1. Ci siamo imbattuti in un'interessante questione storico-politica e, naturalmente, economica, sollevata in questo scambio di tweet:
E se il fascismo fosse la garanzia richiesta dalle classi dominanti italiane in cambio di un ritorno alle politiche di piena occupazione?https://t.co/t4rhajHTJz— Wendell Gee (@WendellGee1985) 14 febbraio 2018
2. Anzitutto per poter porre complessivamente la questione in questi termini (cioè estesi all'ipotesi formulata nella risposta), occorrerebbe che fossero attualmente riconoscibili una serie di presupposti di fatto, politico-economici, di non secondaria importanza, considerata l'attuale situazione italiana (di accentuata e irrinunciabile de-sovranizzazione, persino caldeggiata nella sua ulteriore accentuazione), e cioè:
a) che esistano delle classi dominanti ancora italiane, o, quantomeno, tali per cui l'italianità delle stesse rivesta tutt'ora un ruolo decisionale autonomo nella formazione di un indirizzo politico sostanzialmente predeterminato, da decenni, nell'alveo delle istituzioni Ue e, più precisamente, dell'eurozona (essendo l'appartenenza a quest'ultima, un aspetto preponderante rispetto alla determinazione dell'indirizzo politico, come abbiamo visto più volte e, funditus, in questo post):
b) che sussistano elementi manifestati, dinnanzi all'opinione pubblica - e quindi tracciabili in sede mediatica - di una tale volontà, da parte di una classe dirigente nazionale (effettivamente titolare del potere decisionale);
c) che, data una (difficile) risposta positiva ai primi due quesiti, il concetto di piena occupazione inteso (da tale classe dirigente) sia quello, - suggerito nel tweet di risposta mediante un link esplicativo-, definito nel ben noto scritto di Kalecky, anch'esso qui molte volte citato.
3. Tale scritto espone una tesi che, - sotto il profilo qui rilevante (l'articolo di Kalecky tratta in effetti di una molteplicità di problemi politico-economici relativi al modo ed alla "misura" in cui l'intervento statale possa determinare il pieno impiego, evitando effetti inflazionistici)-, può riassumersi, a sua volta, in due proposizioni:
i) pieno impiego, secondo Kalecky, è quella situazione in cui il licenziamento cessa di essere una misura disciplinare (onde l'offerta di lavoro trova un'immediata "domanda", anche in caso di pregressa cessazione del rapporto determinata dall'esercizio di qualsivoglia tipologia di potere negoziale di recesso da parte del datore; id est; una situazione di assenza anche della c.d. disoccupazione "frizionale");
ii) che la situazione del mercato del lavoro di "pieno impiego" sia tale da condurre i capitalisti ("gli uomini d'affari"), alla seguente, ed apparentemente paradossale, preferenza.
3.1. Ecco come questa preferenza ci viene descritta da Kalecky:
"E’
vero che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego
di quanto sono in media in una condizione di laisser-faire; e anche
l’incremento dei salari risultante da un più forte potere contrattuale
dei lavoratori è più probabile che incrementi i prezzi anziché ridurre i
profitti, e danneggi così solo gli interessi dei rentier.
Ma la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” sono più apprezzate dagli uomini d’affari dei profitti (ndQ.; poco prima K. precisa: "Abbiamo considerato le ragioni politiche dell’opposizione contro la politica di creare occupazione con la spesa del Governo. Ma anche se questa opposizione fosse superata - come potrebbe benissimo essere superata sotto la pressione delle masse - il mantenimento
del pieno impiego causerebbe cambiamenti sociali e politici che
darebbero un nuovo impulso all’opposizione degli uomini d’affari").
Il
loro istinto di classe gli dice che un durevole pieno impiego non è
sano dal loro punto di vista e che la disoccupazione è una parte
integrante di un normale sistema capitalista".
Ne discende, che, data questa preferenza, - che secondo Kalecky corrisponde ad un un principio “morale” della massima importanza-, laddove appunto sia garantita la predominanza politico-istituzionale dell'etica capitalista, come in effetti accade oggi in Italia in virtù dell'azione pluridecennale del vincolo esterno €-monetario, per rentiers e uomini d'affari, è il concetto di "piena occupazione" ad essere diverso da quello descritto da Kalecky.
4. In particolare, tra il concetto keynesian-kaleckiano di "pieno impiego" e quello neo-liberista attualmente recepito dai trattati €uropei, nell'ormai noto art.3, par. 3 del TUE (qui, p.1, ex multis), esiste una differenza fondamentale (che pone capo a due diverse concezioni della società e del welfare), tale che essi possono essere accomunati solo nel "nomen" ma nella sostanza risultano essere "due concetti diversi e incompatibili di "piena occupazione".
Ed infatti, per la visione propria del monetarismo e della neo-macroeconomia classica, (recepita appunto nei trattati), la piena occupazione è solo quel livello di occupazione compatibile con il prioritario mantenimento del tasso di inflazione preordinato alla stabilità dei prezzi (cioè assenza di variazioni significative dell'inflazione stessa), e strumentale al mantenimento della stabilità finanziaria, e quindi monetaria, cioè alla preservazione della moneta unica. Questa stabilità finanziaria come condizione di mantenimento della moneta unica, a sua volta giustificativo del sistema dell'aggiustamento per via fiscale, è perfettamente descritto da Draghi; qui, p.1.
Da cui, nel quadro €uropeo di "piena occupazione", si manifesta il concetto precettivo di NAIRU, cioè di alta disoccupazione strutturale, considerata tuttavia "piena" in quanto...non inflattiva; concetto di per sè in contrasto con gli artt. 1, 4 e 36 della nostra Costituzione; cioè col diverso modello keynesian-kaleckiano, e kaldoriano, in essa normativamente recepito.
5. Svolte queste premesse, nell'attuale assetto politico-istituzionale, determinato dalla prevalente volontà della classe dirigente italiana di permanere nella moneta unica, possiamo riassuntivamente rispondere alla sequenza di domande poste all'inizio di questa analisi (e aggiungere altre considerazioni coerenti con questo quadro).
Una classe dominante italiana, in senso economico, è probabilmente tutt'ora operante.
La sua identità affonda le sue radici nel c.d. Quarto Partito, quale "definito" da De Gasperi, nella sua azione politica costante (di sicura opposizione e boicottaggio della realizzazione del modello costituzionale).
L'assetto sostanziale dei rapporti di forza sociale risultante da tale azione, si può tendenzialmente assumere come "costituzione materiale"; almeno, come vedremo, nel senso inteso da Mortati. Dunque non in quello di una piena legittimità normativa sopravvenuta di tale assetto, cioè con la compiuta e definitiva riducibilità de facto della Costituzione formale a mera"costituzione programmatica", o addirittura "aperta" (cfr; Mortati, "Istituzioni.." vol.1, pagg. 36 e 37). Almeno stando a quanto chiarì Calamandrei: qui, p.3.
Certo, tale tendenziale "costituzione materiale" è nel senso di un controllo istituzionale da parte di questa classe di "timocrati" (la confessione di De Benedetti nei verbali Consob, ne costituisce probabilmente la forma più esplicita e avanzata di autoaffermazione pubblica, persino più forte della storica dichiarazione di De Gasperi).
6. Diverso discorso, invece, riguarda la "classe politica" (cioè quella preposta formalmente alle istituzioni di vertice costituzionalmente previste, ed individuata in apice dal processo elettorale): l'affermazione di una costituzione materiale neo-liberista, per prevalente e crescente azione del "vincolo esterno", esclude che si possa parlare di una classe politica ancora istituzionalmente dedita alla formazione di un indirizzo economico-politico indipendente e costruito sull'interesse nazionale, quantomeno nella sua definizione risultante dalla Costituzione del 1948.
Ma, a ben vedere, questa subordinazione all'€uropa, è il frutto della preventiva affermazione di quella stessa costituzione materiale (come in effetti suggeriscono le "memorie" di Carli, qui, p.6, e la ricostruzione di Graziani), cioè dei rapporti di forza socio-economici, che viene a consolidarsi istituzionalmente nei trattati europei, fin dalla loro origine: siamo indubbiamente di fronte a un processo circolare, per cui la forza interna della timocrazia finanziaria-capitalistica (qui, p.7), detta la crescente desovranizzazione alla classe politica nazionale, - proponendosi fin dall'inizio come strumento privilegiato di contrasto del "comunismo"- ma in realtà propugnando, sempre ab initio, la restaurazione dell'ordine internazionale del mercato.
7. Volendo sintetizzare una risposta proprio alla questione considerata all'inizio, è evidente che, dato l'assetto timocratico e "antisovrano" attuale, il concetto di piena occupazione in senso kaleckiano sia fuori questione, come possibile obiettivo contemplato dalla classe dirigente nonché dalla classe politica di gran lunga prevalente.
Persino la rivendicazione di sovranità compiuta al di fuori di una consapevole enunciazione di voler mutare l'assetto costituzional-materiale sopra descritto, non genera una traiettoria incompatibile con l'impulso primo del processo che vede nella costruzione €uropea e nella moneta unica uno strumento potente di riassetto sociale, ma pur sempre uno strumento (tra i vari disponibili).
8. In particolare, manca l'idea stessa, culturale e programmatico-politica, che la disciplina del mercato del lavoro debba essere funzionale al pieno impiego in senso kaleckiano (v. sopra), e non invece subordinata all'interesse supply side: cioè di una parte per definizione prevalente, e che viene considerata formalmente equiparata all'interesse del lavoro, in un'accezione di eguaglianza formale di tipo paracorporativo.
Dunque, si manifesta attualmente (in modo più o meno politicamente consapevole) un'ipotesi in cui, un certo tipo di "sovranismo", non risulta dissimile da quella impostazione neo-corporativa che ha contraddistinto autonomamente il modello tedesco (e austriaco, ad esempio), come ben evidenzia Eichengreen nella sua "Nascita dell'economia europea" (qui, pp.2-3); cioè un modello già capace di vita propria nell'ordoliberismo adottato a livello nazionale, e che venne successivamente trasposto come principio ispiratore della costruzione europea, passando per l'Atto Unico e Maastricht.
La posta in gioco, naturalmente, è la creazione di quella riaffermazione di potere, contrabbandata come "efficienza allocativa" che riproduce il lavoro-merce.
La posta in gioco, naturalmente, è la creazione di quella riaffermazione di potere, contrabbandata come "efficienza allocativa" che riproduce il lavoro-merce.
9. Dunque: la vicenda del fascismo non è analogicamente ricorrente, nei suoi elementi essenziali storicamente individuabili, nella situazione attuale.
Concordo con Massimo D'Antoni su questo punto fondamentale: non esiste una torsione "verso sinistra", cioè verso gli interessi del lavoro e verso la socializzazione del potere politico-economico, che possa indurre la classe dirigente "materiale", la timocrazia, a utilizzare un movimento politico in funzione di sedazione e neutralizzazione violenta di una tale evoluzione politica.
Neppure, abbiamo visto, i titolari degli interessi prevalenti all'interno dei stessi rapporti di forza strutturati nella nostra società hanno motivo, ed urgenza (almeno allo stato attuale), di rinunziare al concetto "neo-classico" di piena occupazione (e di stabilità dei prezzi, connessa al rigido controllo della dinamica salariale cui è funzionale l'attuale, e praticamente incontestato, assetto normativo del rapporto di lavoro).
E naturale corollario di ciò è che neppure hanno ragione, tali stakeholders dominanti, di rinunziare al complemento di tale assetto: cioè lo smantellamento progressivo del welfare, cioè di sanità (salario indiretto) e pensioni (salario differito) pubbliche, assunti come deprecabili elementi di "resistenza" dei lavoratori (sia pur disoccupati e precarizzati) alla flessibilità competitiva del mercato del lavoro.
10. E se, quindi, non ci sono i presupposti per un interesse conservatore analogo a quello che incarnò la promozione e l'appoggio all'instaurazione del regime fascista (proprio per l'assenza di una sinistra in senso "economico", cioè socialista e non cosmetico-globalista), non v'è, attualmente, neppure luogo per uno scambio tra "piena occupazione" e preservazione autoritaria dell'ordine sociale.
Quest'ultima prospettiva, in realtà, è più adatta a descrivere l'avvento del nazional-socialismo: cioè, come abbiamo visto in questo e quest'altro post, un "ribaltamento" della forma di Stato (da liberale a totalitario) conseguente ad una fase di applicazione delle politiche neo-classiche di austerità e pareggio di bilancio come reazione pro-ciclica (efficiente-allocativa) conseguenti ad una crisi economico-finanziaria.
La "piena occupazione" di Hitler era un obiettivo al quale proprio l'uso dello strumento militar-poliziesco, consentì di risultare pienamente compatibile con la prosecuzione di una politica di salari reali sostanzialmente inferiori alla crescita nominale della produttività, e anzi, improntata all'imperativo "popolo tedesco esporta o perirai!", unita alla mai avvenuta rinuncia al gold standard, accompagnata alla (sola) espansione della spesa pubblica in riarmo ed al simultaneo crescente uso di lavoro forzato schiavile in danno delle minoranze invise all'ideologia di facciata del regime.
11. Un'ideologia che, realisticamente, si può definire sovrastrutturale, perché comunque ben attenta all'equilibrio dei costi del processo produttivo consentito da questo sfruttamento disumano, combinato con la stagnazione salariale, e dei consumi interni (cfr.; pp.3-5), instaurativi di un'economia mercantilisca funzionale ad una "di guerra" a carattere imperialista.
Insomma, il trade-off "piena occupazione" (a salari costanti) vs. "disciplina nelle fabbriche" (ottenuta tramite la...Gestapo), in uno sforzo commerciale e militare di espansione verso l'esterno, non risulta attualmente all'orizzonte del panorama culturale e politico italiano.
Ma ancor più certamente, non lo è neppure lo schema "neutralizzazione della piazza operaia" vs. "accettazione di un sacrificio del principio rappresentativo elettorale" pur di avere la "governabilità".
Oggi, la governabilità e il sacrificio della rappresentatività elettorale (delle classi lavoratrici), non hanno bisogno dell'autoritarismo poliziesco statalizzato e del "partito unico" per essere preservati. Basta la profonda interiorizzazione di massa (ovvero "proiezione identificativa degli oppressi") della propaganda pluridecennale in cui è consistita la "rivoluzione liberale".
Certo, fuori dalla moneta unica questo controllo propagandistico perderebbe molta della sua efficacia (fondata sul ricatto della paura): ma le conseguenze di una tale perdita sono ben lungi dall'essere potenzialmente in atto.
Cosa potrebbe accadere in questa futura evenienza, peraltro, è un futuro tutto ancora da scrivere. Ed in definitiva, dipende dalla potenziale riemersione della coscienza politica della classe lavoratrice nazionale...cioè della sovranità democratica costituzionale.
“proprio per l'assenza di una sinistra in senso "economico", cioè socialista e non cosmetico-globalista”
RispondiEliminaBazaar19 maggio 2017 18:13
Se esiste una "destra sociale" è perché esiste una "sinistra liberale".
Che i nuovi e vecchi geni di queste para-categorie ideologiche si rendano conto di meritarsi l'un l'altro, è inverosimile. Sono categorie fatte apposta per dimenticarsi i fondamenti economici intorno alle democrazie sociali.
La teologia nasce per togliere coscienza: per definizione. (cfr. E. Husserl)
Per la coscienza esiste la filosofia.
Per l'oggettivazione, ovverosia per garantire che il confronto, la discussione e la dialettica non siano poggiati sul nulla, esistono le scienze sociali.
La teologia liberale universalizza il suo totalitarismo come il "cattolicesimo romano": cioè con la contrapposizione di categorie adialettiche (cfr. Schmitt, in merito alla "complexio oppositorum"). Esempio? "destra sociale" Vs "sinistra liberale".
Entrambe sovrastrutture del capitalismo sfrenato.
Hanno una cosa importante in comune: l'anticomunismo a prescindere. Chissà come mai.
(Chissà da dove arriva la sterminata cultura e la coscienza morale che ha permesso di passare dallo Stato borghese allo Stato sociale. Mah. Chissà.)
Comunque: dal Settecento si è consapevoli con chiarezza che il gruppo sociale che può facilmente detenere la sovranità (l'aufhebung nella dialettica sovrano/antisovrano dovrà per forza contenere il principio di sovranità: ossia di libertà o potere, che, semplicemente, se "vincesse" l'antisovrano mondializzatore, non essendo il "potere sovrano" schmittianamente localizzato, non potrà garantire in alcun modo uno Stato di diritto) dipende dalle dimensioni territoriali.
Insomma, è cultura secolare - basta leggersi la discussione tra federalisti e antifederalisti durante la costituzione degli USA - che, in funzione delle dimensioni del territorio governato si gettano le basi per la democrazia sociale, la dittatura borghese o... la tirannia.
https://orizzonte48.blogspot.com/2017/05/lantisovrano-ha-paura-della-sovranita.html?showComment=1495210414860#c2893652474124967521
Capire ora cosa siano sostanzialmente "destra e sinistra", cosa implichi difendere la rendita da oligopolio o il reddito da lavoro, potrebbe essere lievemente importante: proprio perché è da quasi trentacinque anni che abbiamo abbandonato progressivamente la strada "asfaltata" della Costituzione. Parlare ora di destra e sinistra non è più una questione "cosmetica"..."
http://orizzonte48.blogspot.com/2015/10/la-comprensione-che-non-ce.html
Grazie Luca.
EliminaQuesto commento è non solo tra i migliori (e poteva essere postato "a prescindere") ma è anche particolarmente in-topic :-)
concordo... è un grande commento.
EliminaMa tra i "nostri" ( che per me sono veramente pochi... questa è la mia impressione),lo capirà qualcuno/a?
Ho i miei seri dubbi.
Tra l’altro TUTTI parlano di “sovranisvo” senza capire una mazza (per non dire altro)
Bazaar20 maggio 2017 10:30
Tra l'altro.... "sovranismo". Simpatico neologismo.
Quando esisteva la cultura - ossia quando esistevano i socialisti - si parlava di indipendenza nazionale.
Quando ci si è poi resi conto che il liberoscambismo neocoloniale, ossia l'imperialismo dei pacifisti, aveva inciso anche irrimediabilmente sulla demografia di popoli che non avevano più un minimo di coscienza nazionale - magari divisi politicamente tramite linee etniche, si è iniziato a parlare di autodeterminazione dei popoli.
https://orizzonte48.blogspot.com/2017/05/lantisovrano-ha-paura-della-sovranita.html?showComment=1495269005036#c441414929139368154
Forse non è arrivato il commento…. Se non vuole pubblicarlo lo capisco….
RispondiEliminaComunque….
concordo... è un grande commento.
Ma tra i "nostri" ( che per me sono veramente pochi... questa è la mia impressione),lo capirà qualcuno/a?
Ho i miei seri dubbi.
Tra l’altro TUTTI parlano di sovranisvo…. senza capire una mazza (per non dire altro)
Bazaar20 maggio 2017 10:30
Tra l'altro.... "sovranismo". Simpatico neologismo.
Quando esisteva la cultura - ossia quando esistevano i socialisti - si parlava di indipendenza nazionale.
Quando ci si è poi resi conto che il liberoscambismo neocoloniale, ossia l'imperialismo dei pacifisti, aveva inciso anche irrimediabilmente sulla demografia di popoli che non avevano più un minimo di coscienza nazionale - magari divisi politicamente tramite linee etniche, si è iniziato a parlare di autodeterminazione dei popoli.
https://orizzonte48.blogspot.com/2017/05/lantisovrano-ha-paura-della-sovranita.html?showComment=1495269005036#c441414929139368154
perché dico questo?.... semplice… perché nessuno o la maggior parte delle persone che stanno su twitter (e che seguono lei), NON hanno capito questo post (o sono semplici tifosi):
Ma, al di là di tutto, l'essenza di ciò che vi riguarda, sta nel non accettare il "male minore".
Non starò a dire cosa sia, in questo concreto momento storico, questo male minore.
La logica della paura che l'accettazione di esso impone nelle scelte che decideranno le vostre vite (perché dovreste aver compreso che siamo in una fase "decisiva"), è evidente.
Magari ci torneremo nelle prossime settimane; e, temo che, ad un certo punto dell'anno, spiegarlo con esempi concreti sarà fin troppo facile. Ma sarà anche troppo tardi.
http://orizzonte48.blogspot.it/2017/12/laugurio-da-orizzonte48-per-il-2018-non.html
p.s. questo post lei lo ha scritto prima (almeno credo) di sapere della definizione del “male minore o il meno peggio” di Gramsci. Non ho altro da aggiungere…. Anzi solo una cosa… penso che sia arrivato il momento di fare una scelta di che seguire su twitter (almeno io farò così quando rientro).
Cioè voglio dire il famoso “O noi o loro” di Bazaar, io la vedo come… O noi (che sono quelli che credono nelle Costituzioni) o loro (che sono quelli che non ci credono). E su twitter è la maggioranza delle persone che seguo.
Non credo serva dire che sono d’accordo su (quasi) tutto.
RispondiEliminaBanalmente, un partito milizia, per usare l’espressione di Emilio Gentile, capace di ammazzare decine di oppositori politici e sociali (che in questo caso quali sarebbero?) con armi da guerra, naturalmente avvalendosi dell’indulgenza, quando non dell’appoggio, di forze dell’ordine e magistratura, e di dar vita a un regime totalitario (il radicalismo nazista è inspiegabile senza la competizione fra i vari gerarchi che guidavano i diversi potentati da cui era composto il Terzo Reich), non è cosa che si possa tirar fuori improvvisamente dal cappello e al momento, salvo che negli isterismi, speriamo in mala fede, (euro)politicamente corretti, non ve n’è la minima traccia.
Questi sono irresponsabili appelli identitari (poi dicono della destra!) di chi non ha argomenti e vuol zittire quelli altrui, forse sperando di spingere al voto elettori inclini all’astensione e di precostituirsi una scusa per giri di vite autoritari. Di cui a questo punto direi può aver bisogno solo chi intende portare avanti ad oltranza l’agenda della Troika, e nessun altro.
Senza la Grande Guerra e relativa esperienza (orrida) nelle trincee non si sarebbe potuto avere lo squadrismo, almeno in quelle forme e con quella "potenza". Si veda, ad esempio, la ridicola forza dei cd. "neofascisti" degli anni settanta in un contesto ben diverso.
EliminaIl Fascismo è già tornato: al posto del manganello ha il mercato, alla camicia nera ha sostituito i (brutti) completi da banchiere o da €burocrate.
Questa sarebbe ed è la vera emergenza, non il sempiterno ciarlare di Saviano e soci (che ignorano la Storia QUINDI la stuprano QUINDI distorcono la realtà a vantaggio della manina visibile che li sussidia).
Certo, hai ragione, Antonio: lo stesso vale per le milizie naziste (SA e SS) e i precedenti Freikorps.
EliminaD'altra parte la manipolazione della storia delle tragedie novecentesche è un fatto sistematico e pluriennale: Saviano e co. sono i buoni ultimi arrivati.
All'isterismo strumentale, che intende impedire qualsiasi discussione, spesso dove ce ne sarebbe più bisogno, e che banalizza fino al ridicolo drammi dalla cui (presunta) ripetizione ci vorrebbe mettere in guardia, si può solo contrapporre il pacato debunking.
Un buon esempio, tra l'altro anch'esso non casualmente legato alla questione immigrazione, l'ho trovato nel libro di Georges Bensoussan, uno dei più noti storici francesi della Shoah, L'eredità di Auschwitz, Einaudi, Torino, 2014: "Si può citare, passando in un’altra area geografica ma restando all’interno della stessa logica intellettuale, la mobilitazione contro le «leggi Debré» (dal nome del ministro francese degli Interni negli anni 1995-97, Jean-Louis Debré) sul soggiorno degli stranieri in Francia. Certi intellettuali le paragonarono agli statuti degli ebrei promulgati dal governo di Vichy nel 1940 e 1941 e alcuni di essi, durante le manifestazioni di protesta, si mostrarono con una stella gialla appuntata sulla giacca. Grottesco sul piano storico, questo paragone contribuisce, pur con le migliori intenzioni del mondo, a una relativizzazione dell’orrore. Se proprio si vuol trovare un precedente storico delle «leggi Debré» non bisogna cercarlo negli statuti degli ebrei, ma nel decreto legge adottato il 2 maggio 1938 dal governo Daladier (del Fronte Popolare): l’articolo 6 obbligava tutte le persone che ospitavano uno straniero «a dichiararlo al commissariato di polizia o, in alternativa, al municipio». Emanato da autentici esponenti repubblicani, se non dal fior fiore del radicalismo del tempo, questo testo viene oggi dimenticato per lasciar spazio al comodo paravento rappresentato dal regime di Vichy.".
Visto il nulla argomentativo che sta dietro certe posizioni, non stupisce che si cerchino paraventi.
Tutto vero, e come Lei insegna, a giocare con la Storia si finisce sempre e comunque sconfitti se il fine è manipolarla abiettamente. Come i liberali che dimenticano gli elogi einaudiani al Mussolini dello "stato minimo" o i fascisti che giocano a fare i socialisti spacciando l'IRI e la Legge Bancaria del 1936 dimenticando tutti gli anni Venti liberisti...
EliminaNon è un caso che anche la storiografia, tramontato il marxismo almeno ufficialmente, si sia ridotta ad ancella del mainstream liberale (salvo rare e meritorie eccezioni).
Ti prego, Antonio, dammi del tu e non attribuirmi intenti pedagogici di sorta...:-).
EliminaSaviano in particolare con la verità ha un rapporto, diciamo, molto personale. Una segnalazione: Eroi di carta di Dal Lago. L'autore è un po' piddino, ma gli fa un bel contropelo.
Obbedisco :) Ancora negli anni Settanta, un Saviano qualunque non sarebbe arrivato nemmeno alla redazione provinciale de L'Unità. Sarebbe da riflettere anche sullo scadimento progressivo e inarrestabile degli idoli scelti dagli amici piddini et similia.
EliminaChi va con gli zoppi (o i copioni)...
Una risposta davvero molto esaustiva. Grazie mille.
RispondiElimina"Insomma, il trade-off "piena occupazione" (a salari costanti) vs. "disciplina nelle fabbriche" (ottenuta tramite la...Gestapo), in uno sforzo commerciale e militare di espansione verso l'esterno, non risulta attualmente all'orizzonte ... "
RispondiEliminaIl fatto è che non ci sono proprio spazi praticabili di espansione "verso l'esterno". Il tentativo USA di instaurare il mondo unipolare è miseramente fallito e le immani risorse sottratte alla quota salari per inseguire questo sogno di egemonia planetaria hanno distrutto anche la iniziale capacità militare di difendere l'impero.
Caso esemplare è quello dei missili nucleari, dove per ironia della sorte sono proprio gli USA a non avere più un sistema anti-missile minimamente efficiente.
Gli USA infatti uscirono unilateralmente dal trattato ABM con l'URSS quando si sentirono sufficientemente sicuri di poter bombardare ad libitum senza subire grossi danni (cosa peraltro ribadita nel documento 2018 che ho linkato ieri).
Ma gli altri poli con interessi imperiali non sono rimasti a guardare, per cui hanno sviluppato più che adeguate contromisure, tali da aver annullato e superato qualunque gap militare (con una efficienza misurata in termini di risultati/investimenti centinaia di volte migliore che negli USA/EU, perchè in quei Paesi lo Stato governa l'economia e quindi non comprime in maniera insensata la quota salari) .
https://www.zerohedge.com/news/2018-02-14/russia-successfully-tests-new-missile-defense-interceptor
Altro caso esemplare è quello di Israele, che invece di imparare la lezione della guerra persa nel 2006 in Libano (quando gli Hezbollah dimostrarono sul campo di poter infliggere perdite simmetriche agli attaccanti), hanno continuato a coltivare l'assurda pretesa di poter bombardare a destra ed a manca senza pagare il conto.
Il conto è arrivato pochi giorni fa, ed infatti Netanyahu è stato subito accusato di 'corruzione' (i.e. cioè di aver fallito ed aver reso Israele molto vulnerabile).
https://www.veteranstoday.com/2018/02/14/syria-forces-shot-down-13-israel-cruise-missiles-during-feb-10-attack/
Siccome l'ormai impossibile espansione esterna è fallita, i sotto-poli dell'impero USA (GE, FR in primis) hanno rivolto le loro mire sui Paesi ancora passivi (tipo Italia), ma ormai anche per loro è troppo poco e troppo tardi.
Ci sono quindi ampie opportunità per la "riemersione della coscienza politica della classe lavoratrice nazionale...cioè della sovranità democratica costituzionale".
Al di là delle analogie strutturali o meno con il fascismo, il nazismo e la fondamentale questione del controllo istituzionale, trovo proprio demente la dialettica tra fascisti ed antifascisti.
RispondiElimina( tra l'altro @WendellGee è uno pseudonimo che vedo girare da almeno sei anni: ora: possibile che non conosca la differenza tra piena occupazione keynesian-kalackiana e "piena occupazione" in senso neoclassico, liberista ed europeista? l'unica spiegazione è che sia un tifoso della "destra sociale" per la quale Mussolini o Hitler sarebbero stati socialisti impegnati in politiche keynesiane...)
In questo contesto, vorrei ricordare che non è che il totalitarismo di Mussolini fosse più violento del liberale Pinochet. (Perché Pinochet, non solo per quell'Istituto di casi psichiatrici che è il Bruno Leoni, era effettivamente un liberale DOC). Anzi...
Non parliamo poi di quel gioco da imbecilli che è la conta dei morti: Tito Vs Mussolini, Hitler Vs Stalin, Pinochet Vs Pol Pot, e via con le scemenze da bar, da social o da giornalisti.
Innanzitutto la forma autoritaria e tirannica genera oppressione conformemente alle condizioni storico-sociali, quindi culturali, di un determinato popolo: queste non c'entrano NULLA con la struttura sociale e la Weltanschauung che la cristalizza.
Hitler è stato un tiranno tedesco, Franco un tiranno spagnolo, Mussolini un tiranno italiano, Stalin un tiranno russo e Pol Pot un tiranno coreano.
Nelle fosse ardeatine sono morti soldati italiani uccisi da tedeschi, non da nazisti.
Mentre nelle foibe ci stanno italiani uccisi dagli slavi, non dai comunisti.
La questione è che la guerra che ha fornito il tavolo da macello per questi eccidi è stata causata dal nazifascismo espressione dell'imperialismo capitalistico. L'imperialismo capitalistico è una "necessità sociostrutturale". Cosa c'è da capire?
Cosa c'è da capire? Allende provvedeva alle nazionalizzazioni, l'imperialismo statunitense ci ha piazzato Bruno Leoni Pinochet a far le riforme strutturali di segno opposto. Liberali.
Ma nella conta dei morti che fanno i dementi con la bava alla bocca, con tanto di slogan anticomunisti o antifascisti, cosa manca?
Le stragi e i genocidi fatti dalle riforme liberiste: quelle imposte dagli apparati che formano l'intelligence economica dei paesi imperialisti e colonialisti che, i tiranni, li impongono agli altri.
Stragi che possono avere ordini di grandezza maggiori rispetto "ai numeri" espressione dalla violenza poliziesca e dell'oppressione politica.
Tra taglio alla speranza di vita, alle cure sanitarie durante le malattie, bimbi voluti ma mai nati, malattie sociali, ecc, si consumano silenziosamente genocidi dalla prima globalizzazione.
La Sinistra antifascista deve sparire TUTTA e far spazio a quella socialista.
(Dopo il '45, essere antifascisti è significato essere liberali, di conseguenza, o si è socialisti o si è antifascisti)
La propaganda dei tempi nostri... Pol Pot era un tiranno cambogiano.
EliminaNon sono un tifoso della destra sociale. Molto più semplicemente, la mia preparazione sull'argomento è ancora incompleta. Per esempio, non conoscevo la differenza tra il pieno impiego nella definizione K.K. e dei neoclassici. Più che altro perché davo per scontato che la seconda non fosse piena occupazione.
EliminaSono contento che al mio commento su twitter sia seguito questo post che sto leggendo e rileggendo insieme ai vostri commenti.
Tranquillo Wendell: quella di Bazaar era un'ipotesi residuale (criterio di Sherlock Holmes di cui sono stato riesumatore in questa sede).
EliminaLa tua aperta ammmissione di non conoscenza mi pare lealmente corretta.
Di questi tempi, in effetti tutti sono ormai divenuti espertoni e "cultori" della materia; di ogni materia...
Detto questo, non possiamo dubitare dei fatti; sulla normativizzazione nei trattati di "quel" concetto di piena occupazione e sulla teorizzazione scientifica (e etico-ideologica) dello stesso, da parte dell'arco scientifico che parte da Marshall e termina con...Monti (e vari epigoni ital-liberisti oltranzisti di governo e di "lotta" mediatica), ci sono nel post i links.
@Wendell Gee
EliminaPerdonami, partivo dal presupposto che non fossi un lettore di Orizzonte48.... e la mia voleva essere una provocazione in riferimento a coloro i quali hanno coscienza nazionale (insomma, coloro che contribuiscono nelle discussioni "sovranista/antieuro") ma non seguono il lavoro qui svolto che, in definitiva, dà risposte filologicamente molto convincenti per piantarla con la dialettica tra destra sociale e sinistra liberale (che, da quel che vedo, seduce coi suoi frame anche quella marxista...)
Lo scontro tra anticomunisti e antifascisti al di là della storia, porta alla consacrazione del liberalismo come via "moderata e democratica" tra i due "opposti estremismi": insomma la via moderata e democratica di Monti e Pinochet.
Il punto è che poi, nel momento in cui iniziano a "fioccare" le leggi Fiano, queste inizieranno a fioccare anche per censurare i segni "comunisti". E con un lieve problema in più: il comunismo e il socialismo sono, di fatto, il medesimo modello sociale. E i maggiori costituzionalisti indicano nel socialismo "scientificamente inteso" il fine ultimo della nostra Costituzione: ossia realizzare la democrazia nella sostanza socializzando il potere economico e politico tramite la rimozione di quegli ostacoli che l'appartenenza o meno ad una classe si frappongono al pieno sviluppo della persona umana e alla partecipazione di tutti i lavoratori alla cosa pubblica.
Bazaar ha scritto che mi vede in giro da sei anni a questa parte e di questo ne sono felice. Forse, è passato dal mio inutile blog (inutile per gli altri, ovviamente. Per me scrivere è utilissimo per mettermi alla prova e vedere se ho capito quello che studio). Strano che mi abbia scambiato per un simpatizzante della destra estrema, ma non fa niente.
EliminaLei ha capito benissimo il senso del mio tweet ed il riferimento a Kalecki. Io ho apprezzato la sua risposta e sono sicuro di aver capito il mio errore. Certo, prima di comprendere bene tutte le sfumature del discorso ci vorrà ancora molto tempo e molte letture.
Tra l'altro, colgo l'occasione per ringraziarla anche per avermi segnalato la lettura de "Lo sviluppo dell'economia italiana" di Augusto Graziani. Un libro moooolto interessante.
Sì Wendell, su orizzonte48, seguendolo con spirito di ricerca (come ormai la maggior parte dei lettori affezionati) troverai la segnalazione e i brani di una sterminata serie di testi fondamentali (grazie ad Arturo, filologo multidisciplinare maximo da sempre, Bazaar, Francesco Maimone e altri...).
EliminaIl commento di Bazaar di risposta soprastante, tra l'altro, fornisce una chiave di lettura non trascurabile: essere lettori di orizzonte48, o non esserlo, questo è il dilemma. Per non ritrovarsi intruppati in false dialettiche, spesso degeneranti in slogan ed equivoci da "social"; e, perciò, per rimanere nella posizione libera di chi partecipa a un'operazione collettiva di ricerca; la partecipazione stessa alla ricerca è, appunto, libera, come il grado/livello di contributo, o di mera "fruizione", che ci si sente di dare...
@Bazaar: concordo particolarmente con quanto segnali.
EliminaE non perché sei il fondamentale "contribuente" che comunque rimani; ma perché hai espresso con grande nitidezza un senso di allarme relativo a un (ulteriore) prezzo da pagare, in un'imminente prospettiva, in termini di compressione della democrazia costituzionale.
Una deriva già avanzata e che ormai preannuncia di entrare, presto, nella fase di definitivo "fuori controllo".
Un'ultima "dritta" per Wendell: il libro di Graziani è certamente utile e, anzi, un testo importante nel suo settore (storico-economico).
EliminaMa se non si dispone dell'ingrediente che fornisce riassuntivamente Bazaar ("...i maggiori costituzionalisti indicano nel socialismo "scientificamente inteso" il fine ultimo della nostra Costituzione: ossia realizzare la democrazia nella sostanza socializzando il potere economico e politico tramite la rimozione di quegli ostacoli che l'appartenenza o meno ad una classe si frappongono al pieno sviluppo della persona umana e alla partecipazione di tutti i lavoratori alla cosa pubblica") e, se mi consenti, "La Costituzione nella palude" (e...il blog), è difficile trarne un sostanziale "avanzamento" rispetto alla lettura di qualsiasi altro buon libro di storia dell'economia.
Proprio perché quell'ingrediente è fondamentale per produrre la succosa pietanza che serve alla "coscienza"...(ovviamente, a parti invertite, l'altro ingrediente da combinare, manca, in modo altrettanto esiziale, alla generalità dei costituzionalisti)
@bazaar
Eliminapiccolo appunto ortografico, che mi permetto di fare solo come omaggio alla tua felice sintesi di democrazia sostanziale e per le sue future citazioni:
Credo che il "si" che anticipa "frappongono" vada tolto.
@Grazie mille, Luca, per la tua sempre puntuale memoria storica...
RispondiEliminaMi incuriosisce questo tuo "attaccamento" a Twitter: sicuramente un social network aiuta a diffondere "il pensiero", ma "non è *il* pensiero". Soprattutto non è neanche indicativo - almeno in modo diretto - del "pensiero della maggioranza".
Il pensiero collettivo nasce dalla discussione, da una sincera dialettica tra diversi "contributi", umani ed intellettuali: Twitter è un luogo in cui si manifestano brevi "slogan" che nascono altrove.
Quando parafraso Lenin di "O noi o loro", lo faccio semplicemente per ricordare la radicalità morale che deve assumere l'atteggiamento umanistaristico-democratico nel confrontarsi dialetticamente con la fenomenologia del paradigma elitistico-liberale.
(Da cui certi "fenomeni" che imperversano su TV e social networks...)
Banalmente questa radicalità rispecchia quella della volontà di vivere contro la morte.
Quando Lenin afferma "O noi o loro", per "loro" intende ESSI: in primis gli alienati della classe egemone espressione della struttura sociale conformata dal capitalismo liberale.
Per "credere nelle Costituzioni" bisognerebbe prima studiare da "fonti non infette": quindi è necessario quell'atteggiamento forte ed umile di chi sa mettere da parte tanto le proprie insicurezze quanto il proprio orgoglio. Questa è una posizione di carattere morale che va al di là della difesa dei propri "interessi materiali", ossia economici e sociali (o eventualmente politici).
Convengo, però, non so quanto saggiamente, che anche a livello relazionale è meglio perdere un'amicizia che sorvolare sull'ottusità altrui. Ma sai, stando con la Arendt, « meglio rimanere in errore con Platone che andar sulla retta via con questa gente... »
(Caro Quarantotto, ora, quando vedo queste gentili e care personcine che credono di incarnare con onesta ingenuità tratti caritatevoli ed umani, mi vengono in mente i Sepoy al servizio degli inglesi...)
E ne "Il palazzo degli specchi" poi si vede come, al servizio degli inglesi, fossero anche i trafficanti via mare dal Bengala alla Birmania di forza lavoro, sbarcata nottetempo per fare da manodopera a costo ridotto, ed a cui veniva promesso un mondo di benessere per svolgere quei lavori che "i birmani non volevano più fare"...
EliminaPer "credere nelle Costituzioni" bisognerebbe prima studiare da "fonti non infette":
RispondiEliminaIl punto è proprio questo caro Bazaar, io cerco (grazie a tutti voi) di studiare SOLO su questo blog:
E in sostanza, si ha la clamorosa conferma che la sovranità è un concetto equivoco, se non ingannevole, se ci affidiamo alle generalizzazioni mediatiche e perdiamo di vista la nostra Costituzione e 150 anni di conflitto sociale che la precedettero: la "democrazia liberale", alla fine, è inevitabilmente tendente all'idraulica. Sovrana o meno che sia.
Questioni di gerarchia nella politica internazionale non interessano le masse dei disoccupati ma scaldano i cuori di qualche oligarchia-aristocrazia "nazionale".
La solidarietà internazionale tra popoli, come insegnano Basso e Rosa Luxemburg, è concepibile solo tra Stati sovrani che siano democrazie sociali; altrimenti, si ha inevitabile competizione per una posizione gerarchica nella comunità internazionale e soprattutto economica.
L'Italia, anche se non è quasi più consentito dirlo - in un crescendo di neo-autoritarismo realizzato per via mediatica-, è una democrazia "sociale", non una democrazia "liberale": la nostra Costituzione lo afferma con chiarezza.
La democrazia sociale è un di più, perché tutela anche i diritti di libertà, ricomprendendo in sè le garanzie apprestate dalle carte liberali. Chi vi parla dell'Italia come democrazia liberale, lo fa per affermare la soppressione del "di più", in termini di democrazia, che è sancito dalla nostra Costituzione, cioè dei diritti sociali.
Ma por fine a questo autolesionismo in danno del popolo sovrano, cioè di quella globalità di interessi differenziati che la Costituzione intende armonizzare, dipende da noi e solo da noi...
http://orizzonte48.blogspot.com/2016/06/uk-italia-e-la-sovranita-la-sua-ragion.html …
invece come dicevo prima (almeno su twitter) sono circondato dai guardiani “del male minore” e non solo, ( e bada bene son persone che hanno letto e (ri)letto….. (ad esempio) il post che ho giusto linkato ora.)
insomma per capirci… seguire questa gente non mi aiuta…. Anzi mi fa incazzare, perché la Costituzione non è un “gioco”. E’ questo che ho imparato seguendo tutti voi….. forse è per questo che me la prendo tanto e magari si capisce il mio "attaccamento" a twitter… sarà un mio difetto .
Cioè voglio dire siamo sempre al TINA
https://orizzonte48.blogspot.it/2018/02/strategie-elettorali-effetti-imprevisti.html?showComment=1518594760175#c8924167052807405100
e sinceramente ne ho le palle piene.
Per questo che il "O noi o loro" io lo voglio intendere come dicevo prima.
Anche perché chi non “crede nelle costituzioni”… per quanto mi riguarda fa parte di essi. (non Essi)
E anche io convengo con quanto hai detto:
“Ma sai, stando con la Arendt, « meglio rimanere in errore con Platone che andar sulla retta via con questa gente... »”
scusatemi per lo sfogo.
Tosto, impegnativo e come sempre istruttivo questo intervento di Luciano. Da studiare e da meditare.
RispondiEliminaOra, in merito alla questione del fascismo, della sue origini e della sua natura, corre l'obbligo di ricordare che sulla piazza esistono tre tesi storiche (più una) fondamentali degne di questo nome.
(1) Quella di Nolte: il fascismo azione (reazionaria) preventiva dei dominanti per sventare la minaccia comunista e bolscevica (nel contesto di quella che per Nolte era la Guerra civile europea). Che mi pare l'idea avanzata dal D'Antoni per cui, siccome oggi non c'è nessuna minaccia bolscevica, niente fascismo.
(2) Quella del De Felice per cui il fascismo, che prese il sopravvento a sollevazione proletaria già sconfitta e sinistre in ritirata, fu fenomeno rivoluzionario in quanto esprimeva, dentro la crisi d’egemonia delle classi dominanti e del sistema parlamentare, l’ascesa di ceti medi emergenti (non quindi di piccolo borghesi “spostati e falliti) che strappano il potere per modernizzare il capitalismo italiano e fare del Paese un protagonista nel concesso degli imperialismi. Il tutto innervato dal mito catartico dell’uomo nuovo, e di valori nuovi. G.L. Mosse, sulla scia di De Felice sottolinea quindi le radici fondamentalmente giacobine e progressiste del mussolinismo.
(4) Quella di Zeev Sternhell che invece vede nel fascismo una risposta reazionaria e conservatrice di contro alla tradizione illuminista e positivista, quindi alla rivoluzione francese, di qui il debito del fascismo verso il boulangismo prima e il Maurrasismo ed il sorelismo poi. Stante il paradigma Sternhell pone ( di contro al De Felice) un'equipollenza sostanziale tra mussolinismo e hitlerismo
(5) V’è poi il giudizio di Trotsky, meno sofisticato filosoficamente e filologicamente ma più cogente dal punto di vista politico-sociale. Il fascismo è un movimento di massa extraparlamentare reazionario della piccola borghesia puaperizzata che rifiuta, assieme al processo di proletarizzazione, la democrazia parlamentare che vuole sovvertire e rimpiazzare con un regime di tipo bonapartista. Essendo che una terza via tra capitalismo e socialismo non può esservi, esso è destinato a mettersi al servizio della grande borghesia e anzitutto del capitale finanziario, che lo utilizza per schiacciare il movimento operaio e ristabilire, de facto, un ordinamento di tipo liberista (dittatura del grande capitale).
E oggi?
Non sottovaluterei la possibilità che esso risorga. Detto che il fascismo è un fenomeno metamorfico e mutante; che il contesto storico odierno è molto diverso da quello post-Grande Guerra; vero è che la crisi sistemica (che è economica, istituzionale e morale,) offre spazio per un sua rinascita. Certo in forme nuove, e quella che io vedo come la più probabile è quella che ho chiamato xeno-fascismo. Filosoficamente parlando due varianti di questo xenoi-fascismo sono possibili: vedi la modernista (Casa Pound) e quella antimodernista e tradizionalista (Forza Nuova).
Moreno Pasquinelli
E perché solo 3? Ndo' sta scritto?
EliminaConsidera che qui ne sono state esaminate funditus ben di più...ma solo per poter utilizzare un metodo fenomenologico: e questo ci dice che Basso e Polanyi ci forniscono le interpretazioni più coerenti con una corretta rilevazione della realtà politico-economica e istituzionale del tempo. "Del temp"o e, QUINDI, trasponibile nei suoi ELEMENTI ESSENZIALI ai nostri giorni.
Il che ci dice che il fascismo rivive nell'ordine internazionale del mercato restaurato tramite vincolo esterno e autoritarismo (consumista) "pop" (autoritarismo che previene il c.d. "effetto pretoriani", - il che esclude la preferenza per mazzieri extramediatici- e che dunque vale entro i limiti segnalati dall'esperienza "spia" pinochettiana).
Non aggiungerei altro: Bazaar è stato così esauriente che penso che ne riprodurrò in questa sede i commenti su "Sollevazione"...
Concordo con Quarantotto: mi sembra inutilmente dispersivo ricominciare, tra l'altro in modo impreciso, la discussione da zero.
EliminaPer impreciso per esempio intendo: l'interpretazione focalizzata su presunti "ceti medi emergenti" e sulla natura totalitaria, ma di sinistra, del fascismo è stata avanzata da De Felice solo nell'Intervista sul fascismo, non nel Mussolini. Ovvero manca una dimostrazione scientifica di quelle tesi.
Peraltro l'analisi dei dati della distribuzione dei redditi compiuta dalla Zamagni (in Dalla periferia al centro, Il Mulino, Bologna, 1993, pp. 397-99) smentisce la teoria dei ceti emergenti, e ripropone invece quella dei ceti medi in crisi (che De Felice avanzava nel Mussolini), mentre l'idea del "giacobinismo" fascista De Felice la prendeva da Talmon, che però, pochi anni dopo l'Intervista, con Myth of the Nation, Vision of Revolution (che non credo in Italia abbiano letto in molti oltre a me) confermava l'impressione che si aveva leggendo il suo Le origini della democrazia totalitaria citato da De Felice, cioè che il fascismo stava a destra e col giacobinismo c'entrava ben poco.
Sternhell che equiparerebbe fascismo e nazismo?? Trasecolo: "Ma prima di procedere oltre è necessario insistere su un altro elemento della definizione qui proposta: il fascismo non potrà in nessun caso essere identificato col nazismo.". (Z. Sternhell, Nascita dell'ideologia fascista, Baldini e Castoldi, Milano, 2002, pag. 11).
Eccetera.
Non per pedanteria, ma perché a monte dei risultati qui raggiunti c'è una discreta quantità di lavoro, del blogger e di vari utenti, che andrebbe almeno tenuta presente per un'interlocuzione costruttiva.
@Redazione SollevAzione
Eliminaal punto 2) dovrebbe essere "consesso" degli imperialismi; sebbene "concesso" renda meglio.
Caro Arturo,
RispondiEliminami perdoni a sua volta la mia pedanteria. Lei ha tutto il diritto di "trasecolare", ma dov'è che io avrei sostenuto che Sternhell ha equiparato nazismo e fascismo? Risposta: da nessuna parte. Sternhell segnala sì le diverse origini dei due fenomeni (il nazismo nelle cavità dei miti della destra conservatrice non certo dal sorelismo) solo che di contro al De Felice parla di destra reazionaria.
Sul De Felice, vere le sue oscillazioni, ma in sede storiografica, com'è noto, ha rilievo (solo) quanto da lui affermato (tra cui sui ceti medi emergenti) nell'INTERVISTA tra cui la tesi centrale del fascismo come fenomeno modernizzatore e rivoluzionario (che tanto fece imbestialire le sinistre italiane).
Detto questo mi pare di aver alluso che la tesi che ritengo più plausibile sia quella di Trotsky, non quella di De Felice. Quindi sì; anzitutto piccola borghesia pauperizzata. Poi ho azzardato un'ipotesi, che a crisi e pauperizzazione crescente i ceti medi possono ancora oggi gettarsi tra le braccia di movimenti XENOFASCISTI.
Probabilmente non siamo d'accordo.
Qui mi corre quindi l'obbligo di segnalare il mio d'accordo col De Felice: pinochettismo, colonnelli greci, franchismo... non c'entrano una beneamata mazza col fascismo. Di notte tutte le vacche sembrano nere, ma non lo sono affatto.
Moreno Pasquinelli
Caro Moreno, hai parlato di una "equipollenza sostanziale fra hitlerismo e mussolinismo": se intendi che Sternhell li ritiene entrambi fenomeni di radicalismo antiilluminista, qualitativamente molto diversi l'uno dall'altro, allora siamo d'accordo (però le tua formulazione non mi pare comunque felicissima).
EliminaNon stai però rendendo giustizia a un'interpretazione che si snoda su cinque libri, solo i primi due dei quali enfatizzano la componente reazionaria, che però trasformandosi in fascismo diventa "rivoluzionaria" (e stiamo parlando solo del caso francese), mentre, a partire da Ni droite ni gauche, ancora dedicato alla Francia, e soprattutto dalle Origini, Sternhell rinviene nel fascismo, oltre al nazionalismo “della terra e dei morti”, un’importante componente "di sinistra", di "revisione antimaterialista del marxismo" (un ossimoro se mai se n'è visto uno, ma passons), che nel caso italiano è costituita dal sindacalismo rivoluzionario. Ora, se si è letto il primo volume del Mussolini, si sa che De Felice enfatizza molto i rapporti dal giovane romagnolo col sindacalismo rivoluzionario, quindi questa opposizione non è poi così drammatica. Tuttavia, visto che Sternhell è uno storico dell'ideologia, prima di impantanarsi in discussioni così minuzione (avendo in realtà appena abbordato l’argomento, perché le posizioni di Sternhell hanno alimentato, soprattutto in Francia, una letteratura critica vasta e feroce) bisognerebbe essere d'accordo sul peso da assegnare all'ideologia nell'analisi del fascismo, cosa di cui altrove abbiamo parlato a lungo.
Riguardo a De Felice, scusami, ma è vero il contrario: in sede storiografica ha rilievo solo quanto affermato in forma scientifica, cioè con analisi e apparato di note, ovvero il Mussolini, non certo le osservazioni indimostrate, a volte semplici battute, dell’Intervista. Che poi De Felice cercasse la provocazione, per poi atteggiarsi a vittima, e questo abbia conferito all’Intervista una visibilità mediatica del tutto sproporzionata alla qualità del lavoro, mi pare solo un sintomo di un’incipiente spettacolarizzazione della storia, oggi debordante: niente che meriti di essere recuperato in sede analitica.
Sono invece d’accordo che Pinochet e co. sono fenomeni diversi dal fascismo.
Tuttavia, in conclusione, questi esercizi di tassonomia, che possono essere moltiplicati all’infinito, li trovo abbastanza oziosi se non non ci si mette prima d’accordo su una teoria della società (prima il momento logico, poi quello storico) e quindi sulla funzione sociale del fascismo, e sulla sua sostitiuibilità nel ruolo, che è esattamente quello che abbiamo cercato di fare qui.
Onestamente, se dovessi individuare un punto di (ri)partenza storiografico, riprenderei in mano il vecchio Guido Quazza, oggi citato solo come esempio di oscurantismo, che considerava il fascismo un semplice epifenomeno del dominio del grande capitale. Da allora a cambiare non è stata (solo) l’interpretazione del fascismo, quanto quella del capitalismo e delle sue tendenze.
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
EliminaCavoli, Arturo, hai sostanzialmente anticipato quello che (in effetti) avevo già scritto, nella prefazione del prossimo post, prima e indipendentemente dall'aver letto questa tua risposta a Moreno. Siamo alle solite (lettura del pensiero?) :-)
EliminaDai, Bazaar, aspetta il prossimo post, che è praticamente "tuo": c'è qualcosa che impedisce di capirsi con Moreno? Non vorrei crederlo.
In effetti, la "logica" cioè la comprensione fenomenologica, non può che precedere la tassonomia; che è poi tassonomia di interpretazioni storiche; e, purtroppo per molti, non...ermeneutica dei fatti.
Assolutamente. Moreno poi ha un carattere molto, molto, forte...
EliminaUn treno in corsa di filologia arturiana probabilmente non lo "smuove"; magari, con una mossa di "judo dialettico" si arriva ad una comune sintesi.
(Insomma, un buon modo per cambiare la descrizione del mondo potrebbe essere...far perdere "l'equilibrio" :-)
Tra l'altro Arturo tocca un punto fondamentale della "fenomenologia dello Spirito": la storiografia è una scienza che è basata sul dato empirico, la fonte.
EliminaMa una volta individuato altrettanto scientificamente un criterio interpretativo, ovvero quello "materialistico" per cui è il conflitto tra classi dovuto ai rapporti di produzione ad essere il motore del divenire politico, a questo punto è l'interpretazione dei fatti che deve aderire alla logica paradigmatica, non viceversa.
Cognitivamente, è la realtà che deve aderire alla logica, non viceversa.
Ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale.
Per questo il "revisionismo" dovrebbe essere la prassi dello studio della storia; la storiografia risulta una sovrastruttura dei rapporti di produzione e deve aderire al paradigma "naturalistico" che ha una fondazione epistemologica ribaltata, ovvero non ce l'ha... quindi gli stessi "fatti" potrebbero essere in realtà dei fattoidi...
D'altronde Husserl, a suo modo, non fa altro che sottolineare che la scienza fallisce in quanto è essa stessa una "sovrastruttura". La stessa riproducibilità degli esperimenti può essere... ben finanziata per riprodurre... fattoidi scientifici. (Al positivista interessa che siano "scientifici", non che siano "fattoidi")
(ora mi arriva l'afaltata di Arturo...)
Figurati, Bazaar, l’asfaltatore non è un ruolo a cui ambisco. :-)
EliminaTra l’altro sono argomenti di cui abbiamo già parlato. Ricordiamoci sempre Hegel: reale (wirklich) non vuol dire semplicemente esistente. Sta a noi operare la distinzione, con uno sforzo intellettuale che è fallibile e rivedibile, sennò cadiamo nel dogmatismo.
Quindi l’incipit, quando ancora non ho nulla, non potrà che essere fenomenologico; dopodiché dovrò elaborare criticamente le categorie interpretative, quelle delle scienze sociali, in assenza delle quali non saprei neanche pesare la rilevanza dei fatti storici (avevo già provato a esprimere il concetto qui). (Esempio: perché sarei ridicolo se affermassi che il fascismo è essenzialmente una questione di abbigliamento, quindi i suoi elementi qualificanti sono pantaloni a sbuffo e fez?).
Non farei altro che ripetere, meno bene però, quel che dice Luporini a proposito dei pencolamenti positivistici di Engels, quindi tanto vale citarlo direttamente:
“Specificità che si presenta in Engels, implicitamente come una (un poco misteriosa, invero) operatività sistematizzante la quale riesce a fornire un'immagine speculare sistematica opportunamente corretta (korrigiertes Spiegelbild, egli dice), ma « corretta secondo leggi che lo stesso effettivo decorso storico fornisce ». Che è una tipica posizione empiristico-positivistica: con tutte le implicite inestricabili difficoltà che si presentano sempre all'empirismo-positivismo di far stare insieme la moltitudine dei fatti empirici, registrati come tali, con quanto di oggettivamente sistematico ne rende possibile innanzi tutto la stessa individuazione e registrazione.”
Qui sta il punto, a mio avviso: la scientificità dell’analisi sta proprio in questa sistematicità. Che in qualche misura c’è sempre, anche in storiografia: o la si esplicita, e la si rende quindi discutibile; o la si nasconde - perché no? anche a se stessi – riuscendo magari nella notevole impresa di incrociare opacamente e senza criterio cornici interpretative diverse che portano a giudizi oscillanti e contradditori (cosa che capitava spesso a De Felice, come aveva puntualmente notato perfino il suo maestro Cantimori nella prefazione al primo volume del Mussolini).
Certamente la storiografia opera in un certo contesto sociale, quindi come pratica scientifica è vulnerabile all’egemonia ideologica del momento, tanto più quanto più sono fragili e opache le categorie interpretative che usa (anche se una filologia molto scrupolosa può fare in parte da argine).
Questo non vuol dire però che si debba rinunciare ai fatti e alla realtà, “pugno sul tavolo!”, come direbbe la D’Agostini. :-). Lasciamela citare: “Dunque i pugni sul tavolo, in definitiva, non sono miei, ma del linguaggio stesso, in quanto guida il pensiero, e un pensiero tipicamente critico, scettico, e perciò libero e innovativo. È in vista di quel pensiero che la specie umana ha coniato le funzioni intellettuali superiori identificate nei termini to on, to alethes, to agathon, e nei loro derivati e sinonimi.
Il “potere” di questi concetti è l’unico a cui possiamo appellarci contro le falsificazioni e le ingiustizie del potere istituito; o come spiega bene Spinoza nel Tractatus theologico-politicus: contro l’ignoranza che sale in cattedra e si spaccia per sapienza, e da questa cattedra vinta con il nulla reprime il linguaggio e il pensiero.” (Realismo? Una questione non controversa, Bollati Boringhieri, Torino, 2013).
Il problema del criterio sistematico, implicito o esplicito (meglio ovviamente il 2°), in storiografia, a mio modesto parere, essendo quasi irrisolvibile "once and for all", ci dice dei limiti intrinseci di un'onesta ricostruzione storica: prima di sottoporre una ricostruzione fattuale al vaglio valutativo delle regole di altre scienze sociali (ciò che mi pare inevitabile), occorrerebbero delle regole oggettivate e condivise di "raccolta dei fatti".
EliminaSenza queste regole preliminari, un'elencazione dei fatti dovrebbe giungere a minuziosi dettagli caricandosi di larghe aree di "irrilevanza"; ma tali aree, purtroppo non sono determinabili a priori.
La funzione della Storia non è scrivere sentenze; eppure di queste condivide la funzione di quella parte strutturale che viene definito "fatto".
La storiografia, quindi, non dovrebbe assumere compiti valutativi autonomi; cioè estendersi alla struttura della "sentenza" chiamata "diritto".
Ma, al tempo stesso, è arduo confinarla in una funzione meramente preparatoria e sussidiaria dell'applicazione di tipologie di regole valutative che, nella sua funzione ricostruttiva più pura, non dovrebbero limitarla: se non altro perché nella fase di raccolta-selezione dei fatti, ancora non si conosce quale genere di regole valutative saranno 8discrezionalmente) applicabili.
Una specializzazione degli storici, d'altra parte, avviene anzitutto per "epoche", cioè in modo cronologicamente ordinativo; ma ciò già presuppone un giudizio (tassonomico) che inevitabilmente viene attinto da valutazioni selettive più che da fattualità ex se discriminanti.
In pratica, uno storico dovrebbe avere prima un approccio fenomenologico e poi una competenza completa di altre (più rilevanti) scienze sociali: un bel problema teorico-metodologico...
Caro Sign. Arturo,
RispondiEliminain realtà mi pare concettualmente molto sensato il riferimento del Pasquinelli. Consideriamo anzitutto che quello che a mio parere possiamo ben considerare l'unico autentico filosofo italiano del dopo-Gentile, ovvero A. Del Noce (anche superiore teoreticamente al Fabro), ha convalidato e legittimato la visione sternhelliana del fascismo come espressa ne "La nascita"..., al punto da dover rivedere (come anticipò ne Il Sabato, ma poi purtroppo morì) la sua tesi sul mussolinismo elaborata ne L'epoca della secolarizzazione e nel suo poderoso saggio su G. Gentile. Sign. Arturo, per quanto De Felice e Emilio Gentile non dicano propriamente la medesima cosa sul fascismo (natura totalitaria o no del Regime?), una certa tendenza del De Felice è pienamente recuperata ed estremizzata unilateralmente da E. Gentile (storico mediocre e imitatore di Mosse a mio avviso, del tutto digiuno di conoscenze filosofiche), ossia l'essere il fascismo una variante della religione politica apocalittica e messianica di radice giacobina. Viceversa, Sternhell individua l'essenza del fascismo mussolinista nell'essere un atto di guerra all'illuminismo, al modernismo, al razionalismo. Quindi, non vi può essere connessione o tangenza tra le due tesi. E' vero che nella biografia del Mussolini rivoluzionario (ispirato dal Cantimori), De Felice si sofferma sul sorelismo del Mussolini (come potrebbe non farlo?) ma non ne farà l'elemento centrale del fascismo controriformistico e controilluminista, a differenza di Sternhell. Mi scusi, Lei parla di cinque volumi di Sternhell. Il nazionalsocialismo non è propriamente neo-giacobino ed illuminista ma a differenza del fascismo, sarebbe di sostanza luterana e dunque neo-riformistica (rimando al fondamentale "Il santo Reich" di S. Gall). Dunque, non sarebbe, a differenza del fascismo italiano, uno sternhelliano "atto di guerra" anti-illuminista ed antimodernista. In realtà, sono 4 i fondamentali, da quel che so, eventualmente mi corregga, grazie.
Mi perdoni, Quazza non ha valore storico-filosfico.
Caro Sign. Arturo,
RispondiEliminain realtà mi pare concettualmente molto sensato il riferimento del Pasquinelli. Consideriamo anzitutto che quello che a mio parere possiamo ben considerare l'unico autentico filosofo italiano del dopo-Gentile, ovvero A. Del Noce, ha convalidato la visione sternhelliana del fascismo, al punto da dover rivedere (come anticipò ne Il Sabato, ma mai purtroppo morì) la sua tesi sul mussolinismo elaborata ne L'epoca della secolarizzazione e nel suo poderoso saggio su G. Gentile. Sign. Arturo, per quanto De Felice e Emilio Gentile non dicano la medesima cosa sul fascismo (natura totalitaria o no del Regime?), una certa tendenza del De Felice è pienamente recuperata ed estremizzata unilateralmente da E. Gentile (storico mediocre e imitatore di Mosse a mio avviso), ossia l'essere il fascismo una variante della religione politica apocalittica e messianica di radice giacobina. Viceversa, Sternhell individua l'essenza del fascismo mussolinista nell'essere un atto di guerra all'illuminismo, al modernismo, al razionalismo. Quindi, non vi può essere connessione o tangenza tra le due tesi. E' vero che nella biografia del Mussolini rivoluzionario (ispirato dal Cantimori), De Felice si sofferma sul sorelismo del Mussolini (come potrebbe non farlo?) ma non ne farà l'elemento centrale del fascismo controriformistico e controilluminista, a differenza di Sternhell. Il nazionalsocialismo, sternhellianamente, non è sorelismo; tutt'altro! la sua sostanza è neoriformistica e neo-luterana (rimando a Il santo Reich di S. Gall), dunque è una variante del neoilluminismo contemporaneo, con tratti radicalmente fichtiano giacobini. Mi scusi, Lei parla di cinque volumi di Sternhell. In realtà, sono 4 i fondamentali, da quel che so, eventualmente mi corregga, grazie.
Mi perdoni, Quazza non ha valore storico-filosfico.
Gentile Emanuele, dovrà perdonare lei me: se da quel che ho scritto lei ha cavato l'impressione che sia un'interpretazione del fascismo di tipo filosofico quella che ritengo più interessante, vuole infatti proprio dire che mi sono espresso male. Che apprezzamenti per l'impostazione di Moreno venga da qualcuno che si trova a suo agio entro tale paradigma (pure Del Noce in effetti ci mancava) potrebbe indurlo a qualche riflessione.
EliminaNon sapevo comunque di questa resipiscenza delnociana in articulo mortis: confesso di non essere mai stato lettore del Sabato. Ho comunque paura che sulla portata di queste revisioni dovremo restare nell’incertezza.
Gentile (Emilio) riconduce il fascismo alla matrice delle religioni politiche, inaugurata dalla rivoluzione francese, ma è un riferimento molto generale, sia perché i fascisti dileggiavano “platealmente gli “immortali principi dell’89” e l’utopismo razionalista ed egualitarista dei giacobini” (E Gentile, Il culto del littorio, Laterza, Roma-Bari, 1993, pag. 150), sia perché lo storico molisano ha sempre insistito molto sulla necessità di circoscrivere l’analisi del fascismo alle vicende italiane del dopoguerra e alla ideologizzazione dell’esperienza vissuta, più che alle radici intellettuali (Es.: “La identità fondamentale del fascismo ebbe origine dall’esperienza e dal mito della grande guerra e, successivamente, dall’esperienza e dal mito dello squadrismo”, E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, Il Mulino, Bologna, 1996, pag. 24), che è probabilmente ciò che più lo separa da Sternhell.
Questi risultati, però, Gentile se li è sviluppati da solo: De Felice le presunte origini giacobine del fascismo, lo ripeto, le ha buttate lì nell’Intervista (c’è anche qualche accenno nelle Interpretazioni) ma mai sviluppante analiticamente: il discorso di Mosse, pur dichiarandosene grande ammiratore, dice che “all’Italia non può essere applicato” (pag. 24 dell’Intervista); la scoperta del legame del fascismo con la rivoluzione francese la attribuisce a Talmon (“Per quel che riguarda il fascismo italiano sono pienamente d’accordo col discorso di Talmon…”: pag. 105). Peccato che il libro in questione (Le origini della democrazia totalitaria) del fascismo non parli affatto.
Ciò detto a lei naturalmente può sembrare che fra valutazioni come le seguenti:
“L’influenza più importante però, quella che incise di più sulla formazione di Mussolini e che, nonostante ogni altro rapporto o influenza negli anni successivi, era destinata a costituire la componente essenziale del suo socialismo e, conclusa la fase socialista, a caratterizzare sempre il suo particolare modo di intendere i rapporti sociali e la lotta politica, fu quella sindacalista rivoluzionaria.” (R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Einaudi, Torino, 1995 [1965], pag. 40) e
“L’ingranaggio intellettuale e politico che che trasformerà la personalità più in vista del Partito socialista italiano in un avversario del marxismo si è già messo in moto al tempo della guerra in Libia. Questo processo, assai simile a quello che caratterizza le vicende intellettuali dei sindacalisti rivoluzionari, porterà Mussolini a sintonizzarsi sulle conclusioni di questi ultimi, facendo propria una sintesi ideologica in cui il socialismo giunge a fondersi col nazionalismo” (Z. Sternhell, Le origini cit., pag. 301) non ci siano “connessioni o tengenze”; altri, direi legittimamente, potrebbero essere di diverso avviso.
Le ultime sue righe mi risultano difficili da interpretare. Per Sternhell il nazismo sarebbe neoilluminista? “Matura così, all’inizio del XX secolo, un attacco globale contro la tradizione occidentale, razionalista e universalista, in ciò che essa ha di essenziale. Il fascismo rappresenta una forma esasperata della tradizione antilluminista; il nazismo è un attacco totale al genere umano. Così si manifesta il significato che può avere per un’intera civiltà il rifiuto dei valori universali e dell’umanesimo, pietra angolare del pensiero dei Lumi. Per la prima volta l’Europa si dà dei regimi e dei movimenti politici il cui progetto altro non è che la distruzione dei Lumi, dei loro principi e delle loro strutture intellettuali e politiche.” (Z. Sternhell, Contro l’illuminismo, Baldini e Castoldi Dalai, Milano, 2007, pag. 641).
EliminaI libri comunque sono proprio cinque: quello su Barrès, La destra rivoluzionaria, Né destra né sinistra, Le origini dell’ideologia fascista e Contro l’illuminismo.
Su Quazza la perdono senz’altro; perdonerà lei me se ritengo che questa discussione, il cui valore mi pare solo quello di dimostrare una volta in più quanto poco utili siano gli almanaccamenti sull’ideologia, non abbia ragione di proseguire oltre.
Tranquillo Arturo: non andrà oltre. Per le ragioni indicate nell'introduzione al post successivo, ma, prima di tutto, perché scorgo un'inquietante omogeneità di approccio col "costituzionalismo filosofico". Quindi la tua pazienza e la tua consapevolezza finirebbero molto probabilmente inascoltate...
EliminaSolo un (auto)appunto: un paio di volte ho scambiato il titolo di un libro di Sternhell (Nascita dell'ideologia fascista) con quello di uno di Emilio Gentile (Le origini dell'ideologia fascista): mi scuso per il lapsus.
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