post di Sofia
All’esternata
volontà (o intenzione) di procedere ad un censimento dei ROM da parte del Ministro dell'interno,
è seguita una lunga polemica che non sorprende
tanto in quanto polemica e manifestazione di un pensiero contrapposto a quello
espresso dal Ministro, quanto per l’inesattezza delle contro-argomentazioni che
si baserebbero, in questo caso, addirittura su una presunta incostituzionalità
del censimento stesso.
Senza
tacciarmi di alcun merito, quindi, e al solo scopo di fornire qualche ulteriore
elemento di valutazione e approfondimento sul tema, riporto in maniera
riassuntiva i passaggi più significativi di un lavoro scientifico effettuato
con particolare meticolosità dal prof. Daniele Trabucco (con pregresse
esperienze di insegnamento di Diritto Costituzionale, ma anche di diritto
Europeo) dal titolo “LE
MINORANZE NELL’ORDINAMENTO COSTITUZIONALE ITALIANO”, che espone in maniera
chiarissima quali sono le garanzie costituzionali relativamente alle minoranze
etniche e le ulteriori tutele derivanti dall’ordinamento nazionale ed
internazionale.
1) Innanzitutto
l’autore (nel richiamare diverse fonti) chiarisce che la comunità
internazionale non introducono trattamenti differenziati a tutela dei gruppi minoritari,
ma rinviano all’autonoma determinazione delle autorità nazionali, e quindi alla
facoltà di modulare il regime
giuridico delle minoranze in funzione delle diverse situazioni nazionali.
Secondo
un approccio comune a molte Costituzioni contemporanee che trova conferma in
alcune risoluzioni del parlamento europeo e nella Carta delle lingue regionali o
minoritarie del Consiglio d’Europa del 1992 (Il cui preambolo richiama il Patto
internazionale sui diritti civili e politici del 1966, la CEDU del 1950, l’
Atto finale di Helsinki del 1975 ed il documento della riunione di Copenaghen
del 1990), la tendenza è quella di prendere in considerazione l’oggetto della
disciplina cioè la lingua e solo
indirettamente i soggetti beneficiari,
il che comporta il sostituire al concetto ambiguo ed onnicomprensivo di
“minoranza nazionale” quello più specifico di lingua e cultura regionale o
minoritaria.
La
Convenzione-Quadro per la protezione delle minoranze, approvata dal Consiglio
d’ Europa il 10 novembre del 1994, poi, distingue tra “langues minoritaires”
cioè le lingue che in nessuna parte del mondo rivestono una posizione dominante
all’ interno della società in cui sono praticate, pur potendo essere loro
riconosciuto lo status giuridico di lingue ufficiali o nazionali, e “langues en
situation minoritaire” ossia le lingue impiegate da popolazioni residenti
all’interno di uno Stato ma che costituiscono lingue ufficiali di un altro
Stato generalmente confinante, cui quelle popolazioni hanno cessato di appartenere
per sopravvenute vicende storiche e mutamento di confini.
I
precetti di tale Convenzione non sono direttamente applicabili in ciascuno
degli Stati sottoscrittori, ossia non sono self executing ma richiedono
un’opera di adattamento da parte degli ordinamenti giuridici interessati,
mancando un’espressa definizione di minoranza nazionale.
In
sede di ratifica, gli Stati possono optare, e variare così l’intensità dei loro
impegni, in relazione ai settori enumerati: insegnamento, giustizia, pubblica amministrazione,
media, attività culturali, rapporti economici e sociali. In ogni caso “ogni Parte si impegna ad applicare almeno
trentacinque paragrafi o capoversi scelti fra le disposizioni della parte III
della presente Carta, di cui almeno tre scelti in ciascuno degli articoli 8 e
12 e uno in ciascuno degli articoli 9, 10, 11 e 13” (art. 2 della Carta del
1992).
Le
disposizioni contenute all’ interno della Carta delle lingue regionali o
minoritarie, non esauriscono la tutela accordata ai gruppi minoritari in quanto
ai sensi dell’ articolo 4 secondo comma “le
disposizioni del presente trattato non pregiudicano l’ applicazione di misure
più favorevoli per le lingue regionali o minoritarie o per le persone
appartenenti a minoranze, già in vigore o previste da precedenti accordi bilaterali
o multilaterali”.
Vi
è poi il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 Ratificato
dall’Italia con l. 25 ottobre 1977 n. 881. L’articolo 27, in particolare, sancisce
che “le persone appartenenti a….minoranze non possono essere private del diritto
di impiegare la propria lingua ed avere la loro propria vita culturale” il che dovrebbe
implicare una pretesa dei singoli all’intervento attivo dello Stato affinchè
intervenga, legislativamente, a rimuovere ogni pregiudizio al libero e naturale
esercizio all’utilizzo della lingua del gruppo minoritario di appartenenza.
Mentre,
a livello di diritto internazionale pubblico, si dispone di una serie di
documenti-Convenzioni sulla tutela delle minoranze, nazionali in particolare,
sotto il profilo del diritto dell’Unione Europea, manca invece un principio
espresso di salvaguardia delle minoranze che sia formalmente sancito nel
Trattato CE.
Al
di là, di alcune sporadiche menzioni nei documenti comunitari, l’attenzione va
posta alla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che,
nelle sue decisioni, ingloba il tema della tutela minoritaria all’interno del
principio di parità di trattamento tra i cittadini degli Stati membri il quale,
a differenza di quello sulla protezione delle minoranze, è espressamente
previsto e contemplato nel Trattato (Art. 12, 1°comma, Trattato CE: “Nel campo
di applicazione del presente Trattato, e senza pregiudizio delle disposizioni
particolari dallo stesso previste, è vietata ogni discriminazione effettuata in
base alla nazionalità”.)
Se
nel Trattato di Amsterdam del 1997 (modificativo del Trattato CE ed UE), dopo
aver sancito che la Comunità “contribuisce” al pieno sviluppo delle culture
degli Stati membri “nel rispetto delle loro diversità nazionali e regionali” ,
ci si limita ad una forma di tutela circoscritta agli aspetti culturali “al
fine di rispettare e promuovere la diversità delle culture”, un riferimento
chiaro al concetto di minoranza, si consegue solo con la Carta di Nizza, la
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, originariamente incorporata
nella Parte II del Trattato che istituiva una Costituzione per l’Europa ed oggi, a seguito del Trattato di Lisbona del
13 dicembre 2007 , posta a Preambolo dello stesso con valore giuridicamente
vincolante.
La
Carta dei Diritti Fondamentali, infatti, dopo aver genericamente sancito il
rispetto, da parte dell’Unione, della diversità culturale, religiosa e
linguistica, vieta “ogni discriminazione fondata……sull’appartenenza ad una
minoranza nazionale”.
Il
limite, tuttavia, della salvaguardia della diversità minoritaria in seno alla
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea è però la ascrivibilità
della protezione alle sole minoranze nazionali intese, secondo
l’interpretazione maggioritaria, in senso etnico e razziale; aspetto, peraltro,
ribadito anche dalla direttiva 2000/43/CE (65) del Consiglio dei Ministri
dell’Unione, datata 29 giugno 2000 ed attuata nell’ordinamento italiano con
D.Lgs. n. 215/2003, a seguito della quale gli Stati membri della Comunità si
impegnano a vietare qualsiasi atto discriminatorio basato sulla razza o
l’origine etnica, facendo salve, all’art. 5, le azioni positive degli Stati
dirette ad evitare o compensare svantaggi connessi con l’appartenenza ad una
determinata etnia.
La
Costituzione Europea prima ed il Trattato di Lisbona ora, non lasciano agli Stati
dell’Unione la disciplina della materia e non vogliono intervenire.
L’art.
6, 3° comma, infatti, del Trattato di Lisbona nella parte in cui incide sul
Trattato UE indica come, in tema di diritti fondamentali, la politica
comunitaria si informi tanto alla CEDU quanto soprattutto “alle tradizioni
costituzionali comuni agli Stati membri”.
2) Arrivando
alla Costituzione Italiana, con l’indirizzo nazionalistico che aveva impedito,
tra l’unificazione del Regno d’Italia (1861) e la prima guerra mondiale
(1915-1918), il riconoscimento delle identità minoritarie ed il successivo
regime fascista, anche le forme più elementari e semplici di tutela e
protezione dei gruppi minoritari erano rimaste in sospeso.
Solo
a partire dalla fine della seconda guerra mondiale (1945) e con l’inizio dei
lavori dell’Assemblea Costituente, chiamata a redigere il nuovo testo costituzionale
italiano, il problema delle minoranze linguistiche iniziò a trovare una sua
collocazione nella nuova forma che lo Stato repubblicano italiano si stava
dando.
La
Costituzione della Repubblica italiana non si spinge a disciplinare l’uso delle
lingue minoritarie né ad individuare le minoranze linguistiche ma pone tra i
suoi Principi Fondamentali una norma di carattere generale ossia l articolo 6,
destinata a costituire il presupposto della tutela di tutte le situazioni
linguistiche minoritarie: “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze
linguistiche”.
Come
esplicitamente dichiarato durante la fase dei lavori preparatori, l’inserimento
di una disposizione normativa ad hoc esprimeva molto bene l’intenzione dei
padri costituenti di impegnare l’ordinamento giuridico statale italiano alla
tutela e protezione delle minoranze linguistiche, non in ottemperanza ad eventuali vincoli internazionali, bensì
ad un principio autonomamente rilevante sul piano del diritto interno, di impegnare la Repubblica nel suo complesso a
concretare “quella garanzia di ordine positivo stabilita a favore delle varie
minoranze linguistiche” con la conseguenza della ricaduta del dovere di tutela
non soltanto sugli organi dello Stato centrale ma anche sulle diverse comunità
territoriali ove queste formazioni sociali sono stanziate.
Il
testo definitivo dell’articolo 6, è stato approvato dalla Assemblea Costituente
il 22 luglio del 1947.
La
disposizione originaria (diversa dalla formulazione attuale), che secondo le
indicazioni del suo proponente on. Ernesto Codignola, avrebbe dovuto essere inserita nel titolo della Costituzione
relativo all’ ordinamento regionale e che originariamente non compariva
nel progetto di Costituzione predisposto
dalla Commissione dei Settantacinque, andava
a sostituire l’istituzione delle regioni a statuto speciale di confine
(dove c’erano forti minoranze etnico-linguistiche) e consentiva anche
l’introduzione di una generica garanzia per le popolazioni, di minore
importanza, disperse sul territorio nazionale che avrebbero potuto chiedere in
futuro rivendicazioni di carattere linguistico.
Su
proposta dell’on. Tosato, il plenum dell’Assemblea Costituente decise,
apportando delle modifiche che diedero al disposto la configurazione attuale,
di inserire la disposizione normativa in esame tra i Principi Fondamentali
della Costituzione dal momento che la protezione delle situazioni minoritarie non
poteva essere relegata all’ambito regionale, in quanto dotata di un intrinseco
interesse di portata generale. Con l’approvazione del testo dell’articolo 6, si
superava l’obiezione dell’on. Meuccio Ruini il quale sosteneva inutile e
pleonastica la previsione in oggetto dato che riteneva sufficiente il principio
d’ uguaglianza, nelle sue varie articolazioni, a dare copertura e salvaguardia
ai gruppi minoritari. Ma il legislatore costituente non adottò questa
soluzione, tenuto conto della complessità e la variegata articolazione delle
realtà minoritarie in Italia, optandoper un disposto ad hoc.
Con
il testo attuale dell’articolo 6 veniva inoltre precisato di volersi preferire
all’espressione “minoranze etniche” usata nella bozza di progetto presentata
dall’on. Codignola, quella di “minoranze linguistiche”, rimarcando così l’intenzione
dei padri costituenti di consentire la più ampia facoltà di apprezzamento delle
situazioni minoritarie, nel rispetto dell’ unità e dell’integrità territoriale dello
Stato.
Nonostante
il tenore letterale dell’art. 6 della Costituzione che menziona espressamente
le “minoranze linguistiche” , è fuor dubbio, evidenzia il Toniatti, che il
disposto costituzionale in oggetto rappresenta “un esempio illustrativo del
tentativo di conciliare un uso strumentalmente unitario del concetto di Nazione
con la volontà di introdurre una norma di principio di garanzia per le proprie
minoranze nazionali (ma definite linguistiche)”.
Le
pronunce della corte Cost. che si sono succedute hanno chiarito che solamente
un gruppo minoritario destinatario di norme interne attuative di specifici
accordi internazionali o di disposizioni contenute in Statuti speciali,
garantirebbe l’operatività del principio costituzionale di cui all’art. 6,
ipostatizzando quel suo carattere di “norma direttiva e dalla applicazione
differita”; viceversa, per quelle realtà minoritarie non beneficianti di alcun
intervento diretto da parte del legislatore interno, il peculiare garantismo
costituzionale non avrebbe potuto azionarsi, ascrivendo la tutela al mero
profilo dell’eguaglianza formale ed all’ambito del riconoscimento dei diritti
umani in generale.
In
altri termini, la Corte Costituzionale ravvisa, a favore delle minoranze non riconosciute, unicamente una forma
di tutela negativa consistente in un divieto generalizzato rivolto a tutti “i
soggetti ed a tutti gli apparati pubblici” affinchè si astengano da
“comportamenti” e da “atti che costituiscono persecuzione e discriminazione
degli appartenenti alle minoranze.
L’esistenza
di strutture o istituti organizzativi a finalità generali, costituisce la
condicio ineludibile per una tutela minima delle comunità minoritarie al fine
di consentire l’azionabilità delle pretese soggettive degli appartenenti alle medesime.
In conclusione, quindi, mentre le disposizioni europee non si preoccupano realmente delle minoranze, se non nei limiti della libertà di movimento e stabilimento, la Costituzione, se pure entro limiti determinati, garantisce una tutela effettiva alle minoranze, sul presupposto, però, che siano effettivamente riconoscibili ed individuabili.
3) Non
può non evidenziarsi anche come le tutele previste nell’art. 6 della Cost.
siano strettamente collegate a quelle degli artt. 2 , 3 e 9 Cost.
Al
principio pluralistico, come si evince dall’ articolo 2 della Costituzione,
consegue la valorizzazione di tutte le formazioni sociali in cui si realizza la
personalità dell’uomo, non più considerato isolatamente, ma visto nel vivo del
tessuto sociale anche ove si tratti di comunità o di associazioni che hanno
dimensioni più ridotte di quelle della comunità statale. Le minoranze etnico-linguistiche
rientrano indubbiamente tra queste comunità e pertanto la loro tutela e
salvaguardia si giustificano con le stesse considerazioni che costituiscono i
presupposti per la tutela di tutti gli altri tipi di formazioni sociali.
Per
quanto riguarda invece il nesso di collegamento tra l’articolo 6 ed il
principio d’uguaglianza sancito all’articolo 3 della Costituzione, va osservato
come quest’ultimo comporti il divieto di discriminazioni a cui consegue
l’illegittimità di qualunque misura vessatoria nei confronti di determinate
categorie di individui e quindi, indirettamente, anche verso coloro che appartengono
ai gruppi minoritari. Tuttavia l’attuazione di una “tutela negativa” di questo
tipo, se appare in linea di massima sufficiente a proteggere le “minoranze
necessarie” cioè quelle che tendono a realizzare la propria integrazione con il
gruppo sociale del quale fanno parte, non basta però a tutelare le “minoranze
volontarie” le quali tendono a vedere valorizzate le proprie caratteristiche
attraverso interventi statali o regionali di tutela positiva che può risultare
solamente dall’adozione di provvedimenti particolari che stabiliscano nei lori
confronti un regime giuridico privilegiato.
Infine,
quanto al confronto tra articolo 6 e articolo 9. Quest’ultimo affermando che
“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e
tecnica. Tutela il paesaggio ed il patrimonio storicoartistico della Nazione”,
non si rivolge specificatamente alle minoranze linguistiche, bensì assegna ai
poteri pubblici attribuzioni conservative e promozionali per assicurare e
garantire la piena realizzazione del diritto alla cultura, di cui non sono
titolari soltanto quanti si riconoscono in un’ identità minoritaria. A questo
proposito, secondo la dottrina oggi dominante, è l’accertamento del c.d. animus
comunitario cioè la consapevole condivisione di tutta una gamma di valori
tradizionali, da effettuarsi con l’ausilio di criteri di ordine sociologico,
politico, economico e culturale, che consente di qualificare determinati gruppi
linguistici minoritari come formazioni sociali in base all’ articolo 2 e dunque
meritevoli di “apposite norme” di tutela sulla base dell’ articolo 6. In questo
caso non dovrebbero dunque sussistere ostacoli per l’ integrazione dei due
precetti costituzionali sul piano esegetico che verrebbero a rafforzarsi
reciprocamente ed a potenziare, in sede applicativa, la tutela minoritaria;
laddove però tale consapevolezza non fosse ravvisabile, la tutela delle
semplici varietà linguistiche dovrebbe ricadere nell’ ambito dell’ articolo 9,
rilevando in questo caso le espressioni linguistiche minoritarie alla stregua
di beni culturali, senza giungere ad identificare e differenziare per ciò
stesso una comunità in quanto tale.
4) Prima
della legge ordinaria dello Stato n. 482/1999, quindi, le minoranze
riconosciute dovevano essere quelle alle quali si rivolgevano le disposizioni
normative degli statuti speciali e del diritto internazionale pubblico, mentre
le comunità linguistiche per le quali non ricorressero i menzionati presupposti
giuridici, poiché interessate da vicende storiche e costituzionali diverse, non
potevano fruire in quanto tali del riconoscimento e della tutela delle realtà
minoritarie riconosciute.
Inoltre,
il principio supremo dell’articolo 6, se per le minoranze riconosciute appariva
dotato di un grado minimo di operatività, nei confronti delle minoranze
etnico-linguistiche non riconosciute avrebbe esplicato tutta la sua portata di
norma programmatica che abbisognava e necessitava di attuazione ed integrazione
tramite appropriate misure legislative ed amministrative.
L’attribuzione
dello status di minoranza linguistica riconosciuta consentiva la
predisposizione di misure positive di tutela sia a dimensione individuale sia
collettiva, configurabili come veri e propri diritti linguistici, come
dimostravano e dimostrano chiaramente gli statuti speciali e le relative norme
di attuazione delle regioni Trentino-Alto Adige/SudTirol e Valle d’ Aosta.
Tuttavia
affinchè gli strumenti di tutela fossero effettivi, occorreva procedere
all’identificazione della minoranza ed all’accertamento della sua consistenza.
Spettava quindi agli ordinamenti nazionali, nell’ambito della situazione
antecedente l’intervento del legislatore statale tramite la legge 482/1999, di
accertare la consistenza delle minoranze nazionali nei cui confronti le garanzie
linguistiche devono trovare applicazione: venivano in considerazione, secondo
il metodo soggettivo, le disposizioni che permettevano e consentono tuttora
l’esercizio delle situazioni giuridiche soggettive anche al di fuori dell’ area
mistilingue o quelle che stabilivano una dichiarazione d’appartenenza ad un
gruppo linguistico come ad esempio nelle province autonome di Bolzano/Bozen e
Trento. Tuttavia il c.d. censimento linguistico o etnico, si è sempre rivelata(per
le ragioni più varie) una operazione difficile, e diverse minoranze (anche per
paura di persecuzioni o discriminazioni) si sono sempre sottratta a censimenti
e dichiarazioni di appartenenza.
I
progetti relativi alla tutela delle minoranze linguistiche seguivano, fin dalla
seconda metà degli anni ’70, una certa diversità di approcci nella procedura
d’identificazione soggettiva e territoriale delle situazioni minoritarie: dall’
indicazione nominale da parte del Parlamento delle comunità tradizionali di
lingua non italiana, alla delega alle regioni ed agli enti locali della
determinazione delle zone in cui fosse abituale se non prevalente l’uso di
lingue diverse da quella italiana, alla previsione di una particolare procedura
da attivarsi a cura degli stessi gruppi minoritari rappresentati dagli organi
degli enti locali o da associazioni appositamente costituite.
Nel
corso della IX legislatura (1985), i lavori parlamentari giunsero ad un
progetto di legge unitario dal titolo “ Norme in materia di tutela delle
minoranze linguistiche”, il quale iniziava elencando in maniera precisa e
dettagliata i gruppi minoritari meritevoli di tutela e protezione giuridica,
consistenti nelle “popolazioni di origine albanese, catalana, germanica, greca,
slava e zingara” ed in quei gruppi
linguistici “parlanti il ladino, il franco-provenzale e l’ occitano” cui, alla
fine, seguiva la protezione della lingua e della cultura delle “popolazioni
friulane e sarde”.
Il
progetto di legge rinviava ad un decreto del presidente della giunta regionale,
da adottarsi previa deliberazione della giunta stessa, nel rispetto delle
condizioni minime stabilite dalla legge. Ma l’iniziativa del procedimento di
tutela, e questa era una novità, era affidata ai cittadini iscritti nelle liste
elettorali dei comuni interessati, dei quali l’amministrazione regionale doveva
acquisire il parere prima di procedere all’emanazione del decreto e nel testo
poi ripresentato nel 1991 su iniziativa di un decimo dei consiglieri comunali dei comuni interessati, espressione
della medesima minoranza. Questi lavori parlamentari, non ottennero però
un’approvazione definitiva da parte dei rami del Parlamento nazionale.
La
legge del 15 dicembre del 1999 n. 482 ha proceduto, seguendo progetti di legge
passati ma mai entrati in vigore, all’elencazione delle minoranze linguistiche
storiche e dei vari idiomi. Tutte rientrano nel novero di tutela senza alcun
tipo di distinzione tra realtà minoritarie riconosciute e non, ad eccezione
della popolazione zingara che
è citata nei disegni di legge precedenti ma non nel testo in oggetto. Recita
infatti l’articolo 2: “In attuazione dell’ articolo 6 della Costituzione ed in
armonia con i principi generali stabiliti dagli organismi europei ed
internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni
albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e quelle parlanti il
francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano ed il
sardo”.
Quanto
alla procedura di definizione degli ambiti territoriali per individuare
chiaramente le realtà minoritarie, vanno evidenziati due presupposti
fondamentali ossia la valorizzazione delle autonomie locali, da un lato, e del
coinvolgimento popolare dall’altro i quali hanno trovato riscontro nel testo
dell’ articolo 3: scomparso il rinvio alla legge regionale (come nei disegni di
legge di cui si è accennato) e trasferita la titolarità della competenza ad
individuare le aree di riferimento per la tutela minoritaria al consiglio
provinciale, sentiti i comuni interessati, viene ribadita l’iniziativa di
almeno il 15 per cento dei cittadini iscritti nelle liste elettorali e residenti
nei comuni interessati, ovvero di un terzo dei consiglieri comunali dei
medesimi comuni, ferma restando l’attivazione di questo procedimento da parte
della popolazione residente, mediante una consultazione realizzata ai sensi
delle prescrizioni degli statuti e dei regolamenti comunali. Con questa
procedura, si sostanzia un atteggiamento, mai venuto meno, ossia l’opportunità
di legare il tema dell’identità linguistica e culturale a quello del
decentramento territoriale.
In
sintesi, va osservato come il merito di questa legge è
stato sicuramente quello di far trasparire, anche se implicitamente, un nuovo
concetto di minoranza linguistica intesa come “comunità diffusa” cioè un quid
dotato di una sua autonomia personale che, perciò stesso, lo rende meritevole
di tutela e protezione sul piano legislativo, attuando una inversione di
tendenza radicale in quanto quella dicotomia tra minoranze linguistiche
riconosciute e non riconosciute è stata, al meno sul piano normativo-legislativo
definitivamente superata.
L’intervento,
anche se tardivo, della legge dello Stato ha consentito di cancellare
definitivamente quella distinzione tra minoranze linguistiche riconosciute e non riconosciute,
presente sia a livello dottrinale sia a livello giurisprudenziale. La legge
però non è autoapplicativa, ma ai sensi del disposto normativo dell’articolo 17
abbisogna di regolamenti governativi d’attuazione previo parere delle regioni
italiane che ospitano le minoranze linguistiche neoriconosciute: “Le norme
regolamentari d’ attuazione (attualmente contenute nel d.P.R. 2 maggio 2001
n.345) della presente legge sono adottate entro sei mesi dalla data di entrata
in vigore della medesima, sentite le regioni interessate”. Inoltre, è da
precisare come la definizione delle aree territoriali e subcomunali tramite
procedure che coinvolgano le popolazioni interessate e gli organi
rappresentativi degli enti locali, l’eventuale modifica, anche se non
esplicitamente e direttamente suggerita dal legislatore, degli statuti locali e
dei regolamenti consiliari sia comunali sia provinciali per disciplinare gli
usi pubblici delle lingue ammesse a tutela, l’adeguamento della legislazione
delle Regioni ordinarie ai principi contenuti nella presente legge, a meno che
la situazione normativa già vigente non contempli condizioni più favorevoli per
le realtà minoritarie, costituiscono i principali adempimenti necessari a
specificare le direttive disposte dal parlamento nazionale nel settore
dell’insegnamento e dell’educazione (artt. 4-6), nel funzionamento dell’
amministrazione locale, nei rapporti con la pubblica amministrazione e
l’autorità giudiziaria (artt. 7-9) ecc.
In
definitiva il processo di attuazione della legge si rivela complesso ed
articolato, ed il suo esito dipende dal grado di sensibilità e dallo spirito
collaborativo di tutte le istituzioni coinvolte.
Tuttavia
ci possono essere anche dei rischi e delle implicazioni connessi al progressivo
e graduale rafforzamento della tutela minoritaria in quanto c’è il serio pericolo
di pregiudicare i diritti degli altri cittadini; ecco perché diventa
necessario, come si evince indirettamente dalla sentenza n. 356/1998 della
Corte Costituzionale, un bilanciamento tra le posizioni giuridiche dei gruppi
minoritari e la maggioranza dei cives in nome di una effettiva, armoniosa e
pacifica convivenza.
Ricostruite
le tutele delle minoranze grazie al lavoro del prof. Trabucchi, pare evidente,
quindi, come dalle norme costituzionali non si evinca affatto un divieto di
effettuare un censimento delle minoranze linguistiche, né che un censimento
debba necessariamente rispondere a finalità di “pulizia etnica” come da più
parti evidenziato, ma che il censimento sia invece solo lo strumento per applicare effettivamente le tutele costituzionali.
5) Il
censimento resta uno strumento (che nell'antica Roma veniva effettuato già dalla fine
del VI secolo a.C. e serviva a valutare il ruolo nell'organizzazione
militare o politica e ovviamente la quantità di tasse dovute),
spesso rimesso alle autorità locali, per
l’acquisizione di informazioni sulla popolazione insistente sul territorio per
le finalità più varie: sicurezza, statistiche, tutela della salute, istruzione
ecc.
Lo
Stato e le autorità locali (per esigenze di tutela dei cittadini, ma anche dei
non cittadini) dovrebbero essere messe in condizione di conoscere chi si trova (più
o meno) stabilmente sul territorio e dove, di quali servizi usufruisce e di
quali ha bisogno, di come incide sulle politiche locali e sull’economia di un territorio.
Senza contare che chiunque si ritrova a stare (più o meno) stabilmente nel
territorio italiano, fermo il rispetto da parte dello Stato e delle istituzioni
e dei cittadini Italiani della lingua, della cultura, delle origini e delle
abitudini di una minoranza linguistico-etnica, è tenuto a rispettare le regole
dello Stato Italiano. Il rispetto delle regole, secondo principi basilari del
diritto, comporta la necessità di applicare la sanzione in caso di infrazione
delle regole stesse, con la conseguenza che non vi può essere alcuna sanzione
nei confronti di chi non rispetta le regole dello Stato ospitante per il solo
fatto di non essere in alcun modo censito.
Dovrebbe
far riflettere la circostanza che, proprio in base alla nostra Costituzione e
ai principi elaborati dalla Corte, il censimento e, quindi, il riconoscimento e
l’accertamento della sussistenza di una minoranza linguistica, sia il
presupposto per l’applicazione di una serie indefinita di tutele (tra cui il
diritto al nome, al riconoscimento della capacità giuridica, riconoscimento dei
diritti politici, diritto all’istruzione, alla salute, ecc) proprio al fine di
equiparare le minoranze ai cittadini e non determinare discriminazioni, ma
alcune minoranze si rifiutano di essere censite dietro la scusa che il mancato
censimento corrisponderebbe ad una forma di libertà.
Non
pare sia troppo azzardato pensare che il rifiuto di essere censiti sia l’unico
modo per sottrarsi ad ogni forma di legalità che lo Stato Italiano, proprio per
il dovere di tutela di sicurezza e benessere dei propri cittadini e per non
incorrere in una forma di discriminazione a contrario (dal momento che nessun
cittadino può sottrarsi dall’iscrizione all’anagrafe, dal possedere un documento
di identità, dall’essere identificato e punito nel caso in cui commetta un
qualsiasi reato, illecito, infrazione ecc), è tenuto a garantire.
6) Poiché
le parole del Ministro si sono rivolte, in particolare, ai ROM, e poichè gli zingari sono esclusi dall'ambito di applicazione della l. 482/99, qualche
ulteriore elemento di approfondimento è tratto dallo studio “Le
minoranze Rom e Sinte. Alla ricerca di uno status giuridico” di cui non condivido nessuna delle
considerazioni critiche ivi riportate (su prersunte discriminazioni operate nei
confronti del ROM) ma solo alcune parti di ricostruzione fattuale che di
seguito riporto.
Lo
studio evidenzia come con riferimento ai ROM si ha a che fare con una realtà
molto variegata. Rom e Sinti si distinguono dalle altre minoranze anche perché
sono una minoranza transnazionale, e in Italia vi sono persone appartenenti
alla minoranza dei Rom e dei Sinti che possono avere uno status giuridico
diverso l’una dall’altra:
a)
Cittadini italiani: si può affermare che si tratta di una minoranza linguistica
storica e cioè di una di quelle minoranze tendenzialmente permanenti da
considerarsi frazioni del popolo, elemento costitutivo dello Stato. La
circostanza che si tratti di cittadini italiani diffusi sul territorio
nazionale, che si tratti di una minoranza priva di uno stabile radicamento
territoriale, e che alcuni di costoro vivano in situazione di itineranza, non
impedisce che sussistano le caratteristiche di una minoranza nazionale
autoctona, cioè risultante da un insediamento umano tradizionale permanente sul
medesimo territorio in cui si esercita la sovranità statale;
b) Cittadini di altri Stati membri dell’Unione europea: qualora invece si tratti di Rom o Sinti cittadini di Stati membri dell’Unione europea che hanno lasciato a causa di forte marginalizzazione o di mancanza di possibilità di sviluppo specificatamente riguardanti gli appartenenti alla minoranza, la questione riguarda anche gli obblighi degli Stati membri dell’Unione europea. Essi hanno esercitato il loro diritto di libera circolazione e soggiorno in altri Stati membri, I Rom e i Sinti comunitari che entrino in Italia e che si trovino ad avere una vita itinerante hanno soltanto tre mesi per trovare un lavoro, prorogabili di altri tre se vi è una iscrizione ai centri per l’impiego. Inoltre le norme comunitarie vigenti non consentono l’accesso all’assistenza sociale in uno degli Stati membri prima di aver ottenuto il diritto di soggiorno, e il d. lgs. n.30/2007 di attuazione della direttiva comunitaria condiziona l’ottenimento e il mantenimento del diritto di soggiorno non soltanto ad uno dei presupposti previsti dalle norme comunitarie (un’occupazione regolare di tipo subordinato o autonomo, un legame familiare con altro cittadino dell’Unione residente in Italia dal quale sia economicamente mantenuto, l’iscrizione a corsi scolastici o universitari con autosufficienza reddituale e di copertura sanitaria, nulla facenza collegata alla disponibilità di un reddito e di un alloggio), ma anche alla residenza. È in ogni caso chiaro che, in base alle norme comunitarie e alle norme statali di attuazione, lo straniero comunitario di etnia rom o sinta che perda o non abbia quei requisiti, ovvero che non sia iscritto nell’anagrafe della popolazione residente in un Comune, o che sia o sia diventato un “onere eccessivo” per l’assistenza sociale si trova in una delle situazioni che legittimano l’adozione di un provvedimento di allontanamento dal territorio dello Stato disposto nei suoi confronti dall’autorità di pubblica sicurezza.
b) Cittadini di altri Stati membri dell’Unione europea: qualora invece si tratti di Rom o Sinti cittadini di Stati membri dell’Unione europea che hanno lasciato a causa di forte marginalizzazione o di mancanza di possibilità di sviluppo specificatamente riguardanti gli appartenenti alla minoranza, la questione riguarda anche gli obblighi degli Stati membri dell’Unione europea. Essi hanno esercitato il loro diritto di libera circolazione e soggiorno in altri Stati membri, I Rom e i Sinti comunitari che entrino in Italia e che si trovino ad avere una vita itinerante hanno soltanto tre mesi per trovare un lavoro, prorogabili di altri tre se vi è una iscrizione ai centri per l’impiego. Inoltre le norme comunitarie vigenti non consentono l’accesso all’assistenza sociale in uno degli Stati membri prima di aver ottenuto il diritto di soggiorno, e il d. lgs. n.30/2007 di attuazione della direttiva comunitaria condiziona l’ottenimento e il mantenimento del diritto di soggiorno non soltanto ad uno dei presupposti previsti dalle norme comunitarie (un’occupazione regolare di tipo subordinato o autonomo, un legame familiare con altro cittadino dell’Unione residente in Italia dal quale sia economicamente mantenuto, l’iscrizione a corsi scolastici o universitari con autosufficienza reddituale e di copertura sanitaria, nulla facenza collegata alla disponibilità di un reddito e di un alloggio), ma anche alla residenza. È in ogni caso chiaro che, in base alle norme comunitarie e alle norme statali di attuazione, lo straniero comunitario di etnia rom o sinta che perda o non abbia quei requisiti, ovvero che non sia iscritto nell’anagrafe della popolazione residente in un Comune, o che sia o sia diventato un “onere eccessivo” per l’assistenza sociale si trova in una delle situazioni che legittimano l’adozione di un provvedimento di allontanamento dal territorio dello Stato disposto nei suoi confronti dall’autorità di pubblica sicurezza.
c)
Cittadini di Stati extracomunitari: nei confronti dei Rom e dei Sinti che siano
cittadini di Stati extracomunitari si applicano le norme in materia di
immigrazione (Testo Unico approvato con d. lgs. n. 287/1998) con margini di discrezionalità conferiti all’autorità di
pubblica sicurezza che attengono anche alla possibilità di impedire nuovi ingressi per motivi di lavoro non stagionale,
l’accertamento dell’idoneità alloggiativa ai fini del mantenimento o del
riacquisto dell’unità familiare e i nuovi reati di ingresso o permanenza
irregolari nel territorio dello Stato che però non possono riguardare coloro
che hanno comunque titolo al soggiorno perché inespellibili (richiedenti asilo,
minori, donne incinte o che abbiano partorito un figlio da meno di sei mesi e
loro mariti conviventi, parenti fino al secondo grado di cittadini italiani) o
coloro che siano ammessi a programmi di integrazione e assistenza sociale in
quanto vittime di violenza o di grave sfruttamento. Anche per i Rom e i Sinti
titolari del permesso di soggiorno per lavoro vi è il problema del mancato
rinnovo del permesso di soggiorno senza che vi sia un datore di lavoro che
firmi un contratto di soggiorno che garantisca anche un alloggio;
d)
Titolari dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria: quei Rom e
Sinti che hanno lasciato Paesi extracomunitari in cui sono stati oggetto di
persecuzioni o di danni gravi a causa di conflitti interni o internazionali
hanno accesso ad una delle forme in cui lo straniero può godere del diritto
d’asilo (art.10, comma 3 Cost.), quindi di protezione internazionale (status di
rifugiato o status di protezione sussidiaria) o del permesso di soggiorno per
motivi umanitari, secondo ciò che prevedono le norme comunitarie ed
internazionali e le norme statali. Come ogni altro richiedente asilo o titolare
dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria o di permessi di
soggiorno per motivi umanitari, anche Rom e Sinti hanno diritto di essere
ammessi a tutte le misure di assistenza previste dalle norme comunitarie e
nazionali anche durante l’esame della domanda di asilo.
e)
Apolidi: ancora più complessa è la situazione di chi è apolide. In realtà ai
Rom e ai Sinti che siano privi della cittadinanza di alcuno Stato la condizione
di apolidia può essere riconosciuta soltanto se ne hanno perduta una quando
erano già regolarmente residenti in Italia, mentre negli altri casi si dovrà
ricorrere ad un’azione civile di fronte al giudice ordinario per far dichiarare
lo status di apolide. In molti campi nomadi vi sono centinaia di bambini nati
in Italia che però essendo figli di apolidi non formali non sono ancora
cittadini italiani, né apolidi, trasmettendo così l’apolidia di fatto da
genitore in figlio.
Per
sanare la situazione per i minori di etnia rom nati in Italia da genitori in
regola con il permesso di soggiorno, la legge prevede la possibilità di acquisire
la cittadinanza italiana a condizione che abbiano risieduto legalmente nel
nostro Paese dalla nascita ininterrottamente fino al compimento del
diciottesimo anno di età e che effettuino una dichiarazione entro un anno dal
raggiungimento della maggiore età. Tuttavia, i giovani Rom che beneficiano di
tale previsione sono un numero esiguo proprio per la mancanza del requisito
della residenza legale continuativa (continuità anagrafica) in Italia dalla
nascita al compimento della maggiore età.
7) L’iscrizione
anagrafica è disciplinata dalla legge n.1228/1954 e dal d.p.r. n.223/1989; tali
norme prevedono l’obbligo di iscrizione nell’anagrafe del Comune di dimora
abituale e stabiliscono poi che le persone che non hanno fissa dimora si
considerino residenti nel Comune dove hanno stabilito il proprio domicilio.
Molti
comuni hanno in passato rifiutato la residenza per la mancanza di alloggio
adeguato. Una circolare del Ministero dell’Interno del 29 maggio 1995, n.8 di
fronte a prassi di alcuni Comuni ha ritenuto contrari alla legge e lesivi dei
diritti dei cittadini, quei comportamenti adottati da alcune amministrazioni
comunali che, nell’esaminare le richieste di iscrizione anagrafica, chiedevano
una documentazione ulteriore comprovante, ad esempio, la disponibilità di
un’abitazione. Ciò fino all’entrata in vigore della legge n. 94/2009 che ha aggiunto un comma all’art.1 della legge n.1
228 /1954 in base al quale: «L’iscrizione e la richiesta di variazione
anagrafica possono dar luogo alla verifica da parte dei competenti uffici
comunali delle condizioni igienico-sanitarie dell’immobile in cui il richiedente
intende fissare la propria residenza ai sensi delle vigenti norme sanitarie».
In
conclusione, da quanto esposto, emerge
come le situazioni relative alle minoranze siano molto complesse ed articolate, ma questo non esime lo Stato dall'onere di trovare le soluzioni più idonee a garantire il rispetto di principi costituzionali posti a garanzia dei diritti di queste minoranze ma anche delle popolazioni residenti che con le minoranze devono convivere.
Il concetto stesso di convivenza, nell'ambito di un medesimo territorio tra cittadini, stranieri, apolidi, nomadi, etnie minori o minoranze linguistiche, comporta un dovere generalizzato ed indiscutibile di rispettare le regole poste dall'ordinamento, uguali per tutti.
La residenza anagrafica è collegata al godimento di molti diritti soggettivi, e in pratica alla piena operatività della capacità giuridica (e di agire) delle persone umane interessate. In particolare si connette alla fruibilità legittima di molte prestazioni sociali; pertanto è stretto il nesso tra la funzione anagrafica e molti diritti fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione. Mentre non si evince affatto, né dalla Costituzione, né dalle norme vigenti, che il censimento e l’iscrizione anagrafica dei Rom possa risultare incostituzionale.
L'obbligo di iscrizione anagrafica non è una discriminazione, nè una violazione costituzionale, ma è un generale dovere di chiunque, al fine di mettere le Stato in condizione di fornire i suoi servizi e tutelare i diritti di tutti: anzitutto, appunto, delle stesse collettività di minoranza, secondo un regime generale che si rivela oggettivamente "ampliativo" (cioè sostanzialmente strumentale alla concessione di benefici da parte della Repubblica italiana).
Bellissimo e documentato articolo.
RispondiEliminaAggiungerei che lo status di nomade ed il mancato censimento di questi gruppi sociali non può essere semplicemente fortuito: non può non esserci un motivo sociostrutturale, ovvero che ha a che fare con interessi economici.
Un punto fondamentale è poi che i mezzi di comunicazione di massa hanno fatto un putiferio per scopi politici su questo tema.
Bisognerà iniziare a razionalizzare quotidiani e TV: non è che sospenderei i finanziamenti pubblici, li nazionalizzerei del tutto e li farei partecipare dai lavoratori.
Il lavoro spesso pregevole che attualmente viene fatto dai lavoratori su piattaforme private, lo ordinerei e riorganizzerei tramite le tecnologie digitali sui media di massa.
Insomma, userei proprio la tecnologia per far partecipare attivamente le persone al processo di divulgazione delle informazioni e della cultura: si spezzerebbe il monopolio privatistico delle coscienze e della censura delle piattaforma private.
Non è la tecnologia che deve rallentare il proprio sviluppo, ma è il progresso sociale che deve svilupparsi al pari della modernizzazione tecnologica.
Piattaforme statali che permettono la partecipazione in massa ai contenuti di TV e giornali: giornalisti e redattori che aiuterebbero a non disperdere i contenuti dell'opera scoordinata di uno sterminato numero di contributori...
Ahah.. la democrazia. :-)
"...i mezzi di comunicazione di massa hanno fatto un putiferio per scopi politici su questo tema...". Mentana che fa vedere la schedatura del padre della Sen. Segre, l'On. Speranza che denuncia Salvini per "istigazione all'odio razziale", ieri all'Italia Sottoinchiesta Radio1 che si mettono assieme le "gabbie di Trump" con la "schedatura dei Rom".
EliminaA (pseudo-)sinistra si manca il bersaglio, e di molto, come sempre. Si travisa, appunto come ben detto, per SOLO scopo politico. E fa notevolmente schifo.
Ho vissuto accanto ai Rom/ Sinti per molti anni quando ero bambino/ ragazzo. Gente con cui non ho avuto alcun problema. Ma che molte volte riceveva le "visite" delle forze dell'ordine. Un caso, visto che sia noi che i nostri vicini mai abbiamo avuto a che fare con polizia, carabinieri etc.? Cioè, a (pseudo-)sinistra si fa finta di non vedere. Per carità, Salvini fa uno spot (è molto bravo come comunicatore) propagandistico (quanto il problema Rom è davvero preminente ora ed in questo momento in Italia?) ma la (pseudo-)sinistra cade nella provocazione e, volendo "incanalare" il dissenso, fornisce invece il fianco allo stesso segretario della Lega. Anzi, fa di più, ne rafforza il consenso. Non si capisce che non è una questione di "razza". Ma di "legalità". Che è ben diverso e fa molta più presa sui cittadini.
"Mentre non si evince affatto, né dalla Costituzione, né dalle norme vigenti, che il censimento e l’iscrizione anagrafica dei Rom possa risultare incostituzionale. L'obbligo di iscrizione anagrafica non è una discriminazione, nè una violazione costituzionale..."
RispondiEliminaQuindi censire è lecito, non farsi censire è più di una scortesia (è un illecito).
LA MALATTIA DI HANSEN
RispondiElimina(otc)
Tra le “durezze” di questo tedio-evo oscurato anche da nubi che minacciano la libertà d'espressione (il “progetto” EU di riforma del diritto d'autore online di prossima votazione plenaria al Parlamento EU, il feticcio residuale delle democrazie “mature”), mancava il ricordo di flagelli che hanno afflitto l'Umanità nel corso della Storia.
Puntuale, dopo le carestie indotte da crisi economiche “sistemiche” passate e in arrivo, giunge un “caso” , tra i tanti, di patologie psichiatriche a ricordare le brutalità stigmatiche della LEBBRA dopo che la comunità scientifica ha preferito l'uso asettico di HANSENIASI per definire la malattia infettiva e cronica prodotta dal Mycobacterium leprae.
E' singolare che da parte di una alta carica istituzionale di una Nazione EU il ripristino di tale vocabolo brutale ed aspro per definire il flagello “populista” che infetta il progetto EU quando la crescente consapevolezza delle Nazioni aderenti pongono su vari tavoli la ridefinizione, se ancora possibile, di un progetto, mi verrebbe da definire, criminogeno e criminale che ha affamato e affama le proprie genti costrette, infine, al confinamento del “foppone” della rotonda meneghina della Besana.
Ma lo stupore e l'indignazione presto svanisce tra le considerazioni degli interessi “legittimi” che alcuni personaggi rappresentano e le finalità ultime del progetto EU qui ampiamente considerate e documentate.
Ma “non esiste vento favorevole per il marinario che non sa dove andare” quanto le valenze del reciproco “non v'è vento avverso per il marinario che sa dove andare”: piccole “quisquiglie” di conoscenze tecniche, di consapevolezze delle capacità, di ragionevoli scelte conseguenti.
Tiremm innanz !
ps: Sofia, grazie per gli approfondimenti necessari alla comprensione di eventi che la neo-lingua nasconde.
Grazie di cuore a Sofia per lo splendido lavoro.
RispondiEliminaIn definitiva, è in qualche modo possibile affermare che il censimento ventilato costituisca un “atto di discriminazione razziale” e non, invece, un atto strumentale a finalità di carattere sociale, assistenziale e di integrazione?
Alla fine di questo si tratta, anche in relazione a quanto segnalato in modo sintomatico da Flavio. Bisogna cioè chiedersi (al di là della grancassa mediatica che stordisce la ggente, ed al di là del politically correct) in cosa consista – per il diritto vigente – la nozione di “discriminazione (e odio) razziale” (rammento, penalmente rilevante).
Ciò in quanto, “… La nozione di discriminazione… non può essere intesa come riferibile ad una qualsiasi condotta che sia o possa apparire in contrasto con un ideale di assoluta integrazione non solo nei diritti, ma anche nella pratica dei rapporti quotidiani, ma, rilevato che il divieto di discriminazione di cui alla L. n. 654 del 1975, è stato introdotto nel nostro Paese in esecuzione della Convenzione di New York del 7 marzo 1966, il termine "discriminazione" deve essere inteso nel significato indicato dall'art. 1 di tale Convenzione di New York del 7 marzo 1966 in base al quale "... discriminare significa porre in essere un comportamento che direttamente o indirettamente comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza, ecc. allo scopo di distruggere o compromettere il riconoscimento, IL GODIMENTO O L'ESERCIZIO IN CONDIZIONI DI PARITÀ, DEI DIRITTI DELL'UOMO E DELLE LIBERTÀ FONDAMENTALI IN CAMPO POLITICO, ECONOMICO, SOCIALE E CULTURALE e in ogni altro settore della vita pubblica… [Così, tra le tante, Cass. Penale 13/12/2007 n. 13234, proprio in materia di discriminazione ed odio razziale a danno di appartenenti alla comunità Rom. Detta nozione, come ci ricorda bene Sofia, è stata poi ripresa nel D.Lgs. n. 286/1998, art. 43, comma I e poi meglio puntualizzata nella Direttiva n. 43/2000, introdotta nel nostro ordinamento con il D.Lgs. 9 luglio 2003, n 215].
La sentenza richiamata spiega anche un principio pacifico, ovvero che “Il razzismo è una forma particolare di discriminazione perchè indica la razza come fattore determinante per lo sviluppo della società e, di conseguenza, presuppone l'esistenza di razze superiori ed inferiori: le prime destinate al comando, le seconde alla sottomissione. Il razzismo si attua o con LA PERSECUZIONE O CON LA DISCRIMINAZIONE. ODIARE significa manifestare un'avversione tale da desiderare la morte o una grave danno per la persona odiata, per cui non si può qualificare come odio qualsiasi sentimento di avversione o di antipatia”. Mi pare quindi che l’iniziativa intrapresa da qualche esponente politico dell’opposizione nei confronti del Ministro dell’Interno per aver “istigato all’odio” nel senso precisato - in punto di puro diritto - sia alquanto infondata.
E la fantomatica “schedatura”, ovvero – posso presumere- la identificazione mediante rilievi segnaletici di cui all’art. 4 TULPS? Potrebbero configurarsi questi ultimi come atti invasivi della libertà personale, in violazione dell’art. 13 Cost.? (segue)
Anche in questo caso, segnalo brevemente che con la pronuncia n. 30/1962 la Corte Cost. ha chiarito che non tutti i rilievi segnaletici incidono sull'habeas corpus e rientrano nella tutela garantita dall'art. 13 Cost., ma solo quelli che comportano “l'assoggettamento, fisico o morale, di una persona al potere dell'organo di polizia, tale da costituire una restrizione della libertà personale equiparabile all'arresto”. Quindi non importano menomazione della libertà personale “i rilievi dattiloscopici” e “i rilievi descrittivi, fotografici ed antropometrici” se non riguardano parti del corpo coperte normalmente alla vista.
RispondiEliminaRientrano invece nella copertura dell'art. 13 Cost. gli altri tipi di atti che non si limitano all'aspetto esteriore del corpo (rilievi su parti intime, prelievi di campioni biologici e così via). Per tale ragione la Corte ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 4 del TULPS nella parte in cui prevedeva rilievi segnaletici che comportino ispezioni personali ai sensi dell'art. 13 della Costituzione. Di conseguenza, dopo l'intervento della Consulta, l'art. 4 del TULPS riguarda i soli rilievi segnaletici di tipo esteriore e cioè quelli che non incidono sulla libertà personale.
Aggiungo che, in concreto, di certo i rilievi sarebbero utilizzati in presenza dei relativi presupposti di legge (sorretti da idonea istruttoria) e secondo il criterio di ragionevolezza, il quale impedisce di trattare in modo eguale situazioni diverse e quindi di dar seguito tout-court, a titolo di mero esempio, a identificazione delle persone, anche minori di età, attraverso rilievi segnaletici. La questione, perciò, riguarderebbe inevitabilmente anche atti amministrativi soggetti pur sempre al sindacato del loro giudice naturale.
(Detto ciò, credo che non guasterebbe un pò più di cautela nelle esternazioni pubbliche da parte delle figure istituzionali. Anche per evitare, in materie così delicate, reazioni scomposte degli antifascisti di professione in assenza di fascismo; i quali oramai parlano solo “non ratione sed stomacho”)