1. La domanda che dà titolo al post è consequenziale a quanto emerso dal corso dei precedenti post sulla questione riassumibile in "gli italiani sono di destra o di sinistra?" ebbene, la risposta emersa è necessariamente articolata:
a) sono culturalmente "di sinistra": in senso sostanziale, cioè economico-costituzionale, considerate obiettivamente le politiche che gradiscono sentirsi promettere, o che, quantomeno, NON vogliono sentirsi (com)promettere, per dare il loro voto.
In sostanza, le politiche "sociali" in Italia sono interiorizzate nella opinione pubblica in un profondo codice di aspettative fatte proprie dal senso comune, più che da "valori" coscienti (come vedremo al punto b). E questo caratterizza come "sociale" la politica cui si rivolge (in partenza) il popolo italiano, salvo il continuo aggiustamento elettorale da parte della "opinione pubblica" dominante (leggi: sistema di controllo culturale e mediatico che passa per pubblica istruzione, giornali, TV e, naturalmente, "accademia"), che converte l'aspirazione sociale in qualcosa di politicamente contraddittorio;
b) elettoralmente tendenti al moderato (cosa che, peraltro, non è una peculiarità solo italiana, ma propria di tutti i paesi avanzati del blocco "occidentale"): cioè coltivano il centro per ottenere comunque quanto di sostanzialmente "di sinistra" vorrebbero, ma in quantità che ritengono anzitutto accettabili per la propria categoria: cioè prediligono "ottenere" ma tramite una serie alternata di leggi di categoria (cioè un vasto mosaico, spesso contingente, di legislazione speciale di settore), che diluiscono e differenziano nel tempo l'effetto sociale ampliativo, rispetto a quello di sistema (costituzionale) esteso alla generalità;
c) infine, governativamente, quindi al netto dell'esito del processo elettorale, quando si giunge alla fase di determinazione dell'effettivo indirizzo politico, gli italiani finiscono per divenire "tendenti"- o, più esattamente, "disposti a subire"-, a destra: sempre in senso economico e considerata la sovranità limitata, di cui abbiamo subìto prima la condizionalità geo-politica seguente alla seconda guerra mondiale, e poi il "vincolo esterno"; non appena la geo-politica dei blocchi" (leggi l'assetto di Yalta), perde il suo carattere globale (per il decadimento della pressione esercitata dal paradigma imperiale sovietico).
2. La conferma di questo schema, storico-empirico (che, inutile dirlo) non aspira altro che a una sintesi fenomenologica, l'abbiamo avuta, ancora una volta, dal prezioso ritrovamento storico-politico di Arturo:
"Visto che s’è menzionato De
Gasperi, parto col suo celebre discorso del maggio ’47, quando annunciò
la crisi del governo di unità nazionale: il discorso del “quarto
partito” (in Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana, Torino,
Bollati Boringhieri, 1998, pag. 40):
“i voti non sono tutto (...). Non sono i nostri milioni di elettori che possono fornire allo Stato i miliardi e la potenza economica necessaria a dominare la situazione. Oltre ai nostri partiti, vi è in Italia un quarto partito, che può non avere molti elettori, ma che è capace di paralizzare e rendere vano ogni nostro sforzo, organizzando il sabotaggio del prestito e la fuga dei capitali, l'aumento dei prezzi e le campagne scandalistiche. L'esperienza mi ha convinto che non si governa oggi l'Italia senza attrarre nella nuova formazione di governo (...) i rappresentanti di questo quarto partito”
Prosegue Graziani (pag. 41):
“i voti non sono tutto (...). Non sono i nostri milioni di elettori che possono fornire allo Stato i miliardi e la potenza economica necessaria a dominare la situazione. Oltre ai nostri partiti, vi è in Italia un quarto partito, che può non avere molti elettori, ma che è capace di paralizzare e rendere vano ogni nostro sforzo, organizzando il sabotaggio del prestito e la fuga dei capitali, l'aumento dei prezzi e le campagne scandalistiche. L'esperienza mi ha convinto che non si governa oggi l'Italia senza attrarre nella nuova formazione di governo (...) i rappresentanti di questo quarto partito”
Prosegue Graziani (pag. 41):
“Tutti i ministeri economici vennero affidati a uomini di sicura
fede liberista. Einaudi lasciò il governo della Banca d'Italia a
Menichella e assunse la direzione del nuovo ministero del Bilancio: Del
Vecchio, autorevole studioso di eguali tendenze liberiste, assunse il
ministero del Tesoro; i ministeri delle Finanze e dell'Industria
andarono rispettivamente a Pela e a Merzagora, ambedue legati agli
ambienti della grande industria del Nord. A questo governo spettò di
prendere nei mesi immediatamente successivi i provvedimenti di maggiore
portata, e di realizzare la famosa svolta deflazionistica del 1947.”
3. Circa la natura di quel momento storico, un tempo dibattutissimo, oggi quasi dimenticato, abbiamo evidenziato che la nostra condizione storica di potenza "perdente" nella seconda guerra mondiale, rendeva immediatamente problematica la realizzazione del programma costituzionale; sebbene, con Basso e quanto affermato dai Costituenti in sede assembleare, preferirei parlare di "effettività" della Costituzione.
Prosegue la citazione di Arturo:
"Veniamo al ’63.
S’è accennato
alla stretta estiva della Banca d’Italia, ma qui voglio spostare lo
sguardo a qualche mese dopo: il primo governo di centro-sinistra con la
partecipazione socialista si costituisce nel dicembre del 1963 e dura
fino al giugno del '64.
Un mese prima delle dimissioni del governo, il
ministro del Tesoro Colombo invia una lettera-memorandum a Moro,
"filtrata" sui giornali (Messaggero, 27 maggio 1964).
Nel documento
"il
ministro presentava un quadro catastrofico della situazione economica
italiana, parlava di "pericolo mortale" dell'economia e della democrazia
italiana, chiedeva il blocco delle riforme sostenute dai socialisti
(Statuto dei lavoratori, istituzione delle regioni, legislazione
urbanistica) in quanto agenti di effetti negativi sulla competitività
dell'economia italiana e disincentivanti degli investimenti; esprimeva
in termini assolutamente netti l'alternativa:
"O attuare la
stabilizzazione col concorso dei sindacati o procedere energicamente
senza il concorso dei sindacati alle misure necessarie per arrestare
l'inflazione e difendere il potere d'acquisto della moneta". Occorreva
scegliere senza indugio, perché lo imponeva la situazione interna e lo
richiedevano i partners europei "che giudicano in maniera severissima la
situazione italiana"." (F. De Felice, La questione della nazione
repubblicana, Roma-Bari, Laterza, 1999, pag. 104)."
4. Questo secondo frangente storico merita un certo approfondimento.
Il "governativamente di destra" (cioè in controtendenza rispetto alla effettività costituzionale), è la cifra della "condizionalità" geopolitica di una paese che sorge da una sovranità limitata ma che non è riflessa nel testo costituzionale.
Questo fenomeno peculiare, che fa dell'Italia repubblicana un'anomalia, lo avevamo evidenziato qui, comparando il "processo Costituente" italiano con quello, ben differente, che caratterizzò le altre potenze perdenti, cioè Germania e Giappone.
"Non altrettanto potè dirsi della Costituzione giapponese, che fu praticamente scritta da due ufficiali incaricati da Mac Arthur, che bypassarono l'elaborazione dei "saggi costituzionalisti",
originariamente investiti del compito dal primo ministro pro-tempore
giapponese; a emendamento della stesura USA, i giapponesi riuscirono
solo a imporre l'introduzione di un sistema bicamerale (un
paradosso che oggi in Italia è ignorato, coll'inconsistente
iperconvinzione che il bicameralismo esista soltanto in Italia, cosa
smentita tra l'altro dalla agevole lettura sia della Costituzione
francese che di quella USA).
...Analogamente, la Costituzione tedesca rispose a vicende ben più vincolanti, dettate dalla influenza delle potenze vincitrici.
A guidarne la redazione, peraltro, fu l'ossessione di non ripetere la frammentazione partitica di Weimar assunta, in quel momento, come precondizione della degenerazione totalitaria nazista.
Questa idea risponde a una ricostruzione storica che, come ormai dovremmo sapere, non tiene conto affatto delle condizioni essenzialmente economiche, derivanti dalle "conseguenze della pace" imposta con la fine della prima guerra mondiale; furono queste "condizioni economiche" che resero vitale e preponderante il nazismo, (compresa, prima di tutto, la politica deflazionista intrapresa nella parte finale della Repubblica di Weimar).
L'enfasi sulla totale rimozione di tali cause dell'ascesa del nazismo è stata mantenuta fino ad oggi; e certamente rispondeva, in un connubio tra nuova classe dirigente tedesca e interessi delle potenze vincitrici, alla esclusiva esigenza di fissare un baluardo anticomunista e pro-capitalismo, inteso quest'ultimo come forma economica tout-court della democrazia.
Questo errore di prospettiva, forse giustificato dal contesto storico, ha avuto e ha tutt'ora pesanti ricadute sulla concezione della stessa democrazia all'interno della c.d. "costruzione europea"..."
5. Per tornare al 1963, dovremmo aggiungere che i suoi effetti politici furono (cioè la rapida crisi del primo governo di centro-sinistra) in parte transitori, ma non altrettanto la correzione che si impresse alle politiche economico-sociali: il centro-sinistra tornò a governare, negli anni seguenti, com'è ben noto, (e questo conferma la natura sociale, economicamente di sinistra, del "senso comune" italiano), ma a condizione che quel tanto di sinistra, in sde governativa, delimitasse la sua (geo-politicamente sgradita) aspirazione alla effettività della Costituzione.
Come prima indicazione di quel periodo, nel suo contesto di ambigua trasformazione politico-governativa, possiamo offrire questo dato sulla "quota salari".
http://www.noisaremotutto.org/2014/03/05/verso-il-polo-imperialista-europeo-2/
6. Come prima osservazione, vediamo che nel 1960, tale quota era andata ai suoi massimi storici e rappresentava un dato di punta nel blocco occidentale (che solo il Giappone, in un'area geografica ben più problematica per il paradigma USA, superava: un'evoluzione che, abbiamo visto in vari post, è stata poi radicalmente mutata).
Quale che sia la natura del parziale scongelamento costituzionale, più o meno avvenuto dopo l'autunno "caldo" del 1969 (mentre cioè la guerra del Viet-nam si rivelava un colossale boomerang militare e, ancor più, politico, per le forze "restauratrici" USA, che si erano affacciate proprio nel fatidico 1963), esso non evitò il deteriorarsi al 1970 della stessa quota salari e nemmeno lo impedì sulla soglia del 1980, nonostante i più significativi effetti applicativi iniziali dello Statuto dei lavoratori.
La caduta vistosa, ovviamente, si attesta sucessivamente, cioè in fase di instaurazione del "vincolo esterno", al 1990 (SME ristretto "fumante") e, ancor più, al 2000, quando non aveva certo operato in tale direzione il recupero della flessibilità del cambio (transitoria), ma piuttosto l'applicazione dei criteri di convergenza imposti da Maastricht: e quindi, in essenza, emergenza fiscale continua e un radicale mutamento di impostazione sul mercato del lavoro.
7. Su questo punto, mi riallaccio naturalmente a Alberto Bagnai che ha dovuto fare una serie di precisazioni essenziali:
Questo l'andamento dei salari reali posteriore all'introduzione dello Statuto dei lavoratori:
Come si può agevolmente dedurre, la conflittualità sul mercato del lavoro fu strenua, e portò a risultati alterni, ma prevalentemente positivi; ma solo fino al solito momento del vincolo esterno europeo, in forma di SME, potenziato decisivamente dal "divorzio" tesoro-bankitalia.
Sulle vicende che seguirono a quella fase di "shock" (sui primi anni '80) e che, però, portarono, in circa un decennio, a ritenere indispensabile una forma di "vincolo esterno" molto più stringente, - con la sostituzione traumatica della (intera) classe politica precedente che aveva gestito la prima fase senza riuscire a far coincidere calo dell'inflazione con abolizione della rigidità del mercato del lavoro-, si possono vedere i dettagli nel primo grafico tratto da Goofynomics.
Il relativo al tasso di disoccupazione crebbe ma in misura insufficiente alla instaurazione della desiderata deflazione salariale (che pure vi fu), cioè nella misura ritenuta necessaria e "competitiva", (in effetti tra il 1980 e il 1990 la quota salari cedette "troppo poco", come si vede dalla prima tabella inserita).
8. Questo andamento - cioè insufficientemente deflattivo e tale da essere considerato deficitario dal punto di vista politico, una volta che si era deciso di spostare la sovranità dalle istituzioni repubblicane a quelle "sovranazionali"-, trova conferma (molto ad occhio, ma proprio per questo ben visibile), nell'andamento (compromissorio) della spesa pubblica su PIL:
Si può notare che:
a) nella fase successiva alla seconda guerra mondiale la spesa pubblica (complessiva e non solo corrente), neppure recupera il livello dei tardi anni '30: anzi, in epoca immediatamente post-Costituzione approvata, e quindi per effetto della già citata "svolta" deflazionista del 1947, abbiamo un lieve calo rispetto a quegli stessi livelli, che si inizierà a recuperare solo alla fine degli anni '50.
Questo particolare andamento (in definitiva proprio delle "politiche sociali" previste in Costituzione e richieste dall'elettorato) non è trascurabile: nonostante l'arrivo (contrastato) del centro-sinistra, e proprio come riflesso della sterzata deflazionista del 1963, tra il 1960 e il 1970, la spesa pubblica non sale in modo vistoso.
Infatti, la disoccupazione, nello stesso periodo (v.sopra) si stabilizza in modo alquanto costante almeno fino all'impennata conseguente alla recessione determinata dalla prima crisi petrolifera degli anni '70;
b) una più sostenuta crescita della spesa pubblica si verifica negli anni '70 come conseguenza di una alterna fortuna del PIL (è pur sempre in rapporto al PIL stesso e quello che ancor oggi si trascura è che essa tende a salire percentualmente, e non necessariamente in termini reali, se il PIL ha dei cedimenti...nominali) e, essenzialmente, dell'attivazione delle Regioni.
L'effetto più sensibile sarà determinato dal cumulo dei decreti di ampliamento "delegato" delle funzioni regionali di cui al d.lgs n.616 del 1977 (che, come si disse, "ripoliticizzò" a livello locale ciò che, per in omaggio all'art.97 Cost, si era "spoliticizzato", nella gestione della pubblica amministrazione, a livello statale) e della riforma del SSN nazionale (1978-1980, normativamente), che irrigidì e ampliò la struttura politico-burocratica italiana senza apportare alcuna maggiore efficienza del servizio.
9. Si può stimare che l'effetto finanziario di tali riforme, - che portarono
alla condivisione da parte dei partiti più forti a "certi" livelli
locali, che tuttavia non erano e non erano stati veramente ammessi a
gestire il livello governativo centrale, delle politiche di spesa
pubblica e di gestione decentrata delle funzioni amministrative più
rilevanti-, si situa proprio nei primi anni '80 e seguenti, quando fu
compiuto il processo di decreti delegati di spostamento del personale (e
dei fondi finanziari) alle regioni e agli enti locali delegati: tali effetti operativi della riforma proto-federalista,(in senso dilatante il regionalismo inteso in Costituzione), possono meglio
spiegare questo andamento della spesa pubblica, pur in costanza del
"vincolo SME+ divorzio".
10. Il risultato, com'è noto, fu l'esplosione
della spesa pubblica per interessi: tutto sommato, anche in una visione
coerente con SME e divorzio, un effetto che si sarebbe potuto, in una
certa parte, risparmiare, se non si fosse deciso di associare, a livello
di autonomie locali, il versante "di sinistra" alla gestione, divenuta
decentrata, della spesa pubblica.
Un effetto che, poco più tardi, con Maastricht, verrà considerato una colpa intollerabile per chi aveva promosso questo strisciante "compromesso storico". Tra l'altro, è evidente che, nella situazione attuale, in Italia, quello che si sta compiendo è proprio la marcia a ritroso su questo versante dell'organizzazione pubblica. E, obiettivamente, da parte delle stesse forze che, al tempo, se ne avvantaggiarono (elettoralmente e/o politicamente, in senso ampio).
Un effetto che, poco più tardi, con Maastricht, verrà considerato una colpa intollerabile per chi aveva promosso questo strisciante "compromesso storico". Tra l'altro, è evidente che, nella situazione attuale, in Italia, quello che si sta compiendo è proprio la marcia a ritroso su questo versante dell'organizzazione pubblica. E, obiettivamente, da parte delle stesse forze che, al tempo, se ne avvantaggiarono (elettoralmente e/o politicamente, in senso ampio).
Notare: le "sinistre", in quel periodo di inizio anni '80 erano elettoralmente preponderanti, in termini "formali" partitici, ma, come già evidenziato, iniziarono a gareggiare per la fedeltà al tema "europeista", e per abbracciare dunque i principi ordoliberisti: si veda qui il punto 6 e la irresistibile fascinazione culturale della sinistra per la "terza via", cioè per l'economia sociale di mercato (acriticamente assunta a vessillo senza, tutt'ora, mostrare di conoscerne il senso economico effettivo).
11. A questo punto, la mia digressione sullo spunto di Arturo è andata fin troppo lontano.
Complessivamente, però, possiamo trarne una lezione concludente: la trasformazione in "destra" (economica) governativa di qualsiasi forza di sinistra, in ItalIa, è il dato essenziale della sovranità limitata, sia essa geo-politica sia essa nella forma aggiornata del "vincolo esterno".
Costituzione o non Costituzione: il che ce la dice lunga su quanto interesse politico ci possa essere, tra tutte e proprio tutte le forze politiche, per difenderne qualche forma di effettività o di suo pallido recupero (nella sostanza, perchè, nella forma, di "distrazioni" su alchimie istituzionali, ne abbiamo fin troppe).
E non abbiamo ancora visto nulla: perchè, per chi segue questo blog, dovrebbe essere chiaro che il "vincolo esterno", in forma di TTIP, porterà il rilancio sovranazionale del liberoscambismo, diametralmente opposto al modello costituzionale, a livelli oggi inimaginabili.
Anzi, il più intenso vincolo esterno che oggi si vuole imporre, vale per tutta le UE, e ci fa capire quanto autoritaria e frettolosamente strumentale sia la spinta politica con cui si vuole arrivare al TTIP: questo, per effetto del trattato UE, si estenderà in un colpo solo a tutti gli Stati-aderenti, plasmandoli senza lasciare praticamente discrezionalità effettive nel differenziare i vari ordinamenti interni.
Questi ordinamenti saranno costretti, dalla minaccia delle rapide liberalizzazioni di ogni settore sociale pubblico, ad una omogeneità "militarizzata" - veramente in tutti i sensi- della struttura di ciascuno di tali Stati.
In fondo, rendersi conto in tempo di questo aspetto incombente è quasi l'unica pallida speranza che abbiamo di salvare qualche forma di democrazia.
Oltre questo punto, anche per motivi istituzionali - legge elettorale, arretramento di ogni idea di filtro costituzionale sulle norme dei trattati internazionali, ecc.-, non si potrà più parlare di alcuna sinistra, in senso sociale ed economico, ma, ancor più, di alcuna democrazia costituzionale.
Questo dovrebbe molto preoccuparci: e preoccupare QUALUNQUE forza politica. Senza democrazia, rimarranno solo margravi e feudatari senza alcun ruolo che non sia agitarsi intorno a diritti cosmetici.
Il problema 48 per me rimane uno e uno solo dopo aver detto e analizato la realtà, organizare un resistenza perché siamo l'ultime generazioni che possono fare qualcosa.
RispondiEliminaE’ vero che la questione del ’47 è molto interessante. Vorrei provare a sviscerarla nella sua dinamica essenziale. Mi scuso in anticipo per la lunghezza, ma il vantaggio con la storia, ed è la ragione per cui l’ho sempre amata, è che il fumo si è diradato, gli archivi sono aperti e certe dinamiche non si possono nascondere.
RispondiEliminaLa situazione che il terzo governo De Gasperi si trovava a fronteggiare era caratterizzata da un elevato livello di inflazione. Graziani (op. cit., pag. 40): “Per combattere l'inflazione, si puntava a contenere la spesa pubblica, considerata per definizione inflazionistica, liberalizzando invece la spesa privata, considerata produttiva e quindi priva di effetti sul livello dei prezzi. In questa convinzione, si proponeva l'elminazione tempestiva di tutti i prezzi politici, a cominciare da quello del pane, la cui presenza gravava, sul bilancio dello Stato, e si lasciava privo di freni il credito bancario, con la sola accortezza di .limitare I finanziamenti, tipicamente speculativi, accordati alle giacenze di merci in magazzino. In queste condizioni, era inevitabile che, nonostante la battaglia quotidiana che Einaudi, governatore della Banca d'Italia, conduceva contro l'espansione della spesa pubblica, l'inflazione continuasse come prima e più veloce di prima.”
A proposito delle “battaglie” di Einaudi, Graziani riporta il sarcastico giudizio di De Cecco secondo cui il governatore della Banca d’Italia combatteva sì, ma “in campo avversario”. In effetti (Ivi., pag. 40) “Sul piano tecnico, è innegabile che essa [la manovra restrittiva] valse a bloccare l'inflazione; ma resta da spiegare per quali ragioni si fosse consentito all'inflazione di procedere così avanti, quasi si fosse voluta predisporre una giustificazione per una manovra tanto violenta. Tanto più che quelle stesse persone, -ed Einaudi in prima linea, che per anni avevano individuato le cause dell'inflazione nella spesa pubblica e avevano lasciato libero il sistema bancario di espandere il credito al settore privato, dovevano poi smentirsi clamorosamente quando, volendo combattere l'inflazione davvero, presero come primo provvedimento proprio quello di attuare una stretta creditizia.”
Qui userò un testo di storia diplomatica (G. Formigoni, La Democrazia cristiana e l’alleanza occidentale (1943-1953), Bologna, Il Mulino, 1996, pagg. 134-35). Alla situazione di inflazione si aggiungeva una “bilancia dei pagamenti in condizioni di totale squilibrio”, “persistente stagnazione”, “alto livello di disoccupazione”, “serpeggiante tensione sindacale”. “Rispetto alla gravità della situazione, l’impressione di inanità dei tentativi compiuti in termini di “pianificazione” e di controllo dell’economia era evidente. L’azione governativa era ormai strettamente vincolata alla disponibilità americana a sostenere finanziariamente il paese. Diffusa era quindi la preoccupazione che non si compissero gesti che potessero metterla in discussione. Nel Consiglio dei ministri del 27 marzo, dopo una lunga esposizione di Campilli sulla situazione del bilancio dello Stato, De Gasperi disse chiaramente: “Se noi diamo la sensazione di non poter reggere al Governo e contenere le continue richieste di aumenti, noi non otterremo dall’America i prestiti che assolutamente ci occorrono”. De Gasperi nell'intervista rilasciata il 21 aprile all’United Press, di fronte al fatto che “la vera minaccia per la democrazia in Italia è la fame” , si riferiva positivamente al nuovo “interesse americano per le cose dell’Europa”. Con toni accorati, questa esigenza di un sostegno esterno, per un “periodo transitorio”, venne confermata in un messaggio personale e riservato, inviato a Truman il 28 aprile."
Chiarissima era comunque la consapevolezza di Gasperi che l’origine delle difficoltà economiche e politiche del momento era tutta interna, che essa stava cioè – per usare le sue stesse espressioni – nell’opera disgregatrice del cosiddetto “quarto partito” (costituito nella sua interpretazione sia dai detentori del potere economico che dagli “sciocchi tremolanti”, cioè dai risparmiatori spaventati dall’inflazione e dall’impasse ricostruttiva), e nella corrispondente impotenza di un governo bersagliato da più parti, sostenuto da una solidarietà interna relativamente fragile e sempre più criticato nel mondo cattolico. Il presidente del Consiglio così inquadrava sinteticamente la situazione, in una riunione della Direzione del suo partito, convocata il 26 aprile per valutare l’azione di governo assieme ai ministri in carica: “Più che funzionamento tecnico deficiente si tratta di crisi di fiducia”. [nota mia: Kalecki docet] Lo stesso tema appariva cruciale nella relazione sulla situazione finanziaria, tenuta dal sottosegretario alle Finanze, Giuseppe Pella, di fronte al gruppo democristiano dell’Assemblea Costituente l’8 maggio del 1947: “sul terreno delle cifre – sosteneva l’uomo politico piemontese – la situazione è salvabile”. Il problema era politico [appunto]: “far cessare ad ogni costo la speculazione” e “ristabilire la fiducia”. E concludeva: “per ottenere questo, è indispensabile l’adesione dei settori della “destra economica” verso l’attività di governo”.
RispondiEliminaNel circolo vizioso che si era creato tra sfiducia interna e non ancora consolidata sfiducia internazionale rispetto al proprio governo, De Gasperi assunse quindi l’iniziativa di mutare le condizioni interne dell’equilibrio politico”.
Cioè, tornando a Graziani (op. cit. , pag. 43): “La grande ondata di inflazione, in questa ottica, sarebbe stata lasciata libera di gonfiarsi allo scopo di far apparire inaccettabile l'azione delle sinistre e renderne alla fine impossibile la permanenza al governo; la brusca deflazione, con la depressione che ne seguì, avrebbe avuto la funzione di stroncare l'azione sindacale, consentire una ondata di licenziamenti, favorire l'opera di ristrutturazione cui la grande industria era intenta, e avviare la ripresa all'insegna della pace sociale e della moderazione salariale. In questo quadro confluivano tutti gli elementi della scena internazionale. La stabilizzazione monetaria consentiva all'Italia di aderire alle prescrizioni del Fondo monetario internazionale, stabilizzando i cambi esteri. Ciò a sua volta consentiva al paese di avviare quell'inserimento nell'economia europea, che, in una prospettiva più ampia, rappresentava la sostanza economica e politica dell'intera operazione.”
Interessante il punto di Graziani sulle prescrizioni del FMI: ciò induce a pensare che esso non sia mai stato veramente operante all'interno dei principi dell'art.55 della Carta NU (che pure vengono citati in Assemblea Costituente).
EliminaLa cosa lascia a sua volta trasparire uno iato "culturale" ancora più inquietante: dentro la Costituzione si riflette una visione, quand'anche enunciata a livello internazionale, che fu elaborata (tatticamente sull'emozione della distruzione bellica e delle sue origini) per smontarla nei fatti, della dura politica, subito dopo.
@Arturo6 ottobre 2015 00:35
Elimina"Vale a dire, è ovviamente incontestabile che vi era stata una divisione delle sfere di influenza politica nel mondo e che l’Italia non poteva prospettarsi di dare una soluzione socialista ai suoi problemi: ma ciò non significa che i condizionamenti internazionali ci imponessero quelle politiche che furono effettivamente praticate."
A mio modesto avviso questo è il centro della questione.
Poiché vorrei dare per scontata la buonafede di tutti i protagonisti principali delle vicende restano solo due altre possibilità per i depositari del futuro della nazione (partiti protagonisti della resistenza) :
- mancanza di una ragionevole prospettiva strategica,
- mancanza di visione tattica,
- strettamente conseguente incapacità di raggiungere gli obiettivi politici indicati dalla Costituzione .
Se le cose stessero veramente così è perfettamente inutile parlare in termini di destra e sinistra. Qui mancano proprio i fondamentali necessari alla guida di una nazione verso il bene dei cittadini.
E se mancavano allora, figuriamoci ora...
ps tra i protagonisti della resistenza (e non solo) c'erano, tuttavia, varie eccezioni. E si capisce come possano essere stati messi in condizione di non nuocere oltre.
@Arturo
EliminaGrazie.
@48
Mi stai distruggendo Cattaneo :-)
@AP
Francamente l'ho letta in un modo lievemente diverso: i dirigenti del "quarto partito" sembrano più realisti del re, al di là dell'effettiva rappresentanza politica comunque operante nella legalità costituzionale.
Come emerso dalla documentazione secretata di quegli anni, il "potere economico" nazionale non era univocamente influenzato dal vertice NATO (USA), ma dai nostri diretti - e feroci - concorrenti europei che, si potrebbe supporre, vedessero nel piano Marshall e nelle politiche di espansione della domanda aggregata, e nella nazionalizzazione della politica energetica funzionale alla "ricostruzione", una politica "inaccettabile".
L'ultima ipotesi che formuli è da verificare attentamente: la "concorrenza" europeista, in pratica il non gradimento francese e tedesco (più GB?), dovevano, al tempo, necessariamente godere di copertura nella ortodossia occidentale (al capitalismo sfrenato, pro-tempore, en travesti): le elezioni ancora si facevano per contare i voti dei comunisti nonchè con la guerra fredda e le bombe atomiche di sfondo.
EliminaNessuno poteva con leggerezza alterare le tattiche convenienti al principale stakeholder di tale strategia complessiva.
Non certo fino al punto da farlo indipendentemente dalla convenienza di ciò in termini di equilibrio-stabilità di assetti elettorali...che altrimenti sarebbero stati bypassati.
E questo, secondo me, spiega il tenore delle parole di Colombo...)
@Bazaar6 ottobre 2015 15:30
EliminaStessa lettura anche per me :
Nonostante " i condizionamenti internazionali" NON " ci imponessero quelle politiche che furono effettivamente praticate." cionondimeno proprio quelle furono applicate
La dinamica interno/esterno mi pare talmente chiara da non aver bisogno di particolari commenti. Sottolineerei però che l’anello di congiunzione fra le due è, ancora una volta, la banca centrale, indipendente di fatto se non di diritto, che rema contro il governo lasciando che si crei la “crisi di fiducia” fino a che gli effetti politici desiderati non sono raggiunti e può realizzarsi quella che Caffè (in Crisi, occupazione, riconversione, «Quaderni di Fabbrica e Stato», n. 2, Cendes, sezione Economia e sindacato, Rosenberg & Sellier, Torino, 1977 ora in La dignità del lavoro, Roma, Lit, 2014), a cui lascio il commento finale, chiamava “restaurazione capitalistica”: “Vi è ben noto che, in quell’epoca, prevalse una linea di moderazio ne che trovò il proprio slogan che fu: «ricostruire innanzitutto». Malgrado questa linea di moderazione e malgrado questo slogan, il risultato che si ebbe fu quello di una restaurazione capitalistica che fu, tra l’altro, del tutto inintelligente. Vale a dire, è ovviamente incontestabile che vi era stata una divisione delle sfere di influenza politica nel mondo e che l’Italia non poteva prospettarsi di dare una soluzione socialista ai suoi problemi: ma ciò non significa che i condizionamenti internazionali ci imponessero quelle politiche che furono effettivamente praticate. Questo è bene tenerlo presente, perché anche il discorso dei condizionamenti internazionali viene fatto in modo ricorrente. Anche a questo riguardo è opportuno ricordare che nel 1947 il nostro Paese veniva stimolato a praticare politiche d’intervento: il blocco dei licenziamenti, ad esempio, fu attuato per iniziativa degli americani, non delle autorità politiche italiane. Ho detto che la restaurazione capitalistica allora attuata fu inintelligente, in quanto ha lasciato irrisolti tutti i problemi di fronte ai quali noi ci troviamo ancora oggi. Ora vi chiedo: è tanto diversa la situazione odierna rispetto a quella di trent’anni fa? [...]C’è anche oggi un chiaro disegno di restaurazione capitalistica, che è restaurazione in senso generale. Nessuno, forse, può dare testimonianza di questo intento di restaurazione più di chi vive, di questi tempi, la vita dell’università. Non credo che ci sia il desiderio di una svolta autoritaria, ma questo non ci fu nemmeno nel 1947. Fu sufficiente che ci fosse una svolta antisindacale, ed è quella cui si tende anche attualmente.”
RispondiEliminaGrazie Arturo, citazioni illuminanti che danno maggior peso al pensiero che già "covavo", soprattutto: "La grande ondata di inflazione, in questa ottica, sarebbe stata lasciata libera di gonfiarsi allo scopo di far apparire inaccettabile l'azione delle sinistre e renderne alla fine impossibile la permanenza al governo; la brusca deflazione, con la depressione che ne seguì, avrebbe avuto la funzione di stroncare l'azione sindacale, consentire una ondata di licenziamenti, favorire l'opera di ristrutturazione cui la grande industria era intenta, e avviare la ripresa all'insegna della pace sociale e della moderazione salariale. In questo quadro confluivano tutti gli elementi della scena internazionale". In merito la credito, che al tempo si lasciò "espandere" ad libitum, salvo poi rendersi conto dell'intrinseca pericolosità, ed alla moneta, segnalo quanto dice lo stesso Graziani (perdonate il loco da cui è preso e che non proviene invece da scritto "originale") qui ...
RispondiEliminaChe poi, sul credito bancario all'industria e suo "rientro" pare utile come sempre citare lo stesso Graziani qui: ""...Si parla molto del disavanzo nel settore pubblico e si osserva che questa offerta continua di titoli sui mercati finanziari, questo rastrellare di continuo liquidità dai risparmiatori per convogliarla verso i titoli pubblici e le casse dello Stato avrebbe spiazzato le imprese italiane dal mercato finanziario. Si osserva inoltre che con un’offerta di titoli pubblici a tassi d’interesse così vantaggiosi, le imprese industriali si sarebbero trovate nell’impossibilità di competere con la conseguenza che se non riuscissero più a finanziarsi sul mercato, sarebbero state spiazzate. Sarà anche vero, ma è irrilevante, perché con l’immissione di liquidità derivante dal disavanzo dello Stato le imprese realizzano profitti tali per cui non hanno più alcun bisogno di ricorrere al mercato finanziario. Saranno state spiazzate dal mercato finanziario, ma sono rimpiazzate sul mercato delle merci, dove realizzano dei profitti tali che consentono un comodo autofinanziamento. Si è parlato giustamente di una crisi fiscale dello Stato. Questo è vero, però come il disavanzo della bilancia commerciale è un disavanzo voluto, così anche il disavanzo nel settore pubblico — non so dire se voluto o non voluto — certamente si armonizza in una manovra politica complessa e nel suo insieme coerente...Quindi, il disavanzo del settore pubblico italiano ha svolto la sua funzione, anche e soprattutto, nei confronti del settore industriale."
Autofinanziamento, spiazzamento (immaginario, come al solito) e balance of payment constraint intenzionalmente agitabile a scopi deflattivi: e la chiamavano difesa della libertà e della proprietà (mentre prolungavano i blocchi degli affitti ai piccoli proprietari immobiliari e cercavano di opporsi alla riforma agraria...)
EliminaE secondo te (domanda retorica), la bad bank che verrà per i NPL che cosa è? ;)
EliminaContinua:
RispondiElimina. Il programmato cambio della moneta, che
era stato deciso dal governo Parri e continuamente rinviato con mille scuse, (addirittura era stata
fissata una data, nel marzo del 1947) dopo due anni di dibatti e discussione non si fece perché la
Banca d’Italia dichiarò che erano state rubate le matrici di stampa delle monete. Fu necessario
rimandare di altri mesi, fino a che le sinistre furono estromesse dal governo ed il cambio della moneta
non si fece più.
Dal basso della mia formazione culturale quello che ho capito, grazie a questo Blog ( immensamente riconoscente a Quarantotto), è che non può esistere una vera Democrazia sostanziale se non si ha il pieno controllo politico della Banca Centrale. Altrimenti sarà sempre essa che detterà le linee politiche dei governi, ne detterà i tempi, i modi, regolerà il conflitto capitale/lavoro sempre ed immancabilmente a favore del primo. Con la Banca centrale indipendente al massimo potremmo avere dei sistemi oligarchici, dove il popolo viene solamente chiamato a legittimarli tramite le elezioni idrauliche.
E consentitemelo, ma sembra che questi banchieri centrali hanno una tale capacità d'attrazione, che nemmeno i movimenti culturali che si richiamano alla riconquista della sovranità popolare sono culturalmente capaci di smarcarsi.
Dirò di più: non si comprende come possa esistere un partito, non dico di sinistra, ma comunque "coerentemente"impegnato in politiche di crescita, sociali e lavoristiche (ne esistono in astratto pure fuori dalla sinistra), che non ponga al primo posto il problema della banca centrale e del suo ruolo.
EliminaAlla fine la mancata costituzionalizzazione divenne un cavallo di troia (ma oggi che Dio ce ne scampi e liberi, beninteso!)
http://orizzonte48.blogspot.it/2015/03/la-soluzione-allastensionismo-ruolo-dei.html
Post e commenti davvero illuminanti.
RispondiEliminaNon posso che ringraziarvi e poi imparare.
Visto che le citazioni mi pare sian state gradite e si è parlato di mancata costituzionalizzazione, aggiungiamo ancora un pezzo alla storia (son dovuto andare a recuperare un libro che neanche mi ricordavo più di avere (S. Battilossi, L'Italia nel sistema economico internazionale, Milano, Franco Angeli, 1996, pp. 91 e ss.) e che, almeno a me, ha riservato qualche sorpresa. Non escludo ci siano inesattezze giuridiche (l'autore d'altra parte è uno storico), ma le problematizzazioni dell'indipendenza delle banche centrali sono così rare che mi pare comunque un'aggiunta utile).
RispondiEliminaDunque, vediamo un po’: “Stabilizzazione finanziaria, equilibrio della bilancia dei pagamenti, ricostituzione delle riserve valutarie, stabilità del cambio: queste le condizioni di fondo della reintragrazione dell’Italia nel sistema economico internazionale della seconda metà degli anni quaranta. Ognuna di esse rimanda direttamente alla centralità della Banca d’Italia, l’istituzione che su questi aspetti della politica economica ha a lungo esercitato un potere, come vedremo, pressoché assoluto. [...] Dal nostro punto di vista, è necessario [...] sottolineare quanto il clima culturale negli anni più recenti si sia ripercosso in senso unilaterale sull'impostazione della questione. Non a caso infatti, mentre un’attenzione assidua ha suscitato il tema dell’autonomia delle banche centrali nei confronti dei rispettivi governi (con una evidente propensione ad affermare la superiorità delle ragioni tecniche delle prime rispetto alle “interferenze” politiche dei secondi), nessuno spazio è riuscita a conquistare la riflessione – certo non meno pregnante – sulla più opportuna collocazione delle tecnostrutture finanziarie in un sistema democratico di controlli e di equilibrio dei poteri. [...]
Analisi comparate hanno efficacemente illustrato la singolare posizione istituzionale occupata nel dopoguerra dalla Banca d’Italia a confronto delle sue omologhe europee: singolarità che le derivava dal carattere per così dire anomalo della legge bancaria del 1936, che ha costituito per l’intero dopoguerra, e fino a tempi recentissimi, la fonte principale (seppure non unica) del suo potere nella costituzione materiale repubblicana. La legge [...] aveva [...] lasciato indeterminate – come è stato ripetutamente sottolineato dagli studi più attenti – sia le forme di esercizio del credito bancario, sia la posizione della banca centrale dei confronti del governo, pur delineando un considerevole ampliamento dell’autonomia decisionale di via Nazionale dal Tesoro rispetto alla legislazione del 1910. Limitandosi a riconoscere il principio della necessità di una regolamentazione esterna del sistema bancario, essa delegava alla discrezionalità della Banca d’Italia [...] non soltanto le funzioni di vigilanza ma i modi stessi del suo esercizio. Tracciando (a differenza di altre legislazioni bancarie straniere) non una precisa configurazione, ma soltanto una “costituzione” del sistema creditizio, la legge del 1936 assegnava inoltre a via Nazionale una sorta di “regia” del sistema: ciò ne aveva ampliato le funzioni ben al di là del semplice governo della moneta (attributo tipico dell’istituto di emissione), conferendole il potere, eminentemente politico, di intervenire nella struttura finanziaria e consentendole dunque di “plasmare”, con piena discrezionalità, le fattezze del sistema finanziario e creditizio in vista della realizzazione di un modello di sviluppo dell’economia autonomamente elaborato.
Come è stato efficacemente scritto, la Banca d’Italia ha perciò da allora goduto di una “delega” di fatto, che attribuiva alla tecnocrazia di via Nazionale un ruolo di vera e propria supplenza nel quadro di una struttura finanziaria caratterizzata dalla debolezza del mercato e perciò storicamente polarizzata attorno allo Stato e al connubio grande banca- grande industria: ciò che dunque le consentiva di fissare autonomamente l’ambito dei propri interessi e interventi, decidendo di volta in volta la propria collocazione nei confronti del governo e del sistema finanziario.
RispondiEliminaPur nella fondamentale continuità del quadro legislativo, tuttavia, spetta alla riflessione storiografica chiarire, nel passaggio dagli anni trenta al dopoguerra, i tempi e i modi dello scioglimento di quella “ambiguità” che faceva della legge del 1936, proprio in virtù della sua natura di legge delega, uno strumento utilizzabile tanto in chiave dirigista che in chiave liberista. Il prevalere di questa seconda prospettiva va perciò considerato come il riflesso degli esiti dell’accesa battaglia politica combattuta negli anni della Costituente e della vittoria del fronte moderato nei mesi successivi alla rottura del tripartito. [...]
A proposito del mancato inserimento della banca centrale nell'ordinamento costituzionale [...] vari studi hanno sottolineato la rimozione pressoché completa subita dal problema nel corso dei lavori della Costituente in base a un patto tacito raggiunto all'interno della compagine moderata [nota 7: che dopo in parte riporto], e nonostante una raccomandazione in senso contrario fosse stata espressa ufficialmente dalla Commissione economica della Costituente.”
Nella nota 7: “Le scelte di aderire alle istituzioni economiche internazionali e di tracciare la “costituzione monetaria” del paese – ha recentemente scritto Guido Carli – furono “sapientemente” operate al di fuori di ogni contrattazione politica con la Costituente: dunque per Carli lo scavalcamento del legittimo potere politico costituisce il pregio, verrebbe da dire il merito storico, dell’élite che quella scelta compì. Ripetuti sono i riferimenti in Guido Carli, Cinquant’anni di vita italiana [che io ometto], tra i quali si noti il seguente passo: “De Gasperi protesse Einaudi perché capì che questa linea [di restrizione creditizia] gli apriva le porte delle istituzioni internazionali che lui riteneva indispensabili per ancorare il paese alla democrazia parlamentare. Dopo la scissione di palazzo Barberini anche Saragat appoggiò la stretta monetaria di Einaudi. Ma entrambi scelsero di basare la “Costituzione monetaria” del paese su provvedimenti che non dovessero essere contrattati in sede di Assemblea Costituente”.
Riprendo: “Un ruolo importante in questa decisione, secondo la verosimile ipotesi suggerita da Leopoldo Elia, svolse la preoccupazione che da una discussione formale alla Assemblea costituente lo status e i poteri della Banca d’Italia potessero risultare sminuiti anziché rafforzati: la “minaccia” più corposa sarebbe venuta in questo senso dai progetti di nazionalizzazione dell’istituto sostenuti (con scarsa convinzione, a dire il vero) dalle sinistre.[nota 9, che in parte riporto: “Leopoldo Elia [...] sottolinea il duro attacco di Togliatti a Einaudi in sede di Costituente, accompagnato dalla richiesta di una profonda riforma della direzione della Banca d’Italia” e “i riferimenti fatti nella stessa sede da Pesenti alla nazionalizzazione della Banque de France, oltre ai progetti di nazionalizzazione delle banche avanzate da Pci e Psiup.” Non ci sono più i comunisti di una volta, mi viene da dire. :-)]
“Mentre dunque in quella sede era prevalsa sulla questione una sorta di strategia del silenzio, da parte sua il quarto governo De Gasperi [quello costituitosi dopo la crisi del tripartito e l’abbandono della guida della Banca d’Italia da parte di Einaudi] – con Einaudi vicepresidente del Consiglio e ministro delle Finanze e del Tesoro, poi del Bilancio – provvide tempestivamente a rafforzare ed estendere i poteri della banca centrale. Decisivo in questa direzione deve essere considerato il decreto del luglio 1947, fortemente voluto da Einaudi e dalla dirigenza della Banca d’Italia: provvedimento essenziale in quanto consentì di tamponare gli effetti politici dell’imminente giro di vite deflattivo, presentato all'opinione pubblica in veste di necessità tecnica di fronte all’appressarsi del famoso “momento critico dell’inflazione”, secondo una linea che consentiva di far passare in sottordine le responsabilità di via Nazionale per aver lasciato le briglie sciolte sul collo dell’attività speculativa delle banche (come è stato efficacemente scritto [da Bonifati e il mitico Vianello], “chi aveva alimentato le fiamme si fece ora avanti nelle vesti di pompiere”). Il decreto, ponendo il ministro del Tesoro a capo del Comitato interministeriale per il credito e il risparmio (Cicr), agli attribuiva compiti di indirizzo e di coordinamento, con pieni poteri deliberativi (quegli stessi che la legge del 1936 attribuiva al capo del governo), sull'intera politica governativa in materia creditizia, riconoscendone dunque sia la qualifica di organo costituzionale incaricato di mantenere l’unità di indirizzo politico di tutti i ministri impegnati nella politica di settore (qualifica sottratta al presidente del Consiglio), sia l’organismo portatore dei poteri di indirizzo politico e di “promozione” in quell’ambito. Questo potere del Tesoro trovava tuttavia una decisiva limitazione nell’attribuzione alla Banca d’Italia, ente pubblico posto in posizione di autonomia rispetto all’esecutivo, di veri e propri poteri di governo in materia di raccolta del risparmio ed esercizio del credito, in quanto unico organismo dotato della capacità tecnica necessaria al governo del settore (dopo la soppressione dell’Ispettorato). L’assetto istituzionale scaturito da questa modifica apparentemente secondaria, svincolando la banca centrale da ogni vincolo gerarchico nei confronti sia del governo sia del complesso Tesoro-Cicr, affermava la decisa supremazia dell’istituto, pur lasciando al Tesoro un potere “di riserva” al quale la Banca d’Italia poteva comunque scegliere di non conformarsi; e nel contempo definiva indirettamente lo spazio della contrattazione informale tra Tesoro e Banca d’Italia nel quale sarebbe stata da allora in avanti elaborata tanta parte della politica economica governativa. Per la prima volta si riconosceva dunque che una funzione di “interesse pubblico”[nota 13: “Tali erano definiti la raccolta del risparmio e l’esercizio del credito nella legge bancaria del 1936”] possedeva connotati tali di tecnicità da dover essere esercitata da un organismo istituzionalmente indipendente dal potere politico; non a caso nella pratica si sarebbe rapidamente affermata la tendenza a ridurre gli indirizzi del Cicr a semplici deleghe in bianco alla Banca d’Italia. Questa evoluzione istituzionale, orientata ad affermare la supremazia della banca centrale, fu infine completata organicamente qualche mese dopo con il cosiddetto sganciamento dal Tesoro[nota 15: “Col dlcps. 24 settembre 1947, n. 1490, la concessione di anticipazioni straordinarie al Tesoro fu sottoposta al vincolo di riserva di legge; il dl. 7 maggio 1948, n. 133 ribadì la norma, fissando anche il limite massimo di scoperto di conto corrente aperto alla Banca centrale al Tesoro per il servizio di tesoreria provinciale, oltre il quale la Banca d’Italia era tenuta a sospendere i pagamenti], anch’esso ascrivibile al disegno einaudiano.”
RispondiEliminaBasta, ho finito di sommergervi. :-)
Rimane il fatto che la non costituzionalizzazione, e il fondamentale sistema di garanzia insito nelle fonti da Essa gerarchizzate, rendeva piuttosto esile la stabilità di assetti fatti a colpi di dlcps.
EliminaInfatti, la successiva elaborazione (fondamentalissima) del diritto amministrativo, in cui rifluiva il tutto in conseguenza di quanto appena detto, non poteva esimersi dal desumere che la funzione di vigilanza vedeva la BC come ente strumentale (certo, tecnico: in astratto non differente dall'Istat o. al più, dall'UIC) del governo, mentre quella creditizio-monetaria (appostando poteri valutativo-discrezionali più ampi) come ente "ausiliario".
Date queste premesse, quando, appunto, il clima cambiò ci si rese conto che, per evitare colpi di mano "democratici" (cioè una coerenza con la Costituzione del '48), una qualche esigenza di costituzionalizzazione ci fosse.
La Bicamerale 'D'Alema infatti...(argomento già visitato dal blog).
Ma nel frattempo, l'urgenza scemò: il trattato di Maastricht aveva già derubricato la Costituzione economica a principi implicitamente subordinati e pure abrogati dai trattati, scindendola dai principi fondamentali e facendone dei meri auspici a realizzazione storicamente connotabile: cioè dei principi sussidiari e non più fondamentali.
E' infine di questi mesi la ratifica ufficiale di tale meccanismo, affidato al "suicidio in diretta" della stessa Corte costituzionale...
Chiedo scusa per la piccola curiosità, ma si sa cosa rispose moro alla lettera di colombo?
RispondiEliminaQuale era il suo pensiero?
Sì sarebbe interessante. Ma De Felice ci riporta una missiva "trapelata" (su Il Messaggero) e la risposta, ne deduciamo, dovette rimanere riservata. Tanto risposero i fatti: quel governo cadde un mese dopo...
EliminaCerto, i retroscena di come fu interpretata quella pressione e a quali equilibri - a parte la nuova stretta orchestrata da BdI- condusse sarebbe interessante conoscerli da fonti del tempo.
Ma meglio di Arturo in questo tipo di ricerche, non ce n'è...
Vabbeh, visto che c’è la richiesta mi sento autorizzato ad allargarmi ancora un po’. ;-)
EliminaLa risposta di Moro ci fu perché che la lettera di Colombo aveva sollevato un vespaio con diverse interpellanze da parte delle opposizioni. Moro rispose con un lungo discorso al Senato lunedì 8 giugno 1964. I punti essenziali del discorso (che traggo da "La Stampa", 9 giugno 1964) furono: le indiscrezioni sulla stampa deformavano il contenuto della lettera, che risultava quindi falsato; la fiducia nella lealtà di Colombo, sia nel senso che la pubblicazione sarebbe avvenuta senza il suo consenso sia che il ministro condivideva la linea collegiale del governo; il rifiuto comunque di rendere pubblica la lettera; l'indicazione di inesistenza di una linea alternativa a quella governativa, fatta di politica dei redditi e programmazione: "Non ci sono due tempi per la stabilizzazione e per le riforme [all'epoca la parola aveva un significato un filino diverso...], come non c'è nessun rinvio a tempo indeterminato. Solo, le riforme richiedono un iter parlamentare lungo e complesso ed è perciò opportuno che esso sia avviato senza frettolose improvvisazioni. Quel che si fa, si fa non per artificio o dispetto o con volontà distruttrice e punitiva, ma per risolvere problemi reali del Paese, per evitare rettifiche che evitino nuovi squilibri, non facciano trionfare tesi collettivistiche, ma sviluppino una democrazia che vuole liberare l'uomo nella massima misura possibile. L'impegno del governo su questo programma non verrà meno, ma nessuno ha da temere che, in una coalizione come questa, si vada al di là del programma e della piattaforma politica. Un allargamento a sinistra verso il partito comunista è impensabile, perché sono state raccolte tutte le forze disponibili per una politica di libertà e la linea di confine è stata tracciata in modo nettissimo. Uno spostamento a destra sarebbe apportatore di una grave e forse drammatica involuzione sociale e politica. La via che il governo batte non porta né al comunismo né alla destra totalitaria né ad un conservatorismo sia pure illuminato. E' la via di un nuovo equilibrio che salva nel modo migliore la libertà e nella libertà inserisce una politica di sviluppo e di giustizia".
Vale la pena però riportare una seconda “risposta” di Moro, cioè una rievocazione della crisi del luglio ’64 fatta nel gennaio del 1968 alla Camera (in P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, Torino, UTET, 1995, pp. 172-3): “i partiti nei loro uomini più responsabili e più sensibili ai rischi che porta con sé il vuoto politico, la impossibilità cioè dei partiti più affini di associarsi per assumere il governo del Paese, trovarono allora, senza alcuna sostanziale rinuncia, il modo di riprendere la loro collaborazione. Fu quello un momento decisivo, non solo della storia della coalizione di centro-sinistra, ma della storia di quest’ultimo ventennio della vita democratica in Italia. Sono convinto che abbiamo fatto quello che era giusto e doveroso, per quanto l’adempimento di questo compito ci sia costato e ci costi”.
Qual era il prezzo a cui alludeva l’onorevole Moro che le forze politiche democratiche avevano pagato e ancora non avevano ancora finito di pagare, determinato dagli avvenimenti di quella crisi di governo? Era evidentemente la rinuncia alla pienezza della legalità democratica. I ricatti, e le conseguenti rinunce, c’erano in realtà stati, e attraverso di essi si era affacciata una possibile alternativa che usciva dal normale corso previsto dalla Costituzione repubblicana. Questo non vuol dire che la Costituzione fosse stata formalmente violata. Voleva dire che c’erano pressioni extra-costituzionali di natura tale da spingere gli “uomini responsabili” dei “partiti” a sottoscrivere un accordo di governo a condizioni che altrimenti non avrebbero sottoscritto. Moro negava il primo di questi assunti, ma implicitamente ammetteva il secondo”.
Di quali pressioni si parla? Intanto do conto del materiale che ho: nel mese di luglio il solito Carli aveva fatto pervenire a Moro e Colombo un suo appunto, pubblicato nel 1975 negli Studi in onore di Pasquale Saraceno sotto il titolo “Riflessioni controcorrente” (‘na specie di scapigliato, ‘sto Carli :-)) e riportato da Craveri (op. cit., pagg. 168-9): “nella strategia di stabilizzazione occorre distinguere quali obiettivi debbano essere raggiunti prima e quali dopo; occorre accettare che in qualche settore possano compiersi degli arretramenti...Gli obiettivi che precedono sugli altri in ordine di importanza sono: la stabilizzazione dei prezzi e l’equilibrio della bilancia dei pagamenti...[e lo chiamarono “il Ribelle”] Affinché l’aggiustamento si concluda occorre arrestare con ogni mezzo l’aumento dei costi di lavoro; consentire che gli aumenti di produttività, che derivano dall’entrata in produzione degli impianti costruiti negli anni recenti, si risolvano in diminuzione dei costi di lavoro per unità di prodotto: in questo modo la barriera dei costi che attualmente è a ridosso della barriera dei prezzi si scosterà, creando lo spazio per il risorgere dei profitti; così gli imprenditori riprenderanno la speranza...Ma queste prospettive diverrebbero vane se si accogliessero le soluzioni proposte nel progetto di programma di sviluppo economico per il quinquennio 1965-1969 inequivocabilmente dirette a trasferire maggiori quote di potere decisionale dal mondo imprenditoriale privato alla collettività. Si cita un esempio: nel settore dell’edilizia le disposizioni concernenti la legge urbanistica sarebbero integrate dall’intervento diretto dello Stato nella produzione edilizia da attuarsi attraverso una iniziativa imprenditoriale pubblica”. Aiuto! Sciagura! Terrore! Fate presto! E presto fecero. ..
EliminaRiporto un commento del 12 maggio del ’64 (in Ivi, pp. 170-1) di Riccardo non Puglisi ma Lombardi comparso sull’Avanti! col titolo C’è più di un modo: “Sarà questa una importante occasione per valutare se e fino a che punto sia conveniente in Italia una dualità di poteri, l’automatismo di uno dei quali tende a rendere subalterno l’altro, che poi è il Governo”, aggiungendo di non ignorare “i compiti della Baca d’Italia di fronte al governo della moneta, ma non già fino al punto di sollevarli alla funzione di variabile indipendente, laddove invece esistono non una sola, ma più politiche di stabilità monetaria, la scelta delle quali dipende dalle decisioni di politica economica del Governo”. Altri tempi...
Tanto per non sbagliarsi (Ivi, pag. 169) “soffiava sul fuoco anche la Commissione della Comunità Europea, con esortazioni palesemente ispirate alla più stretta ortodossia economica”. [la nota 2 riporta notizia di una lettera di Marjolin a Moro del 20 maggio 1964]. Come farebbe da sola l’Italia!
L’epilogo lo conosciamo: nuovo governo nato da un accordo il 18 luglio con accantonamento della programmazione e poco dopo, “già il 31 agosto il governo approvava un pacchetto di provvedimenti congiunturali, che ricalcava alcuni dei suggerimenti su cui Guido Carli aveva da tempo reiteratamente insistito”. (Ivi, pag. 181). Occombinazione! D’altra parte alla saggezza ci si deve sempre inchinare. Scusate se mi è sfuggito un po’ di sarcasmo...
IN termini concreti, il giallo non ha una soluzione chiara. Il governo cadde: il centrosinistra proseguì in "altre direzioni": ma quali furono gli esatti contenuti del compromesso è tremendamente importante capirlo. Allo statuto dei lavoratori si arrivò nel 1970 (preceduto dalla legge sui licenziamenti "causali" del 1966). La riforma urbanistica, più o meno, quella più chiara (e peraltro aggirata dalla prassi successiva in vari modi) fu nel 1967- Le regioni istituite nel 1970-72, ma prontamente controriformate nel 1977, rispetto allo spirito costituzionale (in particolare rispetto all'art.97 Cost., ripoliticizzandole come s'è detto più sopra).
EliminaPiù ancora, altre leggi che presero vita in quegli anni, (es, quella sulla Consob, come pure in materia previdenziale e non solo), dovettero subire quel "costo"...
Quale fu il grado di alterazione che subì l'indirizzo di attuazione costituzionale?
Di certo, Moro-Rumor producono la legge sul finanziamento pubblico ai partiti (1974), e la delibera CICR che stabiliva la monetizzazione (1975): ma a quanto pare evidente, pagarono un ulteriore prezzo.
Perchè rischiarono? Quali (impreviste?) garanzie e presupposti si erano manifestati affinchè lo facessero?
Perchè Carli in quegli anni di presa di rischio parlava della BC indipendente come "atto sedizioso" e poi viene sostituito da un arrembante Ciampi?
Una nota didattica, al di là della formulazione "dell'istruttoria".
EliminaMagari per molti è scontato, ma la differenza *sostanziale* tra federalismo e regionalismo con "disciplina costituzionalizzata", mi pare che abbia un'importante natura economico/politica: il regionalismo, da quello che posso comprendere, permette un'autonomia e più o meno ampi poteri di carattere *amministrativo*, il federalismo, lascia anche poteri di natura politica (anche di ordine pubblico e legislativi), che necessariamente comportano la necessità di esistenza di organi politici che gestiscono (e diventano...) centri di spesa (e di costo)... lontani "dagli occhi" potere centrale.
Questo crea potenzialmente le condizioni per una efficace aggressione del privato nel pubblico nelle "nebbie di provincia".
A questo punto si torna alle disposizioni europee, al titolo V e a tutte le analisi ampiamente sviluppate in questi spazi. Se ho capito...
grazie molte, anche se resta una fitta nebbia, soprattutto su alcuni accadimenti a cui mi sa un po' tutti noi, nel silenzio, pensiamo, ci sono comunque moltissimi spunti di riflessione.
EliminaLa Storia d Italia è più avvincente di molti romanzi...
RispondiEliminaCiao Quarantotto, ne approfitto per ricordare che il primo Governo Moro oltre a subire la politica economica della Banca d'Italia governata da Carli ( maestro di Savona) è stato costretto a sottostare a pressioni un pò più pesanti di Carli, mi riferisco al piano Solo ideato dal comandante dell'arma dei carabinieri Giovanni Di Lorenzo.
RispondiEliminaDa Wikipedia: Il progetto si proponeva di assicurare all'Arma dei Carabinieri (il cui comandante generale era al tempo il generale Giovanni De Lorenzo) il controllo militare dello Stato per mezzo dell'occupazione dei cosiddetti «centri nevralgici» e, soprattutto, prevedeva un progetto di «enucleazione», cioè il prelevamento e il conseguente rapido allontanamento di 731 persone considerate pericolose del mondo della politica e del sindacato: costoro sarebbero dovuti essere raggruppati e raccolti nella sede del Centro Addestramenti Guastatori di Poglina, vicina a Capo Marrargiu, nel territorio di Alghero (in seguito principale base militare di addestramento della struttura clandestina Gladio), adattata a tempo di record dal SIFAR, e dove sarebbero stati «custoditi» sino alla cessazione dell'emergenza. La lista dei soggetti da prelevare sarebbe stata ricavata ed elaborata sulla base delle risultanze di riservati fascicoli del SIFAR, pretesi da De Lorenzo qualche anno prima. Nel frattempo l'Arma avrebbe assunto il controllo delle istituzioni e dei servizi pubblici principali, compresi la televisione, le ferrovie ed i telefoni[1].
Unendo i puntini, si potrebbe anche dire che: o accetti le politiche imposte da Banca d'Italia, come referente del Gotha economico/finanziario, ovvero ti mando i carabinieri che ti spediscono in Sardegna. Ma qui spunterebbero subito come funghi, i fulgidi intelletti che griderebbero complottista, complottista, in quanto, in questo folle mondo, basta ricordare due fatti realmente accaduti nello stesso periodo e legarli fra loro per essere accusato di complottismo. Mi allargo, nel 1975 il governo Moro impose per legge la monetizzazione del debito pubblico ( forse era un modo di tagliare le unghie allo strapotere della Banca d'Italia) e nel 1978 viene barbaramente ucciso da quei banditi che si facevano chiamare Brigate Rosse. E chi sconfisse quei pazzi criminali, il generale Dalla Chiesa, venne anch'esso ucciso barbaramente assieme alla moglie. Io sono fermo ancora alle sue parole. Se esiste un potere quello è dello Stato e delle sue Istituzioni, aggiungo io DEMOCRATICHE.
Colgo l'occasione di ringraziare Arturo.
Diamo atto che Arturo ha linkato proprio nel suo ultimo commento il riferimento al "Piano Solo ("e fecero presto").
EliminaLa "monetizzazione" fu oggetto di una delibera CICR, coraggiosamente riprendendo al governo una sua prerogativa ambiguamente annacquata nel decreto del 1947 "fortemente voluto da Einaudi", come ci dice sempre il commento di Arturo precedente.
Quanto a Dalla Chiesa, dalle sue parole traspare una denuncia velata che non è stata mai portata a compimento: altro che complottismo!
Mi scuso con Arturo, non avevo aperto il link ( e fecero presto)
RispondiEliminaFigurati, Mauro: non scherzare. :-)
EliminaTra l'altro che la storia repubblicana sia stata attraversata da "complotti" è un dato di fatto riconosciuto da tutti gli storici (pirriviù): in questo caso chi parla di complottismo avrebbe solo da studiare. Naturalmente occorre sempre contestualizzare in maniera appropriata i vari episodi. Il compianto Franco De Felice, che ho citato, nel suo fondamentale Doppia lealtà e doppio Stato del 1989 ribadiva appunto la necessità di "non accentuare o isolare il ruolo della componente militare".
A proposito del '63, parlando della stretta creditizia della Banca d'Italia due mesi prima della formazione del primo governo di centro-sinistra, osserva (De Felice, op. cit., pag. 103): "si attivano [...] i meccanismi del 1947, deputati a fissare il quadro di compatibilità tra politica interna e collocazione internazionale: si utilizza l'"economia aperta" come strumento d'ordine interno, di controllo del mercato del lavoro". A pagina successiva: "I due atti richiamati [intervento della Bd'I e lettera di Colombo] sono entrambi espressione di un conflitto interno ai gruppi dirigenti, esprimono l'apertura di una divaricazione del sistema della doppia lealtà e quindi contengono elementi di doppio Stato (intervento politico diretto della Banca d'Italia); attivano gli strumenti costitutivi di tale sistema per ricondurre entro il quadro di riferimento dato la novità politica del centro-sinistra, svuotandolo di ogni significativo contenuto sociale. Il "Piano Solo" non è leggibile fuori da questo contesto: è in ogni caso qualcosa di più dell'assegnazione di un ruolo extraistituzionale ai carabinieri; ha alle spalle già l'attivazione in funzione d'ordine di settori consistenti dell'apparato economico, finanziario, burocratico e politico, cioè un pezzo, non sappiamo quanto consistente e determinante, del sistema della doppia lealtà." Parliamo di un classico della storiografia; poi, ovvio, chi vuole, o è pagato per, fare il finto tonto...
Posto che, come dice Luciano, "la trasformazione in "destra" (economica) governativa di qualsiasi forza di sinistra, in Italia, è il dato essenziale della sovranità limitata", l'unica via di opposizione pratica (e praticabile) in questo contesto sarebbe, nell'immediato, quella di bocciare, col referendum confermativo, le riforme costituzionali che saranno approvate dal Parlamento. Il rifiuto della forma di governo che consegue alla voluta impostazione ordoliberista della costituzione materiale, costituirebbe infatti un segnale importante di quell' "essere culturalmente di sinistra" del popolo italiano (che, a partire da Monti in poi, dovrebbe avere toccato con mano cosa realmente significa l'ordoliberismo al potere).
RispondiEliminaCi sono considerazioni che inducono a nutrire qualche speranza, e considerazioni,che, invece, fanno tristemente pensare ad un esito plebiscitario del referendum.
Tra le "speranze" possono figurare:
a) ci sono partiti di opposizione che potenzialmente possono fare un'efficace campagna elettorale contro le riforme (e che, uniti, rappresentano circa il 40% dell'elettorato). Una lega che presenta 85 milioni di emendamenti e che poi non impegna i suoi elettori a votare contro sarebbe contraddittoria. Stessa cosa dicasi del M5S: il non trasmettere indicazioni sulla 'gravità' di questo voto si porrebbe in clamorosa contraddizione con gli atteggiamenti assunti dai loro parlamentari in Aula.
b) Se Forza Italia è contraria, le stesse reti e giornali mediaset potrebbero rappresentare un contro-potere mediatico efficace.
c) L'elettorato PD che proviene dal "vecchio" PCI potrebbe votare contro o astenersi.
d) Alcuni "giornaloni" ed editorialisti appaiono critici. Due esempi: il "Fatto" (da sempre contro), ed i recenti editoriali di Scalfari (ormai consapevole della minaccia). Il piddino medio può ignorare Zagebrelsky, ma Scalfari lo legge....
Tra i fattori che non fanno sperare bene, possono invece figurare:
a) Come la stessa vicenda Tsipras insegna, le contraddizioni in politica non stupiscono più. Lo stesso elettorato PD "non renziano", potrebbe votare comunque a favore "per appartenenza". Lega ed M5S potrebbero non gestire efficacemente la campagna elettorale. Forza Italia, in fondo, non potrebbe essere poi così contraria allo 'spirito' della riforma.
b) Le pur timide misure prese da Draghi hanno prodotto qualche limitato effetto, che il governo sta già spacciando per "crescita" e "uscita dalla crisi". Dato che la 'vulgata' ordoliberista lega a doppia mandata il termine "crescita" con "riforme", ciò potrebbe indurre la gente a dare fiducia al governo.
c) Molti degli oppositori stessi (Scalfari, Mineo, Travaglio etc...), non colgono il collegamento tra affermazione del liberismo ed involuzione autoritaria, rimanendo comunque legati ad una (ormai tralaticia,mi par di capire),visione storica che vede il pensiero liberale come unico vero "padre" della democrazia sostanziale.
d) E' assai probabile che, nonostante i fattori positivi, l'elettorato, ormai drogato da anni di slogan sulla "castacorruzione", voti 'meccanicamente' a favore perché "per lo meno così abbiamo qualche vitalizio in meno".
Che dire? Previsione ardua anche se io rimango (forse per scaramazia), pessimista...
Stavo pensando cose molto simili proprio ieri: Riassuntivamente: poichè l'attuale fase politica appare come un dissidio interno al compatto fronte ordoliberista, la questione centrale che muove l'elettorato può essere così riassunta:
Elimina"QUALE LEGITTIMAZIONE "ETICA" DEVE DARSI AL SUPERAMENTO DELLA COSTITUZIONE DEL 48? L'EFFICIENZA DEI MERCATI O CASTA-CRICCA-CORRUZIONE?"
Stando in fondo il dissidio solo su questa apparente dicotomia (non sostanziale e tra enunciati logicamente complementari, cioè, in fondo, funzionali solo a prevalere nella competizione elettorale), le speranze sul referendum, che pure ci sarebbero, rischiano di essere travolte da un'agevole propaganda mediatica ad adjuvandum (della riforma), contro cui, in pratica, non c'è neppure un potenziale di resistenza culturale...