilibri macroeconomici determinati dagli esiziali avanzi eccessivi della bilancia dei pagamenti.

Non aver chiaro questo retroterra ideologico, fideistico e economico-negoziale, e illudersi di una ragionevolezza e di una "disponibilità" tedesche, non può che portare ad una perdita di tempo prezioso e a un disastro per l'intera €uropa.  

domenica 26 giugno 2016

IL FANTASMA DI HAYEK RIAPPARE NEL DISPREZZO ELITARIO PER IL VOTO (BREXIT DELIRIUM -3)

 http://www.sinistrainrete.info/images/stories/stories3/Fantasmi-Playmobil1.jpg

1. Dire che la situazione "è grave ma non seria" appare un paradosso persino un po' logoro, alla luce della reazione del sistema mediatico, e del suo sovrastante concerto di forze dominanti. 
Stiamo assistendo a tentativi di neutralizzazione dell'esito del referendum Brexit che, personalmente, come ho spiegato, ritengo assuma un valore più simbolico che relativo a contenuti significativi di un mutamento di paradigma politico-economico
Si vuole, addirittura, che il referendum sia prontamente ripetuto e, per implicita logica, almeno fino a quando non si raggiunga la vittoria del "remain". Una petizione intenderebbe  legittimare tale ripetizione del voto, salvo che non si comprende bene chi siano i "sottoscrittori":

Of the 2.3 million signatures only 365k came from the UK lol pic.twitter.com/Oi6kAdeANY
— Daniel #leave (@Daniel__Brookes) 25 giugno 2016

2. In alternativa si propone che il referendum concernente scelte "importanti" debba avere almeno un quorum del 75% di votanti e del 60% di "favorevoli": notare che si adduce a sostegno il parere favorevole della Venice Commission UE, quella che ritiene che non il modello parlamentare-elettivo ma (v.p.2) un sistema di governance tecnocratico-finanziaria, modellato su quello della World Bank, debba governare l'€uropa.

Quindi neppure un 59% di voti pro-Brexit sarebbe considerato idoneo a scalfire il fogno e a far riflettere su come, in termini pratici e di obblighi di diritto internazionale già vigenti, l'effetto pratico della stessa Brexit non potrebbe mai essere traumatico come lo si dipinge, nella stucchevole campagna terroristica che, in Italia, raggiunge i suoi massimi vertici.
Più in generale, si mette in discussione la stessa idoneità della volontà popolare a esprimersi sull'assetto socio-economico da imprimere al proprio ordinamento, ritirandosi fuori una sorta di stizzosa repulsione per il "populace", come già additato da Wolf, ingrato e incompetente rispetto alle scelte inoppugnabili già fissate, una volta per tutte, dalla elite e diffuse alle genti dai suoi corifei intellettuali e espertoni "lottatori".

3. Come sottospecie di questi alti lai di denuncia della volgarità inaccettabile del voto, si propone la deprivazione del voto di chi non sia "gggiovane" e erasmus-europeista.
Chi riassume bene questo insieme di posizioni è Beppe Severgnini, che se la prende, naturalmente con vecchi, ignoranti e campagnoli, che, dunque, hanno rovinato l'illuminata e istruita consapevolezza degli erasmus-europeisti, che risulterebbero dunque gli unici legittimati al voto, dall'adesione alle decisioni irrevocabili delle elites, - che mantengono infatti la disoccupazione giovanile in €uropa a livelli senza precedenti dalla crisi del 1929
E questo nonostante che i fatti smentiscano clamorosamente questa illusione:Chiediamo scusa ai giovani: né leave né remain. Sono solo andati pilu. pic.twitter.com/5YSHSbJEgN
— Monscolombo (@Monscolombo) 26 giugno 2016
Il dato, infatti, è che l'astensionismo più alto al referendum lo hanno espresso proprio i giovani

4. E l'astensionismo, come noi abbiamo visto e proprio in base a studi compiuti da scienziati sociali inglesi in tempi "non sospetti", non indica certissimamente un entusiasmo verso l'UE, quanto piuttosto una sfiducia ancora più drastica in ogni livello di istituzioni che, a parole, come l'UE, si adopera così tanto per l'occupazione giovanile senza, stranamente, riuscire ad ottenere alcun risultato dalle sue fantasmagoriche iniziative, piani e programmi specialissimi
E quelle viste finora, sono solo una parte tutto sommato limitata delle "voci" di contestazione iper-europeista dell'esito della consultazione popolare britannica, in un curioso misto composto da rivendicazione dell'insindacabilità (democratica) delle scelte delle oligarchie e da giovanilismo sostenuto a spada tratta da...anziani o anzianissimi tecnocrati (propugnatori coerenti del libero mercato deflazionista ad alta disoccupazione strutturale e giovanile). 

5. Questa situazione così palesemente contraddittoria ha però una radice: ne abbiamo già trattato e, per la verità la questione ha avuto anche altri approfondimenti. 
Ma per semplificare la corretta interpretazione dell'ideologia che sottosta a questi atteggiamenti, mi è parso utile riproporre un sunto dei passaggi salienti del post: LIBERISMO E LIBERALISMO: LA LIBERTA' NON E' UN BENE IN SE' MA LA INSINDACABILE RAZIONALITA' DEL MERCATO.
Il post ci spiega in cosa consista la autodefinizione dell'atteggiamento politico "liberale" e il suo concetto della democrazia e dei processi elettorali considerati "ammissibili".
"La "comoda" autodefinizione come "liberale", permette di non doversi assumere l'onere di comprendere il senso scientifico-economico e l'inscindibilità del "liberismo" (dal liberalismo), evitando così la prospettiva del fronteggiare la responsabilità, morale e culturale, di tutte le varie forme di autoritarismo, anche gravi e recenti, nonchè di fallimento sociale e politico, legate al liberismo-liberalismo.
La comoda autodefinizione in questione, dunque, è una forma di autolegittimazione di ordine psicologico, spesso alimentata da un confuso (quanto appagante) idealismo circa il concetto prioritario di libertà, concetto sbandierato come sinonimo dell'agire del "mercato", senza però conoscere il senso di questo "accoppiamento" piuttosto automatico."

6. Su questo punto ci illumina subito Bazaar con questa sintesi sarcastica ma tragicamente esatta delle "conseguenze" sociopolitiche di Hayek:
"Hayek semplicemente constata che la democrazia (intesa come "ordo") è un particolare ordinamento per cui, chi non passa la legge darwiniana (non è abbastanza blatta o ratto), non viene pinochettanamente lanciato giù da un aereo, ma viene "educato" dagli strumenti di propaganda di chi - al riparo del processo democratico - confeziona l'opinione pubblica.
Quando l'élite blatera di libertà (o meglio di liberalismo), anche se solo per bocca dei suoi "intellettuali" di riferimento come il mostro di Friburgo, parla di libertà dal "processo democratico", libertà dagli interessi collettivi.
Freedom from... freedom.
Tradotto: Power of the market free from... power of the people".

E ci siamo: perveniamo alla democrazia idraulica, espressamente teorizzata da Hayek e assunta oggi, con un indiscusso riflesso pavloviano, come concetto dominante di democrazia "conforme" alla attuale civiltà della comunicazione dell'immagine
E dunque contano i mezzi di comunicazione e formazione della pubblica opinione e, più ancora, ovviamente, il loro controllo e orientamento
Per quanto più volte citato, non è mai sufficiente ripetere questo concetto hayekiano:
«Il controllo economico non è il semplice controllo di un settore della vita umana che possa essere separato dal resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini. E chiunque abbia il controllo dei mezzi deve anche determinare quali fini debbano essere alimentati, quali valori vadano stimati […] in breve, ciò che gli uomini debbano credere e ciò per cui debbano affannarsi».
(F. von Hayek da "Verso la schiavitù", 1944).

7. ADDE: Dell'aforisma hayekiano, che segue, sottolineiamo la parola "beforehand" (in anticipo): la libertà, cioè l'ordine naturale e "scientifico" del libero mercato "senza frontiere", deve essere svincolata da ogni rapporto con qualunque genere di "benefici attesi". La libertà-legge del mercato è oggetto di una fede incrollabile e incurante dei costi per l'individuo "comune": ovviamente, solo "alcuni" individui hanno diritto di avvantaggiarsi di tale "libertà" e, perciò, di reclamare lo "status quo" come incontestabile: e tanto basti. 
Fine del discorso e chiunque metta in discussione ciò sarà "eticamente" delegittimato come "vecchio, campagnolo, ignorante", comunque inidoneo a esprimere una volontà da prendere in considerazione: ossia, appunto, al livello di "blatta o ratto".
Capirete bene come, in questa visione, sia da respingere con disgusto il voto, in quanto spinto dalle sopra viste volgari e "irrazionali" aspettative di promuovere un qualche beneficio per la massa dei votanti o, come nel caso del Brexit, di protestare contro qualche forma di disagio o squilibrio socio-economico, allo scopo di porvi fine.


8. Così lo stesso Bazaar, ci approfondisce il quadro del fenomeno:
"La democrazia per Hayek è essenziale dunque come metodo, non come fine. 
Rifacendosi a Tocqueville, egli sottolinea infatti che la democrazia è l'unico strumento efficace per educare la maggioranza, in quanto la democrazia è soprattutto un processo di formazione dell'opinione pubblica. Il suo maggior vantaggio sta quindi non nella sua immediata capacità di scelta dei governanti, ma nel far partecipare attivamente alla formazione dell'opinione pubblica la maggior parte della popolazione, e quindi nel permettere la scelta fra una vasta gamma di individui. 
Ma, una volta accolta la democrazia all'interno del liberalismo, Hayek non si stanca di ripetere che il modo in cui il liberale concepisce il funzionamento della democrazia è del tutto peculiare. [ndr, ora vai di supercazzola!] 
L'idea, infatti, che il governo debba essere guidato dall'opinione della maggioranza ha senso solo se quell'opinione è realmente indipendente dal governo stesso, poiché l'ideale liberale di democrazia è basato sul convincimento che l'indirizzo politico che sarà seguito dal governo debba emergere da un processo spontaneo e non manipolato.  
L'ideale liberale di democrazia presuppone, quindi, l'esistenza di vaste sfere indipendenti dal controllo della maggioranza, entro le quali si formano le opinioni individuali
Questa è la ragione, dice Hayek, per cui la causa della democrazia e la causa della libertà di parola e di stampa sono inseparabili. Da ciò discende che l'idea ultrademocratica che gli sforzi di tutti debbano essere guidati incondizionatamente dall'opinione della maggioranza o che la società sia tanto migliore quanto più si conforma ai principi comunemente accettati dalla maggioranza, è un vero e proprio capovolgimento del principio attraverso il quale si è sviluppata la civiltà (Enciclopedia del Novecento, 3° vol., 1978, p. 990)".

9. Si può dire che "...questa è la versione per cui processo elettorale e opinione pubblica sono due cose distinte, o meglio, il controllo esercitato sulla seconda costituisce la pre-condizione di ammissibilità del primo.
Coloro che soprassiedono saldamente alla conformazione dell'opinione pubblica, però, devono inderogabilmente essere espressione di quella Tradizione, (per la verità molto recente...), che estrinseca e autentica ciò che può legittimamente costituire la Legge (naturale e non prodotta dai parlamenti), ma avendo la sua origine nel mondo pre-istituzionale e superiore al processo elettorale
Questa predeterminazione a priori della Legge, da parte di una oligarchia insita nell'ordine naturale delle cose, fa in modo che la "legislazione" (cioè il prodotto istituzionale dei governi-parlamenti designati elettoralmente) sia sempre perfettamente conforme alla Legge a gli interessi della stessa oligarchia "naturale".
Questo processo di affermazione ininterrotto della Legge, implica un circuito che definiremmo costituzionale-materiale: i produttori-proprietari, cioè gli operatori economici, titolari degli interessi (unici) che incarnano la Legge, e gli operatori culturali (accademia, giornalisti, esponenti della letteratura e dell'arte) che la esplicitano, e la rendono adeguata agli svolgimenti storico-politici, nel formare l'opinione pubblica, si esprimono e il voto vale solo a condizione di riflettere questo processo di istituzionalizzazione a priori del mercato".

10. Il sottinteso (cioè, tale da non dover essere manifestato espressamente ai soggetti che lo subiscono) presupposto elitario di esercizio del potere politico-istituzionale, come appare evidente, rende il processo elettorale (solo) un metodo di rafforzamento del potere di condizionamento dell'opinione pubblica. Cioè l'esito del processo elettorale deve essere costantemente una sua mera conseguenza.
Al punto che permette di elaborare un ulteriore camuffamento della vera titolarità del potere supremo di decisione politica: il concetto di mercato, impersonale e svincolato dall'individuazione di una qualsiasi categoria sociale di essere umani.
L'oligarchia-elite, detentrice del potere di fissare la Legge al di sopra di ogni istituzione sociale (elettiva o meno che sia), trasforma in una meta-necessità incontestabile (come le trasformazioni climatiche o gli eventi meteorologici o terremoti e cicloni), il "governo dei mercati"
ADDE: Il voto, attesa la incomprensibilità (v. aforisma qui sotto), da parte dell'individuo comune-elettore, della realtà normativa naturale, è solo un processo subordinato di ratifica delle decisioni "impersonali" del mercato.

 11. Questo legame tra "libertà", Legge e "ordine del mercato", nell'ambito del liberismo, (che poi è il liberalismo: come abbiamo visto, inutile distinguerli ai fini fenomenologici), ci viene ben illustrato da Arturo:
"L'autonomia (dell'opinione pubblica dal governo, in quanto espressione della "tirannica" maggioranza, ndr.) che intende difendere Hayek non va intesa come un spazio "processuale" democratico nell'ambito del quale possono essere elaborate le più diverse soluzioni e proposte politiche. 
Tale autonomia risulta meritevole di difesa solo in quanto il nostro ritiene che certi gruppi, che naturalmente si premura di individuare lui, siano depositari di una propensione al mantenimento dell'ordine spontaneo fondato su regole di pura condotta: una sorta di Volksgeist liberista, che dev'essere preservato dall'influenza culturale "costruttivista" (cioè dai processi normativi e di intervento pubblico, oggi, basati sulle Costituzioni democratiche, ndr.).
Ripeto però che questo comporta una nettissima clausola limitativa, in quanto l'ordine del mercato non può essere né progettato né discusso razionalmente, perché è esso stesso a produrre la ragione, salvo che questa decida "abusivamente" di allontanarsene. 

12. Ovvero l'autonomia di cui parla Hayek rappresenta semplicemente l'insieme delle strategie sociali e politiche (la famosa "demarchia") con cui intende portare avanti la sua agenda politica. 
Di cui la denazionalizzazione della moneta è un elemento fondamentale, a cui una federazione europea interstatale può, nella sua stessa interpretazione (The Economic Conditions of Interstate Federalism), assolvere egregiamente. 
D'altra parte gli stessi libertari italiani erano, fino a non tanto tempo fa, disponibilissimi nei confronti dell'euro proprio per i suoi effetti di smantellamento dello stato sociale (vedi più estesamente De Soto, con ricche citazioni di Hayek e Mises); ora, con altrettanto pragmatismo (tira una certa arietta...), lo (ri)mandano "...al diavolo".

"Una delle (tante) obiezioni che è stata rivolta ad Hayek è l'implausibilità sul piano storico-sociologico della qualifica di "spontaneo" all'ordine del mercato
Perché mai sarebbero spontanei l'imposizione delle norme del code civil in materia di rapporti di lavoro o il regime di proprietà realizzato dalle enclosures, ma non forme di controllo pubblico del credito? 
Ovvero come si fa a separare storicamente "costruttivismo" e "spontaneità", pubblico e privato, se non sapendo già fin dall'inizio che cosa si intende trovare?
E' interessante notare che questa obiezione è stata formulata sia da difensori della democrazia interventista sia da suoi acerrimi nemici, come Rothbard, che riteneva appunto storicamente implausibile, e quindi politicamente debole, il criterio proposto da Hayek."

14. Sempre da Arturo, cercando di selezionare tra le cose, sempre significative, che ci propone, possiamo infine meglio comprendere, ormai, alcune conclusioni riassuntive dell'intero quadro finora tratteggiato:
"...Hayek..fu molto efficace sul piano politico-ideologico ed è per questo che qui ce ne occupiamo, mentre i veri e propri anarco capitalisti - con tutto il rispetto - almeno in Italia si possono tranquillamente ignorare (se non per le munizioni che possono fornire contro gli stessi Hayek e co.).
In ogni caso, su quelli che erano i suoi obiettivi ultimi, credo sia molto istruttiva la lettura di questo articolo di Corey Robin
"La distinzione che Hayek istituisce tra massa e elite non ha ricevuto una grande attenzione dai suoi critici e dai suoi (stessi) sostenitori, sconcertati o sedotti dal suo continuo invocare la libertà.
Tuttavia un'attenta lettura del ragionamento di Hayek rivela che per lui la libertà non è nè il bene supremo nè un bene in sè. E' un bene contingente e strumentale (una conseguenza della nostra ignoranza e la condizione del nostro progresso), il cui fine ultimo è rendere possibile l'emergere di un legislatore eroico del "valore". Cioè l'ordine del mercato, fondamento della stessa razionalità che, apparentemente impersonale, è invece, molto personalisticamente, quella della convenienza della elite...