mercoledì 8 aprile 2015

IL TRILEMMA DI RODRIK E L'APPLICAZIONE VAROUFAKIS (welcome into the ordoliberalist game!)

 Greek finance minister Yanis Varoufakis and IMF managing director Christine Lagarde at the emergency eurogroup finance ministers meeting.

 1. Vi ricordate il trilemma di Rodrik (formulato già nel 2007)?

 http://stephanewald.tumblr.com/post/4637642778/the-eur-trilemma

In realtà esso è un ragionamento di tipo logico-deduttivo che prefigura delle alternative, cioè delle relazioni di "incompatibilità" tra formule di organizzazione generale della società ("globalizzazione", sovranità nazionale e preservazione della democrazia), in un contesto internazionalizzato.
Si tratta, quindi, della individuazione dei limiti "reali" degli spazi d'azione politica dei governi, data la compresenza, nel mondo contemporaneo, di diverse modalità istituzionalizzate di interazioni tra Stati - generalmente attraverso trattati internazionali di natura economica- che ormai plasmano e vincolano la realtà socio-economica. 

Il trilemma di Rodrik svolge, perciò, la funzione di una "actio finium regundorum" che toglie attendibilità alle fantasie o "sogni" circa il fatto che, date queste stesse tendenze ormai istituzionalizzate, un futuro radioso ci attenda.
Rodrik ci avverte, in modo indiretto ma palese, che, se si assumono certi vincoli e finchè questi sono operanti, i politici al governo negli Stati nazionali non possono propagandisticamente raccontare ai propri "governati", che si possano raggiungere obiettivi, - in specie di benessere e democrazia-, che in realtà sono stati rinunciati in partenza (dai politici stessi)
E, per di più, rinunciati senza averne informato i propri elettori: trovarsi a fronteggiare il trilemma di Rodrik è già una prima abdicazione della democrazia, perchè presuppone un quadro di trattati internazionali sul cui "vero volto" i decisori politici non abbiano detto la verità a coloro nel cui interesse dovrebbero agire
Fenomeno, peraltro, in piena, ennesima, ri-produzione con riguardo al TTIP...

2. Questa funzione di mappatura del reale e di definizione delle "rotte" percorribili, rendendo impossibili alterazioni politico-propagandistiche, è evidente nella stessa formulazione riassuntiva del trilemma di Rodrik.
 "...democrazia, sovranità nazionale e globalizzazione economica sono obiettivi che possono essere perseguiti solo a coppie
Secondo Rodrik, se si vuole perseguire l'iperglobalizzazione economica e mantenere la sovranità nazionale bisogna rinunciare ad elementi sostanziali di democrazia
Se si vuole salvare la globalizzazione e garantire allo stesso tempo la possibilità di scelte democratiche, bisogna rinunciare alla centralità della nazione in favore di autorità democratiche globali. 
Se invece si intende salvare lo Stato nazione e la democrazia politica, allora bisogna rinunciare all'iperglobalizzazione e limitarne l'azione in alcuni settori
Quest'ultima scelta è la soluzione preferita da Dani Rodrik: le diversità sociali e culturali fra i popoli del mondo impedirebbero una vera e propria democrazia globale.(ndr: Rodrik, con la sua intelligenza al servizio della democrazia, civile ed economica, ha la stessa identica intuizione di Hayek, solo operante in senso esattamente opposto a quanto da questi auspicato).

Il trilemma descritto qui sopra, applicato a quell'esempio di sistema economico regionale che è l'Unione europea, spiega al meglio le diverse alternative che si presentano oggi ai cittadini europei. Anche nell'Unione europea, Stati nazionali, democrazia politica e Mercato unico imperniato sull'euro, non possono essere perseguiti tutti e tre allo stesso tempo, ma solo a coppie.

Se infatti si vuole salvare il Mercato unico (e con esso l'euro) e allo stesso tempo la sovranità nazionale bisogna rinunciare a quote significative di democrazia politica. Rodrik chiama questa opzione la "regola aurea": un meccanismo in cui per sopravvivere i governi nazionali dovrebbero perseguire solo politiche adatte ad attrarre capitali e a godere della fiducia dei mercati, e dunque gli ambiti delle scelte democratiche sarebbero estremamente limitati.
Al contrario, se si vuole mantenere partecipazione democratica e Stati nazionali bisogna rinunciare all'euro e al Mercato unico e ritornare al tempo del "Mercato comune" - il modello di integrazione europea esistente fino metà degli anni '80 - in cui non vi era piena libertà di movimento dei capitali e gli Stati potevano proteggere, in caso anche legiferando in autonomia, le caratteristiche essenziali dei propri compromessi sociali e dei servizi pubblici.

In ultimo, se l'obiettivo è quello di preservare l'euro e allo stesso tempo la democrazia partecipativa, bisogna necessariamente sacrificare quote sostanziali di sovranità nazionale. Occorre cioè creare un governo democratico e federale dell'economia che possa legiferare in materia di politica economica e non solo.

L'illusione che questo "trilemma" non esista sta facendo prevalere nei fatti la prima opzione. Deve essere chiaro che il percorso tracciato da Merkel e Sarkozy il 9 dicembre scorso a Bruxelles, e appoggiato dall'attuale governo italiano, va esattamente nella direzione di ridurre, fino a renderli inconsistenti, i margini delle scelte democratiche
."

3. Una piccola notazione a margine del post ora citato: non conosco Giuliano Garavini, ma colpisce il fatto che, nella "fatidica" fase terminale del 2011, avesse ben chiari i termini della €uro-questione che, invece, la presunta punta avanzata del sindacalismo CGIL, quello che si dice far capo alla Fiom di Landini, appare tutt'ora ignorare.

Questa "singolarità", cioè la contraddittorietà tra le conoscenze a disposizione di chiunque volesse attingere a ben accessibili "risorse" culturali, e enunciazione irrealistica delle cause e delle soluzioni della crisi attuale, descrive in un certo senso anche la vicenda Syriza, Tsipras e...Varoufakis, rispetto alla governance europea che soprassiede alla trojka, cioè al governo dei creditori e al dominio del ripristino della "fiducia dei mercati".
Oggi in molti sono colpiti dalla "resa" di Varoufakis di fronte alla Lagarde.
Ma si tratta di un risultato, del tutto scontato, una volta che programmaticamente, cioè già in sede elettorale, Syriza aveva rimunciato ad affrontare il problema del "vincolo" derivante dai trattati €uropei rispetto alla propria democrazia sovrana.

4. Solo Lapavitsas, in netta minoranza, aveva posto correttamente il  problema in anticipo e nei suoi esatti termini, esplicitamente collimanti con lo stesso trilemma di Rodrik.
Come abbiamo già rammentato, parlando della Grecia al "bivio" della sovranità (proprio all'interno dei "corni" del trilemma):

D. Sembra che lei identifichi la sinistra con la linea che sostiene l'uscita dall'euro, perché?

R. Per me, questa linea è l'unica che apre alla possibilitá di fare politiche di sinistra radicale che cambino i rapporti di forza a favore del lavoro e contro il capitale; politiche necessarie per recuperare il danno provocato dalla crisi ai paesi europei negli ultimi anni. Sono politiche sensate, fondamentali, come ridistribuzione, controllo o nazionalizzazione delle banche, riorganizzazione della produzione. Secondo me questi cambiamenti sono impossibili restando dentro l'unione monetaria, e rappresentano l'esatto contrario di ciò che oggi significa l'Unione Europea."


Infatti, lo stesso Lapavitsas, del tutto condivisibilmente, ci dice: 

"A volte la sinistra (ma aggiungerei, la democrazia tout court, ndr.ha bisogno dello Stato-Nazione per proteggere i diritti dei lavoratori e i diritti democratici, non c’è nessun altro modo

I governi di Grecia e Portogallo non possono cambiare la struttura dell’Unione Europea, peró possono intervenire in Grecia e Portogallo. Naturalmente il mio non è un argomento nazionalista. In certe occasioni si possono usare i meccanismi di uno Stato Nazione per creare una corrente internazionale".

5. Il punto, mai abbastanza focalizzato,  è che qualunque delle due soluzioni del "trilemma" che includa la conservazione della "democrazia", - sia questa a scapito della sovranità nazionale (federalismo, col governo sovranazionale dei "trasferimenti") o, piuttosto, avversa alla cogenza della "internazionalizzazione" (ripristino della sovranità monetaria e, di conseguenza, fiscale dei singoli Stati)- è comunque vietata espressamente dai trattati coi fatidici, e fondamentali (quanto, inspiegabilmente, passati sotto silenzio) artt. 124 e 125 TFUE
Cioè i paesi dominanti, nell'inevitabile ottica liberoscambista (macroregionale) dell'intero disegno, non hanno mai voluto, nè che fosse anche solo contemplata l'istituzione di una tale meccanismo solidale di fiscalità federale, nè che il vincolo monetario e la sua banca centrale indipendente "pura" fossero (col divieto di acquisto diretto di ogni forma di debito statale ex art.123 TFUE) in alcun modo modificabili e, più ancora, reversibili.
Per questo "non c'è solidarietà senza verità", e dunque, la verità è che la solidarietà, insieme con la democrazia sovrana, sono state in partenza sacrificate dai trattati UE-UEM.
Ancora una volta, bisogna tenere ben presenti le clausole dei trattati che si firmano: date queste premesse, lo sappiamo, l'austerità correttiva, coi successivi trattati applicativi, incluso quello con la trojka, erano mere conseguenze dovute. Non sarebbero state "dovute" solo se il paese debitore avesse (saggiamente e finchè fosse stato ancora "in forze") deciso di uscire dalla moneta unica.

I paesi dominanti che hanno imposto il contenuto del trattato, nelle persone dei loro governanti e delle forze che li sostenevano (e li sostengono), avevano infatti accettato preventivamente il chiaro disegno ordoliberista del trattato di Maastricht  e, ovviamente, della moneta unica.
E nel disegno ordoliberista, l'internazionalizzazione del capitale e della moneta prelude al ferreo governo dei mercati e alla riduzione della democrazia a "metodo idraulico" (cioè, si vota purchè il risultato sia predeterminato dal controllo mediatico e svincolato dai valori della democrazia sostanziale).

Ora, è intuitivo che anche i paesi che hanno subìto in posizione di debolezza gli stessi vincoli internazionali, al momento della decisione di negoziare, concludere e poi ratificare nei parlamenti, i relativi trattati, sono stati guidati da una classe dirigente che aderiva e accettava il disegno ordoliberista, più o meno consapevolmente. 
In Grecia come in Italia.
Il risultato è uno e uno solo
All'interno del vincolo dei trattati, essendo esclusa la possibilità giuridica della piena democrazia nazionale, dovranno dunque accedere al governo solo partiti che si dichiarino compatibili con ordoliberismo e metodo della democrazia idraulica
Al più, uno Stato-simulacro deprivato di sovranità effettiva, come la Grecia (e come tutti gli ex-Stati sovrani aderenti all'UEM),  potrà fruire di una mediazione USA (!) che supplisca al voluto difetto di meccanismi di solidarietà fiscale, in una presunta "Unione" europea governata solo dall'ordine sovranazionale dei mercati (finanziari).

"US Wants to Mediate Talks Between Athens, International Creditors - Greece"

In termini pratici, a nessun partito che miri al ripristino della democrazia sostanziale, cioè di quella costituzionale del lavoro, sarà più permesso di governare.
A meno che non abbia il coraggio, la forza e la consapevolezza di saper abbandonare senza indugi il "vincolo esterno"...

19 commenti:

  1. Ancora oggi mi viene da ridere amaramente ripensando a quante volte ho sentito/letto che gli USA hanno paura dell'euro.
    Buona giornata, Lucianone.

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  2. Il dilemma di Rodrik porta ad un'unica scelta per chi auspica alla sostanzializzazione della Democrazia se, come più volta discusso, si fa chiarezza sulla doppia verità dell'ideologia liberale classica.

    Se il dilemma di Rodrik viene "messo a sistema" al Liberal Paradox di Amartya Sen, in cui viene definità la "libertà" nel senso comunemente "percepito" (o, meglio, precompreso, stando ai chiarimenti di Hayek), si ottiene con logica stringente che non ci può essere né democrazia sostanziale né libertà nel federalismo interstatale.

    In realtà quello di Sen è un paradosso se e solo se non si considera che ciò è ben noto da sempre ai liberali classici; il trilemma, con il terzo escluso, consiste in:

    1 - impegno a raggiungere un accettabile livello di libertà (intesa come dai liberali sociali anglosassoni e dai socialisti democratici europei)

    2 - raggiungere l'efficienza paretiana, ovvero, a parole libere, il livello ottimo di benessere "compromissorio" per cui, ogni cambiamento da quel tipo di compromesso tra le forze sociali, si perde del benessere.

    3 - deve funzionare in qualsiasi tipo di comunità sociale

    Una nota è considerare che le comunità sociali in cui (più o meno a livello "formale") si trovano le eccezioni del terzo punto, e per cui sia il dilemma di Rodrik, sia il paradosso di Amartya Sen trovano delle "soluzioni al sistema", sono le federazioni interstatali nate dalla soppressione dei popoli autoctoni, dal successivo ripopolamento tramite l'immigrazione, e dall'unificazione linguistica - quindi politica - di questa Babele, tramite la lingua imperiale: generalmente l'inglese (ma anche il russo, il mandarino, lo spagnolo, ecc.).

    Si pensi ad USA, Canada, Australia, ecc. Ma anche il Brasile con il portoghese o la piccolissima Svizzera con il tedesco.

    Potrà mai un vero democratico, di fronte a queste logiche conclusioni, poter supportare l'irenismo mondialista?

    (Splendidi ed emozionanti i post sul diritto al lavoro... di Lelio Basso ce ne è stato uno, ma gran parte dei costituenti ne erano degni: ora il parlamentare tipo è un "nipotino" di Nitti... l'archetipo einaudiano)

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    1. Ci si aggira sempre intorno allo stesso problema: ricostruire a livello inter-etnico (poi possiamo estendere il discorso all'interstatale, ma supponendo la tendenziale omogeneità degli Stati-Nazione, cosa che vale di più proprio nell'Europa occidentale e meno altrove), una qualche forma di democrazia, è un percorso sempre "artificiale" e pretestuoso, se istituzionalizzato con un trattato economico contrabbandato con idealismo utopico (e quindi senza operare attraverso i Poteri Costituenti che i popoli possono solo formare dal proprio profondo e spontaneo impulso).
      E' più facile che sia, questo disegno di fusione, in funzione distopica, cioè con fondato su democrazia idraulica e "doppia verità"; e certo tu rammenterai Kalergy...

      Poi il discorso sui grandi Stati territoriali derivanti dalle aree coloniali, è un po' diverso da quel che vale per l'Europa (come ben indica Rawls).
      Peccherebbe anzi di un opposto schematismo accomunare la composita macroregione europea a queste realtà e cercare una soluzione unitaria "semplificante".

      Oggi, il problema globale è se le comunità statali ESISTENTI, comunque assortite, siano o meno governate in nome del costituzionalismo, cioè dei diritti fondamentali a epicentro "lavoristico-umanistico" (le due cose sono inscindibili e sinonimiche), ovvero dall'internazionalismo dei mercati.

      Riportare verso il costituzionalismo democratico il baricentro della stessa comunità internazionale (di Stati; e senza doverli sempre assoggettare a "organizzazioni" create per i mercati) è la sfida dei nostri giorni.
      Paradossalmente, la ancora permanente realtà storico-culturale europea, agevolerebbe questa rinnovata istanza democratica (sostanziale) proprio nell'area UEM. Cioè proprio laddove la distopia si è istituzionalizzata al più alto grado.

      Non c'è niente di "meglio" di un fallimento della distopia "reale", di un respingimento di massa della realtà orwelliana istituzionalizzata, per riportare la coscienza collettiva verso la propria autonomia democratica di popoli: pacificamente conviventi nell' "armonia complessa" delle rispettive Costituzioni.

      Eh sì, è emozionante vedere come questa aspirazione avesse trovato un alto grado di realizzazione in quel "raro" momento di illuminazione collettiva che fu la nostra Costituente...

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    2. Mi sono accorto che "a parole libere" ha significato argomentare in modo talmente sgangherato il Liberal Paradox che, rileggendo, non si evince che Sen dimostra matematicamente che i presupposti del "liberalismo economico" non possono raggiungere gli stessi obiettivi presupposti dal "liberalismo politico-filosofico".

      Poiché le dimensioni dello stato nazionale comportano necessariamente forme più o meno importanti di "effetti collaterali da libero scambio" (tra cui gli stessi obiettivi liberldemocratici, stando con Sen), in funzione dell'eterogeneità dei mercati, l'unica soluzione al dilemma di Rodrik è il "modello westfalico".

      Teorema di Bazaar

      Mah...

      ( Sull'elitismo paneuropeo, spero di fornire presto interessanti spunti sul framework filosofico e culturale che lo relazione all'elitismo della scuola austriaca)

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    3. Perchè la soluzione fosse il modello westfalico occorrerebbe che si capisse che, oggi, dopo tanto sangue sparso in Europa (a partire dal 1870...), questo è ormai un quello di un insieme di sovranità costituzionali che ripudiano la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.

      Sugli "effetti collaterali da libero scambio", nelle realtà sovrane nazionali, mi appello a Chang (per quello che sono in grado di capire del punto di Sen): ci sono prezzi tollerabili se si sa cosa sia la democrazia e le condizioni di sviluppo economico che essa implica...
      Pare un'ovvietà, ma è come il Patto Kellog-Briand. Rimase in vita pure durante la II guerra mondiale (lo desumo da passaggi della stessa Costituente). Ma il massimo impegno di larga parte della "cultura" filoeuropea è fare riferimento a una versione di Westfalia che non esiste più (come realtà normativa) e che, per di più, non è mai esistita (come azione del nazionalismo sulla causazione delle guerre...imperialiste).

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    4. Simply otustanding :-) Chang ha la facilità di ragionamento di chi sa di cosa parla.
      Forse con Cesare lo portiamo in Italia quest'anno.
      Hai voglia che gli italian supply-siders (che considerano le politiche industriali una bestemmia) ci capiscano qualcosa: e dove mai avrebbero preso i rationales per riconoscere ciò che è nel loro stesso interesse?

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    5. facci sapere dove e quando, appena potrai!

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  3. L'atteggiamento greco sembra uno specchio a due facce.

    Da un lato, Varoufakis si arrende al fondo monetario. Dall'altro, Tsipras vola da Putin.

    Le "pressioni" di anonimi ministri UE su Tsipras riportate dai media USA e rimbalzate dall'ANSA affinché Tsipras scarichi la sinistra a favore del Pasok...

    http://www.ansa.it/sito/notizie/economia/2015/04/08/tsipras-a-mosca-oggi-incontra-putin_51a916cf-fb6c-497c-b004-100d8bf816f7.html

    ....se confermate farebbero poi gettare la (residua) maschera. Un tempo, nella II repubblica, una cosa del genere la chiamavano "ribaltone". Il termine indicava un (pur legittimo), mutamento degli assetti parlamentari in base al quale il governo e la maggioranza che lo sosteneva non rispecchiavano più, politicamente, la volontà uscita dalle urne. Un'appendice del "metodo idraulico" di svuotamento della democrazia? Probabile..........

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    1. Delle pressioni (menzionando Schauble) ha parlato anche il FT.
      Ma il discorso non cambia: addirittura "twittando", Tsipras reclama la sua vista in Russia, con contorno di auspici alla soluzione del problema ucraino, in termini di sovranità della Grecia


      Ma poi non può che incorrere nella "L'illusione che questo "trilemma" non esista sta facendo prevalere nei fatti la prima opzione".
      E quando chiudono i rubinetti BCE e via discorrendo, c'è poco da ribaltare...

      Tanto che gli USA sono costretti a ipotizzarsi mediatori. Un fatto clamoroso che, se realizzato, porterebbe alla caduta della facciata dell'Unione politica, fino al punto che ben difficilmente sarebbe ripristinabile!

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  4. Post fondamentale. Tanto per cambiare.

    Nella "asinistra" (come la chiama Bagnai) questo linearissimo "teorema di Rodrik" non c' e' verso di farglielo digerire.

    La scorsa estate mi son trovato per casa un libro di Zygmunt Bauman. Parliamo quindi dei vertici massimi della "internazionale piddina", uno di quei personaggi che scrivono il "copione" per tutti i leader intellettuali locali del pianeta, per capirsi.
    Chiaramente non e' uno stupido, no? Certo che no! Tanto e' vero che la sua analisi e' pressoche' impeccabile. Individua esplicitamente nel depotenziamento degli Stati nazionali la causa della crisi, spiengandone in una maniera precisa -come forse neanche qui questo blog- la vera "magagna" alla base della situazione attuale. Ovvero, il fatto che stiano venendo meno tutta quella serie di istituti che lui chiama "assicurazioni collettive" (mi pare) che lo Stato E SOLO LO STATO poteva garantire.

    Dunque, analisi ineccepibile, come anticipato, le proposte dovrebbero essere implicite nella brillante analisi, no?

    No!
    Perche'?
    Perche' secondo Bauman "non si pio' tornare indietro".

    Insomma, piglialo dal di qua, piglialo dal di la' , sempre a TINA s' arriva.
    Ora, a parte la evidente scarsa cultura democratica che (auto) denuncia chi pone tale apodittico acronimo (ma quello e' davvero il meno), e' mai possibile che tali postulati di tipo parareligioso possano essere tanto considerati normali?
    Ma che, le frontiere nel corso della storia si son sempre abbattute?
    No, perche' a me sembra che le frontiere siano state messe, poi tolte, poi rimesse e poi ritolte varie volte e in ogni angolo del mondo, percui, non si capisce proprio il motivo per il quale togliere le frontiere , eliminare le limitazioni, ecc. Debba per forza considerarsi "modernita'" , e in quanto tale (e tale non e') essere buona di per se (come se una cosa nuova o "nuova" debba necessariamente essere migliore di una cosa vecchia), al punto da ravvisare del trascendentale, dell'ineluttabile, dell' irreversibile


    ......come la morte....

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    1. Non per dire ma il personaggio in questione rientra a pieno titolo nella categoria "citazioni e rimandi" in "esercizio di esterofilia" che abbiamo descritto qui (p.1):
      http://orizzonte48.blogspot.it/2015/03/le-esequie-frettolose-di-una.html

      "La teoria che, fuori da questo blog (naturalmente), va per la maggiore tra i giuristi "mainstream", ascoltati in "area di governo" negli ultimi decenni, è che la Costituzione sarebbe un mucchio di belle previsioni scollate dalla realtà.
      A questa asserzione categorica si accompagnano elaborazioni storico-politologiche prevalentemente tratte dal pensiero di autori esteri (che nulla sanno della nostra Costituzione e che normalmente odiano le Costituzioni sociali del post II guerra mondiale), che si stratificano in citazioni e rimandi del tutto sconnessi dal diritto positivo, cioè dal testo effettivo, sancito dalla Costituzione italiana.
      Un colossale esercizio di esterofilia e di pensiero unico (#facciamocome) che ha sostituito, alla Costituzione rigida voluta dai Costituenti, un opaco e gelatinoso sistema di principi sociologici e di vaga "scienza politica" a carattere entusiasticamente "internazionalista".

      In omaggio a questa (per certi versi) spettacolare disattivazione della sovranità popolare, si perviene all'enunciato apodittico e incontrovertibile (per ESSI) per cui tutte le teorie ricostruttive del dettato costituzionale, e quindi della società che esso programma di realizzare, sarebbero riferite a una realtà che non c'è più."

      Chissà poi perchè quelli che odiano le frontiere nulla mai dicono sui muri elettrificati, con contractors armati a protezione, in cui finiscono per costruire le prove terrene di "Elisyum", i "dominatori" superfit che propugnano la fine della garanzie collettive che lo Stato poteva assicurare (con le sue obsolete frontiere).

      Respingimenti e muri privatizzati vanno bene, sono "moderni": oltre le loro soglie, gli zotici multietnici si scannassero pure in santa pace (di ESSI)

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    2. Bargazzino, se te le cavi col francese, da' un'occhiata a questo articolo di Lordon, che smonta il jacquattalismo (ossia l'idea che "pour résoudre les problèmes de la mondialisation, il suffit d’attendre la mondialisation des solutions"), come la chiama lui, di "asinistra" (cioè l'idea che si debba "attendre l’arme au pied la synchronisation planétaire de toutes les révoltes avant d’envisager quoi que ce soit") con logica implacabile. Ha anche ragione, mi pare, a sostenere che l'attrattiva di questa assurdità stia nella somiglianza col mito della rivoluzione mondiale (contrapposto al "socialismo in un solo paese").

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    3. Ho fatto un po' fatica e sicuro mi e' sfuggita qualche sfumatura.
      Pero' ne e' valsa la pena, mi e' piaciuta molto la dicotomia internazionalismo immaginario/internazionalismo concreto con una spiegazione molto "pane al pane".
      Non c'e' ombra di dubbio che l' attrattiva "acchiappacitrulli" da quelle parti la sia "'a rivoluzione dei proletari di tutto il mondo unito"di cui la globalizzazione capitalistica sarebbe il necessario "apripista". Non e' una somiglianza, e' proprio quella roba li.
      Tale argomentazione, Lordon , in questo articolo, la confuta in un modo anche molto colorito e gustoso, oltre che con argomentazioni molto ragionevoli.
      Una volta ho sentito da Cesaratto (se non ricordo male) una argomentazione estremamente lapidaria sottoforma di domanda, rivolta agli "internazionalisti immaginari":
      Quando s' e' mai vista questa unione internazionale del proletariato?

      Ma siamo sempre li. Con gli euristi, coi libberisti, con gli internazionalisti immaginari:
      Difficile confutare una religione con la ragione....

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    4. Su Cesaratto :"L’illusione europeista cade non perché vi sono governi conservatori al potere o per un generico strapotere finanziario neoliberista (che vorrà dire?), ma perché l’Europa è il combinato (a) del disegno del capitalismo nazionale e globale volto a sottrarre alle classi lavoratrici il terreno naturale entro cui battersi, vale a dire lo Stato nazionale sovrano; e (b) della presenza dominante di una potenza mercantilista disinteressata al sostegno della domanda interna, che anzi va compressa per dar spazio alle esportazioni – presenza quest’ultima che differenzia l’Europa dagli Stati Uniti oltre, naturalmente, al peccato originale dell’assenza di una profonda solidarietà politica fra Stati e popoli europei. L’europeismo è un ideale di influenti e spesso interessate élite liberali, liberal-socialiste e radicali che credono siano i vantaggi economici dei liberi mercati a creare la solidarietà politica, o di sprovvedute e utopistiche frange di sinistra.".

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  5. C'è una cosa che mi frulla in testa da tempo risvegliata dal post di oggi (anche se la spinta decisiva è venuta dai commenti).

    A) La piccola media impresa di produzione beni ha necessita della cultura operativa dei suoi addetti;
    B) la piccola media impresa di produzione servizi non ha (strettamente) necessità della cultura operativa dei suoi addetti;
    C) la grande impresa non ha necessità della cultura operativa dei suoi addetti;
    D) la grande impresa passa da una ristrutturazione alla seguente perdendo addetti e mantenendo fatturati non decrescenti;
    E) la grande impresa già da tempo potrebbe avere iniziato la ristrutturazione finale che la metta in condizione di operare in modo pressoché completamente automatizzato.

    Se queste premesse sono vere, il lavoro umano e la grande impresa risultano sostanzialmente incompatibili. Ma la buona notizia è che il lavoro umano è compatibile con la piccola media impresa di produzione beni (e, con un pochino di razionalità, di produzione servizi).

    Perché la grande impresa non dà il via alla ristrutturazione definitiva?
    Perché allo stato dei fatti l'occupazione umana è funzionale al mantenimento del modello d'impresa attuale. Se tutti gli addetti umani, sostanzialmente inutili dal punto di vista produttivo, venissero espulsi molto del potere della grande impresa svanirebbe.
    Svanirebbe il potere di interdizione socio politica su innumerevoli addetti, le loro famiglie, una buona quota dell'indotto, conseguente alle ristrutturazioni periodiche parziali.
    Svanirebbe il potere di pressione sui governi.
    Ma, sopratutto, svanirebbe il consenso al modello produttivo su cui si basa.
    In ipotesi razionale le masse di disoccupati potrebbero mettersi a lavorare su basi diverse.

    (Poverini bisogna capirli se dopo il crollo del muro si sono avventati a riconquistare il "maltolto". E se pensano a quanto potrebbero guadagnare senza dover pagare tutti quegli inutili addetti, gli va il sangue al cervello. Per questo diventano cattivi: vorrei vedere ...)

    Mi dispiace di lanciare il sasso e tirarmi indietro ma in questo periodo non ho tempo per scrivere la dimostrazione.

    ps per Quarantotto. Come sempre, se ho esagerato ...

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    1. Ottima considerazione, ricordo che alcuni mesi fa Bernabè , mi sembra presidente Telecom , affermò sulla stampa italiana che se l'azienda addottasse tutte le tecnologie informatiche esistenti potrebbe fare a meno di migliaia di dipendenti, e probabilemte è vero che in quel settore la tecnologia può sostituire buona parte dei 50000 dipendenti Telecom di cui 29000 in contratto di solidarietà a rotazione ormai da anni; forse l'avvertimento lanciato è servito a disciplinare i lavoratori ma contiene anche una verità fondamentale.

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    2. Il problema è stato affrontato in relazione all'accentramento del lavoro nelle città "globali" o comunque polarizzate, in presenza di "globalizzazione", sempre più da vedere (addirittura) come compito statale di de-nazionalizzazione (di se stesso e della propria struttura democratica...).
      La grande impresa ridisegna l'antropologia insediativa e ricrea una domanda occupazionale di tipo quasi-pre-capitalista.
      http://www.commonware.org/index.php/cloe/203-citta-globali

      "La polarizzazione si registra con gradi diversi nella quasi totalità dei paesi con economie sviluppate o in via di sviluppo. Essa si concentra ovviamente nelle città globali, che si mostrano ancora come motori e specchi dell’economia globale[19]. La disuguaglianza fra le potenzialità di profitto dei diversi settori dell'economia è connaturata alle economie avanzate, e ovviamente ricchezza e povertà coabitano da sempre nelle grandi città, in stridente contrasto. Gli ordini di grandezza odierni e le modalità odierni generano tuttavia discontinuità nette e inversioni di tendenza rispetto al passato. Ciò che crea disuguaglianza dal punto di vista dei regimi occupazionali nelle città più grandi è proprio l'ascesa della finanza e in particolare quel tipo di economia basata sulla produzione di servizi. Ciò consente innanzitutto ai capitalisti di erodere i diritti dei lavoratori nell’industria manifatturiera, di smantellare solidi strumenti di protesta, di chiudere impianti produttivi efficienti grazie ai metodi di produzione globale. Le disuguaglianze tuttavia– fattore intimamente costitutivo di questo nuovo modello di accumulazione capitalistica – si accentuano tanto più nei circuiti che partecipano ai settori più ricchi dell’economia. Bisogna notare come uno degli esiti principali del mondo globale, speculare alla crescita di una popolazione ad alto reddito sia l’esplosione di molti tipi altri, nascosti, sotterranei, di attività economiche e lavoratori ritenuti superflui o marginali, ma che sono indispensabili ai primi: alla terziarizzazione reale dei servizi, alla produzione si lega un’economia dei servizi degradata, sottopagata, indispensabile alla prima. In questo contesto si creano ovviamente i massimi divari di retribuzioni tra salari alti e bassi. Gli appartenenti alla prima categoria stimolano ancor di più con le loro necessità di vita quotidiana l'occupazione degli appartenenti alla seconda: custodi, camerieri, segretari(e), fattorini, venditori ambulanti di panini, badanti, colf, e così via."

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