martedì 12 settembre 2017

VADEMECUM PER LA DIFESA DELLA SOVRANITA' DEMOCRATICA (NO SOVRANITA', NO DEMOCRAZIA)


https://image.slidesharecdn.com/progettazione-121110160731-phpapp02/95/vademecum-per-la-progettazione-14-638.jpg?cb=1352570074

1. La sovranità viene oggi strumentalmente intesa come un concetto negativo che nuocerebbe alla pace internazionale e alla "crescita", che sorgerebbero esclusivamente, ci dicono, per effetto del liberoscambismo più ampio possibile, cioè globalizzato a seguito di scelte politiche istituzionali assunte, in base ad una legittimazione "occulta" ai più, da oligarchie sottratte ad ogni controllo democratico (anche solo formale-elettorale) e, peraltro, trasformate in leggi di diritto interno (di ratifica o "recepimento", peraltro costituzionalmente disfunzionali come fonti e come contenuti). 
Queste leggi  di ratifica e "recepimento" del sistema dei trattati corrispondente al diritto internazionale privatizzato (Lordon) vengono ritenute "ineluttabili" da parte degli "attori politici" nazionali che, anzi, così facendo, "valorizzano" il proprio ruolo realizzando interessi, - privati "ristretti" ed economicamente prevalenti-, estranei a quelli per la cui tutela hanno ricevuto il proprio mandato elettorale.

Le due principali obiezioni  alla sovranità degli Stati nazionali (in quanto: a) anti-pace e b) anti-crescita), come sappiamo, si rivelano radicalmente false e fondano la propria accettazione acritica, da parte dei popoli oggettivamente danneggiati dalla globalizzazione mediante trattati, sulle "forze materiali sterminate" che creano e mantengono i "centri di irradiazione" di un sistema mediatico-culturale che, ormai, non si accontenta di occultare il vero concetto costituzionale (qui, pp. 9-14) di sovranità (democratica del lavoro), accolto dal diritto internazionale generale e dalle Costituzioni, ma accusa di costituire "fake news" ogni voce di dissenso, quand'anche intesa a richiamare la legalità costituzionale violata nella sua più elementare sostanza. 
Forniamo dunque una serie di fonti che consentono - ad ogni cittadino italiano interessato alle sorti del benessere e della libertà propria e della propria famiglia- di verificare i punti essenziali di questa sintetica ma densa premessa. Padroneggiare questi argomenti è la base cosciente indispensabile per poter esercitare in modo "libero e eguale" il diritto di voto.

"una "globalizzazione senza regole" non può esistere, perché essa non è un fenomeno "naturale" (come ben sanno i suoi maggiori teorici): la globalizzazione può essere solo un fatto istituzionale, cioè di regole pretesamente "superiori" alle Costituzioni democratiche, promosso ed imposto dal diritto internazionale. Nella nostra epoca, più che mai, dal diritto internazionale di specifici trattati.
I trattati pongono obblighi a carico degli Stati nazionali, e questi divengono il vettore di un'azione di denazionalizzazione e, dunque, di sostituzione dei loro scopi fondamentali (precedenti); vale a dire, inevitabilmente, per virtù della prevalenza reclamata dalle regole del trattato, sostitutivi di quelli che caratterizzano la sovranità costituzionale.
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Le regole pattizie sovranazionali che impongono la globalizzazione, poi, sono regole di liberoscambismo, cioè di affermazione del dominio dei "mercati" sulle società umane, i cui bisogni, - l'occupazione, la dignità del lavoro, la solidarietà sociale espressa nella cura pubblica dell'istruzione, della previdenza e della sanità- divengono recessivi e subordinati alla "scarsità di risorse" (pp. 4-5), che caratterizza gli squilibri crescenti tra le varie aree del mondo, determinati dalla logica inevitabile del liberoscambismo istituzionalizzato e regolato "contro" le Costituzioni democratiche. 
Infatti, l'essenza (supernormativa) del liberoscambismo istituzionalizzato mediante trattati, cioè sempre iper-regolato e vincolante, è quella di rimuovere gli ostacoli (pp. 7-10) alla instaurazione dell'ordine sovranazionale dei mercati, che altro non è che il perseguimento di una specializzazione estesa a livello mondiale (possibilmente; ma soprattutto e sicuramente €uropeo), in base al principio economico dei vantaggi comparati
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La globalizzazione è dunque un sistema di regolazione sovranazionale mirato a rafforzare le mire dei paesi (Stati nazionali) che la propugnano, da posizioni iniziali di forza politica ed economica, nel conquistare "i mercati esteri"
Questo meccanismo fondamentale si esprime inevitabilmente non solo come denazionalizzazione ma anche in termini di privatizzazione (antistatuale) degli interessi tutelati dalle norme istituzionali sulla globalizzazione: la conquista dei mercati avviene da parte dei monopoli e degli oligopoli privati delle nazioni più forti a danno di quelle più deboli e presuppone la minuziosa conservazione dei saldi della contabilità nazionale.
Nulla più della globalizzazione istituzionalizzata indulge a rilevare gli effetti del "vincolo esterno", cioè dell'indebitamento commerciale (e quindi privato) con l'estero dei vari paesi. E a trarne le conseguenze in termini di politiche che si impongono sui singoli Stati nazionali: politiche, a loro volta, riflesso automatico e condizionale delle regole precostituite nei trattati e per l'azione delle istituzioni organizzate che essi prevedono.

Vi chiederete allora (forse), perchè mai i più deboli aderiscano ai trattati: tendenzialmente perchè gli Stati, che come abbiamo visto sono gli unici soggetti-parti del diritto internazionale, stanno già subendo, a livello pregiuridico, puramente socio-politico, il rapporto di forza che viene poi ratificato nel trattato; quest'ultimo, appunto, nella logica "transattiva", mitiga, o consente di offrire un risultato, quantomeno in termini di comunicazione politica, che "deve" essere fatto apparire come utile (o eticamente positivo), ai cittadini-elettori, da parte dei governi che sono gli organi che, per il diritto internazionale, negoziano e concludono i trattati.
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In un mondo che sostanzialmente vede la diffusione del modello capitalista (liberoscambista) a livello praticamente planetario, i rapporti di forza della comunità internazionale, che una volta erano legati alle dirette "pressioni" esercitate dalle "cannoniere", sono oggi svolti sul piano essenzialmente economico-finanziario, e ovviamente monetario, e legati sempre più alla capacità di penetrazione dei grandi gruppi finanziari internazionali. Non si tratta più di indagare la prevalenza degli Stati in sé, ma il modo in cui gli stati collimino, nelle loro scelte, con la classe dirigente mondiale, la famosa oligarchia mondiale, e quindi non più con l’interesse nazionale in senso democratico. E su questo il professore coreano di Cambridge Chang nel suo libro “Bad samarhitans” credo offra il punto di vista più lucido.
Molte organizzazioni internazionali sono di fatto oggi dominate dai gruppi economici che utilizzano gli stati per la loro legittimazione formale
In sede UE, WTO, Banca mondiale, FMI, gli Stati non vanno a rappresentare gli interessi delle componenti sociali che danno luogo all’investitura elettorale, ma sono presenti in quelle sedi con elites definite tecniche, che in realtà sono emanazione diretta di quei gruppi economico-finanziari che sempre più controllano le istituzioni. Lo stato che entra nell’alveo di tale tipo di organizzazione internazionale riflette quindi una scelta quasi irreversibile compiuta da chi ha acquisito una rappresentatività di diritto internazionale fuori dal controllo democratico. Lo stesso Stato nazionale fa sfumare la sua soggettività nell'ambigua, e spesso nascosta,  investitura della multinazionale, del grande gruppo finanziario."

Fortunatamente, e paradossalmente, buona parte del problema ce lo ha già risolto...Amato (qui, p.6.1.):
"Cito in argomento un autore insospettabile di antieuropeismo come Giuliano Amato (Costituzione europea e parlamenti, Nomos, 2002, 1, pag. 15): 
Quando si ratificano i trattati internazionali, in genere si ratificano quelli che disciplinano le relazioni esterne. Quando si ratifica una modifica dei trattati comunitari non si ratifica una decisione che attiene alle relazioni esterne, ma una decisione che attiene al governo degli affari interni. 
Il processo di ratifica così com'è è congegnato è allora del tutto inadatto ad assicurare ai parlamenti il ruolo che ad essi spetta rispetto agli affari interni
Il procedimento di ratifica è tarato sull’essere ed il poter essere un potere intrinsecamente dei governi esercitato sotto il controllo dei parlamenti. Tant’è vero che la legge di ratifica è una legge di approvazione e non è una legge in senso formale.
Ma il vero clou del paradosso, dicevo, consiste nel fatto che “la politica dei piccoli passi nel processo di integrazione comunitaria ha fatto sì che mai nessuno abbia detto espressamente che, con i Trattati che si andavano stipulando, si stava costruendo una nuova costituzione.” (Luciani, op. cit., pagg. 85-6). 
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Un secondo punto da conoscere è quello relativo alla pretesa supremazia dei trattati sul diritto nazionale (e citiamo sempre il post di Arturo che, comunque, ha preannunziato di approfondire ulteriormente la questione):
"Dopo il fallimento del progetto di costituzione europea a seguito dei due referendum francese e olandese, il 22 giugno del 2007 la Presidenza del Consiglio Europeo se n’è uscito con questa solenne dichiarazione:
L’approccio costituzionale (ndr; in sede di trattato sull'unione europea), che consiste nell’abrogare tutti i Trattati e rimpiazzarli con un singolo testo definito “Costituzione” è abbandonato. […] Il TUE e il TFUE non avranno un carattere costituzionale
La terminologia usata nei Trattati rifletterà questo cambiamento: il termine “costituzione” non verrà usato […]. Con riguardo alla supremazia del diritto comunitario, la conferenza intergovernativa adotterà una dichiarazione ricordando l’attuale giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea”.
Tale dichiarazione è diventata la numero 17 allegata all’atto finale della conferenza intergovernativa che ha approvato il Trattato di Lisbona firmato il 13 dicembre 2007, ossia: 
La conferenza ricorda che, per giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell'Unione europea, i trattati e il diritto adottato dall'Unione sulla base dei trattati prevalgono sul diritto degli Stati membri alle condizioni stabilite dalla summenzionata giurisprudenza.
Inoltre, la conferenza ha deciso di allegare al presente atto finale il parere del Servizio giuridico del Consiglio sul primato, riportato nel documento 11197/07 (JUR 260):
«Parere del Servizio giuridico del Consiglio
del 22 giugno 2007
Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia si evince che la preminenza del diritto comunitario è un principio fondamentale del diritto comunitario stesso. Secondo la Corte, tale principio è insito nella natura specifica della Comunità europea. All'epoca della prima sentenza di questa giurisprudenza consolidata (Costa contro ENEL, 15 luglio 1964, causa 6/64 […] non esisteva alcuna menzione di preminenza nel trattato. La situazione è a tutt'oggi immutata. Il fatto che il principio della preminenza non sarà incluso nel futuro trattato non altera in alcun modo l'esistenza del principio stesso e la giurisprudenza esistente della Corte di giustizia.
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Premettiamo pure che la "denunzia" di Amato, relativa alla non idoneità della legge di ratifica rispetto ai contenuti in quanto incidenti sugli "affari interni", è una pregiudiziale di ordine "procedurale" (cioè attiene alla legittimità dello specifico strumento costituzionale nel caso di quei contenuti e con quegli effetti), e prescinde dall'autonoma questione se QUALSIASI strumento (previsto dalla Costituzione, ovviamente), e qualsiasi tipo di dibattito parlamentare, possano introdurre nell'ordinamento quei contenuti: tale questione si risolverebbe, negativamente, alla stregua dell'art.11 Cost. e dei c.d. controlimiti...ove mai fossero applicati da..."qualcuno": v.qui, p.7, infine

1.d. Sul ruolo e la portata degli "attori politici" nazionali che si fanno portatori della globalizzazione istituzionalizzata (ben diversa dal fenomeno storico sintetizzabile nel fatto che il progresso tecnologico, nel campo delle comunicazioni, dei trasporti, dei sistemi di produzione, riduca le "distanze fisiche"  tra le varie aree del mondo rendendo più agevoli le condizioni di scambio e di investimento, senza che ciò nulla implichi sul radicale mutamento delle condizioni istituzionali, in ciascuno Stato, del perseguire selettivamente gli interessi fondamentali del rispettivo sub-strato sociale, cioè nell'esercizio della sovranità democratica): 
La Sassen, famosa teorizzatrice della "città globale", in un'illuminante intervista, ci dice alcune cose interessanti sui punti a) e b) sopra riassunti, che ci consentono di capire meglio quello c). Proviamo a esaminarle e a commentarle:
1) "...non esiste nessuna persona giuridica che rappresenti le marche globali; quello che esiste invece è uno spazio istituzionale, legale, formalizzato, che è stato prodotto passo dopo passo affinché le aziende globali potessero operarvi. 
E questi nuovi regimi giuridici, indispensabili alla geografia globale dei processi economici, sono stati creati e legittimati dallo Stato, attra verso processi di denazionalizzazione. Gli spazi globalizzati non nascono dal nulla, ma sono stati creati attraverso un importantissimo lavoro altamente specializzato compiuto dallo stato. Questo significa che all’interno dello stato nazionale ci sono alcuni settori che risultano essenziali per edificare uno spazio internazionalizzato. In questo senso sostengo che il globale si afferma anche all’interno e per mezzo del nazionale, attraverso un processo di denazionalizzazione portato avanti da alcune componenti dello stato nazionale...
E' chiaro il concetto? La globalizzazione è frutto di "nuovi regimi giuridici", che, come sappiamo, fanno capo alla conclusione di trattati internazionali che, - come ammette senza alcuna preoccupazione, anzi, con un certo "apprezzamento", la Sassen-, constano:
a) di un punto di riferimento finale, cioè il titolare dell'interesse tutelato e realizzato dai trattati, individuato nelle "marche globali" (sarebbe poi a dire, le industrie multinazionali);
b) un punto di riferimento statuale nazionale, individuato in "alcuni settori", o "alcune componenti" interne allo Stato nazionale (!) che con un lavoro "altamente specializzato" - cioè di quelli ben retribuiti- portano avanti la denazionalizzazione per edificare uno spazio internazionalizzato nell'interesse non dei cittadini - che, necessariamente, sono coloro nel cui interesse devono agire i vari "settori" dello Stato-, ma delle imprese multinazionali.  
Infatti queste, poverine, non avendo una persona giuridica che le tutela (a livello mondiale), si devono accontentare di...catturare settori dello Stato per fargli attuare politiche di proprio interesse...non nazionale!
E la Sassen ce lo dice così, senza battere ciglio, con l'intervistatore, a quanto pare, incapace di scorgere la portata di quanto apertamente affermato!
...
"Perché se riconosciamo i processi di denazionalizzazione, se in altri termini comprendiamo che la globalizzazione è un processo parzialmente endogeno al nazionale piuttosto che a esso esterno, possiamo capire che è proprio all’interno del nazionale che si stanno aprendo nuovi spazi politici potenzialmente globali per tutta una serie di attori confinati nel nazionale. Attori che possono prendere parte alla politica globale non solo attraverso strumenti globali, di cui possono anche non disporre, ma attraverso gli strumenti formali dello stato nazionale...".
Questo passaggio può apparire un po' criptico e, addirittura, (nella tentazione di andare oltre), può indurre a soprassedere. Mal ve ne incoglierebbe! Quello che la Sassen ci sta dicendo nel suo metalinguaggio (che l'ha ormai resa celebre) è, tradotto in corretti e concreti termini giuridico-economici: 
i politici che assumono il ruolo di promuovere, concludere e, successivamente, attuare i trattati internazionali che tutelano gli interessi delle "marche globali"(="multinazionali") acquistano un maggiore e crescente spazio istituzionale, funzionalmente giustificato dallo sviluppo dell'azione agevolatrice già svolta.

Al riguardo, ci basterà rammentare i dati, nudi e crudi, che si offre Ha-Joon Chang, in "Bad Samaritans" (capitolo 1, "The real history of globalization", pagg.6-14).
Ebbene, già al tempo dei "misfatti" dell'Impero inglese, - che pur ammessi non portano gli storici ad ammettere, altrettanto, la realtà economica conseguente e induce anzi a continuare a lodare gli effetti positivi "per tutti i paesi coinvolti" della globalizzazione "imperialista" dell'800-, l'Asia, che prima dei trattati aveva paesi al vertice dei PIL mondiali (tipicamente la Cina nella prima parte del secolo) crebbe solamente dello 0,4% all'anno tra il 1870 e il 1913
L'Africa, il più vantato esempio di civilizzazione e progresso free-trade colonialista, crebbe, nello stesso periodo, dello 0,6%. 
Europa e USA crebbero invece, rispettivamente, dell'1,3 e dell1,8% in media negli stessi anni. Notare che i paesi dell'America Latina, che nello stesso periodo recuperarono autonomia tariffaria e di politica economica, crebbero allo stesso livello degli USA! (Tralasciamo gli eventi susseguenti alla crisi del '29, quando i free-traders dominanti, abbandonarono il gold-standard e aumentarono sensibilmente le tariffe alle importazioni, prima nei settori dell'agricoltura e poi in generale nell'industria manifatturiera)
...
Che accadde nel dopoguerra del 1945, quando si verificò il progressivo smantellamento del colonialismo e l'adozione degli Stati interventisti praticamente in tutto il mondo, sviluppato (e in ricostruzione) o in "via di sviluppo" (col tanto deprecato neo-protezionismo, da incentivazione pubblica all'industria nazionale e alla ricerca)?
Riassuntivamente: nei deprecati anni del protezionismo, rigettato come Satana dai vari governatori di tutte le banche centrali del mondo divenute indipendenti, in specie negli anni '60 e '70, i paesi in via di sviluppo che adottarono le "politiche "sbagliate" del protezionismo, crebbero del 3% in media all'anno: questo dato, sottolinea Chang, è il migliore che, tutt'ora, abbiano mai accumulato.

Ma gli stessi "paesi sviluppati" crebbero, negli stessi decenni, al ritmo di 3,2% medio all'anno.
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Poi intervengono le liberalizzazioni nella circolazione dei capitali e gli accordi tariffari: i paesi sviluppati, già negli anni '80 vedono la crescita media annuale abbattersi al 2,1%
Anche questi facevano le riforme, e infatti gli effetti di deflazione  e rallentamento della crescita si vedono (finanziarizzazione e redistribuzione verso l'alto del reddito crescono a scapito delle invecchiate democrazie sociali). Ma le riforme più intense, sono imposte proprio ai paesi in via di sviluppo, tramite il solito FMI: è qui che si registra il calo della crescita più marcato.
I paesi emergenti, infatti, debitamente "riformati" e "aperti" nelle loro economie, vedono la crescita praticamente dimezzarsi dal 3% a circa la metà, negli anni '80-'90, cioè all'1,7 medio annuo.
Ma attenzione: la decrescita "infelice", cioè l'impoverimento neo-colonizzatore, sarebbero ancora più marcati se si escludessero Cina e India. Infatti, nota Chang, questi paesi si imposero progressivamente alla crescita, realizzando un 30% del prodotto globale dei paesi in via di sviluppo già nel 2000 (dal 12% degli anni '80): ma India e Cina rifiutarono il Washington Consensus e le "riforme" stile "golden straitjacket" tanto propugnate dal noto Thomas Friedman (che abbiamo già incontrato in questo specifico post).

1.f. Sulla "curiosa" dimenticanza storica che il free-trade globale non sia portatore di imperitura pace (di certo non di "prosperità..), com'è del tutto naturale in quanto si fonda sull'imposizione e amplificazione di rapporti di forza che, ben lungi dal travalicare in "nazionalismo", tendono a evolversi inevitabilmente in "imperialismo": cioè in uso della forza da parte, pensate un po', dei forti (cosa del tutto prevedibile, anzi scontata, ma che il sistema mediatico da ESSI controllato si adopera costantemente di nascondere ai popoli "dominati") per preservare l'assetto da essi istituzionalizzato, allorché i popoli assoggettati si risveglino nella disperazione materiale e respingano il carattere predatorio del "vincolo esterno" asimmetrico:
"Keynes, si interroga sulla efficacia dell'internazionalismo economico relativamente all'ottenimento della pace (sempre nei limiti di contesto, punto di osservazione, e di momento storico, fin qui tratteggiati; cfr; pagg.95-98): 
"...al momento attuale non sembra logico che la salvaguardia e la garanzia della pace internazionale siano rappresentate da una grande concentrazione degli sforzi nazionali per conquistare i mercati esteri, dalla penetrazione, da parte delle risorse e dell'influenza di capitali stranieri, nella struttura economica di un paese e dalla stretta dipendenza della nostra vita economica dalle fluttuazioni delle politiche economiche di paesi stranieri.
Alla luce dell'esperienza e della prudenza, è più facile arguire proprio il contrario
La protezione degli attuali interessi stranieri di un paese, la conquista di nuovi mercati, il progresso dell'imperialismo economico, sono una parte difficilmente evitabile di un sistema che punta al massimo di specializzazione internazionale e di diffusione geografica del capitale, a prescindere dalla residenza del suo proprietario.
...Ma quando lo stesso principio (ndr; di scissione tra proprietà "azionaria" del capitale e gestione dell'impresa multinazionale, cioè che investe all'estero) è applicato su scala internazionale, esso è, in periodi di difficoltà, intollerabile: io non sono responsabile di ciò che posseggo e coloro che gestiscono non sono responsabili verso la mia proprietà non sono responsabili nei miei confronti. Vi può essere qualche calcolo finanziario che mostra i vantaggi di investire i miei risparmi in qualche parte della Terra, mettendo in evidenza la più elevata efficienza marginale del capitale o il più elevato daggio d'interesse ch eposso ricavare. Ma l'esperienza dimostra sempre di più che quando si considerino le relazioni tra gli uomini, il distacco tra proprietà e gestione è un male, e che esso quasi sicuramente, nel lungo periodo, provocherà tensioni e antagonismi, facendo fallire il calcolo finanziario."
...
Sulla scorta di questa premessa previsionale, relativa a "tensioni e antagonismi" che, col senno di poi, paiono un understatement rispetto agli eventi che si produrrano sulla scena mondiale, Keynes azzarda una ricetta, applicando la quale per tempo si sarebbe potuto evitare il disastro
I paesi colonizzati, in questo schema, avrebbero avuto un necessario grado di autonomia politica per poter sviluppare, con un ragionevole protezionismo (qui, p.6), l'infant capitalism (ben prima della fase del trentennio d'oro), i mostri del nazi-fascismo sarebbero stati (forse) in gran parte ridimensionati, sul piano delle stesse motivazioni sovrastrutturali che li animavano, dalla riapertura dei giochi (specie sulle materie prime,) e delle conseguenti "gerarchie" che erano la giustificazione per la conservazione degli imperi coloniali europei; la stessa tendenza al gold-strandard e alle politiche di bilancio austere in caso di crisi, incentrate sul riequilibrio naturale dei prezzi e dei salari, avulse dalla politica delle bilance di pagamento in attivo (o del loro equilibrio raggiunto a scapito della permanente dipendenza economica delle aree coloniali), avrebbero perso gran parte della loro implicita ragione politica (molto più forte, già allora, di quella economico-scientifica, essendo in corso già le conseguenze della crisi del '29).
...
In conclusione, a complemento del discorso svolto da Keynes, ci pare opportuno riportare l'analisi di Gramsci (citata da Francesco), che con la sua consueta nitidezza, tratteggia, in raccordo alle stesse intuizioni keynesiane, una cornice storico-economica che, oggi, risulta più che mai attuale; la visione gramsciana, infatti, appare capace di descrivere le analoghe tensioni a cui sono esposte, sempre a causa dell'ordine internazionale dei mercati come paradigma che si deve affermare a qualsiasi costo, la pace e il democratico benessere dei popoli:
"Lontani anni luce da Gramsci che non si era fatto attrarre da tali sirene, consapevole della vocazione globale del capitalismo mercataro e del falso mito dell’internazionalismo: “Tutta la tradizione liberale è contro lo Stato. [...] La concorrenza è la nemica più accerrima dello stato. La stessa idea dell'Internazionale è di origine liberale; Marx la assunse dalla scuola di Cobden e dalla propaganda per il libero scambio, ma criticamente” (A. Gramsci, L'Ordine nuovo, 1919-1920, Torino, 1954, 380).
E sulla “globalizzazione”, diversamente da rapporti inter-nazionali tra Stati sovrani come concepita, già allora scriveva: “Il mito della guerra - l'unità del mondo nella Società delle Nazioni - si è realizzato nei modi e nella forma che poteva realizzarsi in regime di proprietà privata e nazionale: nel monopolio del globo esercitato e sfruttato dagli anglosassoni. La vita economica e politica degli Stati è controllata strettamente dal capitalismo angloamericano. [...] Lo Stato nazionale è morto, diventando una sfera di influenza, un monopolio in mano a stranieri. Il mondo è "unificato" nel senso che si è creata una gerarchia mondiale che tutto il mondo disciplina e controlla autoritariamente; è avvenuta la concentrazione massima della proprietà privata, tutto il mondo è un trust in mano di qualche decina di banchieri, armatori e industriali anglosassoni” (A. Gramsci, L'Ordine nuovo, cit. 227-28).
(A proposito: chi mi ritrova il commento, credo di Arturo, ove era riportato il discorso di Hitler sulla politica economica salariale legata alla sola crescita reale del prodotto e in condizioni di gold standard, cioè dando priorità alle esportazioni?)

65 commenti:

  1. Questo? :

    Arturo22 maggio 2017 23:16

    “Dinanzi alla diligenza e alla capacità delle energie produttive razionalmente impiegate di una nazione, impallidiscono tutte le riserve auree e di divise. Noi non possiamo che sorridere pensando ai tempi in cui i nostri economisti con la maggiore serietà di questo mondo sostenevano che il valore di una moneta viene determinato dalle riserve auree e di divise, accantonate nei tesori delle Banche di Stato e, soprattutto viene da essa garantito. Noi, al contrario, abbiamo imparato e sappiamo che il valore di una valuta è insito nella energia produttiva di un popolo, che l’aumentato volume di produzione sostiene una valuta, anzi, in determinate circostanze la rivalorizza, mentre ogni diminuito rendimento della produzione deve necessariamente condurre, presto o tardi, a una svalutazione. Ecco perché lo Stato nazionalsocialista, in un periodo in cui i gran sacerdoti della finanza e della economia degli altri Paesi ci profetizzavano ogni trimestre o semestre lo sfacelo, stabilizzava il valore della sua moneta, aumentando in misura straordinaria la produzione. Tra la produzione tedesca in aumento e il denaro in circolazione venne creato un rapporto naturale. La formazione dei prezzi, attuata con tutti i mezzi, fu possibile soltanto mantenendo stabile il livello dei salari. Ma tutto ciò che in questi ultimi sei anni è stato distribuito in Germania dall'aumento del reddito nazionale, corrisponde all'aumentato rendimento del lavoro. In tal modo si è potuto non solo dare lavoro a 7 milioni di disoccupati, ma anche assicurare al loro aumentato reddito una corrispondente capacità di acquisto; in altre parole, ad ogni marco pagato corrisponde (nella stessa misura) un aumento della nostra produzione nazionale. In altri Paesi avviene esattamente l’opposto. Viene ridotta la produzione, si aumenta il reddito nazionale aumentando i salari, si diminuisce con ciò la capacità di acquisto del denaro e si arriva infine alla svalutazione della moneta. Ammetto che il sistema tedesco, in sé e per sé, è meno popolare, in quanto stabilisce che ogni aumento di salario deve necessariamente dipendere da un aumento della produzione, per cui l’aumento dei salari deve sempre passare in seconda linea rispetto alla produzione: ne consegue, in altre parole, che l’inserimento di 7 milioni di disoccupati nel processo produttivo, non è o non era in primo luogo un problema salariale, bensì una pura questione di produzione”.

    “Se da parte degli uomini di Stato esteri ci si minaccia con rappresaglie economiche, non so bene di qual genere, io sono in grado di assicurare che, in tal caso, verrebbe impegnata una battaglia economica disperata che noi potremmo condurre molto facilmente a buon fine. Per noi questa lotta sarebbe più facile che per le altre nazioni satolle, poiché la ragione di questa battaglia economica sarebbe semplicissima. Eccola: popolo tedesco, se vuoi vivere, esporta, altrimenti perirai!”. (Hitler al Reichstag, 30 gennaio 1939, Società Editrice Di Novissima, Roma, pp. 42-44 e 45)

    Ovvero anche il vecchio zio Adolfo era, ideologicamente, un offertista votato alla stabilità dei prezzi, contrario alle svalutazionicompetitive, seguace della teoria quantitativa della moneta e di un’economia export led (riarmo permettendo).

    Certo che se con tutto il moralismo e i sensi di colpa che hanno riversato sui tedeschi ci avessero messo anche un po’ di economia, certi “mai più” sarebbero un filo più credibili.

    http://orizzonte48.blogspot.it/2017/05/la-migliore-sulleuro-quella-dei.html?showComment=1495487811643#c959159251948090247

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  2. LA MIGLIORE SULL'EURO? QUELLA DEI KABARETTISTI

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  3. L'analisi di Basso mi pare corrispondere in toto
    IL CICLO TOTALITARIO

    di Lelio Basso


    La nostra analisi non sarebbe compiuta da un punto di vista marxista se non cercassimo di trarne le necessarie deduzioni sull’atteggiamento che il movimento operaio deve assumere di fronte a questa tendenza totalitaria in atto del mondo capitalistico.
    Ora il punto di partenza per trarre utili deduzioni deve essere questo appunto, che noi non siamo in presenza di un fenomeno involutivo particolare all’Italia e spiegabile con motivi particolari tratti dalla nostra storia, e, meno ancora, dalla nostra educazione politica o dalla nostra psicologia, bensì di una tendenza generale del mondo capitalistico, che, quanto più procede verso forme monopolistiche e di alta concentrazione, tanto più diventa incompatibile con un regime democratico, e sia pure di democrazia borghese. Le forme democratiche possono sussistere, ma sono svuotate di ogni contenuto e di ogni reale efficacia, in quanto il potere politico tende ad identificarsi sempre più col potere economico e ad essere sempre più espressione degli interessi dei pochi gruppi monopolistici. Questo processo, che si verifica in tutti i paesi capitalistici e naturalmente si inserisce nelle particolari situazioni sociali e storiche (per cui se il fenomeno in se stesso non è spiegabile con motivi particolari dei singoli paesi, questi motivi particolari diventano importanti per capirne e combatterne gli aspetti determinati e le espressioni diverse che esso assume nei differenti paesi), si trova oggi coordinato su scala mondiale dalla guida dell’imperialismo americano, che tende ad unificare il mondo, sia i paesi coloniali che i paesi a economia capitalistica, sotto una comune norma di sfruttamento, adattata alle più diverse circostanze. Ne consegue che in ogni singolo paese politica internazionale (e cioè vincoli di subordinazione verso l’America e di inserimento nel “grande spazio” dello sfruttamento americano), politica economico-sociale (tendente a favorire i gruppi monopolistici più forti e quindi, in via normale, quelli di portata internazionale, garantendone i profitti a scapito del tenore di vita dei lavoratori e dei ceti medi e a scapito dell’indipendenza delle piccole, medie e talvolta anche relativamente grandi imprese), e politica interna (tendente ad escludere le classi lavoratrici da ogni reale influenza sul potere e successivamente ad eliminare ogni serio controllo parlamentare e di opinione pubblica, asservendo i sindacati, la stampa, ecc.) sono in realtà tre aspetti di un’unica politica, che non possono essere considerati e combattuti separatamente.

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  4. Quali siano queste trasformazioni di struttura abbiamo già più volte indicato: esse vanno dal superamento dell’economia di concorrenza alla conseguente distruzione della produzione indipendente, cioè non legata a gruppi, sia essa piccola, media o relativamente grande, dall’abbandono di certi tipi di produzione industriale alla trasformazione delle culture agrarie in relazione alle direttive dell’imperialismo americano e alle sue esigenze di sfruttamento di un solo grande mercato europeo, dalla cartellizzazione e cosiddetta “razionalizzazione” dell’industria alla modificazione delle abituali correnti di traffico, dall’abbandono di difese doganali alla rinuncia a sovranità nazionali, dalla subordinazione dei poteri pubblici alle direttive dei monopoli fino alla creazione di un sistema di sicurezza del grande capitale capace di garantirgli la tranquillità del profitto e di socializzarne le perdite. Tutto questo processo è evidentemente destinato ad accrescere la disoccupazione operaia, ad aumentare il livello di sfruttamento delle masse contadine, e, in misura forse ancora maggiore, a sgretolare e pauperizzare i ceti medi, a soffocare ogni libertà di pensiero e ad avvilire intellettuali e tecnici al rango di servi dell’imperialismo. Non importa se i nostri avversari si riempiono la bocca di formule altisonanti di democrazia: la loro politica, più ancora di quella di Hitler, è la minaccia più grave che abbia fino ad oggi pesato sulle possibilità di sviluppo democratico dell’uomo moderno.
    È chiaro perciò che la politica della classe operaia deve essere una politica capace di interessare non soltanto gli operai stessi, ma altresì tutti quei ceti - e sono l’immensa maggioranza della popolazione - che la politica dell’imperialismo distrugge od opprime sia economicamente sia spiritualmente e coi quali noi dobbiamo ricercare i mezzi e le vie per creare un nuovo equilibrio di forze sociali che rovesci quello oggi in via di consolidamento. Dev’essere chiaro per tutti che le forze, che oggi si sono insediate al governo del nostro paese, non hanno alcuna possibilità di tornare indietro dalla strada su cui si sono avviate e che è la strada del domino totalitario dello stato per conto dei grossi interessi capitalistici; e che perciò la sola possibilità offerta a chi non vuole soggiacere a questa nuova edizione del regime fascista che si profila, è di opporvisi con tutte le proprie energie, non per tornare indietro o per stare fermi, ma per allearsi con tutte le forze decise a creare un nuovo equilibrio che segni un passo avanti sulla strada della democrazia e del progresso.
    Ciclo totalitario (3), «Quarto Stato», 1-31 lug.-15 ago. 1949, n. 13/14/15, pp. 3-6.

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    1. sì, "era già tutto previsto" e a Lelio non sfuggiva lo schema ben noto (peraltro già riportatoci da Francesco in precedenti commenti, per varie parti del lungo discorso).
      Ma hai fatto bene e riproporlo: merita il risalto di un post autonomo per il suo intero svolgimento.

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    2. "Dominio dello stato totalitario per conto...". Grande Basso.

      Non c'è infinitatio del capitale SENZA stato borghese.
      Stato fisarmonica aggiungerei, secondo le esigenze del ciclo:

      Massimo nei salvataggi bancari a carico del salario sociale
      Minimo e outsourcingzante nei salvataggi in mare dall'inflazione...

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  5. Comunque…. anche Rosa Lastra “non male”

    "Dunque la ricetta per una globalizzazione intelligente sarebbe un ritorno agli Stati nazionali? Rosa Lastra, docente di International Financial and Monetary Law alla Queen Mary University of London, non è per nulla d’accordo.
    «Secondo me la dicotomia tra mercati internazionali e leggi nazionali può essere meglio affrontata proprio attraverso l’internazionalizzazione delle regole e delle istituzioni che governano i mercati mondiali - spiega - . La risposta è quella di più leggi internazionali e meno nazionali». Quindi una strada opposta rispetto a quella indicata da Rodrik. L’eccessiva fiducia nelle leggi nazionali accompagnata da deboli standard normativi internazionali è stata anzi una delle cause della crisi finanziaria globale, spiega ancora Lastra. Ma chi può gestire il cambiamento? «Il Fondo monetario internazionale, istituzione al centro del sistema monetario e finanziario internazionale, è nella miglior posizione per diventare uno “sceriffo globale” della stabilità», conclude la studiosa. Con buona pace del trilemma".

    http://orizzonte48.blogspot.com/2016/04/globalizzazione-e-mondialismo-il-trucco.html?spref=tw

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  6. Mi pare una buona occasione per un po’ di sano debunking del tanto persistente, quanto infondato, mito dell’”Hitler keynesiano”. Un accostamento ingiurioso che credo non abbia stufato solo me. Vediamo se con l’aiuto del lavoro di Tooze (che mi pare abbastanza autorevole…) riusciamo almeno a mettere un po’ di sabbia nell’ingranaggio dello spin.

    Ne ho già fatto uso in passato parlando di una fase più avanzata del regime, ma torniamo alle origini.

    Vediamo quindi di chiarire un po’ gli antefatti del famoso “piano di lavoro” di Hitler (Tooze, pagg. 24-5):

    Work creation in fact emerged as a subject for intense discussion on the right wing of German politics only in the second half of 1931. The Nazi party did not adopt work creation as a key part of its programme until the late spring of 1932, and it retained that status for only eighteen months, until December 1933, when civilian work creation spending was formally removed from the priority list of Hitler's government. Despite the claims of Goebbels's propaganda and despite the preoccupations of later commentators and historians, civilian work creation measures were clearly not a core agenda item for the nationalist coalition that seized power in January 1933. In fact, amongst the coalition partners of January 1933, work creation was highly divisive. Credit-financed measures were fiercely opposed by Hugenberg, the leader of the DNVP, Hitler's indispensable coalition partner. Work creation was also viewed with suspicion by business and banking circles close to the Nazi party, who on this issue had a vocal spokesman in Hjalmar Schacht. All of which was in sharp contrast to the three issues that truly united the nationalist right and made possible the Hitler government of 30 January 1933: the triple priority of rearmament, repudiating Germany's foreign debts and saving German agriculture. These were the issues that had dominated the rightwing agenda since the 1920s. After 1933 they took priority, if necessary at the expense of work creation. It was Hitler's action on these three issues not work creation that truly marked the dividing line between the Weimar Republic and the Third Reich.

    Pag. 55: “In every respect except propaganda, the civilian work creation measures of 1933 were dwarfed by the decisions taken in relation to rearmament and foreign debt. The military spending package vastly exceeded anything ever contemplated for work creation. According to the agreement of June 1933, military spending was to be almost three times larger than the combined total of all of the civilian work creation measures announced in 1932 and 1933.

    E se la disoccupazione certo diminuì e il PIL tornò a crescere non bisogna credere neanche per un attimo che della ripresa i lavoratori tedeschi abbiano visto più che le briciole. Anche qui, come nel caso del fascismo, i più eloquenti sono i dati sui consumi.

    Pag. 65: “In 1935 private consumption was still 7 per cent below its pre-Depression levels and private investment was 22 per cent down. By contrast, state spending was 70 per cent higher than it had been in 1928 and that increase was almost entirely due to military spending.”.

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  7. A questo punto non è difficile immaginare la dinamica di salari e profitti (pagg. 108-9): “The combination of rising domestic demand, an end to foreign competition, rising prices and relatively static wages [il che vuol dire, come aveva precisato a pagina 64, che “ the real wages of many workers fell quite sharply in 1933, as wages stagnated and prices for food began to rise”] created a context in which it was hard not to make healthy profits. Indeed, by 1934 the bonuses being paid to the boards of some firms were so spectacular that they were causing acute embarrassment to Hitler's government. In the light of the far more modest increase in workers' incomes, it seemed that the Communists and Social Democrats did indeed have a point. The Nazi regime was a 'dictatorship of the bosses'.

    Questo sta scritto sul più importante saggio di storia economica sul Terzo Reich uscito negli ultimi 10 e passa anni.

    Ovvero, se, come ci ricorda Barba, lo scopo delle politiche keynesiane è quello di aumentare la propensione al consumo della società nel suo complesso per accrescerne il prodotto, come aveva detto giustamente Quarantotto, altro che Hitler keynesiano: riarmo über alles.

    La differenza col fascismo, se dovessi provare a sintetizzarla in due parole, sta nella situazione economica mondiale: mentre negli anni ’20 si trattava di schiantare il movimento politico e sindacale dei lavoratori per superare un’impasse politica all’imposizione dell’austerità necessaria per ripristinare le “regole del gioco” del gold standard, in Germania si trattava di realizzare lo stesso obiettivo repressivo per rendere politicamente accettabili al grande capitale i salvataggi che gli erano necessari a causa della sottovaluazione degli effetti distruttivi dell’austerità a cui aveva poco prima plaudito, in un contesto internazionale in cui il “gioco”, di cui era stato entusiastico sostenitore, era crollato. Certo, dal loro punto di vista si trattava di un regime transitorio (ma questo era vero pure per la classe dirigente liberale rispetto al fascismo).

    Ancora Tooze, pag. 104: “Though never completely silenced, the ultra-nationalists were in a minority and the Reichsverband used its influence to ensure that sufficient DNVP deputies voted with the government to pass first the Dawes Plan in 1924 and then the Young Plan in 1930. Furthermore, it enthusiastically endorsed the international free trade agenda pursued by the Reich Ministry of Economic Affairs and the Foreign Ministry at the League of Nations.

    Pag. 105: “Not surprisingly, therefore, it gave enthusiastic backing to Chancellor Bruening when, in the spring of 1930, he promised to satisfy both its domestic and its international agendas at one and the same time. With the flow of new foreign capital temporarily halted, fulfilling the terms of the Young Plan required a severe programme of domestic deflation, which in turn enabled Bruening to move towards the domestic roll-back - the so-called 'domestic Young Plan' - that business had long hankered after. What the German business lobby, along with most other observers schooled in conventional economic experience, did not understand was the severity of the domestic and international crisis this would unleash.

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  8. Eh, mannaggia. Come uscirne senza concedere niente al lavoro? Ecco un Hitler pronto alla bisogna (Tooze, pag. 102): “The meeting of 20 February and its aftermath are the most notorious instances of the willingness of German big business to assist Hitler in establishing his dictatorial regime. The evidence cannot be dodged. Nothing suggests that the leaders of German big business were filled with ideological ardour for National Socialism, before or after February 1933. Nor did Hitler ask Krupp & Co. to sign up to an agenda of violent anti-Semitism or a war of conquest. The speech he gave to the businessmen in Goering's villa was not the speech he had given to the generals a few weeks earlier, in which he had spoken openly about rearmament and the need for territorial expansion. But what Hitler and his government did promise was an end to parliamentary democracy and the destruction of the German left and for this most of German big business was willing to make a substantial down-payment.

    In sostanza, direi, aveva ragione Kalecki su tutta la linea e anche di più.

    Poi, certo, alla fine, ne ho già parlato, il giocattolo gli è sfuggito di mano. Poverini. (Noi).

    Insomma, riprendendo sinteticamente questo post, direi che il punto non è liberismo vs. protezionismo, ma imperialismo vs. sovranità democratica (che potrà decidere il “dosaggio” “di protezionismo e liberismo”, come diceva Caffè, che conviene al benessere del popolo che la esercita, senza imposizioni e pregiudizio verso gli altri, e che si accompagni alla condivisione del sovrappiù, assicurando la stabilità del capitalismo. If, indeed, such a thing is possible…).

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    1. Grazie ancora Arturo.
      Anche se si deve ritenere un'impresa improba, a questo punto, ragionare su fonti, documenti e elementi storici dotati di "evidenza".

      Prevalgono altri elementi, un po' più "marziani"

      ...tanto che in pratica la definizione della fattispecie punitiva trascolora praticamente nella norma penale "in bianco". Punizione secondo "rinvio mobile" a "concetti indeterminati": ricorda qualcosa di veramente paradossale?
      Ma non (solo) per questi motivi
      http://www.altalex.com/documents/news/2017/07/13/apologia-del-fascismo-dubbi-di-costituzionalita-sul-disegno-di-legge-fiano (persino troppo sofisticati per la cultura attuale)
      Quanto per il riduzionismo del fascimo all'enunciazione del termine in sè. O al massimo del termine "Dux"...

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    2. Mitico Arturo :-)

      Sapevo che avresti citato immediatamente Tooze.

      Comunque il problema che porta Quarantotto è effettivamente imbarazzante e mette in luce il danno prodotto dal dominio culturale della destra reazionaria ottenuto nella guerra fredda.

      La distinzione previana destra economica, sinistra dei costumi e centro politico è del tutto fuorviante in quanto meramente sovrastrutturale e non chiaramente descrittiva della relazione con la struttura economica sottostante, così come emerge, ad esempio, nelle analisi gramsciane.

      Questa è la semplice descrizione del liberalismo classico così come riproposto nel dopoguerra: sta al centro politico (intercettando l'elettore mediano, assopendo la coscienza di classe e fomentando lo slogan pop degli opposti estremismi), è modernista in senso borghese e "tecnico-reazionario" (non socialmente progressista), è reazionario a livello strutturale-economicistico (liberista e liberoscambista).

      Poiché questo immane sforzo propagandistico è stato talmente protratto nel tempo, la dissociazione cognitiva domina pure nelle classi egemoni.

      Abbiamo dei potenziali socialisti come gli attivisti di Casapound che si rifanno al fascismo e legittimano l'oppressione politicamente corretta, e, in compenso, abbiamo chi produce gli stessi effetti strutturali e, in ultimo, sociopolitici del fascismo storico in nome... dell'antifascismo.

      Bravi geni, complimenti all'intellighenzia de sinistra e de me nona. Bravi.

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    3. "… Fra i caratteri più notevoli di questa rivoluzione c'è il fatto di essere stata anticipata da molti. Ci furono Keynesiani già molto tempo prima di Keynes. UNO DI ESSI FU ADOLF HITLER, che nell’assumere il cancellierato nel 1933, senza lasciarsi impacciare da alcuna teoria economica, varò una grande programma di opere pubbliche, di cui l’esempio più vistoso furono le Autobahnen (autostrade) … I nazisti non si lasciarono condizionare nemmeno dalla limitazione delle entrate fiscali: il finanziamento in disavanzo era dato per scontato. L’economia tedesca uscì dalla depressione distruttiva di cui aveva sofferto in precedenza. Nel 1936 la disoccupazione, che aveva avuto un’influenza grandissima nel portare Hitler al potere, era stata sostanzialmente eliminata…” [J.K. GALBRAITH, Storia dell'economia, Edizioni Bur, Saggi, 2012, 247 ss.].

      Non si sa più chi salvare

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    4. E' ammeregano, lo devi capire: non si può pretendere che conoscesse i dettagli di una "sporca" guerra che gli USA furono costretti (dai russi) a vincere. Ogni leader tedesco che sia anticomunista, in ogni tempo, alla fine fa brodo (e gli stessi inglesi, che avevano preventivato gli indubbi vantaggi dell'espansione tedesca in funzione anticomunista, erano diventati un costo troppo alto per gli USA. CHe, d'altra parte, non potevano permettersi neppure di "non" aiutare l'URSS, poiché altrimenti si sarebbe arrivati alla saldatura tra Germania e Giappone sul pacifico...).
      Insomma, il diavolo fa le pentole ma poi non sa dosare gli ingredienti in cottura...

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    5. Io ci sforzo di capirli, caro Quarantotto, ma mi riesce sempre meno

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    6. Dalla prefazione della versione in italiano "Il prezzo dello sterminio" (ce l'ho in lista ma mannaggia chissà quando c'arrivo)
      Non è esagerato affermare che gli storici della Germania del XX secolo hanno almeno un punto di partenza in comune: l'assunto della straordinaria forza dell'economia tedesca. Ovviamente, quando Hitler salì al potere, la Germania era nel pieno di una profonda crisi economica. Ma l'ortodossia della storia europea del XX secolo dipingeva la Germania come una superpotenza in divenire, una forza economica comparabile solo agli Stati Uniti. Nonostante l'acceso dibattito sulla arretratezza o meno della cultura politica tedesca, l'assunto della peculiare modernità economica della Germania è rimasto sostanzialmente incontestato. Tale assunto impronta di sé gran parte della storiografia tedesca, così come informa le ricostruzioni dell'imperialismo tedesco in politica estera. In effetti, il dogma della superiorità economica della Germania era così influente da condizionare non solo le ricostruzioni della storia tedesca, ma anche quelle della storia di altri paesi. Per quasi tutto il XX secolo, la Germania è stata il parametro di confronto per la Gran Bretagna, la Francia e persino gli Stati Uniti.

      Oggi, agli inizi del XXI secolo, è dalla messa in discussione di questo assunto che dobbiamo partire. Sia l'esperienza concreta degli europei a partire dai primi anni Novanta, sia il lavoro di una generazione di economisti e di storici dell'economia, hanno messo in dubbio, se non demolito, il mito della superiorità economica della Germania. Si scopre così che il filo conduttore della storia economica europea nel XX secolo portava a una progressiva convergenza intorno a una norma che fu definita, per quasi tutto il periodo, non dalla Germania, ma dalla Gran Bretagna, che nel 1900 era già la prima potenza industriale e metropolitana del mondo. Inoltre, fino al 1945 la Gran Bretagna non fu un semplice paese europeo; fu il più grande impero globale che il mondo avesse mai conosciuto. Nel 1939, quando iniziò la guerra, il PIL cumulato degli imperi britannico e francese superava del 60 per cento quello della Germania e dell'Italia. Naturalmente, l'idea dell'intrinseca superiorità economica tedesca non era semplicemente il prodotto dell'immaginazione storica. A partire dalla fine del XIX secolo, la Germania fu sede di un nutrito gruppo di industrie di rilevanza internazionale. Nomi come Krupp, Siemens e IG Farben diedero sostanza al mito dell'invincibilità industriale tedesca. Vista in termini più ampi, tuttavia, l'economia tedesca differiva ben poco dalla media europea: negli anni Trenta il reddito nazionale pro capite era discreto, paragonabile a quello dell'Iran o del Sudafrica oggi. Il livello dei consumi di cui godeva la maggioranza della popolazione tedesca era modesto e inferiore a quello di quasi tutti gli altri paesi dell'Europa occidentale. La Germania hitleriana era un paese solo parzialmente modernizzato, in cui più di quindici milioni di persone vivevano di artigianato o di agricoltura.

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    7. Oggi la caratteristica fondamentale della storia economica del XX secolo non è più il peculiare predominio della Germania o di qualunque altro paese europeo, ma l'eclissi del «vecchio continente» a opera di una serie di nuove potenze economiche, in primis gli Stati Uniti. Nel 1870, all'epoca dell'unificazione nazionale tedesca, la popolazione di Stati Uniti e Germania era più o meno uguale e l'output totale dell'America, nonostante l'enorme abbondanza di terre coltivabili e di risorse, superava solo del 30 per cento quello della Germania. Poco prima che scoppiasse la prima guerra mondiale, l'economia americana era cresciuta fino a una dimensione quasi doppia di quella della Germania imperiale. Nel 1943, prima che i bombardamenti aerei arrivassero al culmine, la produzione totale dell'America era quasi quattro volte quella del Terzo Reich.

      Iniziamo perciò il XXI secolo con una percezione storica diversa da quella che ha improntato le ricostruzioni della storia tedesca per quasi tutto il secolo scorso. Da una parte abbiamo un'idea più precisa della posizione veramente eccezionale che occupano gli Stati Uniti nell'economia globale di oggi. Dall'altra, l'esperienza comune europea della «convergenza» ci fornisce una prospettiva particolarmente disincantata sulla storia economica della Germania. La tesi fondamentale e potenzialmente più radicale del mio libro è che queste modifiche interconnesse della nostra percezione storica richiedono un ripensamento della storia del Terzo Reich, un ripensamento che ha l'effetto doppiamente inquietante di rendere la storia del nazismo più intelligibile, anzi sinistramente contemporanea, e di metterne ancora più in rilievo la fondamentale irrazionalità ideologica. La storia economica getta nuova luce sia sulle motivazioni dell'aggressione di Hitler, sia sulle ragioni del suo fallimento, o per meglio dire dell'inevitabilità di esso.

      Sotto entrambi gli aspetti, l'America dovrebbe essere il cardine della nostra lettura critica del Terzo Reich. Nel tentativo di spiegare l'indilazionabilità dell'aggressione di Hitler, gli storici hanno sottovalutato la sua profonda consapevolezza della minaccia che veniva alla Germania, e alle altre potenze europee, dall'emergere degli Stati Uniti come superpotenza dominante a livello globale. Sulla base dei trend economici contemporanei, Hitler aveva capito già negli anni Venti che le potenze europee avevano davanti solo pochi anni per organizzarsi e far fronte a questo evento ineludibile. Aveva capito inoltre l'irresistibile attrazione già esercitata sugli europei dal ricco stile di vita americano, un'attrazione di cui possiamo apprezzare più chiaramente la forza grazie alla maggior consapevolezza della più generale transizione attraversata dalle economie europee nel periodo tra le due guerre. Come in molte economie semiperiferiche di oggi, negli anni Trenta la popolazione tedesca era già pienamente immersa nel mondo luccicante di Hollywood, ma nello stesso tempo milioni e milioni di persone vivevano in condizioni di sovraffollamento, senza servizi igienici e senza elettricità. I veicoli a motore, le radio e altre comodità della vita moderna come gli elettrodomestici erano aspirazioni dell'élite sociale. L'originalità del nazionalsocialismo stava nel fatto che, anziché accettare docilmente un posto nell'ordine economico globale dominato dai ricchi paesi di lingua inglese, Hitler cercò di mobilitare le frustrazioni represse del suo popolo per orchestrare una sfida epica a quest'ordine globale. Replicando ciò che avevano fatto gli europei in tutto il mondo nei tre secoli precedenti, la Germania si sarebbe ritagliata un hinterland imperiale; con un'ultima e grandiosa acquisizione di terre a est si sarebbe creata una base di autosufficienza per il benessere nazionale e la piattaforma necessaria per prevalere nella competizione tra superpotenze che l'avrebbe opposta agli Stati Uniti.

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    8. L'aggressione messa in atto dal regime di Hitler si può dunque razionalizzare come una comprensibile risposta alle tensioni causate dallo sviluppo ineguale del capitalismo, tensioni che naturalmente permangono anche oggi. Ma nello stesso tempo, l'analisi dei fondamentali dell'economia serve anche a mettere in luce la profonda irrazionalità del progetto hitleriano. Come cercherò di dimostrare, a partire dal 1933 il regime di Hitler avviò una campagna veramente straordinaria di mobilitazione economica. Il programma di armamento del Terzo Reich diede luogo al più grande trasferimento di risorse mai intrapreso da uno stato capitalista in tempo di pace. Hitler, tuttavia, non fu in grado di alterare l'equilibrio tra forza economica e forza militare. L'economia della Germania non era abbastanza solida da creare la forza militare che occorreva per schiacciare tutti i suoi vicini europei, incluse la Gran Bretagna e l'Unione Sovietica, per non parlare degli Stati Uniti. Anche se nel 1936 e nel 1938 Hitler riportò dei brillanti successi a breve termine, la diplomazia del Terzo Reich non fu in grado di realizzare l'alleanza antisovietica proposta in Mein Kampf. Di fronte alla prospettiva di una guerra contro Francia e Gran Bretagna, Hitler fu costretto all'ultimo momento a ricercare un accordo di convenienza con Stalin. L'efficacia devastante dei panzer, deus ex machina nei primi anni di guerra, non costituì certamente la base della strategia in preparazione dell'estate 1940, che di fatto colse di sorpresa la stessa leadership tedesca. E pur essendo indubbiamente spettacolari, le vittorie conseguite dall'esercito tedesco nel 1940 e nel 1941 non portarono a nulla. Arriviamo perciò alla stupefacente conclusione che nel settembre del 1939 Hitler entrò in guerra senza un piano coerente per sconfiggere il suo principale antagonista, l'impero britannico.

      Perché Hitler fece questa epica scommessa? La domanda fondamentale è sicuramente questa. Anche se la conquista dello spazio vitale si può considerare un atto imperialistico, anche se al Terzo Reich si può riconoscere uno sforzo straordinario di mobilitazione delle proprie risorse a fini di belligeranza, anche se i soldati tedeschi combatterono valorosamente, la conduzione della guerra da parte di Hitler comportava dei rischi così elevati da sfidare qualunque razionalizzazione in termini di egoismo pragmatico. Ed è con questo interrogativo che ci ricolleghiamo alla storiografia tradizionale e alla sua insistenza sull'importanza dell'ideologia. Fu l'ideologia a fornire a Hitler la lente interpretativa attraverso cui lesse l'equilibrio internazionale del potere e lo sviluppo della lotta sempre più globalizzata che iniziò in Europa nell'estate del 1936 con la guerra civile spagnola. Nella mente di Hitler, la minaccia posta al Terzo Reich dagli Stati Uniti non si limitava alla convenzionale rivalità tra superpotenze. La minaccia era esistenziale e si abbinava al timore ossessivo di Hitler per la cospirazione ebraica mondiale, incarnata dagli «ebrei di Wall Street» e dai «media ebraici» degli Stati Uniti. Fu questa interpretazione fantastica del reale equilibrio di potere a dare al processo decisionale del Führer quel carattere volubile e fortemente orientato al rischio. La Germania non poteva accettare passivamente quel ruolo di satellite benestante degli Stati Uniti, che era sembrato essere il destino della repubblica di Weimar negli anni Venti, perché tale condizione l'avrebbe resa schiava della cospirazione ebraica mondiale e avrebbe causato la fine della razza ariana. A causa della pervasiva influenza degli ebrei, rivelata dalla crescente tensione internazionale della fine degli anni Trenta, un prospero futuro di partnership capitalista con le potenze occidentali era semplicemente impossibile. La guerra era inevitabile. La domanda non era se, ma quando.

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    9. Siamo sullo stesso solco (con sfumature diverse ma la sostanza è quella): un'interpretazione, molto "corrente" e oggettivamente autoassolutoria, che propone una sofisticata reductio ad Hitlerum.

      Che non spiega, infatti, come, se fosse stata quella l'analisi di fondo che muoveva Hitler, egli abbia potuto andare al potere con indubbi appoggi e conservando l'impostazione politico-economico del capitalismo sfrenato e competitivo che tali appoggi aveva fornito.

      C'è una profonda a irrisolta ambiguità in questa interpretazione che tende a non fare mai i conti con un'altra realtà: nel processo di specializzazione mondiale, in specie sul manifatturiero ad alto valore aggiunto, la Germania non viene ostacolata perché è complementare alla riuscita del dominio finanziario anglosassone.

      Hitler era o no eversivo rispetto a questo disegno?

      L'ideologia, di razza dominante, strettamente ripresa dagli anglosassoni, c'entra molto poco, rispetto a tale quesito.
      Gli ambienti anglosassoni ritennero, molto a lungo, di no: perché comunque era una forma "specializzata" di riaffermazione del loro capitalismo preferito (allora in chiave antisovietica).

      E ancor oggi, questa scommessa viene fatta sui nuovi leader tedeschi che perseguono, con l'UE, cioè col placet USA, gli stessi disegni.

      Ergo, la reductio ad Hitlerum continua ad avere lo stesso ruolo di copertura che non spiega la costante riproduzione dello schema.

      Un competitore periferico, inabilitato a "essere" altro, quindi sempre ricattabile o bombardabile (extrema ratio implicita) è pur sempre a te omologo e oggettivamente alleato nel sistema culturale di governo (del mondo).

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    10. E allora parliamo pure delle mitiche Autobahnen (Tooze, pagg. 45-7): “In the work creation mythology of the Nazi regime, the autobahns occupy a special place. Ironically, however, the autobahns were never principally conceived as work creation measures and they did not contribute materially to the relief of unemployment. They followed a logic not of work creation, but of national reconstruction and rearmament, a logic indeed that was as much symbolic as it was practical. […] On 23 September, on the Frankfurt-Darmstadt building site, Hitler and Goebbels put on a great show for the newsreel cameras. Hitler did more than just turn the first shovel, he filled an entire wheelbarrow. In practice, however, the effect of the autobahn programme on unemployment was negligible. In 1933 no more than 1,000 labourers were employed on the first autobahn section. Twelve months after Todt's appointment, the autobahn workforce numbered only 38,000, a tiny fraction of the jobs created since Hitler took office.

      Il notevole pregio del libro di Tooze, come di tutti i lavori di storia veramente buoni, è di ricostruire i fatti con estrema accuratezza. Questo consente di darne un’interpretazione, che dipende sempre dai modelli, implici o espliciti, di funzionamento della società e dell’economia usati dallo storico, più o meno diversa dalla sua.

      Per esempio è certo che l’ideologia abbia avuto un ruolo molto importante nella parabola nazista, ma è altrettanto vero che bisogna riflettere attentamente sui fatti materiali, e le costellazioni di potere ad essi sottesi. Per esempio, a proposito del Lebensraum, scrive lo stesso Tooze:

      Economic growth could not be taken for granted and Hitler was by no means the only person to say so. As we have seen, the doctrine of economic life as a field of struggle was already fully formed in Mein Kampf and Hitler's 'Second Book'. And this Darwinian outlook was only encouraged by the subsequent Depression. Given the density of Germany's population and Hitler's insistence on the inevitability of conflict arising from export-led growth, the conquest of new Lebensraum was certainly one means of raising Germany's per capita income level.

      La questione sta proprio nell’interpretazione di quel “export-led growth”. A questo proposito, tendo a pensarla molto come Cesaratto, secondo cui “in capitalism, malevolent mercantilist behaviour is generally not specific to some bad guy, but is more of a natural course for the ruling class, as envisaged by Kalecki and Joan Robinson (and Rosa Luxemburg), since it couples labour market discipline and foreign market realisation of the surplus. Moreover, in an international market where the harmony of relative advantages is theoretically and practically flawed, countries strive to get as many absolute advantages as they can. So they would all actually like to be Germany, the ‘successful’ mercantilist country; unfortunately, this is not possible by definition. As Joan Robinson pointed out: ‘All industrial countries want a surplus on income account. “Export-led growth” is the most convenient way of running modern capitalism. Whoever succeeds at any moment is accidental, largely depending on historical circumstances and political and psychological influences. Success leads to success and failure engenders failure’ (quoted by Burbidge 1978: 42).”.

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    11. Quindi possiamo certo commentare con orrore e raccapriccio le aberrazioni ideologiche naziste, ricordandoci però che la contraddizione fondamentale non stava nella testa di Hitler, ma nel normale funzionamento di un capitalismo non democraticamente corretto (prima di tutto sul piano internazionale e valga questa citazione di Keynes), il quale dovrà produrre razionalizzazioni che, direi inevitabilmente, finiscono sempre in una qualche forma di darwinismo sociale. Certo, fa tanto piacere che quelle di Hitler risultino oggi inaccettabili; meno gradito che slogan tremendi come “competizione globale”, “italiani (o greci o spagnoli) scansafatiche/imbroglioni”, “bamboccioni”, “vincitori e perdenti”, “chicelafa” (e chinoncelafa?) abbiano ancora corso. Perché la radice è la stessa e la funzione (rendere accettabile l’oppressione, fino alla morte, di un numero imprecisato di persone per il guadagno di pochi) pure.

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    12. Faccio un'aggiunta che permetta di meglio inquadrare la natura ambigua della compresente preoccupazione (inglese e francese) per la direzione di "riarmo" che prese la specifica applicazione hitleriana di quelle politiche (indubbiamente supply side e export-led).
      Tralasciamo l'aspetto monetario schachtiano evolutosi, durante la guerra, nel modo necessitato e "finale" che assunse (sotto riassunto da Luca Cellai).

      Sul versante specialmente britannico (molto meno negli USA), la prospettiva del riarmo destava una certa preoccupazione, del tutto naturale, nelle classi sociali subalterne (o meglio, nelle sue avanguardie "coscienti"): troppo vicina era la memoria della mattanza della I WW.

      Ma nelle elites, la sorte (potenziale) della "carne da macello" continuava a essere vista con "ragionevole" indifferenza.

      L'unico pericolo proveniente da questa ansia dei subalterni - ammesso che fossero compiutamente informati di ciò che stava realmente accadendo in Germania negli anni '30, aspetto fondamentale; si pensi, ad es; al carattere "alternativo" della partecipazione dell'elite socialista britannica alla guerra civile di Spagna-, era quello della stabilità sociale.

      Ma l'apparato repressivo-poliziesco britannico, per bolscevismo et similia, (fatti pragmaticamente concidere col sindacalismo tout court), era, al tempo, straordinariamente efficiente e violento (in Francia, peraltro, si avevano fenomeni simili; non parliamo degli USA e dei loro fucilieri privati anti-sciopero).

      Cioè, la repressione sociale nazi-fascista non scandalizzava affatto il sistema mediatico-culturale dominante anglosassone (la cui oligarchia era non meno spietata nella repressione).

      Tutto dunque, si può ridurre ad una scommessa: quell'apparato repressivo nazista, ove mai travalicasse in antidemocrazia, lo sarebbe stato solo rispetto a quella "formale" (quella sostanziale era comunque da reprimere in tutta l'Europa occidentale).

      E comunque, in ottica "espansione a est", avrebbe riguardato strane popolazioni slave, considerate schematicamente, (solito vizietto britannico), alquanto "selvagge", ed il cui destino alternativo, e da scongiurare, era di cadere sotto l'influenza delle tentazioni rivoluzionari sovietiche.

      Lo schema è semplicificato, lo so; ma consente di capire perché le decisioni di politica internazionale, al tempo, essendo sicuramente compiute da elite ristrette tipiche di Stati monoclasse, non possano essere valutate e rese coerenti con il metro della morale e dell'indignazione che, in Occidente, sarebbe divenuto, solo dopo la guerra, patrimonio comune di nuovi assetti capaci di esprimere, finalmente, governi pluriclasse (non a caso il rapporto Beveridge è "solo" del 1942, quando la campagna di Russia si sta rivelando il disastro che non si aspettavano...del tutto).

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    13. Soprattutto va ricordato che la "Società dello spettacolo" in cui il buon Galbraith va a sbattere - non a caso, visto la differenza delle analisi un po' pop sviluppate dai "liberal" americani rispetto a quelle dei socialisti europei - potrebbe trovare una milestone proprio con il processo di Norimberga.

      Così si raccorda l'analisi "strutturale" di Quarantotto con il supporto filologico di Arturo alle osservazioni di carattere sovrastrutturali fatte.

      In pratica, si propone che l'inizio della Guerra fredda può trovare un data fondamentale con con l'inizio del processo di Norimberga.

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    14. (Comunque del frame per cui Hitler e Mussolini sarebbero dei "socialisti" che han fatto del keynesismo non se ne può più: oltre ad essere illogico, è pienamente documentato dalla migliore storiografia il contenuto antisociale delle loro azioni politiche come Arturo non manca mai di ricordarci.

      È roba da "Mont Pelerin Society": alla Popper.

      Compresa, mi spiace, la vulgata un po' "esoterica" per cui il "fascismo" sarebbe una specie di derivato del marxismo o, peggio, una specie di "variante più benevola" del comunismo; come mi ricordava sempre Arturo, Settembrini che proponeva una tesi simile aveva - guarda a caso - a che fare con Paolo Mieli e lavorava al CESES, struttura notariamente collegata alla CIA.

      Sternhell - che tutti citano ma che pare pochi leggano - individua proprio nella messa in scena di una rivoluzione teatrale, senza contenuti sociali, la cifra caratteristica del fascismo)

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    15. Di "ritorno del keynesismo" se ne era riparlato anche a proposito dei salvataggi bancari...quando nemmeno nella vulgata hicksiana del primo anno (IS-LM-BP) credo sia possibile rintracciare una cosa del genere. Credo anzi che sia proprio il contrario, essendo la socializzazione delle perdite una conseguenza del 'purismo scientifico' ottocentesco. La crisi finanziaria italiana e tedesca, in un ottica keynesiana, si SAREBBE DOVUTA ("da prima") attraverso un 'interventismo' espansivo e pacifista...non salvataggi bancari e industriali (e controllo salari e militarismo e seconda guerra mondiale). Nella propaganda americana però associare keynesismo al 'too big to fail'(non 'meritocratico') permette in stile Tea Party di associare comunque l'interventismo all'odiato comunismo...ed evitare di riaprire la 'teoria generale'del '36. Del resto se devi venderti casa per farti un trapianto e garantirti farmaci anti-rigetto per il resto dei tuoi giorni, devo istruirti ad odiare chi, in altri paesi, ha speso le energie di una vita preoccupandosi anche per te.
      Tutta colpa di Hume:)

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    16. Hicks, tra l'altro, non era nemmeno un vero seguace di Keynes, ma un suo interprete neo-classico...

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    17. Pensa che Hume è il riferimento principe di Husserl: un « cieco che ha percorso tutta la strada della fenomenologia »

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    18. Un discorso un po' diverso dalle 'interpretazioni arbitrarie del keynesismo' ma che mi è venuto in mente leggendo i vostri approfondimenti, vale proprio per il termine 'imperialismo', categoria molto precisa introdotta nella 'macroeconomia internazionale' da Hobson nella sua opera del 1902 (perfino nel bignami di storia per le superiori c'è la "scheda" in grigio dedicatagli) ma che, probabilmente, si è preferito abbandonare per lasciarla intendere come un' espressione iperbolica dei comunisti 'complottisti''esagggerati' e, quindi, inutilizzabile dal mainstream accademico e giornalistico se non appunto, con riferimento al passato. E questo forse perché Hobson (quindi non Lenin nei sui 'quaderni'), attraversando e seguendo quello sviluppo del 'declino dell'impero britannico' in concomitanza con l'ascesa di USA, GERMANIA, GIAPPONE (di cui segnala giá la grande capacitá di comprensione, assimilazione e sviluppo del progresso occidentale in campo matematico, tecnologico ecc..) non poteva analiticamente 'non considerare' (come "scusabilmente" la letteratura economica liberale classica di Smith e Ricardo si era potuta permettere di fare) il ruolo essenziale dello Stato nel sostegno al capitale nelle sue fasi senili, ed erroneamente anche per questo ritenedolo 'gradualmwnte riformabile' dando spunto proprio all'analisi revisionista socialdemocratica (almeno dalla scissione del POSDR del 1903) per es, del 'supercapitalismo' kautskyano che non è affatto troppo diverso dal manifesto di Spinelli!!

      (googlate non degne di essere segnalate: quest'anno c'è chi festeggia il centenario menscevico del Febbraio'17, articoli che nessuno legge, convegni con sei persone tipo "Kerensky: uno di noi"(sì, uno che scappa su auto diplomatica USA vestito da infermiera)ecc...molte cose per voi scontate a me hanno sempre aiutato a chiarirmi le idee: una decina di anni fa vidi al tg un intervento in Parlamento di Fosco Giannini 'che quasi gli veniva una sincope' per un servizio del Tg2 in cui (per i 90 dall'ottobre rosso) i bolscevichi si ritenevano reaponsabili del regime fascista in Italia e la cosa bella è che la risposta altrettanto appassionata a Giannini non fu di un forzista(ex-psi) ma di Buttiglione! E si espresse proprio in difesa della rivoluzione di Febbraio "veramente democratica", proponendo addirittura una " 'commissione d'inchiesta' sulla rivoluzione d'ottobre per farvi chiarezza una volta per tutte"...Ovviamente pure ad Amato piaceva Kerensky...Comprai così la purtroppo noiosissima autobiografia di Kerensky (Garzanti) che mi aiutò a 'chiudere il cerchio' e ad orientarmi correttamente.

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    19. Infatti, Luca: ricordiamoci quel che diceva Giannini sul "non intervento" dello Stato borghese liberale...

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    20. Grazie Arturo...anche per la giustissima risposta di Luciano che coinvolge la mia generazione di laureati su manuali prodotti esclusivamente per essere venduti. E cioé, anche in riferimento alle precisazioni teoriche di Bazaar sul post precedente (altro che manuali...), "mercificati": dominio completo della realizzazione della forma monetaria del valore du scambio sul valore d'uso che, pur potendo esercitare una 'controspinta' alla struttura (attraverso i suoi contenuti) ne assecondano invece le necessità riproduttive (al solito: idee dominanti della classe dominante.

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    21. Tutto si gioca sul fatto che la "libertà" non si sa dove inizi né dove finisca.

      Non è che se riduci il "perimetro dello Stato" aumenti una qualche libertà di chi finalmente non si fa più opprimere dall'Esecutivo: rimangono semplicemente meno le persone che vengono tutelate dallo Stato che può opprimere maggiormente chi dallo Stato non viene più tutelato. Segnatamente i lavoratori.

      Ma lo Stato, ovviamente, non cessa di esistere e, semplicemente, continua la sua vita ritagliato bello snello e su misura di chi ha il privilegio di proprietà e controllo dei mezzi di produzione: gli oligopoli.

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    22. Questo è il problema che affronta Rawls che, "curiosamente", lo risolve in una soluzione che sostanzialmente è quella del costituzionalismo giuridico. Naturalmente suscitando accuse di anti-democrazia e statalismo autoritario...come te sbagli?

      Prossimamente su questi schermi...

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    23. Su questo argomento mi pare molto utile ricordare il dibattito fra i liberali tedeschi dell’Ottocento e il papà di tutti gli statalismiautoritarismi: Hegel.

      Se l’autore della Filosofia del diritto, pur insistendo sul momento statale o pubblico della soluzione della questione sociale, dinanzi all'implacabilità della crisi di sovrapproduzione e all'inanità dei suoi “rimedi”, consiglia almeno di lasciar libero l’accattonaggio (§ 245 A), ben diverso è l’atteggiamento dei suoi critici liberali. Per prevenire “già nella sua fonte” ogni attacco al diritto di proprietà, bisognava rinchiudere gli accattoni, e tutti coloro che fossero sprovvisti di mezzi di sussistenza, in “case di lavoro obbligatorio”, e rinchiuderli a tempo indeterminato, sottoponendoli ad una disciplina dura, anzi spietata.
      Da notare che questa misura di internamento poteva esser presa dalla magistratura, oppure poteva tranquillamente trattarsi di una “misura autonoma da parte delle autorità di polizia”. Non solo l’atteggiamento di Hegel è meno “autoritario” e più rispettoso della libertà individuale che non quello dei suoi critici liberali, ma è da aggiungere che la repressione da questi ultimi invocata a danno di accattoni e disoccupati non viene sentita in contraddizione con la sottolineatura da loro operata dei limiti dell’azione dello Stato: proprio perché lo Stato non ha alcun compito attivo di intervento nella soluzione di una presunta questione sociale, proprio perché ogni individuo è da considerare responsabile esclusivo della propria sorte, è logico che lo Stato respinga “già nella sua fonte” la violenza che contro il diritto di proprietà può essere esercitata da individui oziosi e dissoluti, costituzionalmente incapaci di un lavoro e di una vita ordinata[nota 12]. La repressione poliziesca è la conseguenza dello “Stato minimo” e della celebrazione della centralità del ruolo dell’individuo.
      ”. (D. Losurdo, Hegel e la libertà dei moderni, La scuola di Pitagora editrice, Napoli, 2012, pagg. 186-7).

      (In nota 12 sono riportati i riferimenti al liberale Staats-Lexikon, diretto da C. v. Rotteck e C. Welcker).

      Sarà un caso se negli USA la polizia sembra un esercito di occupazione?

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    24. E' argomento a supporto strettamente adiacente (storico-induttivo: Rawls ci arriva in via deduttiva...).

      Peraltro, il brano conferma principalmente che quando si parla di "libertà", la titolarità dei relativi diritti è concepita dai "liberali" come una capacità giuridica restringibile alla registrazione dello status quo oligarchico.

      Nessuna contraddizione rispetto agli (altisonanti) enunciati "liberali", dunque: solo il "naturale" riflesso della tutela ristretta ai titolari unici possibili delle libertà.

      Gli altri, esattamente come i "non proprietari" richiamati da Engels, non hanno capacità giuridica; anzi, non hanno uno status umano comparabile sul piano della legittimità (naturale).

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    25. Tant'è che ne "L'origine..." si ricorda che nella fattualitá del diritto romano...il 'liber' non era schiavo...lo schiavo non era 'liber'...(perché) il Liber era (coincideva con il) titolare del diritto di proprietà sullo schiavo. Modo di produzione antico (schiavistico)...ma pure psicologia politico-proprietaria attuale (capitalistica)

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  9. Purtroppo la Sinistra italiana non vuole considerare che la Piccola e Media Impresa, nuova forma di quella che fu un tempo la Borghesia, è la ricchezza e la forza economica di una Nazione, nonchè il miglior alleato contro gli interessi dei grandi gruppi multinazionali. Per decenni ha perseguito la sua lotta di indebolimento e di disgregazione di quello che era il fitto tessuto industriale costituito dalle aziende medio-piccole. Ora che il disegno è quasi compiuto, chi li ha votati, realizzerà che la Sinistra ama soprattutto il Grande Capitale e con esso è alleata, per trarne il massimo dei benefici economici personali.
    La cosidetta "Sinistra" tutela solo sè stessa e gli interessi di chi la paga.
    Questo è ampiamente avvertito da parte di quei dimenticati che non vedono ormai nessuna prospettiva di occupazione stabile in una economia dedita alla speculazione e al clientelismo economico.
    Le strutture statuali sono ormai preda di quei gruppi fortemente politicizzati che esprimono un vivo interesse nei confronti dello Stato regolatore e distributore: i beneficiari dei sussidi in tutte le loro declinazioni possibili, coloro che traggono beneficio dalla gestione privatistica delle funzioni dello Stato (Energia, Telecomunicazioni, Sanità, Trasporti, Acquedotti, Smaltimento e Raccolta Rifiuti, Istruzione, ecc.) nonchè la grossa schiera formata dai politici, dai giornalisti, dagli accademici e dai consulenti e lobbisti vari che molto spesso a torto vengono chiamate "brave persone" e per i quali il potere dello Stato è soprattutto potere a scopo personale.

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    1. "Interesse nei confronti dello Stato regolatore e distributore"? Scorgo diversi elementi di confusione.
      Regolatore, ma esclusivamente a fini di realizzazione dell'ordine internazionale del mercato, è solo Bruxelles.
      In Italia, mediante un non-Stato (o Stato coloniale) si "recepisce" e si "attua", senza alcuna reale discrezionalità. Vedi qui:
      http://orizzonte48.blogspot.it/2015/01/pmi-sveglia-non-e-uno-stato-vampiro-e.html

      I "sussidi" - sul lato supply side- sono le uniche politiche ammissibili per lo Stato €uro-ordoliberista, basato sul paradigma politico-economico del monetarismo e sui modelli "stocastici" di equilibrio fondati sulla fiducia e sull'operatore razionale; un ordine del "mercato" delineato dall'appartenenza all'UE-M. Cioè dalla cessione di sovranità.

      Non c'è e non c'è mai stato nulla di sinistra - se non il nomen a fini cosmetici- nel perseguire l'ordine internazionale del mercato per conto dell'oligarchia capitalista a direzione anglosassone (Germania inclusa, come solerte vassallo-controllore).

      La politica è oggi SOLO mera attuazione delle leggi "naturali" di questo ordine mercatista, RESO COGENTE DAI TRATTATI UE: un ordine che, ovviamente, NON è di libera concorrenza, nè ha mai inteso esserlo, ma di promozione degli interessi dela grande capitale finanziario e industriale, cioè della struttura oligopolistica "allocativo-efficiente". E non nazionale.

      Promozione attuata sacrificando, senza alcuna remora, qualsiasi componente sociale esclusa dalla struttura di controllo oligopolistica e concertata.

      Consiglio di rileggersi con attenzione il discorso di Basso riportato nei commenti iniziali a questo post.

      E anche il discorso dello stesso Basso qui riprodotto al punto 4:
      http://orizzonte48.blogspot.it/2017/05/lantisovrano-ha-paura-della-sovranita.html

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  10. Riporto, in ordine cronologico, alcuni pensieri di F. Caffè che attengono ai temi sviluppati nel post. Sono le parole di chi contribuì, non dimentichiamolo (per chi si fosse messo in ascolto solo oggi), alla stesura della Carta Costituzionale e che quindi parlava da un “punto di vista privilegiato”, ovvero avendo ben presente le inderogabili norme costituzionali ed essendo in grado di valutare con coscienza quanto stava accadendo sotto i suoi occhi. Le parole di Caffè, ovviamente, si integrano alla perfezione con il discorso contenuto in “Ciclo totalitario” di Basso.

    Mi scuso in anticipo per la prolissità, ma a questo punto arrivati, la difesa della sovranità credo reclami al lettore un pò di pazienza.

    In un primo passaggio, Caffè è intervistato sulla politica economica italiana a quasi trent’anni dall’entrata in vigore della Carta. Siamo nel 1977 e la sinistra, già allora, aveva deciso da che parte stare:

    ..D: Veniamo dunque all’oggi. L’attuale discussione sulla politica economica presenta delle analogie con quella svoltasi nel dopoguerra?

    R: Sul piano dell’egemonia culturale trovo delle analogie sconcertanti. Ricompare con forza il tema dell’efficienza. Si riparla dell’impresa come centro del sistema economico e dell’imprenditore come regolatore incontrastato della vita dell’impresa. Si ripetono, talora con parole identiche, i discorsi che si sentivano nel dopoguerra, quando veniva detto che i Consigli di gestione non consentivano all’imprenditore di fare il suo mestiere, di prendere le decisioni con la necessaria rapidità e snellezza. Anche oggi la sinistra accetta un terreno di discussione proposto da altri. Non riesco a comprendere, per esempio, perché il Partito Comunista debba rinunciare programmaticamente a qualsiasi estensione del settore pubblico dell’economia

    D: Con quali conseguenze?

    R: Molte delle cose che si sarebbero potute fare allora non furono fatte, a maggior ragione, neppure in seguito. Il modo in cui si provvide alla ricostruzione e le scelte deflazionistiche dei governi centristi condizionarono tutto lo sviluppo economico italiano… LA POLITICA ECONOMICA ITALIANA È SEMPRE STATA CARATTERIZZATA DA UN ORIENTAMENTO DEFLAZIONISTICO. Oggi, tuttavia, un simile orientamento e la sua accettazione da parte della sinistra sembrano trovare qualche giustificazione nello stato della bilancia dei pagamenti. Dobbiamo dunque chiederci: dove conduce questa strada? Ma anche: esiste una strada diversa?

    Continuare sulla strada attuale non mi sembra assolutamente auspicabile. Le nostre esportazioni, tutto sommato, reggono. MA CIÒ AVVIENE GRAZIE AL LAVORO NERO E ACCETTANDO UNA POSIZIONE SUBALTERNA NELLA DIVISIONE INTERNAZIONALE DEL LAVORO. Il deterioramento delle ragioni di scambio impone senza dubbio dei sacrifici. Ma affidare la distribuzione dei sacrifici al meccanismo dei prezzi non è affatto l’unica scelta possibile. Questa è, però, la strada che ci viene indicata.
    (segue)

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  11. Inoltre viene richiesta una maggiore mobilità del lavoro e, più in generale, la liberalizzazione delle decisioni imprenditoriali da tutti i vincoli cui sono oggi sottoposte. Il problema che si pone è se le forze di sinistra debbano accettare queste condizioni (o, meglio, subire il ricatto, poiché di questo in realtà si tratta)… La Robinson ha scritto che, se usassimo anche in tempo di pace i metodi dell’economia di guerra, il problema della piena occupazione sarebbe risolto. Non dovrebbe essere questo il programma delle sinistre?...

    IL PROBLEMA PRINCIPALE È QUELLO DELL’OCCUPAZIONE. L’AUMENTO DELL’OCCUPAZIONE NON PUÒ ESSERE AFFIDATO ALL’ESPANSIONE DELLE ESPORTAZIONI, E CIOÈ A UNA VARIABILE CHE È FUORI DAL NOSTRO CONTROLLO. È necessario rilanciare l’edilizia e fare una politica di opere pubbliche, espandere la spesa pubblica nelle sue componenti non assistenziali. C’è però un equivoco di cui dobbiamo liberarci. Si sente spesso ripetere che la spesa pubblica deve rivolgersi in maggior misura agli investimenti e in minor misura al pagamento di salari e stipendi. Ma alcune riforme, fra le più importanti, richiedono un aumento dell’occupazione nel settore terziario. Se si vogliono migliorare i servizi sociali, SI DEVONO PAGARE SALARI E STIPENDI. Non è vero, poi, che la spesa pubblica è troppo elevata, è il gettito fiscale che è troppo basso per le ragioni che sappiamo

    LA MIA PREOCCUPAZIONE È CHE SI CONTINUI SULLA STRADA DEL LIBERISMO ECONOMICO, aggravando progressivamente la situazione del Paese. Se si vuole parlare di austerità, per me va bene, purché non sia un esercizio retorico e purché l’austerità sia concretamente finalizzata all’aumento dell’occupazione. E a un’occupazione non precaria. Io vedo la situazione dei giovani. Giovani di venticinque anni che appassiscono nell’inattività. Non è escluso che tutto questo si traduca in un aumento dei suicidi. Occorrono misure immediate per aumentare l’occupazione, accompagnate dagli altri provvedimenti che mi sono sforzato di indicare. DIRE CHE TUTTO SI RISOLVE ESPORTANDO DI PIÙ, PRATICANDO L’AUSTERITÀ E RESTITUENDO EFFICIENZA AL SISTEMA, È UNA COLOSSALE MISTIFICAZIONE
    …” [F. CAFFE’, Intervista a Federico Caffè, in “Sinistra ’77”, n. 0 (a cura di Fernando Vianello)].

    In un secondo passaggio, Caffè parla di come funzionano i rapporti internazionali (dei trattati in genere come “cristallizzazione dei rapporti di forza”, cit. Quarantotto) e della loro involuzione alla quale dovette assistere, a cominciare proprio dal Washington consensus. Stigmatizzando il comportamento della classe dirigente che a volte “ci è”, ma il più delle volte abbiamo imparato che “ci fa” (per mutuare il discorso della Sassen):

    Tra la più assoluta indifferenza e la mancanza di ogni reazione critica si è svolto l’iter parlamentare riguardante “l’accettazione ed esecuzione del secondo emendamento dello Statuto del Fondo Monetario Internazionale”; emendamento al quale è stato collegato l’aumento della quota di partecipazione dell’Italia al Fondo stesso... (segue)

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  12. un motivo di disinteresse può essere costituito dal fatto che I PARLAMENTARI SONO POSTI, IN PRATICA, DI FRONTE ALL’ALTERNATIVA DI PRENDERE O LASCIARE, in quanto il testo dell’emendamento, frutto di prolungate negoziazioni, NON PRESENTAVA POSSIBILITÀ DI VARIANTI. Un altro motivo può essere costituito dalla natura strettamente tecnica dei problemi coinvolti, i quali sembrano estremamente remoti dalle esigenze quotidiane dei comuni cittadini. Ma, in realtà, le cose sono proprio in senso inverso. È necessario che vi sia la più chiara e diffusa consapevolezza che IL QUADRO DELLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE creato sul finire del secondo conflitto mondiale STA SUBENDO DELLE ALTERAZIONI PROFONDE, IN ANTITESI CON QUEGLI OBIETTIVI DELL’OCCUPAZIONE CHE NE COSTITUIRONO L’ESSENZIALE CRITERIO ISPIRATORE ORIGINARIO.

    È ben noto che l’obiettivo della occupazione può trovarsi in contrasto con quello di una ragionevole stabilità del sistema prezzi. Ma né è detto che la stabilità costituisca di per sé una salvaguardia dell’occupazione (se non sul piano delle pure enunciazioni retoriche); né è detto che il sacrificio dell’occupazione (come l’esperienza odierna comprova drammaticamente) sia un mezzo di sicura efficacia per il mantenimento della stabilità. Ora, il legame tra questi problemi e il secondo emendamento allo Statuto del Fondo consiste nel fatto che con l’emendamento stesso, vengano attribuiti al Fondo «poteri di sorveglianza» che, di fatto, esso già esercita, ma che vengono in tal modo istituzionalizzati, con conseguenze che suscitano legittime perplessità.

    Viene infatti, in tal modo, codificata la prassi secondo la quale il giudizio del Fondo sulle condizioni economiche dei Paesi membri sarebbe fondamentale non tanto per l’entità più o meno rilevante dei prestiti accordati, quanto come attestazione di affidabilità. Soltanto se in possesso di un’attestazione del genere, i Paesi interessati avrebbero agevole accesso ai finanziamenti internazionali. Si tratta di una modificazione operativa non soltanto di per sé preoccupante, ma del tutto estranea al comportamento iniziale del Fondo. Quando esso cominciò a funzionare, i Paesi che pur avevano bisogno del suo aiuto erano riluttanti a richiedere prestiti per il timore che potessero essere rifiutati e che ciò potesse dar origine a speculazioni valutarie avverse al Paese coinvolto. Vennero introdotti allora gli «accordi di massima» (stand-by) proprio per fugare questi timori. Il Paese poteva precostituirsi la possibilità di un futuro ricorso al Fondo, senza averne immediata necessità e in vista di richieste di credito eventuali. La discrezione massima doveva circondare le trattative dell’operazione, nello spirito di una reale ed efficace collaborazione internazionale non portata a considerare i Paesi in difficoltà come «colpevoli».

    Negli ultimi tempi, in linea di fatto, ci si era molto allontanati da questa felpata discrezione. Il rilievo che viene dato agli accertamenti sulla situazione economica del potenziale mutuatario, ai moniti di cui esso forma oggetto, ALLA GRAVOSITÀ DEI CONDIZIONAMENTI che accompagnano i prestiti e alla esosità della loro verifica aggrava, e anzi esaspera, la mancanza di parallelismo connaturale dell’azione del Fondo che nulla può, in pratica, nei confronti dei Paesi in posizione persistentemente eccedentaria …il Fondo sembra incline a compensare la sua mancanza di grinta nei confronti dei Paesi in persistente posizione eccedentaria con un eccesso di rigorismo, nei confronti dei Paesi in posizione deficitaria
    . (segue)

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  13. E, poiché la «filosofia» originaria rifletteva una ispirazione del tutto opposta, il «secondo emendamento» è tale solo da un punto di vista formale, ma in realtà snatura le funzioni del Fondo. Il compito di «certificatore dell’affidabilità dei membri», oltre a prestarsi ad abusi e a strumentalizzazioni, costituisce un esempio di involuzione della cooperazione economica internazionale di cui è BENE, QUANTOMENO, ESSERE CHIARAMENTE CONSAPEVOLI [F. CAFFE’, Il processo involutivo della collaborazione internazionale, in Sinistra ’78, Osservatorio economico di Federico Caffè, n. 2, maggio 1978].

    E, prima di passare a L€uropa, un Caffè letteralmente infastidito da Hayek e dalla “vecchia scienza dell’800” (per quelli che “il mercato e la globalizzazione sono eventi naturali”):

    Non si possono spostare all’indietro le lancette della storia. Non sento, francamente, di dovermi preoccupare allorché Hayek ancora oggi afferma che la causa della disoccupazione risiede in una deviazione dei prezzi e dei salari di equilibrio che si stabilirebbero automaticamente in presenza di un mercato libero e di una moneta stabile. Affermazioni del genere mi danno soltanto il fastidio che provo nel dovermi trovare oggi sotto gli occhi, sui muri, simboli nazisti o antisemiti. Mi sembra…che il processo riequilibratore da lui evocato rientri in un clima nostalgico che non ha alcun contatto con la realtà…

    L’APPELLARSI ALLO SPONTANEISMO DEL MERCATO, in una fase storica nella quale le sue capacità regolatrici sono di fatto inesistenti per l’estensione raggiunta dall’intervento pubblico nell’economia, per il potere di cui dispongono gli oligopoli… non rappresenta che una delle forme di incomprensione dei mutamenti dei rapporti sociali connessi con modificazioni storiche irreversibili.

    Tutto questo non significa che l’accrescimento della occupazione e la salvaguardia di una ragionevole stabilità monetaria non siano obiettivi che impegnino in pieno la responsabilità delle forze lavoratrici sindacalmente organizzate. Ma, proponendosi di impegnare queste responsabilità sul piano della dialettica dell’impresa, esse lo fanno in un modo che non implica arretramenti culturali o aspettative fideistiche. Questa consapevolezza di operare per un futuro migliore, anche con l’ausilio di strumenti di analisi più congrui alla realtà storica contemporanea, rende meno squallida la vicenda giudiziaria nella quale le forze sindacali sono coinvolte.

    Nel recente scritto di Galbraith che ho avuto occasione di ricordare e nel quale alle antiche codificate carenze e insufficienze del mercato, egli aggiunge l’analisi delle più recenti cause storiche del suo declino, non si manca di far menzione all’atteggiamento di coloro che – in luogo di prendere atto di tale declino – si propongono di arrestarlo con espedienti vari… Ma, egli aggiunge, con il sarcasmo che gli è consueto, di fatto non si giunge a tanto, perché “anche la banalità deve essere temperata dalla discrezione”. Nella «fattispecie» che ci occupa (per mutuare un termine giuridico), la discrezione è stata superata dalla banalità
    ” [F. CAFFE’, La spontaneità del mercato: nuovi teorici per vecchie tesi, Intervento di Caffè al seminario tenuto dalla Flm a Roma l’11-12 maggio 1979]. (segue)

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  14. E, per ultimo, un passaggio sul fogno €uropeo. Caffè aveva ovviamente capito che il progetto deflazionista era contra Constitutionem, che il rischio era la colonizzazione tedesca e che la “solidarietà” era solo una chimera:

    … In questo studio, che ha come titolo A che punto siamo con l’integrazione economica europea?, il professor Rey pone in rilievo che quest’integrazione, per la parte in cui si è realizzata, è stata dominata dai grandi monopoli più che dai governi: i governi sono stati sostanzialmente a rimorchio degli interessi costituiti, presenti di frequente anche in forme e strutture diverse da quelle monopolistiche. Sono queste considerazioni che portano a introdurre degli elementi di riflessione critica che ho indicato come dubbi…

    Gli errori di decisioni prese sull’onda anche di un entusiasmo possono rivelarsi tali, nel senso di averne una consapevolezza più chiara soltanto a distanza di tempo. Il fatto positivo… è che i tempi di percezione dei possibili errori si sono enormemente accorciati nel periodo più recente. Risale agli anni Sessanta un articolo di un nostro collega, il professor Giorgio La Malfa, pubblicato sul periodico «Studi economici» dell’Università di Napoli. Egli, in via di pura analisi dei montanti compensativi e senza nessuna esperienza concreta del loro operare, già con molta lucidità vedeva tutti i pericoli cui avrebbero condotto. Vi è noto che i montanti compensativi come erano previsti dal Trattato istitutivo delle Comunità furono una creazione tecnocratica, che volle anticipare una moneta europea, sia pure limitatamente al settore dell’agricoltura. E non può dirsi che si sia trattato di un successo.

    Vi è poi un altro economista il quale una ventina di anni fa, quando si trattava appunto di scegliere tra il Mercato comune o una zona di libero scambio, prese posizione a favore della zona di libero scambio, perché questa avrebbe incluso l’Inghilterra…Questo autore segnalava due pericoli fra loro strettamente connessi: il predominio economico della Germania e un’accresciuta influenza, a livello europeo, di concessioni economiche poco favorevoli al sostegno dell’occupazione. In altri termini, la presenza dell’Inghilterra da un lato avrebbe potuto in quell’epoca arginare la supremazia tedesca; dall’altro avrebbe contribuito ad assicurare all’obiettivo di un elevato e stabile livello di occupazione quella priorità che aveva nell’ambito del clima culturale britannico…

    Passerei ora al secondo elemento di dubbio, vale a dire alla confusione tra l’ingegneria monetaria e la teoria monetaria…In certo senso…abbiamo trascurato la lezione dei nostri grandi economisti del passato, i quali non consideravano la moneta come qualche cosa di separato dalla teoria generale dei beni, ma cercavano di integrare la moneta in una concezione che coinvolgesse il processo attraverso cui la moneta «diventa reddito»; quindi studio della moneta non come un fatto estrinseco di circolazione monetaria, come indagine degli elementi che regolano la quantità della circolazione monetaria stessa, ma soprattutto come analisi del processo attraverso il quale questa moneta diventa elemento che vivifica l’attività produttiva e si trasforma in reddito…
    (segue)

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  15. Possiamo considerare come teoria monetaria quella particolare concezione, che vi è indubbiamente nota, e che si designa come «monetarismo»? Ora, il «monetarismo» ha come presupposto essenziale che il settore privato viene considerato «intrinsecamente stabile»; ma chi è che è disposto a sottoscrivere oggi questo vero e proprio atto di fede, tanto per poter dire che esiste una teoria monetaria? Vale a dire, che esiste una situazione di teoria monetaria dominante? Non è il caso di insistere nel sottolineare che la mancanza di una teoria monetaria che sia generalmente accettata non è priva di inconvenienti, anche sul piano pratico.

    Una delle caratteristiche del monetarismo… consiste nella determinazione di quantitativi di espansione monetaria che un Paese non deve superare. Limiti del genere sono stati imposti al nostro Paese. Ma essi sono stati fissati anche per altri Paesi…come condizione per l’ottenimento di prestiti da parte del Fondo Monetario Internazionale. Il Fondo infatti, con un discutibile spostamento di enfasi rispetto ai suoi obiettivi iniziali che ponevano l’accento sull’occupazione, è diventato una roccaforte di questa particolare concezione del monetarismo

    Ma considerando le cose dall’aspetto generale, qual è la natura, la sostanza, la consistenza di questa «ingegneria monetaria»? Qui subiamo molto fortemente la mancanza del dottor Magnifico che ci avrebbe potuto illustrare, nei dettagli più particolari, questi aspetti di ingegneria monetaria. Tutto sommato, nonostante la grande ingegnosità che si è posto nell’attuarla, gran parte di questi aspetti di ingegneria monetaria si basa sostanzialmente sulle idee di Robert Triffin, che è colui il quale nell’immediato dopoguerra, attraverso l’Unione Monetaria Europea, ha cercato di attivare la situazione sul piano di una certa possibile ripresa degli scambi e dei pagamenti nell’ambito europeo; nonché sull’idea base del FMI, quella cioè di mettere delle riserve in comune, avere in cambio di queste riserve delle unità monetarie e avere dei prestiti che aiutino a superare situazioni di difficoltà.

    In queste forme di ingegneria monetaria, malgrado tutto quello che si sostiene, NON SI È ASSOLUTAMENTE AFFRONTATO IL PROBLEMA DEL PARALLELISMO DEGLI OBBLIGHI CHE DEVONO ESSERE A CARICO DEI PAESI IN POSIZIONE ECCEDENTARIA. Questo è il vero problema; è il problema che ci portiamo dietro dall’epoca della fondazione del FMI, che non siamo riusciti a risolvere e che è un poco illusorio pensare che si risolva semplicemente perché, NELLE CARTE CHE FIRMEREMO QUANDO SI STABILIRÀ L’UNIONE MONETARIA EUROPEA, SONO PREVISTI DEGLI INDICATORI DI ALLARME, scattati i quali bisognerebbe iniziare delle procedure di aggiustamento, procedure cioè che in linea di principio riguardano sia il Paese creditore che il Paese debitore. In questi accordi internazionali bisogna distinguere profondamente quello che è scritto e il modo in cui le cose concrete procedono nella realtà
    . (segue)

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  16. In questi giorni, il governatore della Banca Federale Tedesca ha detto che la Germania, pur aderendo a questa Unione Monetaria, non intende assolutamente accettare scarti di inflazione che turbino la situazione di stabilità monetaria del Paese; questo negli ultimi tempi ha registrato un massimo del 3% come aumento dei prezzi e quindi come indice di inflazione. Se dunque un elemento è chiaro, per autorevoli esponenti della Germania, è che l’avvicinamento dei tassi di inflazione debba avvenire al livello del loro Paese. Una situazione di questo genere lascia comprendere sin dall’inizio quella che sarà l’applicazione pratica di questi punti di sorveglianza, il cui avvicinarsi comporta L’OBBLIGO DEI PAESI DI ADOTTARE POLITICHE CORRETTIVE. LE POLITICHE CORRETTIVE, DISGRAZIATAMENTE, SARANNO A CARICO DEI PAESI DEBITORI. Esiste, come sempre è esistita nel passato, l’impossibilità concreta di costringere i Paesi in posizione creditoria ad applicare le pertinenti misure correttive. Riterrei anche che non si debbano avere illusioni eccessive sui trasferimenti delle risorse, cioè sugli aiuti provvisori che sono concessi ai Paesi in difficoltà…

    È mio radicato convincimento che questi problemi bisogna risolverli sempre preliminarmente sul piano interno. Vale a dire bisogna cominciare con il mettere ordine nella situazione economica interna. Ma fino a quando non avremo il coraggio di fare – perché ci vuole coraggio, si turbano degli interessi costituiti – fin quando non adotteremo queste modifiche all’interno, la moneta europea ci sarà, ma costituirà un fatto del tutto estrinseco…Né meno essenziali SONO I CAMBIAMENTI NELLA MENTALITÀ, NEI PROBLEMI CHE RIGUARDANO L’OPERARE DEL SETTORE PUBBLICO E DEL SETTORE PRIVATO DELL’ECONOMIA.

    Quando, ad esempio, SI CRITICA L’OPERARE DI UN «BANCHIERE OCCULTO» COSTITUITO DALLO STATO, il quale agirebbe sempre male, mentre il «banchiere esplicito», cioè il banchiere privato, agirebbe sempre bene, ci troviamo di fronte ad affermazioni che occorrerebbe convalidare, e non già accettare aprioristicamente. Fin quando noi non modificheremo questa mentalità…ritengo che molto cammino rimarrà da percorrere sul piano delle realizzazioni sostanziali…
    ” [F. CAFFE’, Stare in Europa. Quali implicazioni per l’Italia?, Intervento di Federico Caffè al Seminario di informazione di Matera (10-11 febbraio 1979), Quaderni Federalisti, n. 29, Roma, luglio 1979].

    Per chi non vuole farsi più uccellare dalla pletora di espertologi “con baffi a manubrio” (cit.) e dalla merce avariata dei media

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    1. Lodevole ritrovamento di scottante attualità (peraltro da troppi anni, in questa palude).

      Ma generatosi l'uso di commenti plurimi per riportare fonti interessantissime e- nel caso- da coordinare nell'esposizione, si pone il problema di non disperderle.

      Suggerirei, perciò, di procedere in casi simili alla diretta redazione di un post, che dia a molti più fruitori la possibilità di registrare e ritrovare un'esposizione "commentata" (anche succintamente, senza sforzi filologici estenuanti).

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    2. Aggiungo: in tal modo si possono riservare ai commenti osservazioni più succinte e il "quote" di brani esemplicifativi di una fonte linkata (come fa-ceva Arturo, prima che la situazione degenerasse :-).

      Direi che la funzione dei commenti ne risulterebbe migliorata rendendoli più gestibili a un lettore "medio", mentre, elemento importante, la produzione di post sarebbe meno impegnativa per i redattori, ma non meno rilevante (non sempre occorre fare una summa ad alto indice bibliografico...)

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    3. Nel complesso un'analisi, quella di Caffè, che superficialmente si potrebbe definire profetica, ma in realtà una "semplice" deduzione per un grandissimo maestro della politica economica, che osservava acutamente la realtà ed era perfettamente in grado di prevedere le conseguenze ultime delle politiche che si andavano preannunciando, ormai un quarantennio fa.
      Veramente grazie di permetterci di beneficiare di simili letture.

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  17. Sono completamente d'accordo;
    -di Sinistra c'è solo la facciata
    -la sostanza è l'imposizione degli interessi dell'oligarchia capitalista a direzione anglosassone (Germania inclusa, come solerte vassallo-controllore)
    - imposizione attuata sacrificando, senza alcuna remora, qualsiasi componente sociale esclusa dalla struttura di controllo oligopolistica e concertata
    - col fine ultimo di stabilire un ordine che, ovviamente, NON è di libera concorrenza, nè ha mai inteso esserlo, ma di promozione degli interessi del grande capitale finanziario e industriale
    -Bruxelles è il punto di comando centrale da cui vengono diramati gli ordini alle elitè nazionali che le applicano senza discrezionalità alcuna.

    La ringrazio per il rimando al Suo articolo "L'ANTISOVRANO" HA PAURA DELLA SOVRANITA' POPOLARE PERCHE' NON VUOLE LA DEMOCRAZIA

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  18. Mi sembra che nella discussione non sia stato indicato il metodo pratico (ovviamente truffaldino) di circolazione di fatture scontabili (presso la banca centrale) con interesse al 4,5% annuo utilizzato per finanziare il riarmo tedesco.

    https://en.wikipedia.org/wiki/Mefo_bills

    Come indicato nel discorso di Hitler riportato piu' sopra, per ogni marco di forniture della filiera militare si creava un marco di "Mefo bills", cioe' di un tipo di moneta che non poteva piu' essere controllato e che crebbe esponenzialmente fino alla sconfitta.

    Il sistema (segreto perche' ignoto al di fuori dei massimi vertici bancari mondiali) fu reso possibile dal talento di Hjalmar Schacht, che era un banchiere stimatissimo dalla finanza anglosassone (https://en.wikipedia.org/wiki/Hjalmar_Schacht) e che fu (ovviamente) anche assolto al processo di Norimberga. Non credo si faccia peccato a pensare che fosse anche il garante dei finanziamenti esteri al regime.

    Il regime creo' anche una specie di ufficio acquisti centralizzato per le importazioni per sopperire alla mancanza di oro e valuta di riserva.
    Parte delle importazioni necessarie al riarmo furono infatti pagate con macchinari meccanici (per esempio con l'URSS gran parte dell commercio fino al 22/06/1941 avvenne in questo modo).

    Solo alla fine della guerra (1944-1945) il regime fu costretto a darsi alla falsificazione su larga scala delle sterline inglesi (specialmente le banconote da 5 sterline, utilizzando il talento degli specialisti ebrei deportati nei campi di lavoro) per pagare le importazioni.

    Ovviamente i "Mefo bills" erano un gigantesca catena di sant'Antonio (Ponzi scheme) che nelle previsioni dei pianificatori del conflitto avrebbe dovuto durare fino alla vittoria (che pensavano non avrebbe tardato oltre il 1943-1944).

    Il piano Funk prevedeva che con l'imposizione del marco come valuta di riserva nei territori del previsto reich millenario lo smaltimento dei 'Mefo bills' non avrebbe provocato danni all'economia tedesca.

    Per avere una idea del volume di Mefo bills si veda https://wiki.mises.org/wiki/Inflation_in_Nazi_Germany

    Nulla fu trascurato dai pianificatori nazisti: tutto il piano falli' solo perche' l'URSS non si piego', resistette e vinse (praticamente da sola) la II GM in Europa.

    Sospetto sia per questo che si stanno demolendo in Polonia e nei paesi baltici tutti i monumenti, i cimiteri, i sacrari che ricordano il tributo di sangue dell'armata rossa per sconfiggere il nazismo.

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    1. Certo che noto un inquietante parallelismo tra i "mefo bills" e le crittovalute...

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    2. Sempre Tooze, pag. 54: “Secured by these big names, the rearmament bills became acceptable collateral for the Reichsbank. For a small discount, contractors to the rearmament drive could cash in their Mefo bills at the central bank. In the event, since they paid good interest and were effectively guaranteed by the Reich, the majority of the Mefo bills in fact stayed in circulation. Small numbers of Mefo bills were issued in the autumn of 1933 to tide the early Luftwaffe contractors over a cash crisis. Large-scale disbursement began in April 1934, conveniently timed to coincide with the renewed propaganda surrounding the second wave of work creation measures.

      Se erano garantiti dalla banca centrale, mi pare che i Mefo non possano essere definiti né criptovalute né uno schema Ponzi: erano una valuta parallela, ossia un escamotage per monetizzare il fabbisogno pubblico senza dichiararlo apertamente. Gli scopi, cioè il riarmo, erano sicuramente biasimevoli; il mezzo, a parte che l’emissione venne interrotta nel marzo del ’38, proprio no (anzi), a meno che non siamo diventati quantitativisti (il link è alla wikipedia austriaca!) nel frattempo e mi auguro di no. :-)

      Le tensioni dell’economia tedesca erano dovute all’entità e alla composizione squilibrata della domanda per il riarmo, oltre a una situazione sempre sull’orlo di una crisi di bilancia dei pagamenti, dovuta tra l’altro alla decisione di non svalutare (visto che “In Hitler's terms, a devaluation was tantamount to inflation”, come dice Tooze a pag. 76. Quindi pure per Hitler vale l’equivalenza svalutazione = inflazione :-) ).

      Fra le tante colpe del Terzo Reich, le brillanti trovate di Schacht, in quanto tali, cioè indipendentemente dal modo in cui sono state usate, non mi pare meritino di figurare.

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    3. Grazie Arturo: quindi il motivo di monetizzare il fabbisogno "senza dichiararlo apertamente", quale sarebbe stato? Confondere i "creditori esteri"?

      In pratica, se capisco, lo psicopatico messo lì dalla "Confindustria" crucca disciplinava salariati e faceva "bella figura" coi creditori esteri con il cambio "rigido", mentre finanziava il riarmo con la "valuta parallela". Faceva distribuire grassi dividenti ai finanzieri (compresi quelli cattivoni "ebrei di Wall Street" che gonfiavano il capitale dei colossi dell'acciaio e della chimica tedesca) senza lasciare due spicci in più al proletariato.

      Ottimo. Direi poi che - soprattutto - Schacht dimostra che non è necessario essere keynesiani per capire la macroeconomia.

      Basta essere banchieri.

      (...e finanziare corbellerie da dare in pasto ad austriaci e liberisti scalcagnati di Londra, Friburgo e Cicago)


      (Il "parallelismo" in realtà mi fa venire in mente questa crittovaluta. Magari con il medesimo scopo?)

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    4. A proposito del primo link...
      "Immaginiamo invece un scenario radicalmente diverso: la Bce consente a tutti noi di avere un conto corrente – per il deposito, non per il credito – presso di sé, emettendo moneta elettronica. Il contante continua ad essere emesso, ma solo in biglietti di piccolo taglio.

      In tempi normali, finirebbe il monopolio della moneta elettronica legale da parte delle banche, e si offrirebbe uno strumento alternativo a chi cerca oggi la moneta elettronica informale – i Bitcoin. Tutti i conti correnti dovrebbero essere lievemente remunerati, a differenza del contante. Ciascun cittadino potrebbe scegliere la composizione della sua liquidità tra contante, Euro Coin e moneta bancaria privata. La politica monetaria diventerebbe meno dipendente dai comportamenti delle banche, mentre i cittadini avrebbero più libertà di scelta".

      Possibile che pensino che la gente se la beva? (NB: i c/c sono per il DEPOSITO NON PER IL CREDITO).
      E' chiaramente il modo per perpetuare l'euro, dando una ridicola remunerazione e drenando la liquidità oggi impantanata. Ma anche il primo step, evidente (o almeno salta agli occhi) per l'introduzione di una moneta unica mondiale. Naturalmente gold standard.
      Basta fare un accordo preparatorio di cambio fisso con la Fed sulle rispettive emissioni elettroniche.

      Per ora, non vedo come i tedeschi possano essere favorevoli: forse, a un certo punto, per evitare bolle speculative sui propri assets, data la costante affluenza di capitali/risparmi dai paesi PIGS.
      Probabilmente, sarà la "mossa di riserva" non appena si affaccerà la prossima crisi finanziaria globale (a epicentro USA, sempre più probabile)...

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    5. I Mefo avevano tutte le caratteristiche della moneta parallela ma per pagarci le tasse (o per pagarci i consumi/salari) andavano prima convertiti in marchi legali (emessi solo dalla banca centrale) presso la banca centrale.

      Finche' i Mefo fossero rimasti in circolazione durante la guerra l'emissione di nuovi Mefo per rimpiazzare le forniture militari perse nel conflitto poteva procedere senza intoppi.

      Ma cosa sarebbe accaduto se, a fine guerra, in caso di vittoria, si fossero portati all'incasso simultaneamente una apprezzabile quantita' di Mefo per sostenere i consumi (cioe' per pagare il salario a milioni di ex-soldati, che sarebbero ritornati ad essere lavoratori civili)?

      In quel momento si sarebbe posto il problema della fissazione del rapporto di cambio (fittiziamente imposto 1:1 dal regime, ma che mi pare divenne un decimo 'con tetto' durante l'occupazione alleata dell'ovest, ovest che fin dall'inizio sostenne di essere - ed effettivamente oggi e' anche dopo l'annessione dell'est - lo stato successore della 'Germania 1939').

      In questo senso si trattava di un Ponzi scheme (i primi a portare all'incasso i Mefo avrebbero effettivamente goduto dell'applicazione del cambio 1:1, gli ultimi probabilmente molto meno).

      In caso di vittoria del III Reich il problema poteva in qualche modo essere risolto anche senza espropriare i giganti dell'industria bellica (da qualche parte, se non sono stati distrutti, ci saranno sicuramente documenti riservati del piano Funk che trattavano anche questo aspetto) perche' comunque si sarebbero dovuti emettere nuovi marchi per capitalizzare le banche centrali dei paesi conquistati.

      Anche durante la guerra di secessione Lincoln ordino' l'emissione dei famosi dollari 'greenback' (aventi ancora oggi corso legale) monetizzando le spese militari unioniste, ma non pote' mai promettere il cambio 1:1 con i dollari emessi dalle banche private (il cambio greenback/dollari privati fluttuo' per anni).

      Una cosa e' certa, se lo stato (anche autoritario) e' il prestatore/garante di ultima istanza puo' emettere per i suoi scopi tutte le monete parallele che vuole (per monetizzare la spesa dei vari settori strategici, casa, lavoro, servizi, infrastrutture, anche armamenti in caso di minaccia esterna) e poi, quando necessario per rimodulare gli obbiettivi socio-economici, procedere ad un certo tempo al riordino, fissando un tasso di conversione obbligatorio tra tutte le monete parallele in circolazione e l'unica legale (quella con cui ci si pagano tasse e consumi).

      Mi sembra che un tale meccanismo di ridistribuzione periodica degli stock di ricchezza accumulata assomiglia molto negli effetti cumulativi nel tempo alla tassazione ordinaria.

      E' l'emissione privata della moneta (banche centrali 'indipendenti') che impedisce allo stato (anche democratico) di perseguire il bene comune.

      Il meccanismo Mefo fu diabolico perche' lo stato non era democratico e perche' invece di perseguire il bene comune insegui' gli interessi particolari dei grandi gruppi industriali.

      Probabilmente, se invece di buttare 'il bambino' (Mefo) insieme con l'acqua sporca (nazismo) si studiasse meglio la materia, si potrebbero concepire nuove evoluzioni delle istituzioni esistenti piu' adatte al perseguimento del bene comune.

      Spero di non annoiare troppo i lettori del blog perche' da quando ho molto tempo libero molti amici mi dicono tra il serio ed il faceto 'per carita' cercati un qualunque lavoro, che sei diventato destabilizzante'.

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    6. Nella "fattispecie" ho la medesima opinione.

      D'altronde sono scenari che per motivi strutturali - dati i risvolti di carattere assolutamente reazionario - sono in qualche modo analizzati a grandi linee - in base al contesto - tanto da Einaudi (per alcuni aspetti relativi alla moneta unica europea), quanto da Heyek in riferimento alla denazionalizzazione delle moneta come assalto finale alle sovranità e agli spazi politici che permettono le lotte di emancipazione dei subalterni.

      (Queste "monete parallele" mi ricordano un po' degli "epicicli" per tenere insieme il modello distopicamente disfuzionale bancocentrico-liberale)

      Che questa tecnologia - in generale - nasca come attacco alla sovranità democratica pare sia stato capito anche dalla Cina.


      (E l'attacco alla sovranità vale tanto per i tedeschi quanto per gli Stati Uniti: l'imperialismo è solo uno dei tanti modi in cui si manifesta l'oppressione di classe. Chissà che sorpresa quando si troveranno tutti schiavi, schiavisti compresi...)

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    7. Il motivo era nascondere l’entità, se non il fatto, del riarmo.
      Certo, ne avevo accennato, il mantenimento unilaterale della parità aurea, con una convertibilità però sottoposta a severi controlli (già dal ’31), aveva ovviamente uno scopo disciplinante, ma c’era anche la preoccupazione per il balance sheet effect.
      I rapporti coi creditori esteri, americani ma non solo, non erano certo facili, ma vanno collocati nel contesto: crollati gold standard e free trade pagare il debito estero era difficile ma era anche molto meno importante, in particolare nei confronti di un paese (gli USA) che, in surplus verso la Germania, era privo di particolari mezzi di pressione, a meno di unire tutti i creditori esteri della Germania in un unico fronte, cosa che non gli riuscì (si sganciò perfino la Gran Bretagna, che concluse un fondamentale accordo bilaterale nel novembre del ‘34). La Germania fece quindi un ampio, anche se non totale, default nel ’34. Ma basti dire che Francia, Belgio, Polonia, Estonia e Ungheria avevano fatto default verso gli USA già nel ’32 (Tooze, pag. 27).

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    8. Con un piccolo sconto i Mefo erano convertibili in marchi presso la banca centrale, ma proprio per questo non capisco che senso ha interrogarsi sui pericoli di un eventuale "incasso": il "pericolo" è l'uso di quella moneta per alimentare una domanda eccessiva rispetto alle risorse reali del paese (escludo per comodità di ragionamento il settore estero), nel qual caso il risultato è l'inflazione. Che poi questa moneta si chiami Mefo o si chiami marco, che cosa dovrebbe cambiare? Ovviamente lo Stato può decidere di alterare il tasso di convertibilità, o al limite di dichiarare quella moneta carta straccia, ma per quanto tali decisioni politiche possano essere odiosamente redistributive, non vedo come autorizzino a definire la moneta in questione uno schema Ponzi più di una qualsiasi moneta a corso forzoso (che appunto per gli austriaci è essa stessa una truffa).

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    9. Comunque, per correttezza, neanche le crittovalute sono definibili direttamente come "schema Ponzi", altrimenti sarebbero in sé illegali. (Al di là delle doverosissime precisazioni di Arturo di carattere economico: la moneta - come strumento fondamentale dello Stato - è l'istituzione principe che regola i rapporti di produzione insieme allo Stato che è parte della Struttura stessa, e va ben categorizzata in funzione di come è disciplinata: la comprensione chiara dei due contrapposti paradigmi relativi alla natura e funzione della moneta vanno ben sempre tenuti a mente; nella prassi, come ricorda l'orrore dell'euro, agisce direttamente sull'esito del conflitto di distributivo)

      Non credo abbia senso ricorrere a monete "parallele" in contesti volti al rispetto delle sovranità democratiche.

      È evidente che in un progetto imperialista (come quello mondialista) sia tutto strutturalmente ribaltato per volgari (o elististici - è la medesima cosa) interessi materiali di classe (l'inversione assiologica! :-)): invece di avere un'unità di conto (il bancor?) e un sistema per disciplinare la finanza privata e i comportamenti mercantalistici, si impone una moneta unica mondiale e una serie di "unità di conto" parallele per "oliare" gli ingranaggi.

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    10. I certificati MEFO stanno alla "normale" moneta come il fascismo sta alla liberal-democrazia, dal punto di vista del capitale. Si tratta, cioè, di escamotage necessari in particolari contesti, ma intrinsecamente incompatibili con la pruderie perbenista del capitale. Questa pruderie, non dimentichiamolo, è un elemento immancabile di ogni dominazione di classe, perché senza il moralismo reazionario i rapporti di forza, leggi sfruttamento, apparirebbero in tutta la loro brutalità. Quindi se devo riarmare a passo accelerato, ma ho due vincoli: i) l'occidente deve poter credibilmente dire (alle proprie opinioni pubbliche) che non se ne sta accorgendo e ii) le industrie belliche non le posso/voglio nazionalizzare, non restano appunto che i MEFO. Lo stato mette l'oro/valuta pregiata per importare le materie prime necessarie all'industria bellica, e in cambio i privati accettano in pagamento delle armi i MEFO , che sul mercato interno sono RM a tutti gli effetti. Se poi i MEFO, come suppongo, potevano essere usati come collaterale per i prestiti (per procurari i - pochi... - RM necessari a pagare gli stipendi operai), davvero non c'era ragione di non accettarli. E poi, vinta la guerra, si sarebbe rientrati nella "normalità" convertendoli forzosamente in RM che, a quel punto, avrebbero avuto solide "garanzie" auree e/o fondiarie, sempre in nome della pruderie capitalista...
      Il che non è poi così diverso - anzi identico, direi - rispetto a certe soluzioni prospettate oggi da chi vorrebbe salvare capra e cavoli (euro ed economia reale), e mi riferisco specificamente più agli orridi mini-BOT che non alla "lira parallela" che, anzi, potrebbe effettivamente far parte della soluzione e non del problema.

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  19. Complimenti davvero ad Arturo e Francesco...gli altri commenti devo ancora leggerli...e infatti ringrazio anche a Luciano che ha parlato a nome di noi "medi" che recuperiamo via link. È vero che i rinvii ai post più recenti richiedono uno sforzo di recupero 'nullo' per ovvie ragioni...ma negli altri casi vi assicuro che un po' tostarella. Soprattutto perché i commenti sono interessantissimi...tendo a distrarmi dal post e dai percorsi a ritroso linkati (problema mio ovviamente) con la 'prescia' che ti viene perché non sai quanto tempo ti rimane fino al succeasivo post:):):). Grazie a tutta la comunitá di Orizzonte48!

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  20. Direi interessante anche questo commento di Bazaar:

    “La "reductio ad Hitlerum" è la stessa logica del processo di Norimberga e la rifiuto. La reputo una cinica e vergognosa pagliacciata in cui sono state nascoste le cause strutturali funzionali all'ascesa di Hitler.

    Quindi la guerra non ha come "primum agens" Hitler ma la logica delle politiche deflattive di cui il Trattato di Versailles è parte.

    Lo stesso vale per l'Olocausto.

    Il fatto che le sovrastrutture influenzino la struttura, non significa che i rapporti di forza naturali tra capitale e lavoro cambino: quindi senza una rivoluzione totale della struttura, la "retroazione" delle sovrastrutture tenderanno ad apportare modifiche "accidentali" nei rapporti di produzione.

    Per questo sono fondamentali le costituzioni rigide e, sempre per questo, non sono sufficienti se non vengono effettivamente attuate al "centro dell'Impero".

    E questo, fino a popperiana prova contraria, lo vuole la Logica.

    Ma non credo di essere stato il primo a dirlo... :-)”

    http://orizzonte48.blogspot.it/2016/02/leuro-continuita-liberista-determinismo.html?showComment=1456183374367#c6978362354267602390

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  21. "politici che assumono il ruolo di promuovere, concludere e, successivamente, attuare i trattati internazionali che tutelano gli interessi delle "marche globali"(="multinazionali") acquistano un maggiore e crescente spazio istituzionale, funzionalmente giustificato dallo sviluppo dell'azione agevolatrice già svolta."Il costo sostenuto dalle "marche globali"per il reclutamento del personale politico "agevolatore" potrebbe poi diventare per media controllati dalle stesse ,la Corruzzzioneee.Certo se penso a come sia stato premiato il governatore della Banca d' Italia che promosse il divorzio dal Tesoro e come fosse stato ferito e offeso il suo predecessore che seguiva la via opposta ,i modi per imporsi ,da parte delle "marche globali" sono infiniti.Riguardo alla corruzione voglio aggiungere che la cattura degli esponenti di vertice delle istituzioni dello Stato democratico la sento come un abuso della fiduciadella collettività che li ha preposti a quei ruoli e uno scherno assimilabile ad un' offesa alla mia persona in quanto componente della suddetta comunità.

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  22. Posso sperare che questa cultura di inestimabile valore, espressa nei post e nei commenti, venga organizzata in un prossimo volume cartaceo? Sono certo che sarà un'altra pietra miliare illuminante come lo sono stati i Suoi precedenti lavori, Presidente.
    Per quanto possa valere, porgo a tutti il mio più sincero ringraziamento perché credo fermamente che gli elementi culturali trattati in questa sede e le motivazioni dalle quali muovono (in difesa dell'unico strumento che possa realmente restituire alle persone quella dignità che è stata loro subdolamente sottratta e che porta il nome Costituzione Repubblicana - direi primigenia quarantottina -), rendano onore all'umano intelletto e all'uomo inteso nella sua forma più autentica ed emblematica.

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