martedì 31 ottobre 2017

LA L€GGE DEL TAGLIONE (DEL DEBITONE). HIC MAN€BIMUS OPTIM€

Poi l'Italia brucia e i viadotti crollano? Accettate virilmente...
1. Tagliare la spesa pubblica, si sa, è segno di virile credibilità di fronte ai mercati e a l'€uropa. D'altra parte, invece, gli investimenti effettuati con spesa pubblica, spesso unificati nella categoria (sempre di spesa pubblica) "misure supply side", risultano virtuosi. E quando c'è la virtù, come ben sanno gli innamorati, "le dimensioni non contano".

La spesa pubblica totale in percentuale del PIL e di quella al netto degli interessi passivi e degli investimenti sono caratterizzate da un trend nettamente crescente dal 2000 al 2009. Il picco massimo della spesa totale viene raggiunto nel 2009 con una percentuale sul PIL pari al 51,1% (il dato è quello successivo rispetto alla revisione del Pil di settembre 2014). Il Documento di economia e finanza prevede cali consistenti nei prossimi anni, mentre le spese correnti primarie scenderanno al 40,1% nel 2020.

La spesa totale in conto capitale in Italia è stata superiore alla media dell’area euro dal 2000 fino al 2008. Dal 2010 le politiche di contenimento della spesa pubblica hanno comportato una maggiore riduzione della spesa in conto capitale rispetto alla media UE. Il divario tra le due aree è spiegato soprattutto dall’andamento della componente degli investimenti.

2. Ma ecco infatti, nel disegno di legge di "stabilità" per il 2018, le rispettive dimensioni della cr€dibilità rapportate a quelle della virtù:
La manovra -secondo il documento- avrà un impatto positivo sui tassi di crescita del pil in termini di differenziale tra lo scenario programmatico e quello tendenziale ammonta a "0,3 pp in ciascuno degli anni 2018 e 2019".
Nel dettaglio, ammontano a 3,5 miliardi i tagli della spesa pubblica per il 2018 [n.b.: sono tagli strutturali, quindi, a differenza delle "decontribuzioni" e degli "investimenti pubblici" sono 3,5 miliardi trascinati nella loro intera misura per ogni futuro esercizio di bilancio] che andranno a copertura delle misure della Legge di Bilancio.
Altre coperture da 'entrate aggiuntive' allo studio nell'ambito della lotta all'evasione di alcune imposte vengono quantificate in 5,1 miliardi di euro.
Le risorse per la competitività e l'innovazione, che includono anche le decontribuzioni per i giovani, nel 2018 ammontano a 338 milioni; 2,1 mld nel 2019 e quasi 4 miliardi nel 2020. Gli stanziamenti per lo sviluppo che comprendono le spese per gli investimenti pubblici saranno pari a 300 milioni nel 2018, che passeranno a 1,3 miliardi nel 2019 e a 1,9 miliardi nel 2020. I fondi per la lotta alla povertà, reddito di inclusione sociale incluso dunque, sono 600 milioni nel 2018, 900 milioni nel 2019, 1,2 nel 2020.
La Commissione aveva risposto al ministro Padoan in modo interlocutorio. Evidentemente, la manovra 2018 non convince neppure se l’obiettivo concordato dovesse essere una riduzione del disavanzo strutturale dello 0,3% del Pil. L’esecutivo comunitario vorrebbe ricevere maggiori precisazioni dal governo entro martedì. La situazione è complicata dal fatto che Bruxelles prevede una significativa deviazione dei conti pubblici anche per quanto riguarda il 2017.
In particolare, la Commissione fa notare che «l’aumento previsto della spesa pubblica primaria netta è superiore all’obiettivo di una riduzione di almeno l’1,4%» (stesso problema è notato per il 2017). La lettera di Bruxelles è per certi versi di maniera (una manciata di paesi, tra cui la Francia, ha ricevuto una richiesta di informazioni). Non c’è desiderio di mettere in difficoltà il governo Gentiloni a ridosso del voto
Interessante è il riferimento alla spesa legata all’emergenza migranti. Nel chiedere dettagli, Bruxelles sembra pronta a tenerne conto nel calcolare l’obiettivo di riduzione del deficit. Ciò detto, la Commissione deve far rispettare il Patto; chiede manovre precise; e vuole coprirsi le spalle da eventuali critiche di paesi insoddisfatti da ciò che ritengono una eccessiva discrezionalità nell’analisi dei bilanci".

4. In questo simpatico e ormai consueto siparietto, ogni cosa è illuminata dalla condivisa fede incrollabile nell'austerità espansiva: teologia che Stiglitz, quando vuole, demolisce in modo esemplare...probabilmente contando sul fatto - rassicurante- di rimanere inascoltato.
Ciò che distingue il gioco delle parti annuale Italia vs Commissione UE, sono diversi gradi di separatezza dal modello teologico germanico: il fiscal compact che, se realmente non lo si volesse  incorporare nei trattati, tanto varrebbe recederne, come sarebbe possibile in ogni momento, indipentemente dalla perdurante vigenza del (pallido) art.81 Cost..
Tuttavia, quanto a teologia dell'austerità espansiva, le nostre tradizioni non sarebbero seconde a nessuno, come ci riporta Francesco Maimone con annessa analisi di Federico Caffè: Adoratori della deflazione selvaggia e del taglio alla spesa pubblica, da sempre.
ADDENDUM- Anche perché, il modello di crescita presunta, che con dovizia ci illustra anche l'Istat, sottolineando come esso costituisca un modello normativizzato via Commissione UE,  è quello che prevede che la crescita stessa sia determinata ESCLUSIVAMENTE dalle forze dell'offerta.


5. Ne emerge, da "tempi non sospetti", una teorizzazione morale, virile e credibile, di rara chiarezza:
Nel III Rapporto della Commissione Economica presentato all’Assemblea Costituente del 18 ottobre 1946 (Problemi monetari e commercio estero - Interrogatori, questionari, monografie), veniva interrogato l’allora ragioniere generale dello Stato, Gaetano Balducci, per chiarire la situazione della tesoreria onde trarre prospettive per il futuro. Anche allora bisognava “sanare” il bilancio dello Stato! 
Baffi chiese a Balducci: “Si potrebbe fare economia in qualche settore? ”. 
La risposta di Balducci fu la seguente:
… Su questo sono un po’ pessimista, perché purtroppo non si riesce a far comprendere tale verità nemmeno agli uomini politici responsabili. Quando un paese si trova nella situazione economica in cui si trova il nostro, tante spese bisogna assolutamente abbandonarle, anche se sono un prodotto della civiltà. Bisogna avere il coraggio di scendere dal livello di civiltà in cui si era. Per esempio (è doloroso dirlo), le spese di assistenza sociale, le spese di istruzione, ecc. non solo vengono tenute al livello di prima, ma anzi si vogliono aumentare, mentre, viceversa, ciò non è possibile…” [Rapporto cit., 108].

Per tale ragione nel 1949 – a Costituzione in vigore – Federico Caffè non poteva che stigmatizzare il mito della “deflazione benefica e risanatrice” che affermava essere alimentato “dalla corrente più autorevole (o comunque più influente) dei nostri economisti, e pedissequamente ripetuto dai politici, sia pure con la consueta riserva, di carattere del tutto retorico, che esclude una loro adesione «a una politica di deliberata deflazione». In realtà non occorre che uno stato di deflazione si manifesti in quanto deliberatamente voluto dalle autorità politiche; se esso, comunque, si manifesta, una eventuale inazione delle autorità di governo implica una loro grave responsabilità, in quanto la deflazione, non meno e forse ancor più della inflazione, è uno stato patologico che non si sana attraverso l’azione spontanea delle forze di mercato”.
Egli si rendeva conto che in Italia non fossero possibili allora “… alcune forme di manovra del debito pubblico del genere di quelle seguite negli Stati Uniti e nell’Inghilterra in base alla tecnica della finanza funzionale e ai canoni della politica economica «compensatoria». Ma anche gli obiettivi più modesti di una spesa pubblica in funzione anticiclica e di interventi stimolatori molto più blandi… sembrano irraggiungibili di fronte alla visione strettamente contabile e computistica degli organi in parola, ai quali pare ben improbabile fare accogliere un giorno l’idea che possa essere utile talvolta non già far quadrare i bilanci, ma tenerli in squilibrio. Alla fine gli organi agiscono con la testa degli uomini che li dirigono…”.

5.1. E ricordando con “sgomento” le citate parole di Balducci, Caffè proseguiva:
“…Quando si aggiunge che, parlando di spese di istruzione, egli precisa che intende riferirsi addirittura ai maestri elementari, si può comprendere quale irrimediabile sconforto debba arrecare la consapevolezza che idee simili prevalgano in organi pubblici in posizione strategica agli effetti della manovra della politica economica…  
CHE SENSIBILITÀ DI FRONTE AI PROBLEMI DELLA DISOCCUPAZIONE potrà avere chi ritiene eccessiva la spesa per l’istruzione o per i servizi sociali in Italia? 
Non si tratta di necessaria impopolarità che qualcuno deve anche assumersi. Si può essere impopolari dicendo che certe spese non debbono essere fatte, ma si può esserlo dicendo, invece, che devono essere trovati i mezzi per poter sostenere le spese stesse, ad esempio con una tassazione più incisiva o più perequata.
Nella preferenza accordata a una alternativa anziché all’altra vi è già un concetto di scelta che implica preoccupazioni per certi interessi di gruppo anziché per altri … Alla deflazione pretesa «risanatrice», non meno che all’inflazione, SONO LEGATI INTERESSI PARTICOLARI CHE SI AVVANTAGGIANO DELLA SITUAZIONE CHE NE RISULTA, A DANNO DELLA PARTE PIÙ ESTESA DELLA COLLETTIVITÀ…
” [F. CAFFE’, Il mito della deflazione, Cronache sociali, n. 13, 15 luglio 1949].
Quindi, tenetelo a mente: “bisogna avere il coraggio di scendere dal livello di civiltà” in cui eravamo, altro che concorsone con l€uro ed il fiscal compact..."

5.2. Sulla tomba dell'Italia, nella prospettiva dell'imminente decesso voluto (a grandi intese) per la prossima legislatura, scriveranno il seguente epitaffio (e il senso è ovviamente invertito): 
Hic man€bimus optim€

22 commenti:

  1. Quousque tandem? Dopo il quinquennio 18-23, cosa resterà di questa miserabile classe politica (Lega compresa)? Soprattutto, nel 2023 avremo ancora la possibilità di andare a votare o qualche meraviglia informatica ci solleverà dal problema?

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    1. Io sono molto pessimista…. E come diceva Bazaar:
      Bazaar26 ottobre 2017 18:05

      @Dargen

      « Non c'è alcuna tecnologia (*) in grado di rompere una cifratura digitale anche (relativamente) economica purchè ben progettata. »

      Dargen, conosco 'sti discorsi a memoria: infatti scrivevo: « "matematica resistente a qualsiasi potere politico" »

      Dalla Debian - mamma di praticamente centinaia di altri sistemi operativi, dispositivi compresi - a OpenBSD è stato certificato che questi sistemi operativi avevano nelle rispettive community di sviluppatori mebri che sono stati pagati dalla CIA/NSA per infilare backdoor nel codice.

      Che Windows o Apple siano stati creati direttamente dalla "CIA" è un conto (altro che "siate folli!" e altre panzane del genere), che l'abilità ad usare la tecnologia sia una soluzione è politicamente un frame che distoglie dall'enorme problema politico causato dal progresso scientifico non accompagnato dal progresso sociale.

      Il "voto elettronico", come sa qualsiasi esperto in sicurezza, è una follia. Come è una follia la stessa Internet delle cose realizzata in una società non democratica.

      http://orizzonte48.blogspot.com/2017/10/la-doppia-moneta-di-einaudi-e-lta.html?showComment=1509033924135#c634121458493112357

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    2. Tra l’altro condivido questo suo pensiero:

      Bazaar21 giugno 2017 14:22

      Innanzitutto in questi spazi si ragione in ottica democratico-costituzionale: destra e sinistra vengono interpretati "secondo la costituzione" che è e rimane progressiva, fondata sul lavoro.

      Un'altra cosa sono i ceti che materialmente lottano per la conservazione o meno dell'assetto sociale.

      La macroeconomia, l'economia politica - ossia l'economia tout court - va compresa nei suoi fondamentali: per chi si propone di rappresentare gli interessi del popolo sovrano è necessario conoscerne i fondamentali "tecnici", mentre il popolo lavoratore dovrebbe almeno sapere che "i soldi" sono la prima e unica cosa reale che conta da gestire in politica. Tutto il resto viene a cascata.

      Le costituzioni nascono, in primis, per gestire ab origine il conflitto distributivo: le istituzioni che dalle carte liberali nascono per favorire gli interessi economici dei vari ceti borghesi in conflitto ma al riparo parimenti dalle pretese autocratiche e democratiche; le carte delle democrazie sociali moderne nascono per regolare il conflitto distributivo tra capitale e lavoro tutelando quest'ultimo, la parte più debole ma più numerosa ed estendibile ad ogni attività e funzione: poiché tutti dovrebbero lavorare e contribuire con la loro opera alla crescita materiale e spirituale della società, le Istituzioni provvedono a far sì che il potere politico sia socializzato tramite la socializzazione del potere economico.

      Il suffragio universale diventa quindi effettivamente strumento di democrazia partecipata da tutto il popolo sovrano, senza alcuna distinzione, a partire da quelle di censo, di classe.

      La socializzazione dell'istruzione ne è strumentale, ma non significa che tutto il popolo sovrano deve imparare a cercare, estrapolare ed interpretare secondo i migliori modelli teorici (in funzione dei loro interessi) i dati dai repository ufficiali.

      Ciò che sta accadendo è eversivo, progettato ingegneristicamente by stealth, da interessi miopi di ceti e dinastie che per fare gli interessi nella loro breve, miserabile e inutile vita, godono del pensiero di progettare un futuro per chi rimarrà (se rimarrà) anche dopo di loro.

      Un progetto a lunghissimo termine finanziato da chi non ha mai neanche veramente vissuto. Così, per l'ebbrezza del potere spacciata mafiosamente come "responsabilità" di chi "prende le decisioni che contano".

      Tutto ciò è permesso dalla struttura.

      E la struttura è sempre in primis da studiare tramite l'economia politica, nei suoi risvolti economicistici quanto sociologici e giuridici.

      La risposta è quindi produrre coscienza di tutto ciò: manca una classe dirigente - che sia politica, intellettuale o imprenditoriale - in grado di produrre coscienza e, dialetticamente, in grado di prendersi vantaggio materiale ed ideale dal supporto che ne deriverebbe da questi ceti coscienti.

      In breve: manca una "scuola" che formi un'avanguardia in grado di agire nel chiarire e rendere consapevole la massa lavoratrice e dei disoccupati.

      http://orizzonte48.blogspot.com/2017/06/sovranita-e-alleanze-un-falso-problema.html?showComment=1498047739163#c1839258738165868984

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  2. "As mass production has to be accompanied by mass consumption, mass consumption, in turn, implies a distribution of wealth ... to provide men with buying power. ... Instead of achieving that kind of distribution, a giant suction pump had by 1929-30 drawn into a few hands an increasing portion of currently produced wealth. ... The other fellows could stay in the game only by borrowing. When their credit ran out, the game stopped."

    Questa non è una citazione di un Basso anglosassone....

    Lo scrisse invece un ex presidente FED (allora si diceva chairman), liberista convinto, di professione banchiere, ricco sfondato.

    https://en.wikipedia.org/wiki/Marriner_Stoddard_Eccles

    E' l'unico caso a me noto di convergenza di pensiero tra lavoro e capitale.

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    1. E vabbè, mi vai a citare Eccles, endorsed by Veblen, cioè gli unici due casi nella Storia dell'economia di marshalliani che ammettono l'errore e riconoscono le teorie keynesiane!

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  3. Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.

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    1. E siccome invece di questi argomenti si è dibattutto con dati- e non con impressioni micugginistiche- in innumerevoli post negli anni scorsi, considero questo commento non solo OT, ma anche intollerabilmente luogocomunista: e lo cancello.

      Infatti, non c'è più tempo per discutere di questi risibili argomenti su basi di disinformazione di tal fatta e con, al più, scopi provocatori. Non su questo blog.

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  4. Discussioni...accademiche. Il bagno di sangue verrà sulla ricchezza patrimoniale (prossimamente su questi schermi)

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  5. Ma poi voglio dire… lo stesso Padoan (non un secolo fa)…. Diceva questo:

    Anche se la notizia è passata senza che le fosse dato un particolare risalto, - considerando che le TV a reti unificate continuano a spiegarci che il male dell'Italia è l'enorme spesa pubblica, chiamando puntualmente espertologi, sedicenti economisti, a spiegarcelo- una specie di clamoroso "contrordine" è arrivato.
    Venerdì 18 marzo, tornando da Milano, mi imbatto, su vari quotidiani, in un "annuncio a sorpresa" di Padoan; "La Repubblica" gli dedica un trafiletto, ma su "Il Messaggero", (pag.13), c'è un vero e proprio articolo con tanto di commento.
    Padoan, mentre starebbe per essere approvata la "flessibilità" di bilancio per il 2016, si arma di dati, che sono sempre stati disponibili, per dare "una risposta alla lettera con la quale l'Unione europea ha messo sotto osservazione l'Italia, sottolineando, tra i punti a sfavore, proprio i risultati poco brillanti della spending review".

    2. Di questo argomento, in realtà abbiamo parlato, da anni, in lungo e in largo: citando Haveelmo, il moltiplicatore, l'incidenza della spesa pubblica corrente sul PIL; la causazione effettiva, per via di interessi cumulati conseguenti a divorzio e "vincolo esterno", dell'innalzamento del rapporto debito pubblico su PIL, e via dicendo.
    Ma è estremamente interessante vedere le argomentazioni e i dati richiamati da Padoan a sostegno della propria risposta.
    Anzitutto: "Sui tagli alla spesa l'Italia non ha fatto poco, ma tanto. Anzi troppo. Al punto che oggi potrebbe non essere più possibile effettuare nuove profonde sforbiciate al bilancio dello Stato".
    I dati forniti dal Ministero dell'economia sono eloquenti:

    "tra il 2009 e il 2014, secondo le tabelle del Tesoro, l'Italia ha contenuto l'incremento della spesa primaria corrente all'1,4%, l'aumento più basso tra tutte le economie del mondo. In Germania e in Francia, nello stesso periodo, la spesa è salita del 12%, con una media nell'Unione europea del 9%.Tra il 2014 e il 2016, come evidenzia un'altra tabella, i risparmi, grazie alla revisione della spesa, sono stati di 25 miliardi di euro".

    http://orizzonte48.blogspot.com/2016/03/padoan-e-la-spesa-pubblica-i-tecniconi.html?spref=tw

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    1. Tanto per capirsi sulla già avvenuta deflazione salariale nel settore del pubblico impiego (cioè drastica riduzione REALE della spesa pubblica per costo del lavoro dipendente; e i dati si fermano al 2014 o al più 2015!)
      http://www.corteconti.it/export/sites/portalecdc/_documenti/controllo/sezioni_riunite/sezioni_riunite_in_sede_di_controllo/2016/delibera_8_2016_ssrrco_rcl.pdf
      "(decennio 2005-2014): Fatto 100 il valore delle diverse variabili nel 2009, le retribuzioni contrattuali di quadri ed impiegati pubblici sono cresciute di 0,6 punti percentuali (crescita di fatto concentrata nei primi due anni) a fronte di una dinamica del settore privato omogenea e costante che ha visto nel 2014 un incremento cumulato di 10,2 punti". (pag.26)

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  6. Per non dimenticare:

    … la Commissione si è orientata in senso favorevole sul punto di un diritto al lavoro. Ma se questo è lo sfondo, e vorremmo dire il primo canovaccio per la tessitura della organizzazione dello Stato, nessun passo avanti si sarebbe fatto da un secolo a questa parte se non si impegnasse lo Stato ad una visione più realistica della realtà sociale e, conseguentemente, ad una azione più diretta e decisa per la valorizzazione del lavoro e per la tutela di esso nel complesso della struttura economico-sociale della nostra società contemporanea.

    Siamo, beninteso, estremamente lontani da una concezione paternalistica delle attività dello Stato, del tutto incompatibile con la posizione eminente assunta dal lavoro. Si vuol dedurre invece, da quanto si è detto, che se la Commissione non ha creduto, al momento attuale, trarre tutte le conseguenze dal principio di un diritto al lavoro che avrebbe importato l’obbligo dello Stato di assicurarlo e, in difetto, di assicurare a ciascuno i mezzi di vita, ha tuttavia affermato il dovere dello Stato di promuovere con ogni mezzo le condizioni adatte a soddisfare il bisogno di lavoro dei suoi cittadini. La disoccupazione è un male oltre che economico, sociale e morale; ed in una società bene organizzata non vi dovrebbe essere nè un disoccupato nè un indigente…

    3. La determinazione del salario - … Sono respinti il principio del mercato libero ed il concetto di una “merce’’ lavoro a prezzo di concorrenza. La storia del sindacato moderno comincia ed è, almeno nella sua prima fase, la storia di una lotta per sottrarre il singolo alla schiavitù del bisogno e per dare dignità al lavoro

    4. La disoccupazione, le migrazioni e la politica di spese e di lavori pubblici – Questo aspetto della relazione della Commissione riguarda in modo particolare UN LATO DI POLITICA ECONOMICA, derivante dal principio del diritto al lavoro e la tutela di particolari diritti del lavoratore, inerenti a fenomeni così imponenti come quello della disoccupazione e della emigrazione.

    La possibilità di occupazione nella attuale situazione non può essere creata che da UNA POLITICA DI SPESA PUBBLICA E DA UNA POLITICA DI LAVORI PUBBLICI. L’orientamento teorico della Commissione, come risulta anche dalla relazione della Sottocommissione economica, È VOLTO VERSO LE TEORIE DELLA PIENA OCCUPAZIONE…teorie che stanno alla base dei piani Beveridge e consimili. La relazione rappresenta perciò una indicazione di politica economica che corrisponda alla realizzazione del principio giuridico del diritto al lavoro...
    ” [Commissione per lo studio dei problemi del lavoro del Ministero per la Costituente, Vol. I, Roma, 1946, Relazione del Presidente Antonio Pesenti, 45-48]. (segue)

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  7. E in sede di Assemblea Costituente, l’on. Belotti (democristiano) dichiarò “… Il principio del diritto al lavoro in una società in cui sia ammessa la libertà di investimento dei mezzi di produzione diventa un obbligo, una indicazione in favore di una POLITICA DI PIENA OCCUPAZIONE E DI SPESA PUBBLICA, cioè di intervento dello Stato nella vita economica, con varie forme tendenti, nel loro complesso, al raggiungimento di tale meta, per quanto essa sia possibile nel sistema capitalistico di produzione e ciò in netto contrasto con i criteri informatori della politica economica della società capitalistica di concorrenza che hanno ovunque prevalso nel passato. Questo principio, qualora venisse sancito nella Costituzione, oltre a costituire una precisa indicazione di politica economica e affermare una esigenza della coscienza popolare moderna, avrebbe inoltre conseguenze giuridiche importanti…” [Assemblea Costituente, 9 maggio 1947, seduta pomeridiana].

    Nel 1977 Caffè doveva constatare che le cose erano andate in modo diverso (come aveva già ampiamente intuito), con un discorso di rara attualità:

    Il modo in cui si provvide alla ricostruzione e le scelte deflazionistiche dei governi centristi condizionarono tutto lo sviluppo economico italiano…La politica economica italiana è sempre stata caratterizzata da un orientamento deflazionistico. Oggi, tuttavia, un simile orientamento e la sua accettazione da parte della sinistra sembrano trovare qualche giustificazione nello stato della bilancia dei pagamenti. Dobbiamo dunque chiederci: dove conduce questa strada? Ma anche: esiste una strada diversa? Continuare sulla strada attuale non mi sembra assolutamente auspicabile.

    Le nostre esportazioni, tutto sommato, reggono. Ma ciò avviene grazie al lavoro nero e accettando una posizione subalterna nella divisione internazionale del lavoro. Il deterioramento delle ragioni di scambio impone senza dubbio dei sacrifici. Ma affidare la distribuzione dei sacrifici al meccanismo dei prezzi non è affatto l’unica scelta possibile. Questa è, però, la strada che ci viene indicata. Inoltre viene richiesta una maggiore mobilità del lavoro e, più in generale, la liberalizzazione delle decisioni imprenditoriali da tutti i vincoli cui sono oggi sottoposte. Il problema che si pone è se le forze di sinistra debbano accettare queste condizioni (o, meglio, subire il ricatto, poiché di questo in realtà si tratta); oppure se esse debbano proporre un sistema di sacrifici generalizzato e controllato. La Robinson ha scritto che, se usassimo anche in tempo di pace i metodi dell’economia di guerra, il problema della piena occupazione sarebbe risolto. Non dovrebbe essere questo il programma delle sinistre?...

    Il problema principale è quello dell’occupazione. L’aumento dell’occupazione non può essere affidato all’espansione delle esportazioni, e cioè a una variabile che è fuori dal nostro controllo. È necessario rilanciare l’edilizia e fare una politica di opere pubbliche, ESPANDERE LA SPESA PUBBLICA... C’è però un equivoco di cui dobbiamo liberarci. Si sente spesso ripetere che la spesa pubblica deve rivolgersi in maggior misura agli investimenti e in minor misura al pagamento di salari e stipendi. Ma alcune riforme, fra le più importanti, richiedono un aumento dell’occupazione nel settore terziario. Se si vogliono migliorare i servizi sociali, si devono pagare salari e stipendi. Non è vero, poi, che la spesa pubblica è troppo elevata, è il gettito fiscale che è troppo basso per le ragioni che sappiamo…
    ” [F. CAFFE’, 1947-1977. Gli stessi errori? La politica economica italiana dai governi di unità nazionale al compromesso storico, ora in La dignità del lavoro, Roma, 2014, 29-30].

    Cari Italiani, il Paese sta morendo

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    1. https://sinistrainrete.info/teoria-economica/9754-maurizio-donato-miserabile-accumulazione-salari-produttivita-e-impoverimento-relativo-dei-lavoratori.html

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    2. Bravo l'autore a chiarire che in Marx c'è una teoria dell'immiserimento relativo, non assoluto, dei lavoratori.

      Dove Marx non è arrivato, se non forse alla fine, è capire che lo Stato, purché dotato di propria moneta!, può sempre generare una domanda autonoma che se non cancella di certo può alleviare la contraddizione della legge del valore (ossia il contrasto fra la tendenza a espandere la produzione e quella a tener bloccata la base di consumo) e risolvere le crisi di "sovrapproduzione" (che vuol dire di domanda, in un mondo concettuale in cui non si ritiene che domanda esterna al processo produttivo possa essere generata).

      Si potrebbe anche fare di più, ovviamente: varare quelle misure di ”keynesianesimo strutturale” che prevengano, o risolvano, la divaricazione salari-produttività di cui si parla.

      L'obiezione marxista è che in uno scenario del genere la caduta del saggio di profitto (che è cosa diversa dalla c.d. caduta tendenziale, teoria intrinsecamente illogica e abbandonata dallo stesso Marx) potrebbe produrre un rallentamento dell'accumulazione, cioè degli investimenti.

      Non è che Keynes a questo non avesse pensato, però: per evitare che, a keynesianesimo ingranato, una riduzione delle aspettative di profitto blocchi il raggiungimento della piena occupazione scriveva: "Ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento si dimostrerà l’unico mezzo per farci avvicinare alla piena occupazione […]”. (J. M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, UTET, Torino, 2005, pag. 466).

      (Keynes pensava soprattutto a partnership pubblico-privato, perché aveva una diffidenza verso le nazionalizzazioni, che peraltro keynesiani delle generazioni successive, fra cui Caffè, non condividevano affatto.)

      Mi pare difficile negare che il “capitalismo” di Keynes, se attuato, non è quello descritto da Marx; se bloccato, torna sinistramente a somigliare a quest’ultimo, aumento del plusvalore relativo in primis, con tutto lo strascico di conseguenze socialmente distruttive e destabilizzanti che gli si accompagna.

      (Chiedo scusa, son partito dall’articolo per mettere giù qualche pensiero sui rapporti fra Marx e Keynes, su cui riflettevo da un po’…:-)).

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    3. E fai delle interessanti riflessioni che corrispondono a temi che spesso riaffiorano in questa sede.

      Oltre alla nazionalizzazione, peraltro, c'è anche la "creazione" pubblica di impresa, legata, come sappiamo (Chang), al ruolo privilegiato dello Stato quale "svilupppatore" di conoscenze (non soggetto al bench mark del rendimento finanziario corrente).

      E poi c'è la creazione pubblica di servizi "non industriali", come la pubblica istruzione e la sanità (certo non secondo Hayek e l'€uropa).
      Insomma, aggiungendo all'interventismo "progressivo" l'erogazione di welfare in senso stretto (reddito indiretto e reddito differito, pubblici), c'è la MOBILITA' SOCIALE (ciò che è escluso per definizione dall'accumulo privato di capitale espropriativo del plusvalore). E la mobilità sociale, cioè l'eguaglianza sostanziale (la redistribuzione ex ante, soprattutto), è la leva che scardinerebbe il meccanismo descritto nell'articolo (il salario relativo immutabilmente stabile o decrescente).

      E tutto questo presuppone: a) che si abbia la sovranità monetaria; b) che la moneta sia tutt'altro che neutrale.

      La "dimenticanza" di questi aspetti è ciò che all'autore si può obiettare; cioè la dimenticanza della legalità costituzionale violata.

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    4. L'idea tutta italiana dell'ente pubblico economico di nittiana ascendenza trova secondo me la sintesi migliore per "una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento (che) si dimostrerà l’unico mezzo per farci avvicinare alla piena occupazione".

      Non mi pare il Capitale privato italiano- né ieri, né oggi e nemmeno in potenza domani- in grado di partecipare a simili operazioni a medio-lungo periodo. E non è un caso che, crollate le PPSS, sia terminata la ricerca industriale e gli investimenti produttivi (quantomeno in Patria)

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  8. Impressionante. Negli anni settanta il capitale aveva sostanzialmente già vinto. Mentre la produttività aumentava, i salari reali hanno smesso di crescere.
    Altro che effetto redistributivo!

    Ma si sa, il problema era l'inflazzione, da Berlinguer in poi. E Caffè dovette assistere a tutto questo

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    1. Ovviamente l'articolo dimentica il "vincolo esterno" (ben rilevabile sulla "curva"), e pure l'agire simultaneo della riduzione della domanda reale pubblica, cioè della spesa primaria al netto degli interessi sul debito.

      Insomma, non si considera che l'euro funziona proprio per rendere indifferenti le politiche monetarie al resto delle politiche economiche (come il gold standard, anzi peggio), sicché impone i famosi "aggiustamenti", che sono la predisposta (ben prevista) occasione per agire direttamente sul costo del lavoro; con la scusa (anch'essa predisposta) della diminuzione della produttività (come effetto della diminuità competitività di prezzo e perciò come calcolato effetto di appropriazione del plusvalore a danno di chi non ha aggiustato più rapidamente il costo del lavoro: da qui le lamentele della classe medio-piccola del capitale che subisce un processo che ne implica l'eliminazione per favorire solo i grandi accumulatori di capitale).

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  9. "Un modello normativizzato via Commissione UE, è quello che prevede che la crescita stessa sia determinata ESCLUSIVAMENTE dalle forze dell'offerta."

    In Italia sono fioriti in pochi anni circa trentacinquemila esercizi di 'compro oro'. Io penso sia accaduto per via della caduta dei redditi ma.... forse mi sbaglio.

    Applicando infatti il modello 'normativizzato via Commissione UE' è invece prevedibile che aumentando ulteriormente l'offerta di esercizi 'compro oro' gli italiani ne venderanno molto più di oggi (e di ieri, e diventeremo esportatori di oro pur senza possedere miniere!).

    Ma perchè allora non aumentare pure l'offerta di auto-demolizioni?
    Nel lungo periodo, grazie al modello EU, dovrà pure necessariamente aumentare la vendita di auto nuove...

    Applicando lo steso modello al tratto di via Palmiro Togliatti compreso tra via Casilina e via Collatina (oppure nel tratto urbano di via Salaria), in cui in orario serale e/o notturno staziona una coppia di passeggiatrici ogni 50 metri circa, gli sfruttatori potrebbero agevolmente ridurre la distanza a 25 metri e praticamente raddoppiare il fatturato (e nel lungo periodo pure la virilità insoddisfatta dei clienti, che dovrà pure crescere per adeguarsi all'offerta, usura delle mucose permettendo).

    Probabilmente è rigorosamente vero l'aforisma attribuito ad Albert Einstein:

    "Il contenuto di intelligenza dell'umanità è costante ma la popolazione è in aumento".

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  10. Francesco ha scritto: "Negli anni settanta il capitale aveva sostanzialmente già vinto. Mentre la produttività aumentava, i salari reali hanno smesso di crescere."

    Ciao Francesco secondo i dati riportati da Bagnai su l'Italia può farcela a pag 217 in Italia i salari reali negli anni 70 sono cresciuti di più della produttività
    dal 1970 al 1980 la produttività media è cresciuta del 4,1%, mentre i salari reali sono cresciuti del 6,1% con un scarto positivo del 2%.




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    1. Non è una conclusione di Francesco ma quanto si ricava dalla quota salari su PIL reale, cioè deflazionata, quale riportata nel grafico dell'articolo di "sinistra in rete" da me linkato nella precedente risposta a Francesco. Dati il cui andamento è certamente da vedere su scale temporali più dettagliate. Ma non solo...ci vorrei ritornare (ad averci il tempo).

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  11. @Mauro

    Infatti non ho scritto “1973”, ma “anni ‘70”.

    Come spiega il prof. Bagnai qui (minuti 10:27-21) , illustrando bene in particolar modo come ha funzionato il capitalismo in occidente durante gli ultimi 40 anni e la relazione di tale funzionamento con la crescita del debito pubblico, “l’elettrosalariopiatto” si manifesta agli inizi degli anni ’80 ovvero - ed è la stessa cosa qui, “ dalla fine degli anni ’70 in poi i salari reali (cioè corretti per l’inflazione) sono fermi. Lo stesso non è accaduto alla produttività, che si è mantenuta sul trend di crescita dell’ultimo secolo e mezzo (circa il 3% all’anno) ”.

    Come si vede nel grafico del filmato (E’ successo solo in America?), il picco della crescita dei salari reali si ha tra il 1975 ed il 1976. Dopo una lenta discesa

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