mercoledì 27 settembre 2017

L'INVARIANZA ELETTORALE DELLA GERMANIA E LE "RIFORME" DELLA SINISTRA COSMETICA

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"The majority of voters in Western countries are here!"

1. Non mi stancherò mai di ripetere che tutto il battage, sulla crisi della costruzione europea e sul risultato "sconcertante", costruito dai media intorno alle elezioni tedesche, dipende dal concetto cosmetico di "destra" che si è costruito per simmetria al (neo)concetto di sinistra ridotta alla promozione dei diritti cosmetici (qui, p.2, infine): l'idea-guida è assuefare l'opinione di massa alla prevalenza di minoranze sezionali "deboli" per rendere accettabile la prevalenza della minoranza di classe timocratica, come fatto compatibile con "l'essere di sinistra". 
In ciò sta il capolavoro del controllo mediatico del neo-liberismo e della idraulicizzazione della democrazia liberale, fatta passare come evoluzione naturale delle democrazie sociali in virtù della "globalizzazione" (che è invece un fenomeno di pervicace istituzionalizzazione intenzionale condotta dalle stesse elites e nient'affatto naturalistico).

2. Una volta capito che questa schematizzazione destra-sinistra non è fatta per descrivere la realtà dell'evoluzione dell'UE ma per dissimularla, cioè per dissimulare i suoi fini originari, si capisce che, finora, la "costruzione" è stata un indiscutibile successo.
Ma proprio per questo, cioè per essere stata efficace ed efficiente nel rendere irrilevanti "i parlamenti" nazionali, e quindi il suffragio universale, ed assorbire la sovranità degli Stati in un "buco nero" da cui non dovesse più riemergere (v. qui, le ormai celebri parole di Amato), - proprio per costituire ciò la forma più efficace di restaurazione dell'ordine internazionale dei mercati, (cioè istituzioni sovranazionali fondate riduzionisticamente su: a) gold standard (ovvero valuta de-nazionalizzata con banca centrale indipendente "pura"; b) free-trade; c) flessibilità del mercato del lavoro)-, questo successo lascia inevitabilmente sul campo di battaglia una quantità di vittime che, nell'ideologia neo-liberista dei vincitori, sono assunte come "costi". 
Ma sono classificabili come costi solo in quanto le vittime (chiamate elegantemente "i perdenti della globalizzazione") sopravvivano fisicamente, continuando a gravare sull'efficiente allocazione delle risorse necessariamente scarse quali disoccupati e anziani improduttivi: nei prediletti termini malthusiani, se fossero fisicamente morte o MAI NATE, queste vittime sarebbero un asset

2.1. E non a caso, la massa degli immigrati chiamati a sostituire i mai nati, i suicidati e i pensionati (di cui accorciare opportunamente le aspettative di vita) sono denominati "risorse": in effetti servono a ricostituire e possibilmente ad ampliare le fila dell'esercito industriale di riserva dei disoccupati e dei precarizzati, spingendo, attaverso una costante destabilizzazione sociale (che è il "costo" del successo, già messo in conto) verso la piena realizzazione del lavoro-merce (cioè della condizione di equilibrio teorizzata dai neo-ordo-liberisti come "flessibilità" che consente di negare persino il verificarsi periodico delle crisi, viste come mere fasi di aggiustamento verso gradi più intensi di flessibilità, come postulato della mai abbandonata visione teocratica della Legge di Say). 

3. Ora i discorsi di Macron sulle riforme dei trattati, come pure le svolte a destra della Merkel, sono perfettamente comprensibili nella loro natura dialettica apparente (che Wolf spiega in modo lineare), e di mere sfumature tattiche ed auto-conservative, che sono adottate di fronte al "costo" della crescente impopolarità elettorale prima o poi conquistata da qualsiasi leader L€uropeista.
Queste posizioni pseudo-dialettiche, infatti, rimangono saldamente ancorate dentro il pensiero unico delle elites che hanno re-istituzionalizzato l'ordine internazionale del mercato: di cui L€uropa costituisce il più imponente successo, in quanto realizzante tale obiettivo in una comunità di Stati in precedenza caratterizzata da elevati livelli di industrializzazione "matura", di benessere relativamente diffuso e di connessa democrazia sociale (qui, p.4).

4. Ribadiamo un passaggio di Wolf , dal post sopra linkato (p.9), che proprio perché scritto a maggio, cioè ben prima delle elezioni tedesche, mostra come il "cul de sac integrazionista" che si sarebbe creato ora è pura fantasia (dei media italiani in particolare):
"La soluzione alle divergenze di competitività che propone la Germania (ndr; e che piace agli spaghetti-liberisti sopra ogni altra cosa e, aggiungiamo, valeva ieri come vale oggi essendo del tutto indifferente il risultato elettorale), è che ognuno segua il suo modello
Nel 2016 tutti i membri dell'eurozona hanno così conseguito, eccetto la Francia, un surplus delle partite correnti (ndr; problemino non da poco...per Macron e la popolarità che ne ricaverebbe ove volesse accodarsi agli altri nel realizzare rapidamente, alla Monti, l'aggiustamento delle partite correnti). 
Il saldo corrente complessivo dell'eurozona è passato da un deficit dell'1,2% nel 2008 ad un surplus del 3,4% nel 2016 (ndr; complice un dollaro forte che, però, dopo un transitorio effetto elettorale "Trump", sta tornando sui suoi passi)."
...E dunque? Ecco: 
"Se la Francia fosse indotta in una prolungata deflazione competitiva, Marine Le Pen diverrebbe presidente alla prossima tornata
Macron deve chiedere ad Angela Merkel se la Germania sia disposta a rischiare questo risultato. Le "riforme" (ndr; del mercato del lavoro, beninteso) in Francia sono essenziali. E così lo sviluppo di istituzioni di condivisione del rischio (ndr; nella migliore delle ipotesi e al netto delle condizionalità  giugulatorie volute dai tedeschi, da realizzarsi al più nel 2024, a "Macron" ormai giubilato). 
Ma l'eurozona ha bisogno di un grande salto in avanti nelle retribuzioni dei tedeschi. Potrà accadere? Ho paura di NO (ndr; questa risposta logico-macroeconomica, cooperativa e anche democratico-sostanziale, non è più "praticabile" sol perché il malcontento sociale ha portato voti a AfD e...ai liberali)."

5. Sarà allora meglio rammentare in cosa consista, e sia sempre constistito, il capitalismo tedesco e quale sia stato sempre, ed invariabilmente, il suo ruolo, promosso dai veri fondatori USA del federalismo L€uropeo, all'interno della costruzione. 
Ci richiamiamo a uno scritto di Halevi, già più volte citato in questo blog, ma che oggi è straordinariamente attuale. (Halevi, va precisato, non è un keynesiano, tantomeno "post": ma è quantomeno un euro-realista, privo di illusioni sulla riformabilità dei trattati).
Di tale paper consiglio un'attenta rilettura: sarebbe troppo lungo riprodurlo per intero. 
Ma tre passaggi meritano di essere riportati perchè mostrano sia la omogeneità del capitalismo tedesco rispetto a quello USA, riguardo alla struttura dominante degli oligopoli internazionalizzati, sia la peculiare rigidità ed invarianza dell'ideologia politica (ordoliberista-corporativista) che lo sorregge e che è parsa alle elites USA il motivo per avallare il modello tedesco come elemento di stress trasformativo dell'intera Europa:
A) Complessivamente dal 1982 al 1989 (ndr; piena "era SME") le eccedenze con l’estero non fecero che crescere fino a toccare quasi il 5% del prodotto interno lordo della RFT.  
Questo costituiva il valore più alto nell’arco dell’intero decennio per l’insieme dei paesi dell’Ocse ad eccezione di alcune punte toccate dalla Svizzera. La composizione delle eccedenze mutò inoltre in favore dei redditi da investimenti esteri. Nel 1982 tale voce era nulla per cui il surplus con l’estero era dovuto interamente all’attivo commerciale. 
Nel 1989 il valore degli introiti netti da investimenti esteri era intorno al 20% del valore dell’attivo commerciale
Il fatto che l’aumento delle esportazioni nette in prodotti industriali venisse affiancato da un rapido incremento dei proventi netti dall’estero mostrava che la strategia tedesca di internazionalizzazione del capitale attraverso le esportazioni aveva successo. Le politiche messe in cantiere negli anni settanta poterono germogliare negli anni ottanta, nonostante l’ulteriore calo della crescita reale europea e mondiale.
Lo SME fu alla radice di questo successo
Avendo ricompattato l’Europa sulla Germania nella fase alta del dollaro (1980-85), lo SME costituì un formidabile strumento per barricare il potere economico del capitale tedesco in Europa nella fase post-Plaza della svalutazione del dollaro. Dopo il 1985 le eccedenze europee con gli USA, compreso il surplus tedesco, si affievolirono assai rapidamente Complessivamente invece la crescita dell’attivo tedesco nei conti con l’estero continuò a crescere in assoluto ed in proporzione del reddito nazionale. Oltre il 60% del surplus della bilancia dei pagmenti corrente di Bonn proveniva dall’Europa, mentre nei confronti del Giappone la Germania soffriva di un deficit crescente. I profitti effettuati dal territorio tedesco nelle transazioni estere si realizzavano quindi principalmente in Europa.
Il contesto economico generale era però altamente stagnazionistico
Dopo la grande espansione economica del 1968-73, dovuta soprattutto agli aumenti salariali, il tasso di crescita medio annuo europeo scese, nel periodo 1973-79, dal 4,9 al 2,5%. Quello della RFT passò dal 4,9 al 2,3%, cioè sotto la media europea
Dal 1979 al 1990 il tasso europeo calò ulteriormente al 2,3% mentre il saggio di crescita tedesco toccava appena il 2%, aumentando lo scarto negativo rispetto alla media del Continente. Il basso tasso di crescita della RFT assieme alla posizione oligopolistica, protetta dallo SME, dell’apparato finanziario-industriale della Germania in Europa spiegano il ‘successo’ della strategia di accumulazione attraverso l’estero del capitale tedesco. La posizione globalmente oligopolistica della Germania è parzialmente deducibile, per il periodo 1979-90, dall’andamento medio positivo della ragioni di scambio. In altre parole, crescendo di meno ed esportando senza cedere sui prezzi la Germania strinse l’Europa in una morsa oligopolistico-stagnazionistica [3].
L’accumulazione stagnazionistica tedesca ottenne grande plauso in Europa
La tecnocrazia francese esaltava il ‘modello renano’ contrapponendolo sia al capitalismo cartaceo anglo-americano sia all’inesitente radicalismo dei sindacati ufficiali tipo CGT. È comunque vero che in Germania i sindacati si adeguarono al ‘modello renano’ malgrado il paese esibisse un tasso di disoccupazione vicino al 7% benchè in moderato declino dal 1986. Il successo nel campo delle esportazioni contribuirono a convincere anche i sindacati che il ‘modello’ funzionava e bisognava quindi farlo durare. 
Dei problemi che tale strategia creava se ne preoccuparono in pochi, tra i quali però va menzionato Romano Prodi che in un saggio del 1990 colse chiaramente la morsa deflattiva in cui Bonn avvinghiava l’Europa [4]. 
In ogni caso spinte a mutare il contesto delle cose non emergevano a meno che non si volesse prendere sul serio il piano Delors, una sorta di omogeneizzazione del capitalismo europeo in un’alleanza oligopolitica transnazionale gestita pariteticamente dalla burocrazia francese e dalle istituzioni tedesche. Il cambiamento avvenne perché crollò la parete orientale su cui poggiava il capitalismo tedesco in Europa.
Nota 4, che ci interessa da vicino: Romano Prodi, “The economic dimension of the new European balances”, Banca Nazionale del Lavoro Quarterly Review, no. 173, 1990 

B) Nel capitalismo oligopolistico l’aumento dei margini di profitto non conduce necessariamente ad un maggiore investimento, può invece aggravare la stagnazione. Al tempo stesso le imprese sono sollecitate rafforzare ulteriormente i margini di profitto quando subentrano considerazioni di natura finanziaria legate al pagamento di dividendo e/o all’ottenimento di prestiti dai ‘mercati finanziari’. Ne consegue che la finanziarizzazione dei processi decisionali implica la trasformazione di attività in passività finanziarie future. 
Per esempio se, come accade in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, una società si impegna comunque a pagare dei dividendi, l’emissione azionaria considerata come un attivo dal lato finanziario si trasforma in un esborso e quindi in passività. Se invece la società conserva la libertà effettiva di non distribuire dividendi, sottomettendo tale possibilità alla propria strategia di sviluppo, la traslazione di attività in passività non avviene automaticamente. Negli Stati Uniti il crescente ricorso ad istituzioni finanziarie extra bancarie obbliga vieppiù le imprese ad onorare l’impegno di erogare dividendi. Inoltre l’intercompenetrazione tra ‘mercati finanziari’ e fondi di investimento impone decisamente alle imprese di seguire una doppia linea che poco ha a che fare con l’investimento reale di lungo periodo. Da un lato esse devono garantire i pagamenti ai detentori di pacchetti di azioni, in larga parte in mano a società finanziarie. 
Dall’altro lato le imprese devono assicurare che le azioni esibiscano valori tendenzialmente crescenti. La dinamica della capitalizzazione borsistica diventa così un elemento essenziale nella capacità di ottenere prestiti e di emettere strumenti di indebitamento come le obbligazioni. La consistenza del valore dei dividendi e delle azioni è valutata in termini reali, viene cioè paragonata all’andamento dell’inflazione e del saggio di interesse. In tal modo le imprese devono endogeneizzare il comportamento anti-inflazionistico
Dati quindi i prezzi, vi è un solo modo per conseguire un saggio di rendimento monetario coerente con le valutazioni generate dai ‘mercati finanziari’: aumentare i margini di profitto. Proprio perché i prezzi sono dati, ciò implica la riduzione del costo del lavoro (salario) unitario. 
In teoria la riduzione dei costi di produzione può effettuarsi tramite gli investimenti produttivi. Quest’ultimi però dipendono principalmente dalla domanda ed hanno perciò un orizzonte temporale molto diverso dall’immediatezza richiesta dai ‘mercati finanziari’. Ne consegue che la pressione principale viene esercitata sul salario stesso.
Quanto descritto corrisponde al comportamento dell’economia americana negli ultimi due decenni che ha comportato una crisi senza ritorno nel salario della grande massa dei lavoratori statunitensi [1]. Questo tipo di accumulazione finanziaria si risolve in un grande numero di persone allo sbando, anche se formalmente occupate, per le quali l’accesso ai servizi ed alle prestazioni pubbliche di natura sociale è vieppiù subordinato al principio dell’obbligo reciproco. 
Ancora alla fine degli anni ottanta la Germania era lontana anni-luce da questa visione della società, possibile solo in un’economia totalmente spanata, disarticolata ed autoritaria come quella americana. In Germania la stessa deflazione salariale era concepita in termini produttivistici: ristrutturare tecnologicamente - non finanziariamente - per aumentare la produttività rispetto al salario. Se i risultati erano positivi in termini di profitto i sindacati cercavano di far scattare la contrattazione aziendale che poi diventava un elemento nella contrattazione di categoria. 
È su questa base che, nella sostanza, i sindacati hanno accettato la strategia neomercantilista varata dai socialdemocratici nel 1969 e continuata da Kohl nel 1983, le cui conseguenze stagnazionistiche e altamente negative in termini occupazionali per la Germania e l’insieme dell’Europa sono già state discusse. Una forza lavoro occupata allo sbando è inconcepibile in Germania, ma è proprio questo che Schroeder vuole sradicare dalla testa della popolazione.

C) ...Innanzitutto la strategia lanciata da Schroeder nota come alleanza per l’occupazione si basa sull’idea che gli aumenti salariali sono un ostacolo al riassorbimento della disoccupazione. Ovviamente questa spiegazione, tra l’altro errata sul piano concettuale, non è che un pretesto. 
Dal patto produttivistico orientato verso le esportazioni dei decenni settanta-ottanta, che comunque si è fondato su uno spostamento della distribuzione del reddito in favore del capitale e dei profitti senza tuttavia rilanciare il tasso di crescita reale, il governo social-verde di Schroeder è passato alla subordinazione dei sindacati ad una politica che pone le rendite azionarie - e quindi la valutazione proveniente dai mercati finanziari - al primo piano [3]. 
Inoltre e coerentemente con tale scelta, il Governo ha lanciato una riforma fiscale e dell’azionariato, la cui entrata in vigore è prevista quest’anno (2002), volta a facilitare le transazioni di pacchetti azionari e le stesse scalate ‘ostili’. Commentando tali misure l’International Herald Tribune ha giustamente osservato che esse aprivano la strada a radicali ristrutturazioni occupazionali destinate ad alterare profondamente il panorama sociale del paese e quindi dell’Europa. Infine la coalizione social-verde si sta battendo per spostare il sistema pensionistico verso i fondi di pensione proponendo finanziamenti pubblici agli schemi privatistici.
Data la natura altamente organizzata del capitalismo tedesco, i mutamenti vengono concepiti gradualmente. 
Nel frattempo i socialdemocratici cercano di organizzare il consenso intorno alla chimera finanziaria. “Il principio è nuovo” ha dichiarato con approvazione Erich Standfest, specialista di politica sociale del sindacato confederale DGB, aggiungendo: ”il fondo permetterà di allargare le possibilità dei piazzamenti facendo in particolare maggiormente appello ai mercati borsistici” [4]. La chimera risiede nel fatto che si spera di accrescere il patrimonio pensionistico riducendo, al contempo, i contributi sociali erogati dalle aziende. 
Lo sgonfiamento della bolla di Wall Street e l’ulteriore aggravamento della stagnazione stanno riaprendo la contraddizioni inerenti a tali strategie. I socialdemocratici non cambieranno però strada per cui la soluzione vettoriale delle contraddizioni avverrà sul terreno sociale, o in termini di scontro oppure in termini di accettazione passiva. Per salvare la loro strategia privatistico finanziaria - che è poi quella del capitale nella sua totalità - i governanti di Bonn, ora trasferitisi a Berlino, cercheranno di rafforzare l’Euro come moneta della deflazione salariale e del potere della ricchezza astratta, ossia di quella finanziaria. Su questo terreno troveranno l’appoggio delle classi capitalistiche europee ma non necessariamente del capitale americano.(Ndr "non necessariamente", sarebbe da precisare, con riguardo agli effetti, per gli stessi USA, del mercantilismo tedesco, ma, come comprovano i fatti, non certo rispetto alla potenza riplasmatrice della spinta tedesca rispetto ai paesi con le "Costituzioni antifasciste"...)
Dal punto di vista del lavoro dipendente, cioè di classe, è assolutamente importante convincersi che con questi obiettivi non vi è nulla da spartire. 
Bisogna quindi guardare alla creazione dell’Euro come un elemento delle strategie del capitale monopolistico europeo il quale lungi dall’essere omogeneo si esprime in maniera coerente solo nella lotta che conduce indefessamente contro il salario e la spesa pubblica produttiva e sociale
Invece, purtroppo, la sinistra partitica italiana è corresponsabile dell’accettazione dell’ideologia metapolitica insista nei discorsi sull’ “Europa” e sull’ Euro. Questa ideologia disarticola ed indebolisce la resistenza e la capacità di autonomia politica delle classi e degli strati la cui vita dipende unicamente dai redditi da lavoro e dal funzionamento ed ampliamento dei servizi sociali pubblici.

31 commenti:

  1. “Sarà allora meglio rammentare in cosa consista, e sia sempre constistito, il capitalismo tedesco e quale sia stato sempre, ed invariabilmente, il suo ruolo, promosso dai veri fondatori USA del federalismo L€uropeo, all'interno della costruzione. “

    E credo che bisogna ricordare questo:

    “Una volta evocato il capitalismo sfrenato non si può poi fermarlo a piacimento:”

    VI. Il problema è che gli USA, non paiono coscienti di quanto in Europa l'operazione di distruzione del welfare, sociale e del lavoro, che pure continuano ad auspicare ("le irrinunciabili riforme strutturali"), conduca ad un assetto di forze che sono poi incontrollabili e, quindi, neppure correggibili con l'introduzione degli strumenti che essi stessi considerano come appropriati.
    Cioè, in specie, un diverso modello di banca centrale capace di fare le politiche espansive che tutt'ora mettono al centro di ogni possibile soluzione della crisi da domanda.
    Dimenticando, tra l'altro, la loro stessa propensione all'intervento pubblico sulla spesa, come attestano i ben diversi andamenti dei deficit pubblici tra bilancio federale e area UEM.
    Non hanno capito che, una volta accettato di non contestare il legame tra limitazioni del deficit pubblico e auspicata destrutturazione definitiva del welfare, le riforme strutturali provocano un effetto politico di raffozamento delle tendenze mercantiliste che oggi vorrebbero combattere: si tratta sostanzialmente della sindrome "dell'apprendista stregone", (opposta a quella del "questa volta è diverso").
    Una volta evocato il capitalismo sfrenato non si può poi fermarlo a piacimento: il "lavoro-merce" diviene un problema di arretramento oltre gli stessi desiderata dell'improvvido apprendista.
    Riusciranno a fermare tutto questo, se veramente sono interessati a questo tipo di "recupero" delle potenzialità dei mercati UEM?
    VII. Per farlo devono comprendere le ragioni profonde della loro stessa crisi sistemica: il neo-liberismo, non è buono se legato alle "nuove" politiche monetarie, mentre diviene "cattivo" se trasposto in Europa in forma di ordoliberismo a matrice mercantilista tedesca.
    Il liberoscambismo è un blocco unico di tendenze politiche che in Europa poteva affermarsi solo nella forma attuale: diversamente non sarebbe stato possibile fronteggiare in modo vincente decenni di applicazione delle Costituzioni democratiche.
    Non si può volere la botte piena e la moglie ubriaca.
    Ma non è possibile ritenere che un ripensamento di questo genere avvenga, da parte loro, in tempi accettabilmente brevi e senza traumi al loro stesso interno.
    Per questo, anche alla luce delle attuali "voci" critiche verso l'ordoliberismo instaurato in UEM, ma virato irresistibilmente verso il mercantilismo (autodistruttivo), mi sento ancora di più di affermare:
    "Sto cominciando a maturare la convinzione che, in assenza di stalinismo alle porte, è impossibile replicare la stagione keynesiana-costituzionale post 1943.
    Al massimo si potrà recuperare la flessibilità del cambio e una certa limitata cooperazione delle BC (sempre nei limiti dell'interesse bancario nazionale).
    E sarebbe già tanto.
    La democrazia redistributiva pluriclasse probabilmente è già morta, nel momento in cui è caduto il muro di Berlino (o giù di lì): senza una forza contraria e simmetricamente minacciosa i capitalisti si riprendono tutto il maltolto (secondo loro). E siccome il capitalismo si sviluppa per oligopoli sempre più grandi e transnazionali, non vedo come si possa trovare una forza capace di neutralizzare il loro dominio, in presenza delle loro strategie di manipolazione dell'informazione."

    http://orizzonte48.blogspot.com/2014/01/le-contromosse-dellordoliberismo-2-il.html?spref=tw

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    1. Hai ragione.
      Ma questo passaggio l'avevo riportato così tante volte che mi pareva superfluo farlo ancora: in un certo senso complementa l'ipotesi frattalica - che è abreativa e giocosa-, come pendant di (dura) realpolitik, nel riassumere il senso di questo blog.
      Invece, mi rammenti giustamente che nel frattempo si sono aggiunti tanti altri lettori e che quelle indicazioni, semmai, sono oggi ancor più attuali.
      Sempre che si "creda nelle Costituzioni"...

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    2. Lo so Presidente che questo passaggio è stato riportato tante volte...

      ma è meglio per i nuovi lettori... (magari qualcuno/a non lo ha ancora letto) e di questo son contento :)

      anche se io in questo periodo perdo sempre più gente che mi segue ( ma sinceramente frega niente… per non dire altro), forse sono quelli che non “credono nelle Costituzioni”…. Quindi meglio così :)

      e sempre Grazie… anche perché le “cose” stanno procedendo… come ha sempre detto lei.

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    3. Una scrematura dei followers non significa perdere degli amici.
      Comunque di questi tempi "le cose" paiono confermare il lavoro fatto qui (e non da altri, ma...http://www.huffingtonpost.it/andrea-del-monaco/il-voto-tedesco-insegna-perche-un-esodato-o-un-licenziato-dovrebbe-votare-la-sinistra-italiana_a_23223317/ )

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    4. Mi permetto di segnalare la bellissima relazione del Prof. Cesaratto citata anche nell'articolo di Del Monaco, sulla tragica Sinistra “monetarista” italiana.

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    5. Buongiorno a tutti. "Non si può volere la botte piena e la moglie ubriaca.". Vero (o almeno, lo spero). Le elezioni tedesche hanno dato, più che per quanto riguarda AfD (definito partito neonazista: ma lo è visto che ex-leader è una donna, omosessuale, sposata con una cingalese e figli?!?!), forse una sterzata decisiva agli avvenimenti con il nuovo corso dei Liberali? Chissà...
      Il compagno Schaeuble si è dimesso dal Ministero delle Finanze ed andrà a fare il Presidente del Bundestag... Alle Finanze dovrebbe arrivare Christian Lindner, un falco (in attesa che nel 2019 arrivi molto probabilmente Weidmann a sostituire Draghi) che "ha chiesto più rigore e il rispetto assoluto del patto di stabilità Ue, un insieme di regole disegnate per impedire ai deficit dei singoli Stati membri di gonfiarsi." . Con due falchi alle calcagna, la lepre Draghi saprà continuare nel QE (che tanto fa bene al Bel Paese secondo stime Bankitalia, grazie anche a prezzo petrolio "buono" e nonostate fuga di capitali su investimenti esteri, ma con Target2 in peggioramento) evitando il tapering richiesto da più parti in Germania, scansando così il disastro del ClubMed? Vedremo... Nel frattempo godiamoci la farsa Corea Nord vs USA e Stx-Fincantieri…

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  2. …. Noi siamo entrati nella fase o età storica dell'economia del lavoro, che succede a quelle della terra e del capitale. Vi sono sempre state in ogni fase forze e forme basate più propriamente su uno dei fattori fondamentali della produzione; nell'antichità e nel medioevo agivano mercanti e lavoratori indipendenti, ma prevaleva il possesso della terra con la schiavitù e la feudalità; intanto si sviluppava il capitalismo che toccò il suo massimo nel secolo scorso; ed ecco farsi strada - con un'interdipendenza che Marx mise in luce violenta - il movimento operaio… Si è aperta l'economia del lavoro.

    Il lavoro va in primo piano in confronto agli altri fattori materiali di produzione… che anzi non sono tanto fattori quanto mezzi, di cui si vale l'uomo, il solo e vero fattore di produzione che maneggia con gli altri due il proprio lavoro. Gli economisti nello studiare le combinazioni ed il comportamento dei tre classici « fattori » (diciamo pur così) e nel considerarli in relazione a dati rilevanti come quello della scarsità, fanno opera scientificamente corretta e praticamente utile, perche devono tenerne conto nelle loro azioni gli individui e lo Stato.

    Ma anche sul terreno economico la diversità naturale del fattore lavoro dagli altri due determina diverse valutazioni; nè si può sceverare senz'altro il lavoro dell'uomo dalla personalità dell'uomo, nei suoi elementi psicologici e sociali. Ciò tanto meno quando, uscendo dall'isolamento teorico del fatto economico quale oggetto di scienza a sé , si entra nella visione dell'uomo tutto intero, com'è necessario per valutare la sua condotta e la stessa politica economica. Sono allora in giuoco elementi spirituali ed etici e staccare il lavoro dalla persona umana sarebbe degradarla. MARX HA RAGIONE QUANDO DICE CHE IL LAVORO NON È MERCE; nella quale affermazione si rivela che la sua impostazione non è alle radici soltanto di materialismo economico ma è permeata anche di valori ideali ed etici…

    Un'economia del lavoro non può disconoscere la necessità degli altri mezzi di produzione, ma deve mettere in prima linea il vero fattore, il lavoro, e cioè la persona umana che lavora. Si può in questo senso parlare di umanizzare l'economia (Marx ha parlato di rendere umano il lavoro): si parla oggi molto ed in diverse correnti di umanesimo e di neournanesimo anche nei riflessi economici…Lavoro: parola usata anche con un significato che trascende l'uomo; si è osservato che la stessa terra e la macchina lavorano (la terra produce da sè erbe e frutta e le macchine hanno un loro automatismo); a questo modo il lavoro dell'uomo può essere considerato, come gli altri due, un mezzo di produzione.
    (segue)

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  3. E' però un senso improprio della parola; il lavoro è per sua natura dell'uomo e non si può distaccare dalla persona umana; è per sua natura personale ed individuale. (Anche se gli economisti potessero dimostrare - e non lo è - che il disconoscimento dei diritti e della dignità della persona umana, come avveniva nella schiavitù, produrrebbe maggior benessere materiale, la loro tesi non potrebbe essere accolta come regola di vita comune, e bisognerebbe rinunciare ad una quota di benessere per salvaguardare le libertà elementari dell'uomo).

    Ciò non vuol dire esaltazione pura e semplice dell'individuo nelle forme del più spiegato individualismo; anzi un'economia del lavoro richiede uno Stato forte e suoi compiti più estesi. I problemi del lavoro si innestano nell'eterna questione del binomio individuo-Stato. Di fronte alla compressione della personalità umana che ha luogo in molti paesi - ed ai pericoli che sono dovunque determinati dalle dilatate funzioni dello Stato, nuovo Leviathan economico - si spiega e comprende la protesta e la rivendica che spiriti liberi fanno dell'individuo verso lo Stato, ma non possono dimenticare che lo Stato é necessario, proprio per garantire e realizzare i diritti individuali.

    Un individualismo sfrenato distruggerebbe, con la prevalenza ed li prepotere di pochi, la libertà di tutti gli altri; è proprio per difendere la personalità umana che lo Stato è necessario; e non basta più lo Stato giudice e carabiniere d'un tempo; VI È OGGI UNO STATO CHE HA FUNZIONI ECONOMICHE, È OPERATORE E FATTORE ECONOMICO; ED INTERVIENE PERCHÈ GRAN PARTE DEGLI INDIVIDUI NON SIA SACRIFICATA AD ALCUNI PRIVILEGIATI; e perché sia “reso effettivo”, come dice la nostra Costituzione, il diritto al lavoro e ad un'esistenza libera e dignitosa…

    Nella coesistenza sociale il lavoro individuale - che ha come tale alcune imprescindibili esigenze - diventa lavoro collettivo, e non può svolgersi senza l'azione anche economica dello Stato, che con i suoi interventi, la sua direzione, i suoi piani non deve annullare la libertà ma farsi garante e presidio degli inviolabili diritti dell'uomo; diritti che senza lo Stato sarebbero violati… Il lavoratore non può non vivere in comunità; il tempo dell'ipotesi scientifica o pseudo-scientifica di Robinson è cessato. E' inconcepibile che l'individuo possa esistere senza lo Stato; e è ugualmente inconcepibile uno Stato “così al di sopra dell'individuo da esserne fuori”; (lo scrissi quando l'esaltazione fascista di “tutto nello Stato, dallo Stato, per lo Stato” ritornava alla concezione dell'assolutismo statale). Lo Stato non si può concepire distaccato dagli individui, che - ciascuno per s'è e tutti associati - sono lo Stato. Ne consegue che lo Stato deve essere l'espressione della “volontà generale” o “del popolo”…
    (segue)

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  4. L’indispensabile nesso fra economia del lavoro e democrazia risulta da un chiaro rilievo: se in un regime economico del lavoro lo Stato deve intervenire, dirigere e pianificare con limitazioni delle libertà individuali, ciò non può essere giustificato se non dal fatto che l’azione dello Stato corrisponda alla volontà comune democraticamente espressa… anche se si dovranno adeguare nelle costituzioni economia e politica, lasciando al governo ed all’amministrazione le attività occorrenti ad un’economia del lavoro... ” [M. RUINI, Al di là del capitalismo e del comunismo, la democrazia del lavoro, Milano, 1966, ora riprodotto in Lavoro e comunità di lavoro, Roma, 2013, 26-29].

    Discorso che pare definitivamente inghiottito dal mercantilismo €urofascista coccolato da tutti (TUTTI) coloro i quali avrebbero dovuto difenderlo.

    (Leggevo dallo stesso testo alcune note biografiche su Ruini e mi hanno colpito le parole che riporto “… Anche il generale Armando Diaz disse di lui: Questi parlamentari che fan parlare i giornali dicono di fare la guerra e non la fanno. Solo pochi si battono realmente. C’è però un ufficiale che non so se sia folle o se voglia suicidarsi: quando si dà il segno di uscire dalla trincea è sempre il primo: si chiama Meuccio Ruini…”. E dopo partecipò pure alla lotta di Resistenza. Impossibile un paragone con il nulla che ci circonda)

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    1. Grazie. Mi hai dato un grande conforto...Un giorno, mi piacerebbe poter leggere questo discorso in una sala che pare aver completamente dimenticato il suo più grande Presidente.
      Se accadrà, vorrà dire che molte altre cose sono andate nel senso del ritrovato "Spirito" della Costituzione....

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    2. Lo speriamo tutti, caro Quarantotto. Comunque, era piu' di sinistra Ruini che tanti farneticanti pseudo-comunisti :-)

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    3. Proprio oggi ne rileggevo la straordinaria biografia. Socialista, interventista, radicale (storico), massone (in buona fede, evidentemente). Sempre equilibrato nella direzione dei lavori della Commissione dei 75, quantomeno per quella parte che ho letto.

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    4. La discussione intorno allo Stato è puramente cosmetica: il Leviatano è in realtà la "Sanzione" che fa di un insieme di norme morali un insieme di leggi.

      Lo Stato e, di conseguenza, le forze dell'ordine, l'apparato amministrativo, e tutte le istituzioni e gli enti ausiliari e strumentali che hanno a che fare con l'esecutivo (a cui aggiungerei i mezzi di informazione e propaganda pubblici), sono "tecnica", "armi", "strumenti di coercizione e manipolazione individuale e sociale" nella mani di chi prevale nei rapporti di pura forza temperati dalla dialettica politica.

      Parlare di Stato tout court non significa nulla: la questione è sempre e solo di carattere politico.

      Un'arma come uno strumento dotato di lama è di per sé neutrale finché rimane un'Idea: la tecnica - come quella relativa all'organizzazione sociale - calata nella concretezza della realtà storico-politica è in re ipsa un elemento politico. Il capitalismo è la manifestazione stessa della tecnica volta all'ingegnerizzazione dei rapporti sociali. Da cui la spersonalizzazione, l'alienazione, la disumanizzazione.

      (Sì, ai cretini de "la Scienza non è democratica": la Scienza non è democratica quando è divulgata da fascisti e liberali vecchi e nuovi, mentre "è democratica" se divulgata da democratici. Sì, anche le scienze naturali, non solo quelle sociali)

      Nel momento in cui si dibatte del ruolo dello Stato che, ovviamente, in democrazia sostanziale non va "limitato" per il semplice fatto che rappresenta gli interessi generali, si gioca già nel campo nemico: del liberale ma anche del fascista che sproloquia - come Mussolini dopo essere stato più liberista del suo maestro Pareto fino "al '29" - « tutto nello Stato, dallo Stato, per lo Stato ». E lo spiega "acqua fresca" Lionel Robbins il motivo: solo lo Stato può smantellare sé stesso e, di conseguenza, "viene occupato". Perlopiù eversivamente.

      Voglio dire: lo ribadisce in altri termini pure la Sassen quando parla di globalizzazione.

      Stato è Stato di diritto, stando con Schmitt.

      E lo Stato di diritto prevede per sua natura il Politico.

      Discutere sul ruolo più o meno importante dello Stato - come da discussioni "antistaliniste" - è fare un assist a chi rogna contro lo Stato.

      Se c'è politica c'è Stato: si capisce che rimuovere la sovranità nazionale, significa rimuovere "nazioni, popoli e Stati": significa rimuovere il Politico riconducendo l'organizzazione umana a puri e peggio-che-medievali rapporti di forza. Quelli cristallizzati dai rapporti di produzione.

      Per questo tutti i grandi pensatori sono sempre stati concordi sul fatto che un processo di mondializzazione non può che essere una tirannia.

      (Sarebbe diverso se questo avvenisse tramite gli Stati nazionali in un processo di socializzazione del potere economico e politico di popoli sovrani in un contesto di internazionalizzazione dei rapporti economico-politici gestiti keynesianamente. Anche tale contesto sparirebbe lo Stato così come noi lo conosciamo: ma non avremmo una tirannia. Avremmo il comunismo)

      (Che non ha mai avuto nulla a che fare con le scemenze da bar dello Sport degli antistalinisti, dei sessantottini e dei... comunisti)

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    5. Il cui figlio, Carlo Ruini, fu amico intimo dell'immenso Federico Caffè...

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    6. Segnalo questo frammento (ché sentir parlare chi si legge spesso è sempre un evento assai significativo).

      https://www.youtube.com/watch?v=OJPGgLIWcSs

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    7. « un sistema politico ed economico essenzialmente democratico » Ruini, definizione "socialista" di democrazia.

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  5. Sono le 23.40 e sono al lavoro:in un momento nel quale il locale è deserto ho potuto leggere il commento di Francesco .Lo scritto di Ruini mi ha toccato e mi ha fatto pensare che prima o poi per sopravvivere come specie dovremo non considerare più il lavoro come merce.Mi ha fatto pensare anche che tornerà il momento di parlare in questo modo nelle istituzioni di vertice della Repubblica:chi avrebbe mai creduto ,nel 1943 ,che tali concetti sarebbero stati,5 anni dopo, oggetto di un dibattito a Montecitorio in seno della Assemblea Costituente .verrà di nuovo il tempo di chi crede nelle Costituzioni

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  6. "Francesco Maimone27 settembre 2017 20:37

    Lo speriamo tutti, caro Quarantotto. Comunque, era piu' di sinistra Ruini che tanti farneticanti pseudo-comunisti :-E dopo partecipò pure alla lotta di Resistenza. Impossibile un paragone con il nulla che ci circonda)"
    Presidente e tutti voi: vi seguo sempre. e da REGGIO EMILIA , terra natia di M Ruini posso solo dire: è cosi' " IL NULLA CI CIRCONDA" Altro non aggiungo. Già sapete. Bruna

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    1. Sempre Lui:

      Il 12 marzo 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del progetto di Costituzione della Repubblica italiana

      Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. [...] Il maggiore degli economisti italiani viventi, il nostro Einaudi, ha scritto che il capitalismo storico è al tramonto. Se altri non vi è, sarò io a dire la grandezza del capitalismo, che ha preso in mano, un secolo fa, un'Europa di pochi milioni di uomini, e ne ha aumentato la popolazione con un ritmo sconosciuto al passato, ed ha diffuso la civiltà sugli altri continenti, ha conquistato i più grandi progressi della scienza e del progresso tecnico, ha creato la grande industria e l'agricoltura intensiva, ha portato il tenore di vita delle masse ad un livello non mai raggiunto, ha preparato le loro vittorie di domani, è stata l'epoca più prospera e gloriosa di tutta la storia.
      Ma noi non possiamo ancora vivere con le forme di quel tempo.
      Gli economisti — i migliori — riconoscono che il loro edificio teorico, la scienza creata dall'Ottocento, non regge più sul presupposto di una economia di mercato e di libera concorrenza, che è venuto meno, non soltanto per gli interventi dello Stato, ma in maggior scala per lo sviluppo di tendenze e di monopoli delle imprese private.
      Quando vedo i neo liberisti, come l'amico Einaudi, proporre tale serie di interventi per assicurare la concorrenza, che qualche volta possono equivalere agli interventi di pianificazione, debbo pur ammettere che molto è mutato.
      Non pochi vanno affannosamente alla ricerca della terza strada.
      La troveranno? Non lo so. Questo so: che si avanza la forza storica del lavoro.
      Non potevamo rifiutarci a questa affermazione.
      Mazzini diceva che noi tutti un giorno saremo operai; i cattolici hanno il codice di Malines e quello di Camaldoli, dove sono stati stabiliti i principî d'una economia del lavoro.
      Ho sentito da questa parte (Accenna a destra) chi pur faceva vive critiche: «Se per socialismo si intende un rinnovamento sociale, anche noi siamo socialisti».
      Allora, perché avremmo dovuto rifiutarci a riconoscere che la nuova Costituzione è basata sul lavoro e sui lavoratori?
      Parlando di lavoratori, noi intendiamo questo termine nel senso più ampio, cioè comprendente il lavoratore intellettuale, il professionista, lo stesso imprenditore, in quanto è un lavoratore qualificato che organizza la produzione, e non vive, senza lavorare, di monopolî e di privilegi.
      Sono cieche le correnti degli imprenditori che non rivendicano — se sono ancora in tempo lo dirà la storia — la loro vera funzione ed il titolo glorioso di lavoratori.
      Perché dobbiamo avere paura del nome e dei diritti del lavoro?”

      http://orizzonte48.blogspot.com/2015/04/parte-seconda-diritto-al-lavoro-e-pieno.html?spref=tw

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  7. Un Prodi cattolicissimo e d'annata, sul "lavoro merce", per non dimenticare.

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  8. « Questa cultura che gli italiani non hanno. La cultura della libertà, del rispetto del singolo operatore economico. » Per non scordare gli amanti dell'Italia e degli italiani.

    E la Germania del nostro Antiromano preferito?

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    1. Autentica galleria degli orrori (che è ben difficile digerire dopo una dura giornata di lavoro): pare alquanto soddisfatto, gongolante, all'idea che nessuno abbia interesse alla fine dell'euro.

      Vive di queste sicurezze e la rigidità del nostro mercato del lavoro gli parrà sempre "assurda"?
      Pare che recentemente abbia ammesso che la deflazione salariale non sia più una soluzione praticabile.
      Dopo aver ammesso che (lui e gli altri) "ci eravamo illusi che la gente si rassegnasse a un welfare sottratto a poco a poco. Ma non è così".

      La sua paradossale fortuna è che il suo mitico avversario ultraottantenne di sempre sta ritornando in sella: per finire il suo lavoro e perdere il consenso in un anno e mezzo/due.
      O anche prima, ormai...

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  9. Buonasera Presidente,
    ho un dubbio che mi attanaglia da un po' di tempo e questo post l'ha "risvegliato". Vado al dunque: lei crede che la soluzione di Meade per difendersi dalle politiche deflative tedesche sia praticabile al di fuori di un contesto in cui la Germania non abbia un vincolo esterno inteso come particolare configurazione geopolitica assunta fino alla caduta del muro di Berlino (o comunque le odierne basi NATO)? Mettiamoci in una condizione ideale di Europa delle nazioni con la maggior parte di "Stati a sovranità democratica", in questo contesto la classe dirigente/finanziario-industriale tedesca (ricordiamoci quanto espresso da Arturo citando Tooze: The Nazi regime was a 'dictatorship of the bosses') non accetterebbe il non poter campare sulla domanda altrui eventualmente finanziandola con debito ovvero l'abbandono del modello mercantilista export-oriented. Il popolo tedesco, realisticamente, sarebbe in grado di correggere questo modello tramite le elezioni considerando che è "di natura" maggiormente predisposto al liberoscambismo? O è proprio vero che 80 milioni di tedeschi sono e saranno sempre un problema all'interno dell'Europa? Mi rendo conto che non possiamo auspicare come soluzione che i tedeschi "vadano governati" (e mai lo vorrei) ma un processo culturale interno di tale portata senza che la classe capitalistica locale abbia fatto danni che conducano ad episodi reazionari potenzialmente nefasti per l'intera Europa mi sembra quantomeno complicato. Lei cosa ne pensa (se avrà la pazienza e l'interesse di rispondermi)? Se riflessioni esplicite su tale quesito sono già state affrontate perdoni la mia scarsa attenzione e la prego di segnalarmele. Se implicite mi perdoni di non averne colto le "tracce".
    Non ho mai commentato (ma sono un suo lettore da ormai 3 anni) quindi approfitto per ringraziarla del suo splendido lavoro.

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    1. In effetti la portata geopolitica della egemonia tedesca ha un fondamento oltreoceano: e senza troppe esitazioni, possiamo dire che lo avesse anche prima...della seconda guerra mondiale.

      Il problema tedesco è il problema delle forme che può assumere il neo-liberismo in Europa, data la sponsorship USA come documentata e indubitabile.

      Quindi rinvio al commento iniziale , più sopra, di Luca Sant che riporta un più volte ripreso passaggio di un "noto" post.

      Oggi, siamo più che mai di fronte a quella situazione: la crisi interna del modello USA è il vero punto di rottura dell'attuale classe capitalistica tedesca.
      Che ha sempre, e veramente sempre, potuto contare sull'incondizionata ammirazione e tendenza alla IMITAZIONE della nostra, di classe dirigente capitalistica.

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  10. "In ciò sta il capolavoro del controllo mediatico del neo-liberismo e della idraulicizzazione della democrazia liberale, fatta passare come evoluzione naturale delle democrazie sociali in virtù della "globalizzazione" (che è invece un fenomeno di pervicace istituzionalizzazione intenzionale condotta dalle stesse elites e nient'affatto naturalistico)."

    È ormai ben chiaro che le politiche ordoliberiste rappresentino i mezzi di impianto di un neoliberismo funzionale al dominio di un neo-capitalismo "ultrafinanziario" sfrenato (aggiungerei colonialistico), per dirla con Nino Galloni.
    Tale assetto, il cui disegno si sviluppa all'inteno di un perimetro che, almeno sotto il profilo intenzionale, mira a comprendere praticamente tutto il globo si è orientato, ormai da tempo, in direzione della costruzione di una nuova sovrastruttura culturale globale.

    La propaganda mediatica, l'azione dei think tank e la riprogrammazione dei contenuti dell'istruzione scolastica ed universitaria hanno permesso alle elites di impiantare una "nuova cultura", di matrice "globalizzante", sfruttando agevolmente il vantaggio offerto loro dal ricambio generazionale, che ha reso fisiologica l'acquisizione del firmware 2.0 da parte di chi non poteva certo disporre di alternative tra cui scegliere.

    Ma la neo-cultura si deve necessariamente avvalere, per risultare radicata nel proprio impianto, di una "neo-lingua".
    Infatti oggi assistiamo chiaramente, per chi puó disporre di un'adeguata posizione prospettica dalla quale osservare, non soltanto all'incessante introduzione di neologismi "interazionalizzanti" ma, addirittura, come ci dice Vladimiro Giacchè ne "La fabbrica del falso", ad un ribaltamento del significato di molti lemmi che hanno ormai smarrito il proprio uso semantico originario.

    La titanica opera di ridisegno ideologico della politica e delle finalità istituzionali, che sarebbe necessaria per ripristinare una sana democrazia come Costituzione pretende, non potrebbe certo prescindere da un'altrettanto titanica operazione di sistematica destrutturazione della neo-lingua, al fine di svelarne l'occulto significato nell'ambito di una dialettica retorica e sostanzialmente menzognera, per poter restituire alla cultura quella base reale e veritiera che le è stata sottratta.

    Cito un passo, ormai datato, che ho trovato in rete e che mi sembra molto eloquente su questa tematica, a patto che la sua lettura prescinda dalle motivazioni religiose che lo muovono.

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  11. "Negli anni immediatamente successivi alla caduta del muro di Berlino, mentre l'umanità entrava in una nuova era, detta della globalizzazione, le Nazioni Unite hanno organizzato una serie di grandi conferenze internazionali con l'obiettivo di creare un nuovo consenso mondiale sulle norme, sui valori e sulle priorità della cooperazione internazionale per il XXI secolo.
    Nel corso di queste conferenze è stata adottata una serie di nuovi paradigmi che si esprimono con un nuovo linguaggio. Citiamo come esempi:  buon governo, democrazia partecipativa, partenariati, consenso, sviluppo sostenibile, olismo, qualità della vita, educazione civica, sensibilizzazione, educazione fra pari (peer education), appropriazione, libertà di scelta, accesso universale alle scelte, diritti dei bambini, emancipazione delle donne, senza dimenticare il genere (gender) e la salute riproduttiva.
    Gli anni novanta hanno visto un proliferare senza precedenti di questi nuovi paradigmi. Da una decina d'anni la loro produzione è invece rallentata. Non appena terminata la serie di conferenze e non appena stabilite le norme mondiali, a livello internazionale si è dato avvio alla fase di applicazione. In questo momento è all'opera e continuerà a esserlo almeno fino al 2015, data limite per l'applicazione degli Obiettivi per lo sviluppo del millennio, all'interno di un quadro etico normativo stabilito nel corso della serie di conferenze degli anni novanta.
    L'imposizione mondiale del nuovo linguaggio è allo stesso tempo orizzontale e verticale. Orizzontale perché il nuovo linguaggio si è già diffuso ovunque nel mondo, anche nei luoghi più remoti. Non è più esterno alla Chiesa:  molte ong, organismi di aiuto, università, associazioni femminili cattoliche, sacerdoti e pastori, l'hanno già adottato, a livelli diversi. Ma l'imposizione mondiale del nuovo linguaggio è prima di tutto verticale. Questo linguaggio esprime una nuova etica olistica (integrata) e postmoderna. Animata da una dinamica potente, questa etica tende a trasformare silenziosamente - ma realmente - tutte le culture dall'interno.
    Coloro che ne conoscono la storia non possono negare che il nuovo linguaggio e la sua etica vengono da fuori:  non dall'Africa, né dalla Chiesa, ma da una minoranza di esperti occidentali postmoderni secolarizzati, anzi laicisti. L'utilizzazione passiva del nuovo linguaggio - per adesione culturale acritica o dietro pressione di una costrizione culturale che appare inesorabile - conduce più o meno coscientemente all'appropriazione dell'etica che la anima. ..."

    Da: Chiesa e globalizzazione
    L'imposizione del linguaggio
    di Marguerite A. Peeters
    Direttore di Dialogue Dynamics (Bruxelles). 2009.

    http://w2.vatican.va/content/osservatore-romano/it/comments/2009/documents/245q01b1.html

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  12. OT - Aggiornamento OGM

    Alla facciaccia di Malthus (e dei suoi seguaci moderni), l'aumento della produzione di cereali anche quest'anno ha superato l'aumento della popolazione.

    http://tass.com/economy/967903

    Tuttavia i successi del raccolto 2016-2017 sembrano dovuti molto agli OGM (che stanno prendendo sempre piu' piede anche in Russia).

    https://it.rbth.com/societa/2014/01/20/linvasione_degli_ogm_29023

    Paragonando la EU ad un orologio rotto, chissa' se la decisione imposta di legalizzare gli OGM in Italia non corrisponda ad uno dei due soli momenti della giornata in cui le lancette indicano l'ora esatta.

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    1. Il problema, come provavo a proporre più sopra, non è mai tecnico-scientifico, ma di carattere economico-politico: chi è il proprietario della tecnologia di queste sementi? ossia "del mezzo di produzione"?

      Non se ne esce.

      Chi controlla l'offerta la può malthusianamente strozzare quando lo ritiene più opportuno.

      Malthus scrive in epoca di abbondanza, non di ristrettezze.

      Il nazismo - di cui i simpatici oligopoli della chimica furono storicamente grandi sostenitori e approfittatori - è una naturale espressione della sociopatia delle élite. Poiché il liberismo è una malattia psichiatrica che prolifera col capitalismo, mi è difficile proprio essere ottimista. Dall'economia di mercato mi posso aspettare solo nuove forme di nazifascismo e di tecnonazismo.

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    2. Concordo Bazaar, il problema e' di carattere economico-politico.

      Ma proprio per questo e' un problema perfettamente solubile (se riuscissimo a riprendere il nostro cammino verso "Orizzonte 48").

      Se la terra non fosse in grado di alimentare l'umanita' per l'impatto di un meteorite, quello si sarebbe un vero problema, perche' probabilmente a quello non c'e' soluzione (allo stato attuale della tecnologia).

      La tecnologia delle 'sementi transgeniche' (o OGM), ammesso che sia vincente per aumentare la resa delle terre arabili, e' pero' una tecnologia alla portata di praticamente tutti i Paesi del G20 (Italia inclusa, che nel suo piccolo gia' nel 1941 fece volare il primo volo postale su aeromobile a reazione Caproni tra Roma e Milano) ed il monopolio Monsanto e' solo un frutto temporaneo della mancanza della volonta' politica di spezzarlo (ma la Federazione Russa, come suppongo anche la Cina, si sta gia' facendo i suoi OGM in casa).

      Anche la tecnologia nucleare nel 1945 era avvolta da un alone di magico mistero ed ancora oggi gli USA sono convinti che come fanno loro le atomiche nessuno mai potra'.

      Eppure oggi sappiamo che Stalin si pote' permettere di ostentare indifferenza all'accenno di Truman all'esistenza dell'atomica (a margine della conferenza di Potsdam) perche' sapeva gia' tutto.

      Sackharov racconta nelle memorie che fu convocato spesso da Beria (il capo della polizia segreta di Stalin) che gli chiedeva le sezioni d'urto degli isotopi fissili (!) misurate nel corso del programma atomico sovietico.

      Ovviamente alle domande di Beria (che mai si permise di suggerire come fare l'atomica, perche' non ne capiva nulla di quello che chiedeva) rispose al meglio delle sue conoscenze e fu molto sorpreso di vederlo, col foglietto delle risposte in mano, aprire la cassaforte dello studio, consultare dei fogli scritti in inglese ed annuire compiaciuto.

      Quando si sa che esiste una soluzione ad un problema basta incaricare i propri scienziati di trovarla in maniera indipendente (volonta' politica) e magari poi se ne trova anche una migliore.......

      Come accennato in un commento tempo fa io ci conto sulla competizione dei 'tecnonazismi' perche' in un mondo multipolare (per ora tutto imperial/liberista) ci sono maggiori possibilita' per un piccolo stato come l'Italia di percorrere la sua strada alternativa.

      Io la vedo come Stalin, la 'rivoluzione' in un solo paese, il proprio.

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    3. riporto una parte di una supercazzola dove si "spiega" che i malati siamo noi che facciamo resistenza psicologica e antropologica all'abominio europeista (letto su tl di @ilconterosso1):
      LA PAURA DELLO STRANIERO FRUTTO DI UNA INCLINAZIONE AUTISTICA DELLA VITA

      Massimo Recalcati

      La resistenza antropologica e psicologica, oltre che politica ed elettoralistica, allo Ius soli rende manifesta una tendenza sempre presente nella realtà umana: difendere il proprio status narcisistico, sociale e identitario dal rischio perturbante della contaminazione. È quella inclinazione autistica della vita umana che aveva condotto Freud a paragonare la sua condizione primordiale di esistenza a un guscio chiuso su se stesso e ostile per principio al mondo esterno, colpevole di essere “straniero e apportatore di stimoli”. Questa concezione corazzata dell’identità nei tempi di crisi tende inevitabilmente a rafforzarsi e a sclerotizzarsi. La paura dello straniero incentiva l’edificazione di una versione dell’identità fobica, refrattaria allo scambio, iper-difensiva. I confini diventano muraglie, cessano di essere porosi, acquistano la consistenza del cemento armato. In un tempo dominato dal panico sociale generato dalla durezza della crisi economica, dal carattere anarchico e inarrestabile dei flussi migratori e dalla follia terrorista, la solidificazione dell’identità tende a configurarsi come una reazione giustificata alla minaccia incombente. I rigurgiti nazionalisti, etnici, populisti, sovranisti che caratterizzano la scena politica non solo nazionale ma internazionale cavalcano irresistibilmente questa onda. Ma la vita della città senza contaminazione è destinata all’imbarbarimento esaltato della setta, alla psicologia totalitaria delle masse. In questo senso dovrebbe essere chiaro a tutti che la partita dell’integrazione è il più grande antidoto ad ogni forma di violenza compresa quella del terrorismo.

      Come non considerare che in questo mondo nuovo attraversato dall’esperienza inevitabile della contaminazione, del cosmopolitismo, dello scambio, della flessibilità dei confini, la nozione di cittadinanza deve essere radicalmente riformulata?
      la Repubblica” del 28 settembre 2017

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