mercoledì 6 agosto 2014

MACROREGIONI E "BEST PRACTICE" (irish-way) ALL'INTERNO DELL'AREA EURO: MA SIETE SICURI?

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Dell'argomento macroregioni abbiamo già trattato. Ed è un argomento complesso, come sempre quando si affrontano temi in cui sono coinvolti i "disegni" della costruzione europea.
Ed infatti, l'elemento che non bisogna mai dimenticare è che si tratta di un sistema ordoliberista, cioè portato a mascherare (per usare un eufemismo) la sua sostanza economica liberista e, quindi, restauratrice, sotto ideali etici di sovranazionalità, transnazionalità, pacificazione e quant'altro, insomma il famoso "internazionalismo dell'indistinto".
Quindi le incredibili disquisizioni giuridico-istituzionali che ammantano il tema "macroregioni", infarcite di formule misteriose e suggestive, non ci dicono nulla sulla realtà socio-economica che dovrebbero instaurare "veramente", cioè sulle conseguenze tangibili per le comunità sociali coinvolte.
Partendo da questa premessa, - e coscienti che illustrare il tema non è facile perchè, appunto, implica la decodificazione dello schermo ordoliberista-€uropeo, deliberatamente costruito su un linguaggio inattingibile dal senso comune-, proviamo a riassumere in proposizioni (passabilmente) semplificate la realtà del fenomeno.

Occorre però un'altra breve premessa: le macroregioni in salsa europea sono ovviamente una cosa diversa da quelle costruibili a livello nazionale, all'interno cioè di una ulteriore riforma costituzionale che dia spazio ad un ridisegno accorpativo delle circoscrizioni di più enti oggi esistenti, corrispondenti ad aree interne al territorio nazionale, ipotizzate come avvantaggiabili dalla gestione accorpata di queste "omogeneità": il richiamo è anzitutto, in questo caso, alle economie di scala rispetto ai "costi della politica", alla dimensione delle strutture burocratiche pubbliche compresenti sui territori interessati, alla stessa maggior controllabilità dei processi di spesa
Tutti vantaggi che (forse: darne la prova "a priori" è molto difficile) si possono verificare in una certa misura ma che, da un lato, se li si volesse seriamente quantificare, risulterebbero alquanto modesti e certamente non "risolutivi" nel modo in cui si tende a credere; dall'altro, non tengono conto della loro logica puramente riduttiva dell'intervento pubblico, visto come fonte di "spiazzamento" rispetto alla dislocazione di risorse nel settore privato e, quindi, come presupposto per una presunta riduzione della pressione fiscale che, in realtà, non viene mai precisata nelle sue conseguenze economiche e sociali sul livello delle prestazioni essenziali che caratterizzano la qualità di vita, il benessere anche minimo, delle comunità interessate (compresa la stessa gestione del territorio, dal punto di vista ambientale e idrogeologico, che esigerebbe, in realtà, una programmatica strutturazione di organismi pubblici capaci di intervenire direttamente e a ragion veduta sulla realtà urbanistica e produttiva, a pena, altrimenti, di scontare a livello di socializzazione delle perdite, le "esternalità" negative dell'attività economica, a fronte di transitori vantaggi di profitto privato, neppure più tanto certi di fronte alla congiuntura determinata dalla "uccisione" della domanda interna perseguita, con riflessi a qualunque livello territoriale, nell'ambito dell'area euro). 
In altri termini, anche ammesso e non concesso che sia ottenibile questa presunta maggior efficienza da economie di scala sulla organizzazione pubblica, la "questione fiscale", a livello macroregionale, non si risolverebbe in mutamento significativo del corrispondente quadro impositivo, perchè questo, - anche ridislocando le competenze verso enti macroregionali e, attraverso di essi, perseguendo presunti risparmi di scala e aumenti di efficienza-, permarrebbe pur sempre all'interno della moneta unica e della sua asimmetria istituzionale e programmatica, sicchè rimarrebbero invariati i nodi decisivi dei suoi riflessi fiscali (e, come conseguenza, squisitamente tributari): 
a) l'esigenza di una correzione degli squilibri di competitività interni all'area euro, perseguita essenzialmente sul mercato del lavoro mediante svalutazione reale interna, cosa che implica il permanere di politiche che presuppongono alti gradi di disoccupazione e precarizzazione del lavoro (la quale è una versione della prima particolarmente insidiosa, perchè meno avvertita e più deleteria, coi suoi effetti di lungo periodo di depauperamento della produttività sotto il profilo delle competenze e del livello degli investimenti mantenibili);
b) la stretta funzionalità delle politiche fiscali-tributarie all'esigenza di correzione in tal modo obbligata, essendo questa la conseguenza del "vincolismo" programmato nell'area-euro come unico strumento di correzione, in modo tale che pareggio di bilancio (o anche solo riduzione del deficit) e rispetto dei limiti di debito complessivo di qualunque area formalmente interessata, sono pur sempre subordinati al fiscal compact, che dell'euro è lo strumento unico di conservazione nel tempo (dato che ogni altra via, prima di tutto la creazione di un sistema di governo federale, -dotato di poteri di spesa esprimibili in consistenti trasferimenti verso le aree più deboli, cioè meno competititive e commercialmente indebitate-, si è dimostrato graniticamente impraticabile, ammesso che, storicamente, sia mai stato possibile mutare dei trattati che, non a caso, sono stati originariamente strutturati per impedire questo tipo di correzione "solidale").
In ogni modo, al momento attuale, la praticabilità di una nuova riforma costituzionale ampliativa delle dimensioni e delle competenze di super-enti regionali appare alquanto depotenziata, essendo più probabile un nuovo riaccentramento e l'introduzione della, pur ragionevole, "clausola generale di supremazia" dello Stato centrale.

Quanto detto in questa seconda premessa è peraltro, con evidenza, estensibile, ed a maggior ragione, anche alle macroregioni "€uropee": queste, infatti, necessariamente vivrebbero della stessa impostazione, data dagli stessi trattati e, anzi, accentuerebbero, in una maggior accelerazione, i processi di correzione dei differenziali di competitività per via di deflazione interna.

Tentiamo dunque di tradurre in una qualche serie di proposizioni intelleggibili e concretamente proiettate sul modello socio-economico effettivamente perseguito, l'insieme delle caratteristiche delle macroregioni UE-UEM, focalizzando sui concetti fondamentali riportati in questo post:

 1) la base programmatica del fenomeno è la Convenzione di Madrid del 21 maggio 1980: essa previde la "cooperazione transfrontaliera" che consiste in "ogni comune progetto che miri a rafforzare e a sviluppare i rapporti di vicinato tra collettività o autorità territoriali dipendenti da due o da più Parti contraenti (cioè da 2 o più Stati membri dell'UE ndr.), nonché la conclusione di accordi e intese utili a tal fine. La cooperazione transfrontaliera sarà esercitata nel quadro delle competenze delle collettività o autorità territoriali, quali sono definite dal diritto interno. L’ambito e la natura di queste competenze non sono determinati dalla presente Convenzione";
2) La formula attuale, che tenderebbe a superare il "quadro delle competenze" delle "autorità territoriali" delineato dal diritto interno, e quindi dalle stesse Costituzioni, segue questo schema:
"..sono emerse e si sono imposte una serie di problematiche rispetto alle quali un’azione nazionale o locale si sarebbe rilevata inadeguata, in quanto imponevano un intervento ad un livello più esteso, comprendente l’intera (macro)regione...
La fase di iniziativa vede come protagonisti i territori interessati. Questi, sulla base dell’esistenza di problematiche comuni, si impegnano e si accordano per affrontarle in maniera congiunta ed integrata. 

I territori regionali e locali hanno dunque un ruolo di promozione ed impulso, a cui segue una fase di attivazione degli Stati coinvolti, che lanciano ufficialmente l’obiettivo del riconoscimento da parte dell’UE della strategia macroregionale.
Se le istituzioni comunitarie danno il loro assenso, in quanto reputano necessaria o quantomeno utile la costruzione di una MacroRegione in quei territori, è possibile procedere, sempre a livello nazionale, all’elaborazione dei “Piani d’azione”. 

Il passo seguente e decisivo è l’elaborazione di una strategia complessiva, costruita intorno alle priorità da affrontare individuate nei piani di azione e al presumibile impatto che le azioni programmate produrranno.
La strategia viene elaborata dalla Commissione Europea, sulla base di parametri fissati dal Consiglio (al quale spetta anche l’approvazione), attraverso un intenso processo di consultazione con gli Stati membri e le parti interessate della Regione. Per quanto riguarda le modalità attuative, particolare attenzione suscita il dibattito nato con riferimento al modello di governance da adottare. Nel corso delle consultazioni sono emerse tre opzioni:
a) nessuna struttura supplementare (attuazione della strategia e del piano d’azione da parte degli Stati membri);
b) ricorso ad un’istituzione esistente (attuazione della strategia e del piano d’azione da parte di un organismo intergovernativo esistente);
c) approccio comunitario: Consiglio Affari generali(politica) e Commissione (coordinamento e monitoraggio).

3) la formula attualmente preferita è proprio quella de "l'approccio comunitario", che consentirebbe una più ampia libertà derogatoria dei limiti di competenza previsti dai rispettivi diritti interni: ciò significa che le regioni-aree limitrofe (o comunque omogenee e capaci di trovare una convergenza in fase di iniziativa) propongono agli Stati, che a loro volta sottopongono alle istituzioni europee, la creazione di questi organismi.
Questi prendono vita mediante un "trattato" atipico (in quanto non stipulato tra Stati, uniche figure dotate di soggettività nel diritto internazionale) che istituzionalizza una'atipica "associazione di diritto privato", no profit, che prenderebbe in gestione, tramite un organismo assembleare e un organo esecutivo, dei piani di azione, peraltro controllati dagli indirizzi e dalle modalità attuative fissate dalle istituzioni europee;
4) ciò investirebbe presumibilmente (le cose non sono mai dette in modo chiaro) le politiche sociali, del lavoro, delle infrastrutture e dello sviluppo economico dell'area interessata.
Limitarsi a forme attuative parziali e subordinate alla continua trattativa tra gli Stati nazionali interessati, infatti, significherebbe restringere a settori e iniziative scarsamente rilevanti - anche nello stesso settore delle infrastrutture- l'intervento di "governo" delle €uro-macroregioni, relegandole a strumenti del tutto secondari rispetto alle esigenze di "riforma" predicate dalle istituzioni €uropee.

Attenzione: l'ambito di competenze sopra individuato appare quindi quello logicamente naturale, perchè altrimenti non avrebbe molto senso creare una complessa sovrapposizione di competenze con altre interferenze di problemi di diritto internazionale (cioè tra Stati nazionali diversi), in situazioni già oggi caratterizzate da un'alta sovrapposizione di enti di varia natura (e che, appunto, devono oggi trovare sintesi nell'azione governativa degli Stati nazionali). 
In altri termini, le macroregioni trovano il loro senso, - come risulta evidente dalla procedura di proposta e approvazione, rigidamente controllata dalle istituzioni UE all'interno (sicuramente per quanto ci riguarda) della moneta unica-, nel divenire un sistema di attuazione accelerato del modello economico dell'euro
Esse, dunque, implicano l'accettazione rafforzata, e senza riserve, dei trattati proprio nella parte in cui essi prevedono l'asimmetria antisolidale che caratterizza la moneta unica stessa.
In questo quadro strategico (intrisencamente tecnocratico), che tende ulteriormente a forzare l'applicazione dei trattati, aggirando le resistenze di Stati nazionali e relativi parlamenti, le macroregioni servono essenzialmente a evitare di dover dare soluzione ai problemi di mutamento dell'assetto europeo. 
Ed infatti, oltrepassano a livello ideologico-culturale, fondato su una neo-etnia condivisa e "contro" le identità nazionali di provenienza, i problemi di asimmetria dell'eurozona. 
Insomma implicano un'accettazione idealistica, tanto labile quanto facile da suscitare, in nome della dissipazione delle nazionalità, identificate, senza alcuna coerenza con la realtà delle vicende dell'eurozona, con gli Stati "oppressori" e "tassatori". 
Esse possono quindi contare su un (ben noto) serbatoio propagandistico internazionalista e, al tempo stesso localista, tipico dell'attacco dispersivo delle sovranità democratiche portatrici del welfare.

Ottenuta l'adesione fideistica delle comunità interessate all'accordo autorizzato da Bruxelles (e già la contraddizione dovrebbe essere un campanello d'allarme), le macroregioni creano, a livello sub-statale (e simultaneamente internazionalizzato) una coesione competitiva, inevitabilmente diretta a prevalere, cioè ad affermare la propria supremazia economico-commerciale, sulle aree e regioni non incluse nel patto, in perfetta aderenza alla logica mercantilista e liberoscambista che inevitabilmente caratterizza lo scopo essenziale di rimodellamento sociale della moneta unica. 
Ma l'innesco della suddetta suggestione "ideale" non tiene conto degli effetti concreti che subiranno le relative comunità, proprio perchè il sistema, diretto e monitorato da Bruxelles, non può differire da quello attualmente vigente, di cui, invece, costituisce un'evoluzione accelerativa ulteriore.
La grande contropartita che viene offerta è essenzialmente psicologica, almeno per le masse "elettorali": la direzione delle operazioni è sì affidata a Bruxelles ma depotenziando radicalmente ogni voce in capitolo dello Stato nazionale. 
La prospettabilità di un tale vantaggio è vera quanto è vera la vulgata che gli Stati nazionali siano di ostacolo alla efficienza dei mercati e che il libero gioco di questi sia la panacea di tutti i mali. Che è poi un altro modo di considerare vera la spiegazione per cui il problema italiano sarebbero il debito pubblico, la casta, la corruzione e la spesa pubblica improduttiva.
Ciò presuppone che all'esistenza dello Stato, ed alla sua residua (molto poca) sovranità, sia attribuibile la responsabilità della crisi economica e delle difficoltà di sviluppo dell'area interessata, in un deliberato processo di rimozione della realtà dell'intera area euro, - basti dire che, tranne la Germania, solo i paesi UEM hanno persistenti difficoltà di crescita, ma non quelli dell'UE che non sono parte dell'area euro.

Quanto ciò sia ragionevole, lo lasciamo giudicare alla consapevolezza di chi legge: se non ci si informa sulle ragioni della persistente, ed apparentemente irrisolvibile, crisi dell'eurozona, se non si comprende come l'Italia sia poi l'oggetto della principale attenzione normalizzatrice da parte dell'Europa, la predetta "suggestione ideale" potrà funzionare contro lo stesso interesse oggettivo delle comunità interessate (chi non ha capito questo non è assolutamente in grado di compiere nessun processo di comprensione critica e di assumere alcuna decisione politico-strategica, ovvero persino di esprimere un voto politico, e qualsiasi spiegazione risulta del tutto inutile...come ben sappiamo).

L'assetto che si registrerebbe nelle macroregioni è facilmente prevedibile: spostando su questo governo privatizzato e localista (per quanto allargato) la responsabilità di determinare l'assetto del mercato del lavoro, ed in genere, il co-governo transnazionale della parte essenziale dell'economia, si imporrebbe la immediata (anzi, istantanea) attuazione della correzione dei CLUP e quindi dei livelli salariali "relativi" dell'area interessata, in ogni sua parte "componente"
In altri termini, le aree italiane (partecipanti alle varie macroregioni), ove poste a diretto contatto con altre aree "core", dovrebbero necessariamente devolvere alle istituzioni macroregionali, che provvederebbero in forma di accordi deliberativi che bypassano ogni competenza costituzionale e legislativa nazionale, il potere di imporre l'immediata correzione dei livelli salariali che risulti determinata dalla rilevazione delle "pratiche virtuose" della regione più competitiva coinvolta nell'accordo. 
L'aggiustamento quindi sarà in partenza asimmetrico, potendo NON esserlo solo in caso di precedente convergenza assoluta dell'andamento del CLUP e dell'indice di competitività dei rispettivi "ambiti regionali" interessati. 
L'urgenza irrinunciabile corrisponde ad una correzione che sarebbe altrimenti impossibile, nella stessa misura e tempistica, a livello dell'intera area euro, se non altro perchè gli Stati che la realizzassero integralmente nella misura "voluta" dall'€uropa rischierebbero il collasso (anche se Irlanda e Portogallo, per non parlare della Grecia, hanno attuato le correzioni in misura quasi integrale, non riuscendo certo a risolvere "l'enigma" delle crescita stabile ed effettiva: naturalmente non cercate di capirlo in base a quanto vi dicono i media italiani). O comunque la correzione gestita dagli Stati,  può agire solo in un periodo molto più prolungato (come sanno gli italiani, i greci, i portoghesi e gli spagnoli che emigrano in Germania attualmente).
La Confindustria, ancora nel 2014, parla di una correzione salariale, di recupero della competitività, nella misura del 20%: opportunamente, in questa direzione, la macroregione, col suo "piano di azione" teleguidato da Bruxelles, potrebbe realizzare "d'imperio", cioè in via normativa obbligatoria per le popolazioni interessate, sancita dal suo organismo associativo "privato", dei tagli netti delle retribuzioni nelle misure che, adattate alle specifiche realtà macroeconomiche interessate, le riportino appunto sul livello della "best practice" dell'area appartenente al paese più competitivo (cioè che ha svalutato maggiormente il proprio tasso di cambio reale) che si è associato nella stessa macroregione.
La domanda interna e le strutture industriali dell'area aderente, che si trovi a subire questa correzione, si troverebbero in una situazione "greca", o al più irlandese
Questo l'esito più certo e inevitabile delle macroregioni, ove attuate nei settori che darebbero senso - e non carattere di ulteriore sovrapposizione di entificazioni di governo più o meno locale- all'operazione.
Le implicazioni sarebbe molte: dalla insostenibilità di un sistema sociale integrato, plurinazionale, che si basi esclusivamente sulla esportazione-competitività, al costo fiscale che la inevitabile caduta della domanda interna imporrebbe in termini di minor base imponibile, in situazione di obbligatorio pareggio di bilancio e di invarianza delle precedenti risorse pubbliche (che comunque diminuirebbero), fino alla depatrimonializzazione delle attività aziendali e immobiliari, soggette, come tali, all'acquisizione "agevolata" dei famosi investitori esteri.
Naturalmente, come sta accadendo di fronte alla evidenza offerta dal complesso delle folli politiche €uropee, tutto quanto qui sinteticamente illustrato non verrà "creduto": si crederà alla immaginifica efficienza dei mercati ed al fatto che, "dentro l'euro noi ce la possiamo fare"...Andando festosamente all'autodistruzione. 
Ma tutto questo dopo aver distrutto in modo accelerato l'odiata sovranità dello Stato nazionale democratico fondato sulla tutela del lavoro: del suo modello costituzionale, non si potrà comprendere, mai più, per fine irreversibile, l'importanza nel determinare il benessere diffuso dei cittadini
Vuoi mettere la soddisfazione?

5 commenti:

  1. Mi vengono in mente macroregioni con doppia moneta. L'Italia ormai è circondata ma la Germania no. Una macroregione con la Polonia per esempio?

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    1. Già, e ai polacchi chi glielo fa fare? L'idea delle macroregioni transnazionali attecchisce solo in paesi come l'Italia, a livello ideologico e senza aver capito bene di cosa si tratta.
      A dire il vero non hanno capito di cosa si tratti neppure per le macroregioni "interne".

      E comunque, dovendo fare una cosa sbagliata, per di più pro-estero e a dispetto della solidarietà nazionale - che restituirebbe a tutti la dignità sociale ed economica-, vige la legge di Murphy

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    2. "Ai polacchi chi glielo fa fare?"
      Glielo chiede l'Europa... Già non fanno parte dell'€zona, che almeno contribuiscano creando distretti produttivi con ulteriore deflazione salariale.

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  2. ho letto questa frase di Olivetti che mi sembra calzante:
    "Olivetti vede l’optimum per una vita felice in una città tra i settantacinque e i centocinquantamila abitanti, e non manca di aggiungere: «La nostra Comunità dovrà essere concreta, visibile, tangibile, una Comunità né troppo grande, né troppo piccola, territorialmente definita, dotata di vasti poteri che dia a tutte le attività quell’indispensabile coordinamento, quell’efficienza, quel rispetto della personalità umana, della cultura e dell’arte che la civiltà dell’uomo ha realizzato nei suoi luoghi migliori"

    da Un re in esilio. L’eredità culturale di Adriano Olivetti

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    1. Ma infatti basta leggersi l'art.5 Cost. Il resto sono bizzarre invenzioni ordoliberiste strumentali e dissimulatrici. La marea nera di questa €uro-fogna ci sta sommergendo e non ricordiamo più ciò che non siamo, ciò che non vogliamo...

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