domenica 15 dicembre 2019

AMATO, PRODI, LA POLITICA DEI REDDITI E I RISULTATI SUL MERCATO DEL LAVORO UE (DOPO SALVATAGGI ESM PER LA "STABILITA' FINANZIARIA" E QE "PER LA CRESCITA")

Questa ripubblicazione del post del 14 marzo 2018, non è una vera ripubblicazione: è più un remake aggiornato: in realtà, dalla traccia originaria, si sono rielaborati alcuni passaggi e AGGIORNATI i grafici relativi ai dati più significativi.


http://slideplayer.it/slide/2482260/8/images/3/Livio,+Storia+di+Roma+III,+34,+6:+(Lex+XII+Tabularum+est)+fons+omnis+publici+privatique+iuris..jpg
"Vuoi dunque che ripercorriamo l'origine del diritto rifacendoci alla sua fonte stessa? Una volta scopertala non vi è dubbio che dobbiamo riportare ad essa quanto stiamo indagando".

Risultati immagini per Schmitt  sovrano è colui che ha il potere di dichiarare lo stato di eccezione

1. Come spesso capita, Francesco ci lascia nei commenti degli spunti fondamentali e poi...mi tocca elaborarli per conservarli alla conoscenza generale dei lettori e sistemarli nel complessivo filo conduttore del blog (naturalmente Francesco va ringraziato e questo non costituisce un rimprovero).
Cominciamo da un punto che riguarda la spiccata tendenza di Giuliano Amato a "dirci in faccia" i veri scopi e i veri effetti dei trattati €uropei e quindi del c.d. "vincolo esterno".
Le affermazioni di Amato che riportiamo più sotto, meritano di essere attentamente considerate e rammentate, proprio per avere chiaro, senza le interferenze cosmetico-propagandistiche che caratterizzano la c.d. "rivoluzione liberale", il quadro in cui l'Italia si è mossa, almeno a partire dall'Atto Unico, che predeterminava il successivo trattato di Maastricht e la  fase operativa della stessa moneta unica
Quella stessa unione monetaria la cui venuta in esistenza, come obiettivo fondamentale della costruzione europea, risale al trattato del 1957, (qui p.5.1-5.3), almeno come impegno pattizio, culminando puntualmente nel Rapporto Werner del 1971, mentre la sua teorizzazione in chiave federativa è enunciata da Hayek e Einaudi tra il 1939 e i primi anni '40 (qui, pp.6.3.-6.5) del secolo scorso. 

2. Dunque lasciamo la parola ad un Amato che, nel 1989, (insieme naturalmente a Prodi), partecipa a un convegno sul tema "Moneta unica per l’Europa", (21 febbraio 1989, Roma, dibattito la cui registrazione trovate qui) e "non a caso" definisce senza mezzi termini la questione della sovranità e della sua cessione (non limitazione) irreversibile (almeno quanto, nelle intenzioni negoziali, e nelle recentissime dichiarazioni di Draghi, lo è l'euro):
Quando si insegna ad un ragazzino di primo anno all’università in che cosa consiste la sovranità, la prima cosa che gli si dice è “batter moneta”
Quindi c’è niente popò di meno quel problema lì di mezzo. Una volta si diceva “batti moneta e dichiara le guerre”. Ora pudicamente si dice “batti moneta e poi paga pensioni, stipendi”. Batter moneta come caratteristica dello Stato sovrano continua ad essere la prima cosa che viene in mente. E non a caso…”.
3. Le conseguenze di questa cessione di sovranità all'€uropa - e che l'€uropa reclama perentoriamente e senza mezzi termini -, perfettamente definita da Amato sul piano giuridico-costituzionale - che poi sia costituzionalmente anche legittima è tutto un altro discorso che Amato e...Prodi si guardano bene dall'affrontare- , sono contestualmente definite e preconizzate da Prodi:
… Questi sono i problemi più grossi che noi dobbiamo affrontare, insieme ovviamente al discorso dei costi relativi dell’inflazione. Ma su questo io non è che non ci stia perché non lo ritenga importante, ma perché è già stato così talmente sottolineato che non voglio aggiungere un’altra parola.
E’ stato talmente sottolineato da voler ricordare che, quando ci fu l’edesione italiana allo SME – me lo ricordo benissimo, perché coincise con quel quarto d’ora in cui sono stato Ministro dell’Industria (il problema non è durar molto, ma esserci negli appuntamenti storici!!) [risate] – quando ci fu quella discussione c’era perfettamente accordo, il Paese era d’accordo.

Il grosso problema era di trarne le conseguenze, cioè DI APPROFITTARE PER UNA IMMEDIATA NUOVA POLITICA DI TIPO SALARIALE, per quella che allora veniva chiamata, nella coda della terminologia, la “politica dei redditi” . Ma sull’accordo, sulla politica monetaria, il Paese già da allora era sostanzialmente d’accordo. Chi non lo era, era per paura, non perché non ci credesse. Diceva, “ma non ci indurre in tentazione”, cioè non esageriamo, insomma; ma l’Italia è stata sempre favorevole a questo.
Ed è abbastanza interessante perché, tutto sommato, nonostante non ci sia stato un adeguamento politico immediato…però successivamente l’adesione allo SME è stato quella specie DI FATTO CORROSIVO QUOTIDIANO CHE CI HA SPINTO AD AVERE POLITICHE LEGGERMENTE PIÙ SAGGE con il passare del tempo.

Quindi io non ritengo assolutamente che sia stato negativo, anzi CHE SIA STATO UN FATTO DI IMPORTANZA FONDAMENTALE. Anche se non ho dato mai importanza alla larghezza della “banda”, perché in materia monetaria quelle che contano sono le aspettative psicologiche. Per me l’idea che si debba litigare per avere la “banda” più larga degli altri, io non l’ho mai capita e non riuscirò mai a capirla, perché quando un Paese come l’Italia comincia a peggiorare, deve mollare il tutto, insomma…
” 
Chiosa Francesco nello stesso suo intervento: 
Tutti sapevano che cosa avrebbe significato l’€uro. Il vincolo esterno è stato utilizzato per condizionare la politica dei redditi, è stato cioè “il fatto corrosivo quotidiano che ci ha spinto ad avere politiche leggermente più sagge”. Politiche deflattive.  

4. Il "fatto corrosivo quotidiano", cioè la cessione di sovranità, e quindi, come ci insegna Amato, del potere di "battere moneta", ha quindi prodotto i suoi effetti; e questi effetti sono stati esattamente quelli che discendono dal parallelismo funzionale della moneta unica rispetto al gold standard. In particolare Carli li aveva, a sua volta, pre-descritti in modo "scultoreo" (sempre qui, p.8):
"L’argine contro il dilagare del potere d’acquisto che movendo dagli Stati Uniti minaccia di sommergere l’Europa, si continua a sostenere, potrebbe essere innalzato esclusivamente mediante il ripristino del gold standard. In realtà, concezioni del genere incontravano, un tempo, un coerente completamento nelle enunciazioni che attribuivano al meccanismo concorrenziale il compito di realizzare, mediante congrui adattamenti dei livelli salariali, il riequilibrio dei conti con l’estero.
Insomma, il ritorno alla convertibilità aurea generalizzata implicava governi autoritari, società costituite di plebi poverissime e poco istruite, desiderose solo di cibo, nelle quali la classe dirigente non stenta ad imporre riduzioni dei salari reali, a provocare scientemente disoccupazione, a ridurre lo sviluppo dell’economia."
5. Non può e neppure deve stupire, quindi, che oggi i media mainstream registrino, in una giaculatoria senza memoria di questi antecedenti ben precisi e intenzionali del paradigma €uropeo, questa realtà:
5.1. Si tratta naturalmente di una mezza verità, poiché nel 1989 la povertà non era assolutamente agli stessi livelli attuali: semplicemente il 1989 è stato l'anno in cui sono iniziate le relative rilevazioni statistiche omogeneamente confrontabili.
Perché non solo la povertà (assoluta e relativa) in Italia è giunta a livelli senza precedenti, almeno rispetto alla fine degli anni '80, solo a seguito dell'aggiustamento austero e credibile imposto dalla crisi del debito (commerciale, cioè da squilibri nei conti con l'estero) nell'eurozona, ma abbiamo pure assistito alla proliferazione del "nuovo", ma del pari voluto, fenomeno dei working poors (frutto naturale del "quotidiano fatto corrosivo" in cui sono consistite le politiche "più sagge" che additava Prodi):

http://www.programmazioneeconomica.gov.it/2017/12/18/andamenti-lungo-periodo-economia-italiana/#Quota%20di%20popolazione%20in%20povert%C3%A0%20assoluta%20per%20aree%20geografiche
La stima ISTAT mostra un lento aumento dell’incidenza della povertà assoluta in Italia nel 2007-2010 (dal 3,5% al 4%) e un’accelerazione nel 2011-13, con un picco del 6,3% delle famiglie italiane in povertà assoluta. Nel 2014 si manifesta un primo ridimensionamento dell’incidenza della povertà assoluta che scende al 5,7%. Il centro e il nord sono caratterizzati da un andamento analogo al dato nazionale, ma con livelli di povertà assoluta inferiori rispetto alla media nazionale di 1-2 punti percentuali, toccando nel 2014 il 4,2% di famiglie in povertà assoluta nel nord e il 4,8% nel centro. Il Mezzogiorno invece ha un livello maggiore di povertà assoluta, il quale cresce più che proporzionalmente rispetto al resto d’Italia dal 5,1% del 2010 al 10,1% del 2013, ma che nel 2014 beneficia di una riduzione più forte, scendendo all’8,6% di incidenza della povertà assoluta, pur rimanendo circa il doppio rispetto al centro-nord. Nel 2015-2016 la povertà assoluta aumenta al nord e al centro, calando moderatamente al sud.
La stima ISTAT dell’incidenza della povertà relativa mostra limitate oscillazioni a livello nazionale con un aumento dall’11,2% nel 2011 al 12,8% nel 2012. Tale aumento è più sensibile ed è continuato più a lungo nel Mezzogiorno, dove l’incidenza della povertà relativa à passata dal 19,1% nel 2009 al 23,6% nel 2014.

Quanto ai dati della povertà assoluta e relativa italiana, possiamo fornire, sempre dallo stesso sito gov.it, i dati aggiornati ultimi disponibili (all'ottobre 2019). Colpisce la stabilità, anzi il leggero aumento del dato complessivo, cui contribuisce il sensibile incremento, successivo al 2016, della povertà soprattutto assoluta, ma anche relativa, nell'area "Nord" dell'Italia:

La stima ISTAT mostra un lento aumento dell’incidenza della povertà assoluta in Italia nel 2007-2010 (dal 3,5% al 4%) e un’accelerazione nel 2011-13, con un picco del 6,3% delle famiglie italiane in povertà assoluta. Nel 2014 si manifesta un primo ridimensionamento dell’incidenza della povertà assoluta che scende al 5,7% ma ri-aumenta, con fluttuazioni negli anni successivi, raggiungendo il 7% nel 2018. Il centro e il nord sono caratterizzati da un andamento analogo al dato nazionale, ma con livelli di povertà assoluta inferiori rispetto alla media nazionale di 1-2 punti percentuali. Il Mezzogiorno invece ha un livello maggiore di povertà assoluta, il quale cresce più che proporzionalmente rispetto al resto d’Italia dal 5,1% del 2010 al 10,1% del 2013, per poi scendere temporaneamente e risalire, tornando nel 2018 al 10%.
La stima ISTAT dell’incidenza della povertà relativa mostra un aumento dall’11,2% nel 2011 al 15% nel 2018. Tale aumento è più sensibile ed è continuato più a lungo nel Mezzogiorno, dove l’incidenza della povertà relativa à passata dal 19,1% nel 2009 al 25,9% nel 2018.

Questi poi  i dati relativi all'Eu a 28 (o 27 che dir si voglia). Di cui forniamo un sottostante aggiornamento circa la variazione  (non avvenuta) dei working poors successivamente al QE ed ai "salvataggi" condizionali di ESFS e ESM: 

Fig.2 Dinamica delle percentuali di popolazione a rischio di povertà nell’area Euro e in alcuni dei paesi 2007 - 2015
 Image_0.png
NB: Aggiorniamo il dato dei lavoratori a rischio di povertà secondo gli ultimi dati Eurostat disponibili (2019). Ci dicono che tale percentuale è rimasta, nella media, e in modo impressionante, stabile, nonostante i pretesi effetti reflattivi (cioè espansivi) del QE intervenuto a partire dal 2015! Il dato è particolarmente "incongruo" rispetto alle dichiarazioni sulla "ripresa" fatte sia durante il QE, sia ribadite per giustificarne la cessazione (poi, come sappiamo, prontamente..."ripensata").



E sempre registrando, all'interno delle persone occupate a rischio di povertà, un numero incredibilmente alto (ancorché lievemente migliorato, ma di ben poco) di persone a rischio povertà nel "lavoro autonomo" (self-employed), indice che tale condizione di self-employment è sempre più una facciata contrattualistica e forzata che maschera la più spietata precarietà (dato che si unisce al costante aumento di lavori temporanei e di part-time involontari). Da notare, che il dato attuale, è comunque più alto, nel caso del lavoro autonomo, - ma pure in quello dei lavoratori dipendenti -, di quello registrato nella fase più "nera" della crisi del debito pubblico, nonostante i "salvataggi" messi in atto con ESFS e ESM, e sempre nonostante il QE, a indicare la colossale trasformazione in senso deflattivo del mercato del lavoro, operata in Ue (e nell'eurozona) per privilegiare la "stabilità finanziaria".
E, per altro, come mostrano le ultime vicende bancarie in Italia, nonché la notoria situazione bancaria in Germania, (tra Deustchebank da "salvare" e banche dei Lander già salvate), FALLENDO PURE NEL GARANTIRE LA STABILITA' FINANZIARIA.

6. Ma il 1989, non casualmente, è stato anche l'anno in cui Prodi e Amato auspicavano, come frutto di "politiche più sagge", esattamente questi effetti. "Sagge"...ma per chi? 
...E il paese "era d'accordo" veramente? Come e quando è stato interpellato informandolo in modo comprensibile da tutti gli elettori (duramente) interessati? 
I precedenti "referendari" non possono certo essere addotti come un argomento a sostegno, dato l'oggetto quantomeno opaco del quesito che fu posto nel mitico referendum sull'Europa del 1989, e, peraltro, anche l'inadempienza che ne seguì, rispetto agli esatti termini del pur opaco quesito, nei contenuti del successivo trattato di Maastricht (qui, pp. 6-9)!
Oggi, forse, il paese "scopre", votando, che non è, e non è mai stato, d'accordo: ma dipende da chi si debba ritenere legittimato a esprimere la volontà per tutto il paese.

7. Insomma, chi ha voluto, in un modo o nell'altro, lo ha fatto "al riparo dal processo elettorale".
E intende continuare a farlo... 
https://image.slidesharecdn.com/castelfidardo-150322171254-conversion-gate01/95/mmt-a-castelfidardo-sovranit-saldi-settoriali-eurozona-66-638.jpg?cb=1427045174 

Mario Monti cita Stefano Feltri ...le leve del potere sono ormai INESORABILMENTE ALTROVE

30 commenti:

  1. "quando ci fu l’edesione italiana allo SME – me lo ricordo benissimo, perché coincise con quel quarto d’ora in cui sono stato Ministro dell’Industria"

    Nel Dicembre 1978 non erano sicuramente d'accordo Spaventa ed il PCI (vedi discorso di Napolitano).
    L'altro soggetto in disaccordo era appena stato sepolto.
    In effetti dopo l'uccisione di Moro tutti avevano capito l'antifona USA, pure Andreotti, in precedenza contrario allo SME senza contropartite.
    L'assistente di Andreatta, allora divenuto ministro, ancora oggi ci prende per il naso.
    Con l'elezione del papa polacco serviva l'Italia nello SME per far transitare i fondi CIA per la rivoluzione in Polonia.
    Nasce infatti allora la rete off-shore del Banco Ambrosiano che lo fece più tardi fallire (dopo aver triangolato i fondi CIA verso la Polonia).
    Vaticano e traditori della patria sono sempre gli stessi.

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  2. Aggiungiamo un altro florilegio a quelli rammentati nel post.

    Un anno fa, il 13 dicembre 2018, Prodi rilasciava un intervista a radio24 (https://www.radio24.ilsole24ore.com/programmi/24mattino-morgana-e-merlino/puntata/trasmissione-dicembre-2018-090339-gSLAgbC8vC). Era il periodo in cui si – come oggi - doveva approvare la finanziaria e vi era il tira e molla sulla percentuale di deficit da spuntare.

    L’intervistatrice chiedeva a Prodi: “se fosse stato al posto di Juncker oggi, avrebbe tirato la corda così come l’hanno tirata finora o sarebbe arrivato prima ad un compromesso con l’Italia”?

    Risposta: “Il posto di Juncker è molto scomodo. La prima rottura, la disobbedienza del Patto di Stabilità – io ero Presidente della Commissione europea al posto di Juncker – e Germania e Francia, sotto presidenza italiana [NdF, dal 1999 al 2004], MI IMPOSERO DI VIOLARE LE LEGGI EUROPEE, cioè dissero “comandiamo noi” . Quindi è cominciata una dialettica già da allora, per cui la regola non era più rispettata, MA ERANO RISPETTATI I RAPPORTI DI FORZA. Questo è purtroppo quello che è avvenuto in €uropa; la Commissione è stata messa in situazione di debolezza e gli Stati… hanno cominciato ad essere i comandanti ed il comandante più grande, cioè la Germania, ha comandato più di tutti. Quindi è la debolezza dell’€uropa che ha causato dei problemi non la sua forma (??)…la francia si comanda la politica estera europea, la germania quella economica ed ognuno si fa i fatti suoi, non è che ci sia una grande guida armonica…Io ripeto – un pò con senso di non bell’umorismo, se vuole – che l’€uropa, si diceva sempre, che è un motore a due pistoni franco-tedesco, adesso è fatta da due motori ad un pistone, quello della politica estera francese, quello della politica economica tedesca”. Non che avessimo dei dubbi su come funziona l€uropa, ma la conferma così esplicita forse avrebbe meritato più risalto nel dibattito politico nazionale.

    Ricordiamo, in proposito, che in precedenza, nel giugno 2018, era stato siglato l’accordo franco-tedesco di Mesemberg (dal quale discende l’ESM2) ed in data 22 gennaio 2019 è seguito il trattato di Aquisgrana (https://orizzonte48.blogspot.com/2019/02/il-trattato-franco-tedesco-di.html). Perfettamente coerente con la ricostruzione di Prodi il quale, ovviamente, all’epoca non spese nemmeno una parola.

    Ora, ammesso che gli italiani fossero d’accordo allora per le politiche “più sagge” (e ci vorrebbe veramente grande fantasia per sostenerlo), oggi il Paese è d’accordo per questa che, nei fatti, è una gerarchizzazione continentale conclamata? Ed esiste una forza politica di massa che con chiarezza e senza tentennamenti lo ricordi senza più tentennamenti al Paese?

    E’ vero, ci sono i “rapporti di forza” (come ricordato anche dal nostro) che si affermano nei fatti e che governano il diritto internaz. in un momento “pre-giuridico” ed in cui uno Stato fa valere “…questa posizione di forza generalmente nata nella realtà contemporanea, sul piano economico-industriale-finanziario…” (così ne La Costituzione nella palude). Ma ciò – come ci rammenta Quarantotto - era perfettamente presente ai Costituenti quando formularono l’art. 11 Cost..

    E’ però anche vero – e lo ribadiamo - che “…se nei fatti bruti della realtà internazionale un certo Stato è recessivo rispetto a una o più delle controparti di un trattato, ciò si riflette, ancor prima della conclusione di esso, nel fatto che LA CLASSE POLITICA, E IN GENERALE DIRIGENTE, DI TALE STATO…SI TROVA GIÀ, IN QUALCHE FORMA E “MISURA”, CAPTURED, cioè sotto un certo grado di controllo di quella del paese più forte…” (La Costituzione nella palude, cit. ). (segue)

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  3. Ed al riguardo, vorrei riprendere i richiami schmittiani inseriti in apertura del post non a caso.

    Una costituzione è la messa in forma della “… DECISIONE POLITICA FONDAMENTALE del titolare del potere costituente cioè, in una democrazia, del popolo…” [C. SCHMITT, Dottrina della Costituzione, Milano, 1984, 41], laddove per decisione politica fondamentale si intende la modalità con le quali una comunità decide della sua esistenza politica, di come concretamente intende stare al mondo. “…l’atto della legislazione costituzionale…definisce con una sola decisione il complesso dell’UNITÀ POLITICA RISPETTO ALLA SUA FORMA SPECIALE DI ESISTENZA” [C. SCHMITT, Dottrina della Costituzione, cit., 39].

    L’unità politica presuppone, però, che quantomeno tutte le forze politiche si trovino d’accordo intorno ai principi essenziali, come puntualmente sottolineato da Basso (https://orizzonte48.blogspot.com/2016/07/la-sovranita-democratica-costituzionale.html):

    Una democrazia può sussistere solo in un paese in cui l’intiera collettività sia sostanzialmente d’accordo sui princìpi che reggono l’ordine politico-sociale esistente, giacché, se vi fosse un contrasto profondo, un radicale disaccordo, se mancasse unità di linguaggio e di spirito, non sarebbe pensabile un alternarsi di opposti partiti al governo della cosa pubblica. In altre parole, perché sussista un regime democratico, è necessario ché vi sia generale accordo sui principi fondamentali, e che il disaccordo cada soltanto su particolari aspetti e indirizzi di politica. Nessuna democrazia potrebbe rimaner sana se i princìpi dell’azione divengono così diversi fra le diverse classi della società, perché è l’essenza stessa della democrazia che i principì della azione debbano essere posseduti in comune da tutte le classi che contano”.

    Rammentiamo che anche la nostra Costituzione (per chi se lo fosse dimenticato) ha alla base una “decisione politica fondamentale” riassunta nei primi dodici articoli e, sebbene sia nata con l’orrore per la guerra, è innegabile che rechi in sé le stigmate del “concetto limite” espresso nella distinzione amico-nemico: i “nemici” nella nostra Carta si ricavano dall’art. 1 (ovvero il Re, allorché l’Italia si proclama una "Repubblica") e dalla XII Disposizione transitoria e finale (cioè il fascismo e, quindi, il liberismo).

    Schmitt poteva quindi affermare:

    …il compito di uno Stato normale consiste soprattutto nell’assicurare all’interno dello Stato e del suo territorio una pace stabile, nello stabilire “tranquillità, sicurezza e ordine” e di procurare in tal modo la situazione normale che funge da presupposto perché le norme giuridiche possano aver vigore, perché ogni norma presuppone una situazione normale e non vi è norma che possa aver valore per una situazione completamente abnorme nei suoi confronti.

    Questa necessità di pacificazione interna porta, in situazioni critiche, al fatto che lo Stato, in quanto unità politica, determina da sé, finché esiste, anche il “nemico interno”. In tutti gli Stati esiste perciò in qualche forma ciò che il diritto statale delle repubbliche greche conosceva come dichiarazione di polémios e il diritto statale romano come dichiarazione di hostis
    … (segue)

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  4. Finché un popolo esiste in senso politico È ESSO STESSO A DOVER DECIDERE, almeno nel caso estremo…LA DISTINZIONE FRA AMICO E NEMICO. In ciò consiste l’essenza della sua esistenza politica. SE ESSO NON HA PIÙ LA CAPACITÀ O LA VOLONTÀ DI GIUNGERE A TALE DISTINZIONE, ALLORA CESSA DI ESISTERE POLITICAMENTE. Se si lascia indicare da un estraneo chi è il suo nemico e contro di esso deve o no combattere, esso non è più un popolo politicamente libero ed è invece integrato o subordinato ad un altro sistema politico…

    Se viene meno questa distinzione viene meno anche la vita politica in generale. Un popolo dotato di esistenza politica non può assolutamente sottrarsi con proclami giurati, a questa distinzione fatale. Se una parte del popolo dichiara di non riconoscere più nessun nemico, ciò significa che essa si schiera, secondo la situazione del momento, dalla parte dei nemici e li aiuta, ma la distinzione di amico e nemico non è in tal modo scomparsa…

    Se un popolo teme le fatiche e il rischio dell’esistenza politica, si troverà un altro popolo disposto ad assumersi tali fatiche, garantendo la sua “protezione da nemici esterni” e gestendo così il dominio politico…
    ” [C. SCHMITT, Le categorie del politico, Il Mulino, 2013, 129-135].

    H. Heller, sul tema, rincara la dose e, specificando il concetto di “omogeneità sociale” (in senso economico come viatico per quell’idem sentire in ordine alla “stessa ideologia fondamentale”, così Mortati) necessaria a detta unità politica, afferma:

    Ogni politica consiste dunque nel formare e CONSERVARE QUESTA UNITÀ. E ogni politica deve, in caso di emergenza, rispondere all’attacco a questa unità... Qui sta il nucleo di verità dell’affermazione di Carl Schmitt secondo cui la distinzione specificamente politica è quella di amico e nemico. Dove, in caso di emergenza, non esiste più la disposizione a distruggere L’AGGRESSORE, INTERNO O ESTERNO, DELL’UNITÀ POLITICA, lì viene fondamentalmente negata ogni politica...

    la base storico-spirituale del parlamentarismo non è la fede nella discussione pubblica in quanto tale, ma la fede nell’esistenza DI UN FONDAMENTO DI DISCUSSIONE COMUNE e, con ciò, la possibilità di un fair play verso l’avversario politico interno, con il quale, escludendo la nuda violenza, si pensa di poter trovare un accordo. Lì dove questa coscienza dell’omogeneità viene meno, il partito fin a quel punto orientato alla discussione diventa un partito che pretende di imporre le proprie ragioni.

    Da una maggiore o minore omogeneità sociale dipende quindi la maggiore o minore possibilità della formazione di un’unità politica, la possibilità di una nomina della rappresentanza e la maggiore o minore stabilità della carica dei rappresentanti. Senza un certo grado di omogeneità sociale diventa impossibile una formazione democratica dell’unità. Quest’ultima viene meno lì dove tutte le parti politicamente rilevanti del popolo non sono più in grado di riconoscersi in alcun modo nell’unità politica, né di identificarsi nei simboli e nei rappresentanti dello Stato. QUESTO È IL MOMENTO IN CUI L’UNITÀ SI SCINDE E DIVENTANO POSSIBILI LA GUERRA CIVILE, LA DITTATURA, IL DOMINIO STRANIERO
    ” [H. HELLER, Democrazia politica e omogeneità sociale, in Stato di diritto o dittatura? E altri scritti, Napoli, 2017, 11-15]. (segue)

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  5. Ora, quella che è venuta meno nel nostro Paese è proprio “l’omogeneità sociale” (dispersa nei rivoli dei conflitti sezionali da decenni edificati ad arte) e, con essa, è conseguentemente venuta meno proprio l’unità politica (https://orizzonte48.blogspot.com/2019/12/superata-la-legalita-costituzionalecome.html) che, per assurdo, si è andata invece coagulando, grazie a tutti i rappresentanti del PUD€, sull’ideologia fondamentale che era stata battuta con la decisione politica fondamentale del ‘48. Infrantasi l’unità politica, diventa possibile - come avvertiva Heller – proprio la guerra civile, la dittatura o il dominio straniero.

    Quale forza politica di massa oggi è VERAMENTE in grado di riconoscere quelle entità che intendono portare al completo annientamento della Costituzione ed etichettarle senza reticenza con il nome che meritano, al di là delle ipocrisie del politically correct, ovvero come “NEMICO PUBBLICO” (e non avversario da trattare con fair play)?

    [Sento parlare di “governo di salvezza nazionale” per la riscrittura delle “regole”. Ancora. Questo non significherebbe nemmeno per sogno additare il “nemico”. Questo significherebbe allearvisi]

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  6. Ti confesso, Francesco, che più studio Schmitt meno lo trovo utilizzabile a fini di un pensiero volto al progresso sociale (se non per denunciare la presenza di tematiche a lui riconducibili). A partire dall’idea, a pensarci bene aberrante, che l’elemento essenziale della politica sarebbe la distinzione amico-nemico.

    Per una volta sono d’accordo con Zagrebelsky (Principi e voti, Einaudi, Torino, 2005, pagg. 38-9), più che altro perché cita un autore neoaristotelico a me molto caro, ossia Dolf Sternberger: “Il fatto che quella famosa e funesta definizione sia nata come descrizione della vita pubblica europea, all’interno degli Stati e tra gli Stati, nel secolo xx - la «guerra civile europea» tra Est e Ovest, tra capitalismo e comuniSmo, tra spiritualismo e materialismo, ecc. - non significa affatto, come da molti si è ritenuto, che essa colga l’essenza più pura, più radicale, della politica. Significa invece che essa manca il suo oggetto, la politica, e ne coglie un altro, la guerra. È essenza non della politica ma della guerra, e in particolare della guerra di sterminio, cioè dell’opposizione amico-nemico. Se lo spazio pubblico europeo era allora dominato da questa opposizione, ciò significa che in Europa era, per l’appunto, venuta meno la politica, puramente e semplicemente.

    Il punto è questo ed era già stato colto da uno dei più raffinati critici di Schmitt, ossia Leo Strauss: https://issuu.com/bouvard6/docs/leo_strauss_-_notes_on_carl_schmitt

    Il presupposto antropologico della costruzione schmittiana è il naturalistico homo lupus di Hobbes - un autore molto caro a Schmitt - “politicizzabile” solo facendo appello alla passione della paura della morte, senza alcun riferimento a un ideale di giustizia, a un vivere bene insieme, che è invece ciò in cui consiste la politica per la filosofia pratica classica: http://orizzonte48.blogspot.com/2018/07/alienazione-e-feticismo.html?showComment=1532514064595#c3209395450065291824

    La filosofia politica schmittiana è in questo senso nichilista e apolitica quanto quella liberale, limitandosi a sostituire l’ottimismo della prima col suo pessimismo: per questo Strauss mi pare colga proprio nel segno quando la definisce “a liberalism with the opposite polarity”.

    Qualsiasi teorizzazione della “naturale” insocievolezza umana dovrebbe insospettirci. Io riaprirei il vecchio Macpherson e la sua ricostruzione dei presupposti storici, da Hobbes naturalizzati, di una simile antropologia (Proprietà e libertà alle origini del pensiero borghese, Istituto Editoriale Italiano, Milano, 1973, pag. 70): “In questa prospettiva, in entrambe le interpretazioni del passaggio logico operato da Hobbes dal movimento fisiologico dell’uomo a quello sociale, si rende necessario aggiungere un assunto sociale ai postulati fisiologici. Dobbiamo allora indagare su quale tipo di società sia compatibile con questo assunto. Nella sezione 3 farò vedere che solo un tipo di struttura sociale, che io chiamo società mercantile possessiva, risponde alle richieste dell’argomentazione di Hobbes, e sosterrò che Hobbes, più o meno coscientemente, aveva assunto questo tipo a modello della società in quanto tale.”.

    Come dice MacPherson, il passaggio fondamentale che produce i presupposti della società hobbesiana è…la mercificazione del lavoro (pag. 80): altro che homo naturalmente lupus!

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    1. Posso permettermi di spezzare una lancia in favore di Francesco?
      L'uso di un ragionamento e di una categorizzazione schmittiana, nel caso del suo primo commento (seguito infatti subito dopo dalla citazione di Heller (e preceduto dall'aggancio a Mortati), a me pare connesso all'evidenziazione, abilmente dialettica, di una colossale falla/contraddizione del nostro orientamento politico dominante (ovvero della nostra classe dirigente): posto che, possiamo convenirne, il pensiero "liberale" e la "legge" del mercato sono adottati come Grund-Norm e supervalore "avulso" (anzitutto da ogni visione consapevole della legalità costituzionale), essi cadono in contraddizione anche nel loro stesso impianto di pensiero fondativo. Anche nella visione "polarizzata in senso invertito" del liberalismo (implicito?) di Schmitt, falliscono nel considerare appieno le conseguenze delle premesse che acriticamente assumono.

      In effetti, non puoi chiedere a un popolo di rinunciare al solidarismo costituzionale, inteso come Grund-norm redistributiva, e al tempo stesso rompere l'unità nazionale accettando una redistribuzione verso il "nemico"...
      E questo come estrema sintesi: le implicazioni intuitive del ragionamento possono essere estese.

      Insomma, neppure Karl potrebbe approvare ciò che stanno facendo le classi dominanti in Italia (assumendo il suo punto di vista in termini di enunciati astratti e non nazionalistici, cioè, ovviamente, germanocentrici...)

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  7. Ovvero il rischio di guerra civile o di dominio straniero mi pare trovi una spiegazione più convincente quando connessi a una critica della società piuttosto che alla “ipotesi” (così Schmitt) di una naturale pericolosità umana. Oltre alle citazioni della Costituzione nella palude che hai riportato ricorderei anche quelle della Luxemburg ricordate da Bazaar qualche annetto fa: http://orizzonte48.blogspot.com/2016/10/la-ricostruzione-post-terremoto-nellera.html?showComment=1476150072436#c8678875389545364916

    In fondo anche Aristotele rinveniva la causa della “stasis” nelle disuguaglianze (e ricordiamo che pure il rapporto fra i Trenta tiranni e Sparta era tutt’altro che di inimicizia), naturalmente in un contesto non capitalistico. E così ovviamente un socialdemocratico come Heller (Stato di diritto o dittatura? cit., pag. 69): “Nessuno dovrebbe oggi poter sul serio dubitare perlomeno di ciò: che il conflitto fondamentale in politica interna è il conflitto di classe, ingaggiato certamente in modo non univoco ma con fronti molto complessi; che la situazione politica è caratterizzata da un labile equilibrio dei raggruppamenti sociali di potere determinanti; che questa situazione consente soltanto governi di coalizione i cui esponenti, poiché manca nei loro sostenitori un’omogeneità sociale, si ostacolano a vicenda nella loro azione e quindi spesso si neutralizzano ampiamente; che in tal modo un governo democratico incisivo diventa spesso altamente problematico

    C’è poi, nella stessa raccolta, un altro bel passaggio su democrazia formale e sostanziale (pag. 22): “La disparità sociale può trasformare però il summum jus in summa injuria. L’uguaglianza formale più radicale si trasforma, senza omogeneità sociale, nell’ineguaglianza suprema e la democrazia formale in dittatura della classe dominante.
    La superiorità economica e culturale dà a coloro che dominano strumenti sufficienti per trasformare la democrazia politica, influenzando direttamente e indirettamente l’opinione pubblica, nel suo esatto contrario. Con il controllo finanziario di partiti, stampa, cinema e letteratura, attraverso l’influenza sociale sulla scuola e sull’università, essi sorto in grado, senza ricorso esplicito alla corruzione, di realizzare un magistrale condizionamento della macchina burocratica ed elettorale, così che, garantendo interamente la forma democratica si giunga tuttavia, nella sostanza, ad una dittatura. Tanto più pericolosa, quest’ultima, perchè anonima e irresponsabile. Essa trasforma la democrazia politica in una finzione poiché ne conserva la forma nella nomina della rappresentanza falsificandone invece la sostanza.


    Hai fatto molto bene, tra l’altro, ad avvicinare Mortati ed Heller, perché la tematizzazione dell’omogeneità sociale per il funzionamento della democrazia è molto simile nei due autori (non casualmente, visto che Mortati era uno dei migliori conoscitori del dibattito weimariano della sua generazione), anche se pochi l’hanno notato. Un’eccezione: “Mortati nei suoi scritti insiste spesso sul concetto di omogeneità sociale, soprattutto in relazione allo studio delle forme di Stato e di governo. Sull’importanza dell’omogeneità sociale quale presupposto della democrazia v. Heller, Politische Demokratie und soziale Homogenität, 1928, trad. ital, di P. Pasquino: Democrazia politica ed omogeneità sociale, in « Quaderni Piacentini», n. 10,1983.” (S. Bonfiglio, Mortati e il dibattito sul concetto di regime durante il ventennio fascista in F. Lanchester (a cura di) Costantito Mortati costituzionalista calabrese, ESI, Napoli, 1989, pag. 400).

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  8. Insomma, per riassumere, l’uomo è essere naturalmente socievole, la buona politica non si oppone, ma fa vivere una Costituzione giusta, vero pilastro di una pacifica convivenza minacciata dalle tendenze destabilizzanti del capitalismo. Al ripristino di una civile convivenza non basta una decisione, per quanto “energetica”, se non è ancorata a un plausibile fondamento di legittimità, in questo caso alla demerficificazione del lavoro e alla rivitalizzazione delle mediazioni democratiche (tutte cose che dici anche tu, ovviamente).

    Forse sono precisazioni inutili, ma mi lascia un po’ perplesso il fascino che Schmitt ha esercitato e talvolta esercita sul pensiero socialmente progressista (penso per esempio a diversi articoli su Sollevazione, a fronte dei quali Bazaar aveva provato, temo invano, a far sentire un po’ di ragione). Credo, per dire, che sia abbastanza argomentabile sostenere che la Rivoluzione russa è stata prima sfigurata, e poi ha completamente deragliato, in conseguenza del prevalere delle illusioni “decisioniste” sulla fatica della mediazione. Visto che circolano entusiasmi per un’infelice accoppiata Schmitt – Lenin, che di quest’ultimo non fa che enfatizzare i lati più criticabili, forse non è inutile, non per gli habitué ma per altri lettori, ricordare che tra le molteplici buone ragioni storiche del costituzionalismo sociale figura l'assenza di facili scorciatoie verso una società giusta...

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    1. Qui, ovviamente, concordo in pieno.
      Ma si tratta di un fenomeno, abbastanza frequente, di considerazione asistematica e "selettiva" del pensiero di Schmitt: una tendenza ricorrente.

      Com'è accaduto nella autodefinitasi sinistra-sinistra per Polanyi; Karl ovviamente. E poi, in due o tre mesi, tutto viene dimenticato e ridotto in pillole di metalinguaggio scarsamente significativo.
      Studiare costa e vincola alla coerenza sistematica (e infatti Hegel è forse il primo e "peggio" frequentato dei grandi pensatori).

      Dunque, grazie per aver posto l'accento su questo punto delle "fascinazioni"...

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  9. “… Le elezioni amministrative dell’autunno 1946, che segnarono per la democrazia cristiana una netta perdita di posizioni, agirono da campanello d’allarme; le pressioni americane e vaticane esercitate in quel periodo trovarono un terreno favorevole. In dicembre la rottura del tripartito e il nuovo orientamento a destra della democrazia cristiana eran già decisi e poco appresso attuati; correlativamente l’Uomo Qualunque veniva dagli industriali abbandonato al suo destino, e la destra democristiana, diventata la vera ispiratrice della politica del partito e del governo, spariva o quasi come frazione costituita. De Gasperi annunciava ufficialmente il suo connubio col “quarto partito”, cioè COL PARTITO DEGLI INDUSTRIALI E DEGLI AGRARI…

    Trovato il partito adatto alla nuova esperienza totalitaria, è necessario porre in essere gli strumenti perché questa visione totalitaria domini veramente tutta la vita dello stato. Questa azione si articola in due momenti distinti ma strettamente uniti: creare un mito totalitario e farne il substrato dell’unità nazionale, dichiarando antinazionali e stranieri tutti coloro che rifiutano di accettare questo mito e che non sono d’accordo con la politica ufficiale, in modo da isolare le forze progressive; in secondo luogo lottare contro queste ultime per indebolirle progressivamente ed escluderle dalla partecipazione reale alla vita del paese.

    La tecnica del mito è ormai conosciuta: tuttavia il suo contenuto varia a seconda delle circostanze. Il mito della razza pura e del dominio mondiale sugli altri popoli (hitlerismo), il mito dei destini imperiali di Roma (fascismo) furono caratterizzati da un contenuto attivo, cioè di aggressione; MA IN UN PAESE LA CUI POLITICA UFFICIALE È QUELLA DELL’ASSERVIMENTO ALLO STRANIERO, COME L’ITALIA DI OGGI, sarebbe difficile poggiare su un mito di conquista imperiale; alla fase attuale appaiono quindi più confacenti dei miti negativi di difesa contro un immaginario pericolo e perciò di solidarietà di tutti i popoli (cosmopolitismo) , i quali miti presentano anche il vantaggio di offrire alle masse un capro espiatorio, indicato dalla classe dominante come responsabile di tutti i mali di cui le masse soffrono in realtà per le contraddizioni della società, cioè proprio per l’oppressione della classe dominante stessa: ... l’antisemitismo, la difesa della civiltà occidentale … appartengono a questo genere di miti a contenuto negativo. Il mito di conquista è riservato invece al popolo eletto, agli americani (mito del “secolo americano”, del “modo di vita americano”). Parallelamente chiunque non accetti di porsi sul terreno di queste false solidarietà nazionali, chiunque tenga fede a sé stesso, viene dichiarato nemico della comunità nazionale, posto al bando della società (“antinazionale” dei fascisti, “separatista” dei gollisti, unamerican della odierna propaganda ufficiale americana, “quinta colonna” secondo l’espressione di De Gasperi) …

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  10. L’ATTIVITÀ PARLAMENTARE È RIDOTTA A UNA MERA LUSTRA, in quanto non è più la maggioranza parlamentare che esprime il governo e gli traccia l’indirizzo politico, ma è il governo, o, meglio ancora, il ristretto gruppo dirigente del partito di governo, che si crea la sua maggioranza attraverso i metodi elettorali ben conosciuti e le prescrive la condotta sotto vincolo di disciplina. … gli elementi democratici vengono per quanto è possibile allontanati o messi in disparte. il gruppo dominante si riduce così a pochi esponenti politici, AI MAGNATI DEL CAPITALE FINANZIARIO, ad alcuni alti papaveri della burocrazia, e, naturalmente, ai rappresentanti dell’America e del Vaticano.

    NON VI È DUNQUE NULLA DI MUTATO NELLA SOSTANZA. Ancora una volta l’Italia si trova di fronte ai suoi problemi insoluti: … una classe dirigente incapace di iniziativa e decisa a vivere sempre più parassitariamente a carico della collettività, la crisi dei ceti medi più che mai pauperizzati e frantumati e anelanti soprattutto a un regime di stabilità e sicurezza, milioni di disoccupati e di sotto-occupati… E ancora una volta la classe dominante tende a ripercorrere la stessa falsa strada del passato, che consiste nell’evitare la soluzione facendo tacere i contrasti e così ignorando o addomesticando i problemi. Siamo convinti che la classe dominante in Italia non può più governare democraticamente il nostro paese, e che essa ha un’incoercibile tendenza a ristabilire in pieno il dominio totalitario, mutando naturalmente le forme e i nomi, e in parte anche i metodi, del suo governo, ed adattandoli al clima di questo secondo dopoguerra” [L. BASSO, Due totalitarismi: fascismo e Democrazia Cristiana, Milano, 1951, 280-291].

    http://orizzonte48.blogspot.com/2017/06/il-quarto-partito-diventa-il-quinto-e.html?showComment=1496931330097#c8654613044420501233

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  11. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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  12. @Quarantotto (commento delle 16:37. Scusate ma per qualche motivo che non so non riesco ad incolonnare i commenti): la mia non era una critica, ovviamente, ma la condivisione di una riflessione. :-)

    Ancora un paio di spunti: ricordo la concretizzazione delle suggestive, ma assai ambigue, formule schmittiane nell’appoggio all’austerità di Bruening: http://orizzonte48.blogspot.com/2016/10/lagonia-della-globalizzazione.html?showComment=1476871606015#c6406710237182708226

    Altro esempio, molto significativo, contenuto in un articolo di Heller intitolato “liberalismo autoritario”, presente nella raccolta citata. Siamo nel ’32, al gabinetto von Papen:

    Attualmente, anche Carl Schmitt, che finora aveva occultato le sue idee sullo Stato ‘autoritario’ dietro negazioni geniali, considera giunto il momento di esprimersi in modo un po’ più chiaro. Uoccasione giusta gli è stata offerta dal 60° Congresso dei soci del Circolo di Langnam [associazione degli industriali renani] novembre 1932, durante il quale egli si soffermava, dinanzi a 1500 rappresentanti dell’industria pesante, sul tema “Stato e economia”. I risultati ai quali egli giunge giustificano assolutamente l’autorevole parere della «Deutsche Bergwerkszeitung» del 24 novembre, secondo la quale il Circolo di Langnam avrebbe fatto, scegliendo questo oratore, “una scelta particolarmente felice”. Nel suo discorso ufficiale egli ha infatti avanzato l’esigenza “che lo Stato abbandoni tutte gli interstizi che tiene occupati nella vita economica e si renda partecipe economicamente solo nella forma di uno ‘Stato-scaffale’, chiaramente delimitato e nettamente caratterizzato verso l’esterno”.
    Entusiasmarsi per la ‘destatalizzazione dell’economia’, per la ‘pura’ distinzione di una sfera economica libera dallo Stato, non dev’essere stato poi così semplice per il teorico dello Stato autoritario totale. Ma sono grandi le risorse della sua straordinaria arte di inventare parole. Finora si era appreso da Carl Schmitt che lo Stato odierno era uno Stato debole in quanto ‘pluralistico’, nel quale specialmente i gruppi di interesse economico lottano per il potere. Lo Stato totale — dunque lo Stato forte — è apparso all’orizzonte come soluzione genialmente elusiva. Il Congresso del Circolo di Langnam ci ha regalato invece grazie a Carl Schmitt una più chiara interpretazione dello Stato totale.
    ” (pagg. 184-5)

    Presumibilmente questo non comporta l’astensione dello Stato dalla politica di sovvenzioni a favore delle grandi banche, dei grandi industriali e dei latifondisti, ma lo smantellamento autoritario della politica sociale. Attraverso le parole del suo apologeta Schotte, il governo autoritario del Signor von Papen ci insegna che la Cassa Mutua danneggia la salute del popolo e che la disoccupazione non è un destino del lavoratore: “lo dimostra il sovrabbondare del lavoro nero”. L’assicurazione contro la disoccupazione sarebbe dunque priva di senso: “il singolo deve per lo più aiutarsi da solo!”” (pagg. 185-6).

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    1. La "straordinaria arte di inventare parole" e di usare categorie apparentemente rigorosamente logiche (a modo suo, se non conosiuto in tutto il suo sviluppo, cioè "visto da vicino", era un personaggio affascinante; molto superiore ai suoi epigoni odierni, ordoliberali dell'euro panegermanico, più che paneuropeo). Si ritorna, in fondo, alla cara vecchia spiegazione di Polanyi, che hai immesso nel post dell'antifascismo su Marte :-)

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  13. Pag. 187: “Con questi esempi dovrebbe essere sufficientemente caratterizzato il contenuto approssimativo del liberalismo autoritario: ritiro dello Stato ‘autoritario’ dalla politica sociale, destatalizzazione dell’economia e statalizzazione dittatoriale delle funzioni politico-spirituali. Questo Stato deve essere ‘autoritario’ e forte perché, secondo l’assicurazione del tutto degna di fede di Schmitt, solo esso è in grado di sciogliere gli ‘eccessivi’ legami tra Stato ed economia.
    Certamente! Perché nelle forme democratiche il popolo tedesco non sopporterebbe a lungo questo Stato neoliberale.


    A me pare abbastanza esplicito. :-) (D’altra parte, quando interpreti il conflitto sociale come sintomo non di una patologia istituzionale da superare ma di una naturale condizione antropologica da disciplinare…).

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  14. @Arturo

    Non si tratta di utilizzare Schmitt “ai fini di un pensiero volto al progresso sociale”, bensì di coglierne (tentando di mettere da parte la sempre l’onnipresente pregiudiziale “nazista” che si accompagna al nostro e che lo vede fluttuare, non proprio a torto, ancora come una sorta di “fantasma”) gli originali spunti che lo stesso ha a mio avviso introdotto a livello teorico nel diritto pubblico, spunti valorizzati – come ben sai - non solo in Italia.

    Partirei, però, da quella che tu hai definito “idea…aberrante, che l’elemento essenziale della politica sarebbe la distinzione amico-nemico” (e dal che discenderebbero conseguenze quali l’insocievolezza umana ed il nichilismo apolitico) per sottolineare in primo luogo che Schmitt tenta di individuare una definizione non della “politica”, ma del politico, termine inteso in senso intersoggettivo tra popoli, cioè comunque soggetti collettivi nelle loro relazioni in tensione vitale. Trattasi di una dimensione pubblica che si esprime (e lo sottolinea) in un concetto limite (come concetto limite è quello di “eccezione”) e che lui definisce “l’estremo grado di intensità di un’unione o di una separazione, di un’associazione o di una dissociazione”.

    Tuttavia, l’associazione è comunque presupposta. In tal senso, è molto più problematica di quanto possa sembrare la relazione tra Schmitt con Hobbes, proprio a livello antropologico. Direi addirittura che Schmitt si colloca su un terreno opposto a quello in cui operava Hobbes. Questo, infatti, aveva ragionato in termini individualistici, ponendo a base dei propri ragionamenti le azioni dei singoli. Per Schmitt – come lo Stesso Strauss ammette – “i soggetti dello stato di natura non sono i singoli ma le collettività”. C’è uno slittamento dall’individuale al collettivo di una certa importanza a livello teorico, poiché per Schmitt la logica hobbesiana che fonda la politica come artificio capace di difendere dall’insicurezza dello stato naturale non poteva che risultare sfidata nei suoi presupposti antropologici. Per Hobbes il singolo individuo opera con criteri utilitaristici (di fatto, il godimento proprietario) nella costante paura della morte violenta, paura che lo induce al patto di obbedienza del sovrano. E’ insita una antropologia individualista ed utilitarista.

    Schmitt, invece, non poteva accogliere questo tipo di visione antropologica (quella secondo cui la funzione distintiva della “politica” sarebbe la semplice difesa dalle minacce reali o potenziali dall’esterno) perché, se l’avesse fatto, si sarebbe rivelato solo un altro recettore del pessimismo antropologico che va, in modo eterogeneo, da Tucidide a Macchiavelli. Insomma, Schmitt avrebbe dovuto recepire semplicemente la logica dello scambio sicurezza contro obbedienza, minando tutta la sua fondazione teorica. E non mi pare che sia così. Il fatto, è vero, che per Schmitt l’uomo sia “pericoloso” (ma in ciò, a ben vedere, non si nasconde anche l’idea hegeliana del conflitto come condizione del riconoscimento e, quindi, la visione della dialettica servo padrone?) non toglie che il soggetto della politica per il nostro sia un soggetto collettivo. L’antropologia di Schmitt non è quella individualista e utilitarista di Hobbes, così come il Leviatano non è lo Stato schmittiano della sua evoluzione istituzionalista (in primis, in Dottrina della costituzione). Ed ancora, “l’unità politica”, che presuppone “l’omogeneità sociale” (già in Schmitt, prima che in Heller e in Mortati) è un importante quid pluris rispetto al mero patto sociale di Hobbes che, nel Leviatano, vede la coazione all’ordine di individui isolati che cercano protezione. (segue)

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  15. Il nodo in cui si mostra l’impossibilità per il pensiero liberale di comprendere il “politico” consiste proprio nell’ottica individualista, per cui è inconcepibile – per esempio - l’eventualità che la comunità politica possa richiedere al singolo membro il sacrificio della vita (sacrificio che si può richiedere solo se c’è “unità politica”, concetto inconcepibile per l’individualismo liberale. Non è il caso di riportare, per questioni di spazio, gli ampi passi in cui S. si sofferma su questo).

    Per tornare al politico, il nostro si muove quindi – volendo utilizzare una terminologia heideggeriana – ad un livello ontico, e non ontologico. In una lettera indirizzata a Julien Freund del 1964, infatti, Schmitt afferma “… il mio Concetto di politico evita ogni tipo di fondazione generale; esso è puramente fenomenologico (vale a dire descrittivo)…” [in P. TOMMISSENN, Schmittiana, II, 2003 58]. Schmitt pare rinunciare a definire la sostanza del “politico” e si limita ad identificarlo con un riferimento: per lui emerge il politico nel momento in cui si verifica la distinzione amico/nemico, cioè al raggiungimento dell’estremo grado di intensità di un’unione o di una separazione. Estremo grado di intensità significa conflitto, per la vita e per la morte (altrimenti, nella quiete della normalità e della sovranità esercitata hegelianamente come mediazione, non avrebbero nemmeno senso i “concetti-limite”).

    Quanto detto nega la natura socievole dell’uomo in Schmitt? Pur con tutta la complessità ed ambiguità del nostro, non mi pare che si possa affermare ciò. Viene messo solo in massimo risalto che nel “politico” è insito il conflitto, reale, destinale, al di là della natura socievole dell’uomo. Quel conflitto inevitabile, d’altronde, insito anche nella visione marxiana: “…Non si dica che il movimento sociale esclude il movimento politico. Non vi è mai movimento politico che non sia sociale nello stesso tempo. Solo in un ordine di cose in cui non vi saranno più classi né antagonismo di classi le evoluzioni sociali cesseranno d'essere rivoluzioni politiche. Sino allora, alla vigilia di ciascuna trasformazione generale della società, l'ultima parola della scienza sociale sarà sempre:"Il combattimento o la morte; la lotta sanguinosa o il nulla. Così, INESORABILMENTE, è posto il problema " [K. MARX, Miseria della filosofia]. Un giorno ci sarà il socialismo; ma fino ad allora sarà lotta di classe, e sarà inesorabilmente inemicizia (come ben sapeva anche il Lenin di Che fare? espressamente richiamato peraltro da Schmitt in Teoria del partigiano), a maggior ragione laddove (il caso estremo) è da decidere se sopravvivere o morire (anche in senso ordinamentale) ed in chi identificare il sovrano. Al di là della socievolezza o meno dell’uomo, della sua bontà o malvagità. E nella decisione fondamentale, estrema, se vivere o morire, dovrà inevitabilmente scegliersi: amico o nemico. (segue)

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  16. Detto ciò, quanto agli indiscutibi ed originali contributi teorici di Schmitt nel diritto pubblico, mi limito a dire Heller per primo ha utilizzato Schmitt in modo essenziale ed appassionato per prendere le distanze dal normativismo kelseniano, che elimina la volontà dal mondo del diritto e con essa la sovranità (non gli interessa cosa vi sia dietro la Grundnorm). Senza Schmitt la critica di Heller a Kelsen avrebbe perso mordente: “… L’unico tentativo peraltro molto importante di fondare l’idea di sovranità introducendo un soggetto dotato di volontà è stato intrapreso da Carl Schmitt... Da questo punto di vista le critiche di Schmitt hanno un carattere definitivo e per molti versi hanno guidato il mio lavoro” [H. HELLER, La sovranità ed altri scritti sulla dottrina del diritto e dello Stato, Milano, 1987, 129-130]. Come mai queste parole? Perché parte da Schmitt la critica più radicale all’isolamento della dimensione normativa del diritto; è l’impianto fondato sul potere costituente della volontà sovrana di Schmitt sul quale Heller elabora riflessioni importanti, anche se poi se lo lascia alle spalle.

    Non riporto altresì ciò che pensa in positivo Böckenförde di Schmitt.
    In Italia è invece Mortati a far emergere dai testi di Schmitt la “sintesi di politica e diritto”, nella forma di un pensiero di “ordine” ed istituzionale, riprendendo dallo stesso il decisionismo nel puro momento costituente dello Stato, anche se poi Mortati sottolinea la preminenza del rapporto autorità/subordinazione su quello amico/nemico. Mortati, già ne “La Costituzione in senso materiale”, accoglie la fondamentale tesi schmittiana che “…la considerazione del sistema normativo non possa isolarsi da quella della società a esso sottostante… [C. MORTATI, La Costituzione in senso materiale, Milano, Giuffrè, 1940, 514], con le numerose citazioni del nostro. Ma lo stesso avviene ne “La Costituente” del 1945, a testimonianza di un preciso e costante debito concettuale verso lo Schmitt.

    …L’altissimo magistero scientifico dell’opera schmittiana provengono dall’eguale possesso da parte dell’autore di straordinaria capacità di sistemazione e costruzione giuridica e di geniali doti di indagatore dei fatti della politicità e delle leggi che li regolano. E’ questa cospirazione di doti, tanto rara a verificarsi, che, come lo ha condotto ad accogliere la concezione istituzionale del diritto, così gli ha consentito di trarre dagli scolgimenti da essa dedotti risultati tra i più fecondi…” [C. MORTATI, Brevi note sul rapporto fra Costituzione e politica nel pensiero di Carl Schmitt, Quaderni Fiorentini, Milano, 1973, 511].

    Ora, Schmitt non sarà utilizzabile per un pensiero di progresso sociale, ma deve comunque riconoscersi allo stesso la potenza nell’elaborazione di concetti di teoria generale del diritto pubblico che personalmente non mi sento – e, come spero si sia capito, senza alcuna acritica fascinazione – di cestinare de plano.

    Piuttosto, caro Arturo, io non riesco proprio a leggere Zagrebelsky e, così come lui, altri emeriti esponenti (neo-kantiani) del “neocostituzionalismo” i quali, trincerandosi dietro “l’età dei diritti”, del “diritto mite” e dei mitici “diritti umani” (e non fondamentali), nonché riponendo fiducia in un eccesso di giurisdizione, si sono catapultati in un “costituzionalismo irenico” fatto ormai solo di “dialogo” tra Corti. Finendo, perciò, per occultare (quasi con un esorcismo) ciò che sta intrinsecamente connesso al diritto, cioè proprio la politica (a prescindere dalla contrapposizione amico/nemico). Si è occultata la politica con i rischi che inevitabilmente (e chi lo nega?) sono ad essi connessi, sino a ricadere in quella che proprio Schmitt definiva “l’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni” al cui culmine non c’è nemmeno per idea la pace perpetua, ma c’è la Tecnica.

    Si può giustificare tutto ciò – unitamente alla cancellazione del potere costituente - solo con lo spauracchio del “fantasma” di Schmitt? Vorrei tanto poterlo credere

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    1. Applausi: specialmente per il finale (sul costituzionalismo irenico del dialogo tra corti: illeggibilissimo per la sua violenta ipocrisia: autodifende la propria ascesa nell'€mpireo dell'establishment tramite la carriera "conforme" nelle Alte Corti). Grande :-)

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  17. Costituzionalismo irenico” è un’espressione mutuata dal M. Luciani che la utilizza in un suo scritto “Costituzionalismo irenico e costituzionalismo polemico”, edito in Giurisprudenza costituzionale, 2006.

    Il risultato non cambia. Ipocrisia è il termine esatto. Tutti tutelano diritti, brulicano le Carte dei diritti, soprattutto le Corti si rimpallano le questioni e “dialogano” amabilmente, ma la gente muore di fame. C’è qualcosa che oggettivamente non torna. Ciò che non torna è l’eliminazione dal diritto di ciò che sta alla base dello stesso, quel pre-giuridico che Mortati (e prima ancora Heller e Schmitt, in una ferocissima battaglia contro il positivismo kelsesiano, che oggi pare aver vinto) spiega far pienamente parte, invece, del giuridico (principalmente, ed in modo evidente, nel momento “costituente”, ma non solo, e che non può mancare allorché il frutto del potere costituente si debba anche conservare).

    I diritti o sono fondamentali o non possono essere “umani” (aggettivo odioso), dal momento che, in caso contrario, si assiste ad un irrigidimento degli stessi in un topos universale dove nulla può accadere, soprattutto in termini di tutela, la quale è possibile solo in uno Stato dotato di unità politica nel senso spiegato, non in una civitas maxima. I diritti fondamentalissimi si tutelano politicamente, ed in prima battuta, con decisioni politiche necessitate. La giurisdizione dovrebbe essere l'eccezione.

    Se si elimina la politica, si discute del nulla. Questo è il vero nichilismo mascherato da petaloso diritto costituzionale e che ormai trovo francamente insopportabile.

    Preferisco sbagliare con Schmitt che assistere al dialogo penoso fra Corti

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  18. @Francesco: la tua stimolante risposta ne meriterebbe una all’altezza. Sia per motivi di spazio (per esempio non affronterò la differenza fra linee scientifiche e politiche nel dibattito weimariano, sennò deborderei oltre il concepibile;-)) che miei non so se sarà possibile ma ci provo.

    (Naturalmente mi prendo un pochino di spazio pensando che l’argomento diverta e, perché no, appassioni anche un po’…:-)).

    La prima, più ovvia, obiezione è che sembri suggerire che l’alternativa sarebbe fra Schmitt o il costituzionalismo irenico. Tertium, per fortuna, datur. :-)

    Ovvero, l’ipocrisia e l’incoerenza di Zagrebelsky (spero di non dover fugare il sospetto di condividerla :-)) non alterano, mi pare, la pertinenza della sua obiezione (che peraltro, come ho detto, sua non è: torno su Sternberger alla fine). Che senso mai potrà avere tirare in ballo Aristotele, un autore che considerava la moneta una convenzione sociale e patologica la crematistica volta non a soddisfare bisogni, ma ad accumulare profitti, il prestito a interesse in primis, per giustificare un costituzionalismo basato su forte competizione e stabilità dei prezzi anziché “amicizia”? Nessuna, evidentemente. Il problema di chi si richiama ad Aristotele è prenderlo seriamente, ma trovo difficile negare che una qualsiasi proposta democratica-neocomunitaria possa fare a meno dello Stagirita, almeno in occidente, quale referente privilegiato (insieme ad altri, chiaro). Fantacci nel suo libro sulla moneta illustra con abbondanza di argomenti il coté fortenemente aristotelico di Polanyi e dà una lettura neoaristotelica di Keynes che ho trovato molto lineare e convincente.

    Quanto a Marx (del debito di Hegel verso Aristotele, proprio in relazione alla critica a Kant, neanche sto a parlare), la presenza di Aristotele, e più in generale del mondo antico, è fondamentale. Di là dai riferimenti testuali, innanzitutto nel Capitale, in particolare nell’elaborazione della teoria del valore, ci sono diversi importanti studi che lo confermano. Mi limito a citarne tre, tutti molto interessanti: https://www.editions-harmattan.fr/index.asp?navig=catalogue&obj=livre&no=408&razSqlClone=1 ; https://www.bookdepository.com/Marx-Ancients-George-E-McCarthy/9780847676415 ; https://www.e-elgar.com/shop/aristotle-adam-smith-and-karl-marx (quest’ultimo è particolarmente gustoso per il confronto con Smith). Non ho menzionato Preve, anche se dovrebbe figurare in realtà in cima alla lista visto che per lui “tutta l’antropologia filosofica di Marx, e cioè la sua concezione della natura umana in società, [...] coincide pressoché al cento per cento con la teoria di Aristotele sull’uomo come essere per natura politico, sociale e comunitario (politikòn zoon) e come essere dotato di ragione, linguaggio e capacità di calcolo scientifico (zoon logon echon). Questo fa di Marx una sorta di aristotelico moderno, se pensiamo che invece tutto il pensiero politico detto ‘moderno’ […] nasce con Thomas Hobbes con una radicale e provocatoria inversione di prospettiva (rispetto all’antropologia aristotelica, N.d.A.)” (qui la fonte: https://www.filosofico.net/preve.htm ).

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  19. Si può invece dire che il riferimento all'ontologia comunitaria antica è del tutto estraneo a Schmitt. Per non frammentare e allungare troppo l’esposizione con ricorso ai testi originali userò la sintesi di Galli (Genealogia della politica, Il Mulino, Bologna, 1996, pag. 745): “Anzi, il “politico” è – di conseguenza - anche il punto (meglio, la struttura “puntiforme” dell”esperienza e dell”agire) che sfonda con la propria singolarità (con la sconnessione originaria di Idea e empiria di cui è espressione) non solo il continuum dell”agire - così che nessuna mediazione o dialogo può essere costitutivo della politica - ma anche quello del sapere: la scienza politica è costretta a ospitare nei propri concetti il “politico”, che non è un oggetto; il principale concetto della scienza politica, il concetto del “politico”, è insomma un concetto privo di oggetto che non “afferra” alcun universale (sta qui la vera radice del carattere “estetico” - ovvero contingente - del pensiero schmittiano). Una scienza adeguata al “politico” è allora, per Schmitt, quella che accetta come inevitabile la propria mancanza di oggettività, la propria politicizzazione (in polemica esplicita contro l”ideale della avalutatività e, implicitamente, anche contro ogni ritorno, attraverso la “filosofia pratica', di ogni “misura ” della politica).

    Per il richiamo a Hobbes: “Al di là del rapporto complessivo fra questi e Schmitt, che si vedrà, qui si deve sottolineare che Schmitt ipotizza una condizione epocale di possibilità e di predisposizione al conflitto che si presenta in continuità logica e strutturale con la descrizione hobbesiana della guerra nello stato di natura come combattimento non necessariamente in atto ma tuttavia sempre possibile; che cioè la schmittiana “normalità” epocale dell”eccezione - il “politico” - corrisponde alla hobbesiana naturale “dissociazione” fra gli uomini.” (Ivi, pag. 772).

    Mutatis mutandis, l’idea che l’estremo grado di unione derivi dalla comune minaccia per la vita non fa che riproporre, con ammirazione anziché preoccupazione, come dice Strauss, l’idea di fondo individualistico-utilitarista che sovrappone koinonia, la comunità, ad alleanza strumentale, distinzione che ad Aristotele era chiarissima. L’unione possibile deriva in primis da un comune radicamento storico, un certo grado di simpatia, o almeno di sopportazione ;-), reciproca, e poi dalla qualità della fiducia e riconoscimento reciproci (torno alla fine su questo punto), fino alla condivisione di un comune “metron” di giustizia, non dalla possibilità nuda e cruda di ritrovarsi esposti alla morte. Qui mi pare non avesse torto Adorno (Il gergo dell’autenticità, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, pag. 96) a rinvenire nel pensiero filosofico-politico una correlazione tra individualismo ed essere-per-la-morte: “Ogni volta che il pensiero cerca il suo fondamento nell'individualità assoluta e isolata, di fatto tra le mani non gli resta altro che la mortalità…”.

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  20. Questa lettura di un conflitto non mediabile razionalmente rende evidentemente Schmitt estraneo al marxismo e più in generale al pensiero dialettico e/o democratico. Ancora Galli (Lo sguardo di Giano, Il Mulino, Bologna, 2008, pag. 30): “Contro questa ideologia che è ignara dell’origine della politica e che non ha mai avuto - tranne che nel breve periodo tra il 1830 e il 1848, in Francia - alcuna vigenza effettuale, e contro il pensiero dialettico, diversamente ma ancora più tenacemente prigioniero (tanto nella sua variante hegeliana quanto in quella marxiana) della fede nella potenza del logos, Schmitt nota che nel XX secolo la politica non può più essere pienamente giuridificata e racchiusa nello schema della rappresentanza istituzionalizzata, e che anzi trae la propria energia e novità dall’irrompere, nell’esangue recinto del Parlamento, della democrazia intesa come presenza e identità del popolo. Sottratto alla mediazione della rappresentanza e del logos, il popolo democratico è tuttavia l’oggetto di una serie di azioni di identificazione (in pratica, di costruzione dell’identità - che non è data - e dell’unità politica) che, dal giacobinismo al leninismo, non sono altro che gesti dittatoriali, di decisione e di esclusione del non identico, e anzi di annientamento, di chi è disomogeneo, del nemico interno.
    Queste forme di violenza implicite nella politica moderna aprono la via, nel Novecento, alla possibilità di una politica non fondata sulla ragione, in cui la mediazione del logos è sostituita dall’agire diretto, dalla potenza di un mito politico.


    Galli chiarisce anche il significato che il popolo, e la sua presunta “omogeneità”, hanno in Schmitt: non si tratta di una ricognizione sociologica, tanto meno di un compito programmatico affidato alla politica dalla Costituzione (com’è in Mortati), ma del mito imposto della modernità che lui intende usare per allontanare il popolo reale dal potere enfatizzandone la dimensione simbolica. Si tratta cioè “di giocare la legittimità della volontà del popolo contro la legalità delle istituzioni parlamentari. Ma poiché al popolo “presente”, anche qui invocato da Schmitt, è in realtà impossibile far valere immediatamente la propria volontà, si tratta di capire chi la interpreta, la interroga o la rappresenta; e risulta subito chiaro che il popolo è qui destinato a essere la fonte della legittimazione plebiscitaria del presidente del Reich.” (Genealogia cit., pag. 655).

    Questo consente anche di capire il senso della sua critica alla tecnica. Il timore schmittiano è quello che l’affidamento alla tecnica comporti la dimenticanza dell’origine, ossia, detto in parole povere, si perda l’efficacia simbolica che garantisce il verticalismo dell’autorità. Sono argomenti su cui avevo già dialogato con Bazaar qui: http://orizzonte48.blogspot.com/2017/03/corte-costituzionale-diritti_9.html?showComment=1489530722543#c8033956879679314104

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  21. Mi sembra insomma far torto a un pensiero che ha una sua coerenza, almeno teleologica, ritenere inconseguenti le posizioni giuridiche schmittiane durante la crisi di Weimar: “The assistance he gave Bruening’s government was the Gutachen (legal opinion) issued on July 28, 1930, justifying presidential authority in situations of financial and economic exception. Although the measures had not passed through any legislative process, they had validity—as decrees representing law. Despite the fact that Schmitt upheld the distinction, so important to him, between “measure” and “law,” it held true only in theory. In practical terms, the distinction could no longer be maintained—situationsgemäß, suiting the given situation. The presidential decrees (gesetzesvertretende Verordnungen) were now characterized as substituting for law. It was, of course, theoretically possible to annul the decrees by parliamentary majority. More important: the government could stay in office as a managing government, functioning through presidential decrees, a provision previously rejected by the Reichstag. Brüning was delighted by the Gutachten.” (D. Diner, Beyond the Conceivable, University California Press, Londra, 2000, pag. 19).

    E’ un fulmine a ciel sereno per un autore che nella Dottrina della costituzione (Giuffrè, Milano, 1984, pagg. 242 e 227) così interpretava la Costituzione di Weimar: “È da tenere a mente che in uno Stato borghese di diritto possono essere considerati come diritti fondamentali solo i diritti di libertà dell’uomo singolo, poiché solo essi possono corrispondere al fondamentale principio di divisione dello Stato borghese di diritto — sfera di libertà in linea di principio illimitata, potere di intervento dello Stato limitato in linea di principio —.” e riguardo al diritto al lavoro “Per la sua struttura logica e giuridica un simile diritto è in contrasto con i veri diritti fondamentali e di libertà, ed è perciò fuorviarne parlare qui indistintamente di «diritti fondamentali».”?

    Alla fine, fra chi racconta che bisogna tirare la cinghia e scordarsi la democrazia per salvare la pace fra i popoli, e chi raccontava che era per arginare la dissoluzione pluralistica dello Stato per opera degli “Heterogenen” da fare oggetto di “Ausscheidung oder Vernichtung” (eliminazione o distruzione) attraverso sfondamenti della legalità, vedo più somiglianze che differenze.

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  22. Ovvero se la politica non è un fenomeno naturale legato alla pericolosità umana ma dev’essere pensata storicamente in relazione alla *qualità* del reciproco riconoscimento (qui mi riferisco a Hegel, chiaramente), anche sul piano fenomenologico la distinzione schmittiana mi pare povera e insoddisfacente. Quella aristotelica, ripresa da Tommaso, fra dominio dispotico e governo politico, la trovo realmente illuminante: “Ma, ancora una volta, anche questo pensiero può divenirci chiaro se soltanto prendiamo in considerazione abbastanza da vicino la distinzione che qui viene introdotta: «dominium accipitur dupliciter», il dominio è un concetto duplice. Ciò che Tommaso espone con le mosse dello scompositore logico, o dell’analitico del linguaggio -— come si dice oggi — sono in verità due fenomeni primariamente differenti: da una parte il dominio su servi, dall’altra il governo su liberi. O, come egli formula in altro luogo (92,1), con alta pregnanza terminologica e semplicità: da una parte la subjectio servilis, l’assoggettamento servile, dall’altra la subjectio civilis, la sottomissione civile. E anche qui sentiamo di nuovo Aristotele, il quale ha detto che il cittadino deve sapere le due cose, governare e lasciarsi governare, ciò che include anche comandare e ubbidire.” (D. Sternberger, Immagini enigmatiche dell’uomo, Il Mulino, Bologna, 1991, pag. 168).

    Ovvero “l’autorità non ha immediatamente nulla da fare con l’obbedienza, ma con la conoscenza.” (G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano, 2000, pag. 579).

    Solo su questa base di fiducia e razionalità possiamo realmente far valere la consapevolezza, faticosamente conquistata, della verità, giustizia e legalità delle nostre posizioni “contro le falsificazioni e le ingiustizie del potere istituito” (http://orizzonte48.blogspot.com/2018/02/kalecky-e-la-vera-piena-occupazione.html?showComment=1518865954750#c5092912283725465592). Che ovviamente, se monta una diffusa percezione di pericolo, sarà sicuramente pronto a sfruttare il “plusvalore” che gli deriva dal controllo degli apparati pubblici per ulteriori sfondamenti di legalità e indicazione di bersagli da “ausscheiden”. In pratica mi pare lo faccia già e che noi non figuriamo neanche tanto in basso sulla lista…

    (Con ciò ovviamente non dico che Schmitt non sia un autore interessante, è chiaro: la critica dell'imperialismo anglosassone, per fare un esempio, è notevole).

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  23. @Arturo,

    La tua articolata "replica" è, come sempre, stimolante e per questo, a nomi di tutti quelli seguono il blog, non posso che ringraziarti :-)

    Spero un giorno di poter affrontare con te di persona una discussione sul tema. Altri autori, che sarebbe interessante citare, ovviamente la pensano in modo diverso, a sicura dimostrazione di quanto il personaggio di cui parliamo sia complesso, sempre sfuggente, decisamente ambiguo. Ma anche oggettivamente geniale. Faccio solo una osservazione: di Schmitt, a quanto mi risulta, non si parla più da un bel pò se non per attaccarlo con il "dagli al nazista!". Mi sembra poco per un ostracismo del genere. E ciò mi lascia molto perplesso.

    Non è questa, quindi, la sede per approfondire il pensiero di uno studioso come Schmitt intorno al quale si sono arrovellati per anni autori di indubbio spessore intellettuale, alcuni dei quali da te citati. Qui si possono solo dare spunti di riflessione per quanti abbiano voglia (noi per primi) di seguire autonomamente percorsi di ricerca che richiederebbero molto più tempo e che questa gabbia in cui ci hanno infilato, ahimè, costantemente ci sottrae.

    Sempre che ci lascino ancora scrivere su Orizzonte48 :-) Con i tempi che corrono, sai, non lo darei per scontato




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    1. Grazie a te, Francesco, per l’occasione e per le parole gentili, che ricambio, anche se temo che nei miei confronti non siano granché meritate perché, volendo infilare troppo materiale, certi passaggi logici sono rimasti parecchio abborracciati ;-).

      Se noti non ho mai usato l’accusa di nazismo verso Schmitt, anche perché penso, se riferita al suo pensiero e non alla sua persona, che sia doppiamente fuorviante (e da parte del mainstream ipocrita, come tutto l’odierno antifascismo marziano): primo perché il decisionismo non è nazista, infatti Schmitt ebbe non poche difficoltà per tentare di adattarlo al nuovo contesto politico, senza alla fine riuscirci. Secondo perché, essendo invece plausibilmente definibile come fascista, rappresenta l’altra faccia del liberalismo, l’epilogo dei vicoli ciechi e instabilità che porta con sé. Per esempio, penso che per interpretare l’attuale ruolo abnorme del Presidente della Repubblica e le invocazioni di “neutralità” del governo (ne abbiamo parlato), ma anche, a detta di Streeck, che ha usato proprio la critica di Heller che ho riportato sopra, per analizzare criticamente l’UE ( https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1111/eulj.12134 ), Schmitt sia molto utile. Meno, come dicevo, per un uso progressivo, come i vari tentativi intrapresi fino ad oggi, da Tronti alla Mouffe, mi pare tendano a confermare.

      Se te la cavi col tedesco (e/o con google translate ;-)), tempo permettendo, ti suggerisco questo relativamente breve ma puntuale paper di Ingo Elbe (un autore legato alla Neue Marx Lextuere): https://www.academia.edu/14959374/Der_Zweck_des_Politischen._Carl_Schmitts_faschistischer_Begriff_der_ernsthaften_Existenz

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    2. A proposito di Streeck (lo so che non ti sarà sfuggito, ma è per il pubblico...non pagante). Mi pare che tagli la testa al toro in termini di attualità:

      "In How Will Capitalism End?, the acclaimed analyst of contemporary politics and economics Wolfgang Streeck argues that the world is about to change. The marriage between democracy and capitalism, ill-suited partners brought together in the shadow of World War Two, is coming to an end. The regulatory institutions that once restrained the financial sector’s excesses have collapsed and, after the final victory of capitalism at the end of the Cold War, there is no political agency capable of rolling back the liberalization of the markets.

      Ours has become a world defined by declining growth, oligarchic rule, a shrinking public sphere, institutional corruption and international anarchy, and no cure to these ills is at hand."
      https://www.versobooks.com/books/2519-how-will-capitalism-end

      Chissà se "audiranno" Streeck un giorno e lo aggrediranno con qualche web-influencer :-)

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