mercoledì 20 novembre 2019

IL MOLTIPLICATORE FISCALE TRA CONCETTO VARIABILE DI "PIENA OCCUPAZIONE", RUOLO DELLA SPESA PUBBLICA E SALARIO DI (NEO)SUSSISTENZA (NEL CONFLITTO GENERAZIONALE)


Per "riposarsi" dalle questioni della rifoma ESM, dell'ex Ilva di Taranto, della franco-cinesizzazione (Dongfeng) di FCA, - di cui tanto abbiamo parlato - vi propongo, in bozza, un capitolo del prossimo libro che ho in preparazione. Riguarda il tema dei moltiplicatori fiscali; che appare molto tecnico ma è anche molto istituzionale, storico e politico-ideologico.
Come vedrete, questo aspetto delle politiche economiche intercetta quasi tutti i punti critici del paradigma della globalizzazione e delle regole dell'eurozona.



CAPITOLO 4.
IL MOLTIPLICATORE FISCALE. IL FATTORE FONDAMENTALE DELLE POLITICHE ECONOMICHE IN ECONOMIA APERTA. LA “MANOVRA IN PAREGGIO DI BILANCIO” TRA TEORIA TRASFORMATA IN REGOLE E LA REALTA’ CONTRASTANTE DEI LORO EFFETTI NELL’ECONOMICA REALE
1. Cos’è il moltiplicatore del reddito e come funziona - Una definizione preliminare
In macroeconomia, con il concetto di moltiplicatore del reddito, inizialmente proposto da Richard Kahn, si esprime la relazione funzionale fra la una variazione della componente autonoma della domanda e la variazione del reddito. La componente autonoma della domanda include la parte di domanda aggregata che si ipotizza non dipendere dal reddito. Se consideriamo un sistema economico senza rapporti con il resto del mondo (ovvero chiusa agli scambi internazionali) abbiamo che il reddito Y può essere scritto secondo la seguente equazione:
 ;                                                                (1)
dove:
1)            è la componente autonoma del consumo, ovvero i consumi che non dipendono dal reddito perché insopprimibili (ovvero quelli necessari per il sostentamento);
2)            rappresenta la propensione marginale al consumo data dal rapporto fra incremento del consumo e incremento del reddito  . Essa è sempre compresa fra 0 e 1 (al massimo si può consumare tutto il reddito). Se, ad esempio questa è pari a 0,8, l’80% dell’incremento del reddito si traduce in aumento dei consumi;
3)            rappresenta l’aliquota fiscale;
4)            sono gli investimenti;
5)            è la spesa pubblica;
6)            rappresenta i trasferimenti verso famiglie e imprese;
7)            rappresenta le imposte (con lo zero al pedice che indica, come nel caso della componente autonoma del consumo, l’indipendenza dal reddito).
La componente autonoma della domanda è dunque pari a .
2. Il pieno impiego dei fattori produttivi e l’ipotesi di equilibrio di sottoccupazione
Per comprendere il funzionamento del moltiplicatore del reddito e il suo potenziale ruolo ai fini della politica economica occorre in via preliminare introdurre una distinzione fondamentale lungo la quale si è spesso tracciata la differenza fra la teoria classica (e marginalista) e la teoria keynesiana.
In estrema sintesi, nella teoria classica e marginalista, l’assenza di vincoli all’aggiustamento dei prezzi porta ad escludere, per ipotesi, situazioni nelle quali esistano nel sistema economico lavoratori disoccupati e capacità produttiva inutilizzata (ovvero crisi sistemiche di sovraproduzione, generate da una domanda complessiva per i beni inferiore al valore complessivo dei beni offerti). Il naturale funzionamento del mercato, e del sistema dei prezzi, assicura il pieno impiego dei fattori e garantisce l’immediato assorbimento degli eventuali squilibri fra domanda e offerta (c.d. Legge di Say).
È bene evidenziare come l’aggiustamento non riguarda solo il prezzo dei beni prodotti dalle imprese, ma, soprattutto, coinvolgerà anche il mercato del lavoro: si ipotizza infatti che esso “debba” funzionare come gli altri mercati, sulla base dell’interpretazione del lavoro come merce. In caso di crisi di sovraproduzione, la deflazione dei prezzi e dei salari consente dunque di eliminare tanto l’eccesso di capacità produttiva quanto la forza-lavoro inutilizzata.
Keynes ammette, al contrario, la possibilità di equilibri di sottoccupazione persistenti. La critica all’approccio classico che si sviluppa dall’iniziale contributo keynesiano, che si sofferma in particolare sulla mancanza di riscontro empirico della istantaneità (socialmente e politicamente indolore) del meccanismo della perfetta flessibilità dei prezzi, al quale si sostituisce il concetto di vischiosità dei prezzi e di rigidità verso il basso in particolare dei salari.
In questa prospettiva, nell’attuale teoria macroeconomica prevalente, il contributo keynesiano è presentato come un caso particolare del modello classico e marginalista, (in particolare nella nuova macroeconomia “classica” e dai c.d. neo-keynesiani), nel quale i prezzi non sempre si riducono rapidamente in modo da permettere l’immediato riequilibrio di domanda ed offerta e la piena occupazione. I salari, ad esempio, tendono a diminuire con molta lentezza e a non scendere oltre determinati livelli.
In concreto, potremmo avere un salario minimo legale, se esistono obblighi normativi in tal senso (previsione diretta legislativa, ovvero efficacia, comunque normativa, di minimi fissati dalla contrattazione sindacale); e, comunque, in una visione di riequilibrio “fisiologico”, il salario è commisurato alla soglia di sussistenza: nel senso che nessuno lavorerebbe per ottenere un salario inferiore a tale soglia. E la “soglia” in realtà dipende da una pluralità di fattori storicamente variabili che agiscono combinandosi in un clash tra tendenze contrastanti; quali, principalmente, il consolidarsi di abitudini di consumo di massa (“psicologicamente” divenute incomprimibili) e la tendenza pregressa all’elevazione generazionale del livello di istruzione, contrapposti alla variazione restrittiva della legislazione di tutela del lavoro e all’immissione di forza lavoro aggiuntiva derivante da una crescente immigrazione. Insomma: è la stessa crescente apertura delle economie che tende ad abbassare istituzionalmente la “soglia di sussistenza” disattivando meccanismi precedenti di mobilità sociale e tentando di abituare la percezione di massa ad una nuova generale aspettativa sulla remuneratività del lavoro.
Ne consegue che, secondo l’attuale visione dominante del “ciclo economico”, nel sistema potrebbero verificarsi delle situazioni di sottoccupazione, con uno squilibrio sul mercato del lavoro dove a fronte delle richieste delle imprese di domandare lavoro a salari più bassi, l’offerta di lavoro non si allinea automaticamente in quanto i lavoratori continuano a chiedere un salario più elevato.
3. La perfetta flessibilità (verso il basso) del “prezzo” del lavoro come tendenza al salario di sussistenza: la cui soglia ideale viene variata attraverso una spinta istituzionale (“riforme strutturali”) rendendo “patologica” la tutela lavoristica e previdenziale, e “fisiologici” il conflitto generazionale e l’esercito industriale di riserva della forza lavoro immigrata.
Ma questo fenomeno viene considerato una patologia transitoria.
Il perdurare delle resistenze, a livello culturale, si annida nelle generazioni che, per anno di nascita, hanno potuto fruire del precedente modello di Stato del welfare e perciò si tenta sia di “sostituire”, più rapidamente possibile, chi, per anno di nascita, alimenta la resistenza alla “deflazione salariale”, sia variando con varie forme di retroattività la portata dei precedenti benefici legislativi abrogati o ristretti, sia alimentando un concetto “para-economico” e costituzionalmente disinvolto di “conflitto generazionale”; la cui idea portante è che la precedente condizione di realizzazione del diritto al lavoro tutelato sia un privilegio e che, date le “risorse scarse”, non siano state sottratte ai giovani tutele un tempo considerate conquiste di civiltà e democrazia, quanto piuttosto bollabili di “immoralità” e parassitismo le precedenti realizzazioni di un certo grado di mobilità sociale.
Proprio la persistenza di equilibri di sottoccupazione giustificherebbe, in questa visione, oggi prevalente, limitativa (e trasformativa) della visione keynesiana, un intervento dello Stato, da realizzarsi primariamente attraverso l’incremento della spesa pubblica (ma preferibilmente in pareggio di bilancio). Questo paradigma tende a perseguire simultaneamente sia un’incessante riduzione del livello delle pensioni pubbliche e della altre forme costituzionali di prestazioni sociali, sia di finanziarie, in pareggio di bilancio, la c.d flexicurity, che contiene in sé l’assuefazione alla opportuna “soglia” di salario di sussistenza.
E insistentemente, si dice: in una situazione di sottoccupazione, le imprese tenderanno a fronteggiare la crescente incertezza con una riduzione dei propri investimenti, fattore che genera un evidente effetto pro-ciclico nell’acuire lo stallo in cui versa il sistema economico. Le imprese segnalano che potranno riprendere a investire solo ove realizzata la deflazione salariale (riduzione del costo del lavoro e del “cuneo” fiscale, cioè delle prestazioni sociali a favore di ogni genere di lavoratori). In questo contesto, ma solo se opportunamente ridisegnato in via istituzionale, l’incremento della spesa pubblica, però reindirizzata, determinerebbe un aumento della domanda aggregata, tale da far ripartire gli investimenti delle imprese e l’occupazione, senza la (eccessiva) caduta dei salari.
Sotto questo profilo, il meccanismo del moltiplicatore, nella misura in cui creerebbe una relazione semplice e automatica fra variazioni della domanda autonoma e variazioni del reddito, offrirebbe ai responsabili di politica economica uno strumento immediato attraverso cui stabilizzare il ciclo economico.
4. Il moltiplicatore come strumento di politica economica. La versione neo-classica o marginalista.
Per quanto in precedenza descritto, se nel sistema economico esistono capacità produttiva inutilizzata e lavoratori disoccupati, un aumento della componente autonoma della domanda può determinare un incremento del reddito attraverso il meccanismo del moltiplicatore.
Si ipotizzi dunque che ad aumentare sia la voce della componente autonoma della domanda relativa alla spesa pubblica, . Nel caso di un’economia chiusa agli scambi internazionali, l’incremento del reddito ( ) dovuto ad un incremento di spesa pubblica ( ), può essere quindi scritto come segue:
                                                                                                   (2)
La (2) rappresenta il moltiplicatore della spesa pubblica. Il moltiplicatore è dunque quel numero per il quale occorre appunto moltiplicare la variazione della spesa pubblica per ottenere la variazione di reddito necessaria a ristabilire l’equilibrio. Come è facilmente osservabile, il valore del moltiplicatore è superiore all’unità ed è tanto maggiore quanto più bassa è la propensione marginale al consumo, .
Nell’interpretazione marginalista del pensiero keynesiano (nota come modello IS-LM, inizialmente proposto da Hicks) sarebbe dunque sempre possibile assicurare la piena occupazione del sistema economico attraverso variazioni in aumento della spesa pubblica (ma strettamente provvisorie e dirette a rimuovere gli ostacoli legislativi unfit in un’economia di mercato, incentrata sul concetto di lavoro-merce).
Da tale prospettiva consegue tuttavia che il meccanismo del moltiplicatore risulterebbe al contrario inefficace nel momento in cui si assume che il sistema economico sia in una situazione di pieno impiego e un eventuale utilizzo della spesa pubblica, non potendo accrescere il reddito, avrebbe come unico risultato una ricomposizione della componente autonoma della domanda a favore dei consumi pubblici e a svantaggio degli investimenti privati.
In effetti, data l’ipotesi di pieno impiego (politicamente prescelta), l’innesco del moltiplicatore è precluso da un meccanismo di retroazione monetaria che porta a una riduzione della voce investimenti  della componente autonoma della domanda della medesima entità dell’aumento della spesa pubblica (cd. effetto spiazzamento).
In sintesi, l’aumento del reddito e dunque dei consumi associato all’incremento della spesa pubblica comporta una crescita della domanda di moneta a scopo transattivo che comporta, data l’offerta di moneta, un aumento del tasso di interesse e di conseguenza una contrazione degli investimenti privati. Per ovviare a questa eventualità occorre sviluppare parallelamente una politica monetaria accomodante, tesa ad evitare l’incremento dei tassi di interesse fino ad eliminare l’effetto spiazzamento. Tale effetto, comunque, non si verifica nella situazione di trappola della liquidità, ossia quando i tassi di interesse sono talmente bassi che famiglie ed imprese sono disposte ad assorbire al tasso corrente qualunque quantità di moneta.
In conclusione, secondo la teoria classica e marginalista giacché il sistema è sempre in pieno impiego, l’incremento di spesa pubblica non può comportare un incremento del reddito (che è già al suo massimo livello di pieno impiego) per cui determina solo una riduzione degli investimenti privati.
5. Il moltiplicatore secondo la teoria keynesiana. Il concetto “neo-keynesiano” di piena occupazione e il grande equivoco: spesso si dicono le stesse cose…per sostenere politiche molto diverse tra loro.
Nell’ipotesi keynesiana di equilibrio di sottoccupazione, invece, l’incremento della spesa pubblica tramite il moltiplicatore farebbe ripartire la domanda e il ciclo produttivo, attivando nuovi investimenti e consentendo così al sistema di ritornare al livello di piena occupazione.
Quanto osservato in contrasto con ciò, nel paragrafo precedente, contribuisce a spiegare l’odierna generale avversione all’utilizzo della spesa pubblica come strumento di contrasto alla disoccupazione, che dipende dalla consapevole e/o inconsapevole adozione della visione teorica marginalista e dalla convinzione che il sistema economico sia in grado di tornare velocemente e in modo “naturale” a una situazione di pieno impiego.
E anche da un concetto tautologico e statistico di “piena occupazione non inflattiva”: in sostanza, sul (mai verificato) presupposto  di piena concorrenza (circoscritto all’assenza di monopoli privati e “tollerando” gli oligopoli in ragione della loro capacità presunta di investimento “innovativo” e di economie di scala), e quindi derivando deduttivamente la piena flessibilità costante dei prezzi in funzione di domanda e offerta, si ritiene piena occupazione quella comunque registratasi in un periodo statistico significativo in cui sia rispettato il “bene primario” che manterrebbe in salute l’economia: un basso e costante tasso di inflazione (notoriamente posto, sia dalla Fed negli USA, che dalla BCE nell’eurozona, nel target del 2%).
A tale argomentazione si uniscono poi le tradizionali critiche monetariste relative alle difficoltà connesse alla gestione concreta delle politiche di stabilizzazione anticliche (gli sprechi! L'assistenzialismo!) e le preoccupazioni legate all’impatto di tali politiche sul bilancio pubblico (Il debito pubblico!).
Nel dibattito corrente, la distinzione fra pensiero classico/marginalista e pensiero keynesiano tende quindi a dissolversi in una disputa sulla lontananza o meno del sistema economico dal pieno impiego (da qui l’enfasi posta sul cosiddetto output gap) e sull’efficacia dei meccanismi di aggiustamento dei prezzi nei diversi mercati, in primis il mercato del lavoro.
Si tralasciano, per non allargare il campo eccessivamente, alcuni elementi fondamentali del pensiero originario di Keynes: quelli che si legano soprattutto al tema dell’incertezza (e della vagueness per utilizzare le sue parole) e all’impossibilità di fare riferimento alle sole basi logiche per comprendere e descrivere il funzionamento del sistema economico. Tale critica interessa naturalmente anche le relazioni logico-formali fra le variabili alla base della formulazione del moltiplicatore del reddito, relazioni che dovrebbero dunque suggerire estrema cautela nel momento in cui se ne voglia valutare la presunta efficacia ai fini della politica economica.
La possibilità che gli esiti possano essere diversi da quelli suggeriti dal moltiplicatore in funzione del tempo storico e dei comportamenti concretamente attuati dai singoli soggetti economici apre spazio a una riflessione più ampia; soprattutto qualora il superamento della crisi richieda risposte più incisive in termini di gestione del cambiamento strutturale che, in fondo, dipende da elementi culturali che determinano le reazioni collettive, molto meno razionalmente di quanto non si tenti di “matematizzare” con i modelli economici.
Basti rammentare, con riguardo alla vagueness, dei comportamenti (tutt’altro che istintivi e naturali) dell’insieme dei soggetti coinvolti nel problema della “piena occupazione”, la frase “chiave” con cui Hayek definisce la natura del controllo esercitato dagli operatori economici dominanti in un certo momento storico: «Il controllo economico non è il semplice controllo di un settore della vita umana che possa essere separato dal restoè il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini. E chiunque abbia il controllo dei mezzi deve anche determinare quali fini debbano essere alimentati, quali valori vadano stimati […] in breve, ciò che gli uomini debbano credere e ciò per cui debbano affannarsi».
(F. von Hayek da "Verso la schiavitù", 1944).[1]

6. Moltiplicatore del reddito e bilancio pubblico
Come in precedenza accennato, la diffidenza verso l’utilizzo della spesa pubblica quale leva fiscale è principalmente legata alla convinzione (deduttiva) dei potenziali effetti negativi sul sistema economico che potrebbero derivare da un peggioramento del bilancio pubblico.
Se non accompagnato da un pari incremento della tassazione , si dice, l’aumento della spesa pubblica  peggiorerebbe (nel breve periodo) il saldo di bilancio dello Stato e incrementerebbe di conseguenza il debito pubblico.
L’impatto negativo sul sistema economico deriverebbe dalla circostanza che la presenza di un deficit e il conseguente incremento del debito pubblico sarebbe interpretato da coloro che prestano fondi allo Stato come un aumento del rischio di credito dello stesso, che si rifletterebbe nella richiesta di un maggiore tasso di rendimento per i titoli di nuova emissione.
Da un lato, ciò determinerebbe l’incremento della spesa per interessi e un ulteriore peggioramento del disavanzo di bilancio, a parità di avanzo primario, con la possibilità di generare un circolo vizioso di maggiore debito, maggiore spesa per interessi, maggiore disavanzo e così via.
Dall’altro, il supposto incremento del rischio Paese (che, come spiegano sia Benoît Cœuré, membro francese nel Board della BCE, sia De Grauwe, illustre economista coinvolto dalle origini nella creazione dell’eurozona, è un rischio esistente solo a condizione di non avere un banca centrale, emittente la moneta, che garantisca i titoli del debito pubblico emessi in un certo Stato sui appartenga quella banca centrale)[2] comporterebbe un aggravamento delle condizioni di credito e dunque una riduzione degli investimenti privati; e ciò con la supposta conseguenza di una contrazione della domanda e del reddito in grado potenzialmente di controbilanciare l’impatto espansivo dell’incremento di spesa pubblica. Inutile aggiungere che, nella prospettiva descritta, i Paesi con elevati livelli di debito (calcolati in rapporto al prodotto interno lordo) manifesterebbero una maggiore fragilità rispetto a tale dinamica.
In questa linea di pensiero (che assimila uno Stato contraddistinto da una “economia avanzata” ad un comune debitore, rispetto al sistema creditizio) sarebbe in ogni caso possibile ottenere un incremento del reddito qualora all’aumento della spesa pubblica si faccia corrispondere un pari incremento della tassazione di modo che il saldo bilancio pubblico rimanga invariato.
Il moltiplicatore della tassazione (non considerando per semplicità la componente ) è pari infatti a:
                                                                                                (3)
Tale moltiplicatore è inferiore (in valore assoluto, ovvero non considerando il segno negativo che lo precede) a quello della spesa pubblica.
Sommando (2) e (3) otteniamo:
                                                                                     (4)
Se ponessimo la condizione che contemporaneamente il bilancio dello Stato deve essere in pareggio, per cui  da cui , sostituendo  con  nell’equazione (4) otterremo:
 e semplificando                           (5)
Come è possibile osservare, volendo mantenere l’equilibrio di bilancio, il moltiplicatore della spesa pubblica si riduce all’unità, in quanto il reddito aumenterebbe esattamente della stessa misura della spesa pubblica. Da qui se ne deduce che l’incremento del reddito massimo dovuto alla spesa pubblica è massimo quando il disavanzo pubblico è zero. Un incremento di spesa pubblica in disavanzo non converrebbe, in quanto farebbe aumentare il reddito in misura meno che proporzionale.
Una simile conclusione evidenzia inoltre come un avanzo di bilancio ( ) non sarebbe comunque conveniente perché il reddito crescerebbe meno della spesa pubblica o addirittura diminuirebbe. Il cosiddetto teorema di Haavelmo, quindi, attesta che la politica fiscale genererebbe i massimi benefici in pareggio di bilancio.
Nelle esposizioni più recenti, politicamente dovute alla difficoltà di conciliare la originaria ipotesi con la scarsa crescita generata dall’adozione sistematica delle manovre in pareggio di bilancio (“le coperture!”), il teorema di Haavelmo viene riconosciuto valido in caso di pieno impiego; laddove, in sottoccupazione, la spesa pubblica in deficit può determinare incrementi anche più che proporzionali sul reddito. La sottoccupazione, come abbiamo visto in precedenza, esaminando la teoria marginalista e il suo parente “moderato”, il neo-keynesismo, sarebbe comunque una situazione temporanea; la velocità di aggiustamento verso il basso di prezzi e salari, è comunque considerata tollerabile, in termini socio-politici, e il suo “malfunzionamento” dovuto a “elementi frizionali” transitori e superabili con sollecite “riforme strutturali” (del mercato del lavoro e di “spending review”, immancabilmente abolitive del welfare pubblico).
In questo frame teorico, oggi familiare a tutti noi per la sua costante ripetizione mediatica, il teorema di Haavelmo dovrebbe valere “in media” (cioè nelle prevalenti fasi di equilibrio non insidiate da “elementi frizionali”; come rivolte sociali, tipo i gilet gialli, o per “l’inspiegabile” ritardo degli investitori ad acquisire, a prezzi spesso da “saldo” gli asset del Paese che compie l’aggiustamento dei prezzi verso il basso; cioè rapidamente deflattivo).
Si ammette perciò che (in parziale adesione alla teoria keynesiana, comunque ritenuta colpevolmente cedevole alla irrazionalità delle masse, incomprensibilmente riottose a ricevere una retribuzione di “mera sussistenza”), attraverso la spesa pubblica, il ruolo dello Stato sia quello di stabilizzare il ciclo, quindi incrementare o diminuire la spesa in base alla congiuntura: a) fase di recessione, aumento di spesa pubblica e deficit di bilancio; b) fase di surriscaldamento dell’economia, diminuzione della spesa pubblica e avanzo di bilancio.

7. Economia aperta, bilancia commerciale e meccanismi di riequilibrio (ma anche qui: ci si comprende solo se si definisce il concetto di “piena occupazione”).
Nel caso di un’economia aperta agli scambi internazionali, l’equazione (1) deve essere modificata per includere le esportazioni e le importazioni di beni:
                                 (6)
dove:
1)            sono le esportazioni, ipotizzate indipendenti dal reddito;
2)            sono le importazioni nella loro componente autonoma, ossia indipendenti dal reddito;
3)            è la propensione marginale all’importazione, calcolata come rapporto fra l’incremento delle importazioni e l’incremento del reddito.
Come è possibile osservare, la propensione marginale all’importazione ha impatto negativo sul valore del moltiplicatore. Poiché compare al denominatore, un incremento della propensione marginale all’importazione riduce il rapporto totale , come l’aliquota fiscale .
Il motivo è abbastanza ovvio: all’aumentare della quota di incremento del reddito che spendo per acquistare beni esteri (il significato del parametro m), diminuisce corrispondentemente la quota destinata ai beni domestici (domanda interna), per cui anche il reddito prodotto.
Nel caso di pieno impiego (assunto però secondo l’ipotesi marginalista), l’incremento di spesa pubblica abbiamo già visto non può aumentare il reddito (che è già al suo massimo), ma contribuisce solo a diminuire gli investimenti e, nel caso di economia aperta, ad aumentare le importazioni, quindi lo squilibrio con l’estero.
In caso di pieno impiego (ove mai se ne avesse una definizione unitaria e concorde), più in generale (e peraltro anche secondo la visione keynesiana e kaldoriana), l’incremento di spesa può essere nell’immediato soddisfatto solo importando, per cui la nuova spesa genera maggiori importazioni oltre allo spiazzamento degli investimenti interni. Con la riduzione di questo ultimi si riduce la capacità produttiva locale, con conseguenza di rendere strutturale la dipendenza dall’estero per il soddisfacimento di tutta la domanda interna. È implicito che l’ipotesi neoclassica preveda la perfetta sostituibilità di beni interni con beni esteri, ipotesi non necessariamente verificata, ma comunque plausibile se ci si riferisce ad economie con un grado si sviluppo ed una struttura produttiva abbastanza simili.
Come noto, la bilancia commerciale è data dalla somma di esportazioni e importazioni e può essere scritta nel seguente modo.
dove  è il saldo di bilancio commerciale dato dalla differenza tra le esportazioni (E, esogene rispetto al modello perché dipendenti dal reddito dei Paesi esteri) e le importazioni, date dalla somma della compenente autonoma  e la componente legata al reddito (mY) tramite la propensione marginale ad importare (m).
Il saldo NX costituisce la sintesi dell’interscambio di merci con l’estero; se positivo le esportazioni superano nel complesso le importazioni e viceversa se negativo.
Il saldo di bilancia commerciale può essere analizzato anche in relazione ai tassi di cambio:
dove p è il prezzo delle esportazioni in valuta nazionale, X il volume delle esportazioni, p* il prezzo delle importazioni in valuta estera ed E il tasso di cambio ed m il volume delle importazioni.
Il mercato delle valute funziona come un qualsiasi mercato regolato dalla domanda e dall’offerta. Se c’è un eccesso di domanda della valuta (nazionale) si ha un apprezzamento del cambio (aumento del prezzo); al contrario se c’è un incremento della domanda di valuta estera si ha un deprezzamento del cambio (diminuzione del prezzo).
Gli effetti del cambio sulla bilancia commerciale possono essere così sintetizzati (condizione di Marshall-Lerner-Robinson):
·               caso a) c’è un eccesso di importazioni rispetto alle esportazioni, per cui c’è una maggiore domanda di valuta estera proveniente dall’interno (tale valuta estera serve per pagare queste importazioni, per cui c’è un incremento di persone ed imprese che vogliono acquistare valuta estera cedendo valuta locale) con conseguente deprezzamento del cambio. A sua volta il deprezzamento del cambio determinerà un incremento del prezzo dei beni esteri (serve più valuta locale per acquistare gli stessi beni in valuta estera anche a parità di prezzo estero) con conseguente diminuzione delle importazioni ed incremento della domanda interna (famiglie ed imprese sostituiscono beni che prima importavano con beni prodotti internamente), riequilibrio del saldo di bilancia commerciale e incremento degli investimenti interni con annessa crescita della competitività.
·               caso b) c’è un eccesso di esportazioni rispetto alle importazioni, per cui c’è una maggiore domanda di valuta interna proveniente dall’estero (tale valuta interna serve ad imprese e famiglie estere per pagare i beni che loro importano e noi esportiamo) con conseguente apprezzamento del cambio. A sua volta l’apprezzamento del cambio determinerà un incremento del prezzo dei beni interni sui mercati esteri (serve più valuta estera per acquistare gli stessi beni in valuta interna anche a parità di prezzo interno) con conseguente diminuzione delle esportazioni e diminuzione della domanda interna (famiglie ed imprese estere sostituiscono beni che prima importavano con beni prodotti internamente ai loro Paesi) e riequilibrio del saldo di bilancia commerciale, nonché diminuzione del reddito, decremento degli investimenti interni con annessa riduzione della competitività.
All’interno di un’area valutaria, (qual è l’eurozona, sia pure in modo incompleto rispetto al modello costituito dagli USA), in presenza di una stessa moneta per diversi soggetti statuali, questi meccanismi automatici di aggiustamento non ci sono più, ovviamente, perché manca il tasso di cambio. Di conseguenza, un Paese rischia di accumulare deficit commerciali senza potersi difendere con la politica valutaria, così come altri Paesi possono avvantaggiarsi della situazione sena temere un eccessivo apprezzamento della loro valuta ed esposizione quindi alle importazioni.
Infatti, eliminando il meccanismo di riequilibrio legato al tasso di cambio ci sono Paesi in vantaggio di competitività (ossia Paesi che hanno un livello dei prezzi relativi più competitivo, grazie alla maggiore efficienza della loro struttura produttiva, è il caso a) che persisteranno nella loro situazione favorevole accumulando sempre maggiore surplus commerciale ed incremento di reddito e competitività (Germania) e Paesi che persisteranno nella situazione di deficit (caso b) con conseguente diminuzione del reddito, degli investimenti e della competitività.
L’importanza del saldo della bilancia commerciale in un sistema economico complesso con la stessa moneta è stata più volte evidenziato e la stessa Commissione Europea, tra i 14 indicatori che servono a monitorare gli squilibri macroeconomici di un Paese che potrebbero mettere a rischio la stabilità dell’area Euro, ha inserito proprio il saldo della bilancia commerciale, che deve trovarsi tra il -4% e il +6% del PIL. A differenza del rapporto debito Pil, disciplinato dal Fiscal Compact e che in caso di sforamento della soglia del 60% prevede una procedura d’infrazione secondo le norme dell’articolo 126 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, il range della bilancia commerciale viene definita come “soglia raccomandata”. La Germania ha sforato tale soglia consecutivamente negli ultimi otto anni.

8. Efficacia della politica fiscale in economia aperta. Il futuro non è sempre prevedibile e misurabile: dipende dal ruolo che si attribuisce allo Stato, alla spesa pubblica e al suo rapporto con la realtà produttiva. Le regole europee tra realtà e “fictio iuris”.
Nell’ottica marginalista, l’ipotesi di rapido (al limite istantaneo) aggiustamento dei prezzi riguarda anche il mercato dei tassi di cambio, per cui sarebbe sempre possibile applicare la teoria della parità dei poteri di acquisto, secondo la quale una unità di qualsiasi valuta deve essere in grado di acquistare la stessa quantità di beni in tutti i Paesi. In altri termini il tasso di cambio reale tra due paesi deve sempre riflettere il differenziale di competitività tra gli stessi.
Ne consegue dunque che in un contesto di economia aperta la spesa pubblica potrebbe avere una minore efficacia. Ma in una visione non aprioristica e basata sulla mera competitività di prezzo (e in definitiva sulla compressione ossessiva dell’inflazione nella sua componente generativa “interna”) l’elemento della spesa pubblica può, anzi dovrebbe, legarsi al mantenimento o all’incremento della “qualità” delle produzioni del paese in cui lo Stato esplica le sue azioni.
Ciò vale, intuitivamente, con riguardo ai progressi tecnologici, e quindi ad una ovvia condizione di mantenimento della competitività tipica di una “economia avanzata”; ma questa capacità di competere, a sua volta, può essere legata alla capacità di indirizzo statale nella spesa pubblica: non parliamo ovviamente soltanto della spesa pubblica in ricerca e formazione (a tutti i livelli della pubblica istruzione).
La stessa spesa corrente (più “comune”) genera un flusso di skills sia nella componente di lavoro pubblico che nella stessa offerta nazionale: si pensi all’adeguato finanziamento dei reparti medici negli ospedali pubblici, grandi laboratori naturali di esperienza e evoluzione clinica, o alle capacità di “maneggiare” e padroneggiare macchinari e congegni nelle varie linee di attività della pubblica funzione: dalle tecniche di investigazione di polizia o di diagnosi di eventi avversi sismici o meteorologici, alla ingegneristica “pratica” che si trova a risolvere un pompiere o un tecnico comunale nel fronteggiare una “emergenza” (e sono solo esempi). L’arricchimento professionale di tali ruoli pubblici tesaurizza e moltiplica, in senso adattativo, la stessa produzione nazionale. Allo stesso modo, saper spendere per lumi da tavolo o sedie ergonomiche per la grande dimensione delle strutture pubbliche, “finanzia” un naturale miglioramento della qualità, e un aumento della produttività, dell’offerta manifatturiera privata.
Naturalmente ciò vale ove lo Stato si ponga il problema del proprio ruolo di attore del progresso tecnologico, diretto ed indiretto: se però lo Stato è solo occupato nella spending review, o nell’ottenere i “conti in ordine” (secondo un concetto rigido ed arbitrario come il pareggio di bilancio o il target inflattivo), un laboratorio sperimentale di una scuola sarà considerato alla stregua di un “costo”, così come l’assunzione di ingegneri o di ricercatori medici (decentemente retribuiti). O l’acquisto delle forniture indispensabili per consentirgli di svolgere le loro pubbliche funzioni. E di sicuro questa premura prioritaria per l’aspetto fiscale “austero”, un effetto antieconomico lo avrà generato: tutto l’investimento pubblico effettuato nella formazione di quegli ingegneri e di quei medici, sarà “trasferito” all’estero, andando a rinforzare la “fuga di cervelli” che si autoalimenta nel perseguimento di politiche deflazioniste e “austere”.
Con un vistoso paradosso: per evitare di dover essere noi a alimentare il “capitale umano”, ovvero la capacità competitiva di altri paesi, potremmo definitivamente chiudere l’intero sistema della formazione e della ricerca scientifica, credendo forse così di mitigare un vantaggio competitivo altrui e…di incentivare gli investimenti. Per la teoria marginalista, comunque, la diminuzione della spesa pubblica, quasi perennemente ritenuta in “piena occupazione”, dovrebbe stimolare gli investitori privati (meglio se esteri). E, senza preoccuparsi di avere creato un deserto, cioè avendo finalmente realizzato uno Stato “minimo”: con la perdita dello status di “economia avanzata”, non avrebbe senso investire in Italia se non per produzioni primarie e “arcaiche”, dove l’intensità dell’impiego di manodopera a basso costo prevarrebbe su ogni speranza di rivedere un decente livello di sviluppo.
Precisata l’opinabilità fenomenologica di usare un concetto indifferenziato di spesa pubblica (e del suo effetto), non connesso ad una visione organica del ruolo dello Stato e della complessiva traiettoria dell’intero sistema produttivo e sociale italiano, rimane il fatto che il prevalente approccio economico-ideologico al tema del moltiplicatore, deve fare i conti con la sua, implicita ed esplicita, incorporazione delle regole e negli istituti (spesso di soft law, e quindi ancora più insidiosi) che governano l’eurozona.
In questo quadro, come conseguenza di un riordino strutturale della nostra economia indotto da tali regole, dobbiamo prendere atto del fatto che l’incremento della spesa pubblica - in assenza della possibilità di fare politiche industriali pubbliche mirate -, può tradursi in uno spiazzamento dell’investimento privato (come in economia chiusa), e, con più probabilità, in un peggioramento del disavanzo commerciale con l’estero.
9. Il moltiplicatore dentro l’eurozona: le norme fiscali e gli automatismi trasformano la nostra economia e diventano “self-fulfilling prophecies”.
In un modello keynesiano, peraltro, (che nella situazione attuale esigerebbe un prevalente intento applicativo del modello costituzionale italiano), nell’ipotesi di sottoccupazione (effettiva, ampiamente riscontrabile nonostante la Commissione Ue ci dica che siamo vicini alla “loro” piena occupazione), l’incremento della spesa pubblica risulterebbe comunque meno efficace per incrementare il reddito, giacché, come visto, il moltiplicatore in economia aperta (5) è minore (a parità di tutte le altre condizioni) rispetto a quello di economia chiusa; è quindi sempre da tenere presente che una parte (più o meno ampia in funzione del valore della propensione marginale all’importazione) della domanda aggiuntiva interna viene soddisfatta da beni esteri.
In via teorica, un possibile sostegno all’espansione fiscale potrebbe arrivare da una politica valutaria che contemporaneamente svaluti il cambio in modo da evitare che l’effetto sul reddito dovuto all’incremento di spesa pubblica sia vanificato dall’aumento del disavanzo commerciale. Allo stesso modo sarebbero necessarie politiche utili a favorire un cambiamento strutturale perseguendo una maggiore coerenza del tessuto produttivo con il profilo attuale dei consumi e degli investimenti, in questo modo riducendo in una prospettiva macroeconomica la quota di reddito destinata alle importazioni (cioè cosa produrre in sostituzione di ciò che viene prevalentemente importato, inclusi gli impianti/macchinari per creare ciò che produciamo attualmente e ciò che sarebbe conveniente ricominciare a produrre). 
In conclusione, la politica fiscale in economia aperta in assenza di politiche di sostegno monetarie e/o valutarie e in assenza di politiche industriali per il tessuto produttivo ha: a) un impatto negativo su investimenti e avanzo commerciale (ipotesi marginalista); b) un impatto limitato sul reddito (ipotesi keynesiana in equilibrio di sottoccupazione).
Nell’ipotesi di assenza di sottoccupazione, risultante dalla disciplina regolatrice della fiscalità dell’area euro (nella quale esiste dunque una presunzione sostanzialmente normativa e quindi “a priori”, indipendente da verifica empirica a posteriori), come quella formulata dalla Commissione Europea sul nostro Paese (output gap molto ridotto, quindi sostanziale pieno impiego delle risorse) prevale l’impostazione marginalista, per cui una politica fiscale espansiva genererebbe nel nostro Paese soltanto una riduzione degli investimenti e un peggioramento della bilancia commerciale.
In più, essendo tale visione (normativa) ideologicamente coerente con il cosiddetto teorema di Haavelmo, poiché la spesa pubblica effettuata in deficit è inefficace, sarebbe invece auspicabile una politica di pareggio di bilancio finalizzata anche alla riduzione del debito pubblico. Questa è in estrema sintesi la base teorica di riferimento delle politiche di austerity.
Tuttavia in un contesto complesso come quello europeo, in particolare in assenza di controllo sulla moneta e sui cambi, gli effetti delle politiche di austerity sono ben diversi da quelli auspicati “in teoria” (ma pur sempre, come in precedenza osservato, teoria “normativizzata”, cioè ad applicazione obbligatoria a priori: ciò, in particolare nelle guidelines applicative del c.d. fiscal compact).
Ed infatti, la riduzione della spesa pubblica determina una compressione della domanda interna, con calo della propensione agli investimenti delle imprese private e una conseguente perdita di competitività. Tuttavia, l’assenza di qualsiasi meccanismo di riequilibrio sul fronte monetario e valutario fa sì che, nonostante tutto, la capacità ad importare resti immutata (la valuta unica è accettata allo stesso modo, cioè ha identico incondizionato corso legale, in ogni Stato all’interno dell’area valutaria). Dunque, alla perdita di reddito e competitività interna, dovuta alle politiche di austerity, non segue un deprezzamento del cambio, anzi, dato che la domanda interna sopperisce al calo degli investimenti aumentando la sua propensione ad importare, si rafforza così il processo di deindustrializzazione del Paese. Allo stesso modo, anche nel caso di sottoccupazione, un incremento della spesa pubblica avrà un effetto limitato sul reddito nazionale, in quanto il moltiplicatore di economia aperta è tanto più basso quanto più alta è la propensione marginale ad importare, e tale politica non può essere supportata né dalla politica monetaria né dalla politica valutaria.

10. Alcuni “fatti stilizzati” e opzioni per il rilancio della crescita
Alcuni specifici indicatori macroeconomici consentono di dare un preliminare riscontro alle tendenze evidenziate.
In primo luogo, la Figura 1 riporta l’andamento della propensione media all’importazione in Italia, nel periodo 1995-2019, calcolato come rapporto fra il valore delle importazioni e il prodotto interno lordo (a prezzi costanti 2010). Come è possibile osservare, - al di là della cautela con la quale occorre guardare a tale dato come proxy del valore marginale della propensione all’import -, le importazioni sono aumentate più che proporzionalmente rispetto al prodotto interno lordo concordemente a una ricomposizione della domanda a favore di quella estera e a svantaggio di quella interna.
Figura 1. Propensione media all'importazione in Italia (prezzi costanti 2010, 1995-2019)
Fonte: elaborazione su dati AMECO

Sul fronte dell’offerta, l’andamento della produzione industriale ben rappresenta il processo di deindustrializzazione del Paese.
In effetti, dal 2008 al 2018 il numero di imprese attive nella manifattura si è ridotto di oltre 100mila unità (più di 20mila imprese in meno nei soli ultimi tre anni). A tale aspetto andrebbe inoltre aggiunto come l’accresciuta esposizione alla domanda estera dell’attuale struttura produttiva genera inevitabilmente una crescente preoccupazione non più solo sotto il profilo strettamente teorico (rispetto all’assunto marginalista che siano gli incrementi di produttività a sostenere la crescita economica, in un contesto di economia aperta agli scambi commerciali; e ciò in quanto il maggiore output si riflette inevitabilmente in una maggiore domanda estera), ma anche in una prospettiva più concreta di contrazione della domanda estera e di mutamento delle politiche commerciali di molti Paesi.
Figura 2. Produzione industriale nei principali Paesi Europei e negli Usa, numero indice, base anno 2000.
Fonte: elaborazione su dati AMECO

La figura 2 (si veda anche la Tabella 1) riporta l’andamento della produzione industriale italiana, di alcuni Paesi europei e degli Stati Uniti nel periodo 2000-2018.
Tra il 2000 ed il 2008, la produzione industriale italiana è stagnante (fatto 100 la produzione industriale nel 2000, nel 2007 la stessa valeva 98,3), in controtendenza rispetto a quanto accadeva nel complesso dell’area euro (identificata con i dodici Paesi che aderirono inizialmente alla moneta unica) dove la produzione industriale passa da 100 a 110; in Germania si ha la crescita più significativa da 100 a 119,5.
Successivamente la crisi trasforma questa fase di stagnazione in recessione con la perdita di ben 20 punti per il nostro Paese solo nel 2009. Se il crollo del 2009 è comune a tutti i Paesi analizzati, bene diversa è la loro reazione. La Germania nel 2011 ha già recuperato tutta la produzione industriale persa con la crisi e, dopo un consolidamento nel periodo 2011-2014, riprende la sua corsa evidenziando nel 2018 un valore di 127,4; in estrema sintesi in Germania dal 2000 al 2018 la produzione industriale è aumentata del 27,4%, nonostante il lungo periodo esaminato sia stato caratterizzato dalla crisi globale.
L’Italia, invece, dopo la stagnazione del periodo 2000-2008 subisce le conseguenze della crisi con il crollo della produzione industriale nel 2009 (79,9) e a cui fa seguito una debole ripresa, non in grado di riportare il Paese ai livelli pre-crisi in poco tempo.
Al contrario, la politica di austerità intrapresa negli anni 2011-2013 determina un’ulteriore flessione della produzione industriale che nel 2014 si avvicina nuovamente ai livelli minimi fatti registrare nel 2009, laddove invece altri Paesi (come detto la Germania, ma anche gli USA) in quegli anni avevano già pienamente recuperato la produzione persa con la crisi.
A fine periodo nel 2018 l’Italia fa segnare un valore di 83,5%, ad indicare che dal 2000 (100) c’è stato un crollo cumulato della produzione industriale del 16,5% e, dato molto più preoccupante, rispetto al minimo post-crisi globale del 2009 (79,9) il recupero cumulato in 10 anni è stato solo del 3,6% (in media una crescita dello 0,36% annuo). L’effetto negativo delle politiche di austerità è ancora più evidente analizzando il dato della Grecia, che segna un minimo non in corrispondenza della crisi del 2008, ma a seguito dell’intervento della Troika (70,7 nel 2014). 
Tabella 1. Produzione industriale nei principali Paesi Europei e negli Usa, numero indice, base anno 2000.
Anni
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
European Union
100,0
100,3
99,9
100,3
103,3
104,3
108,0
111,7
110,1
95,3
Euro area
100,0
100,4
100,0
100,2
103,2
104,2
107,9
111,9
110,2
94,1
Germany
100,0
99,9
98,8
99,3
103,5
106,7
112,4
118,8
119,5
100,0
Greece
100,0
96,6
96,8
97,4
97,9
96,4
97,2
99,4
95,2
86,0
Spain
100,0
98,9
98,8
100,2
102,2
102,3
106,1
108,7
101,0
84,6
France
100,0
101,1
100,0
99,1
101,6
101,7
102,4
103,7
101,0
88,1
Italy
100,0
99,2
97,9
96,9
97,8
96,0
99,0
101,5
98,3
79,9
United Kingdom
100,0
98,4
97,0
96,5
97,1
96,5
97,0
97,3
94,9
86,5
United States
100,0
96,9
97,3
98,5
101,2
104,6
106,9
109,7
105,9
93,7
Anni
2010
2011
2012
2013
2014
2015
2016
2017
2018
European Union
101,5
104,1
101,7
101,0
101,9
104,2
106,0
108,9
110,6
Euro area
100,6
103,4
100,8
99,8
100,3
102,5
104,1
106,8
108,1
Germany
111,2
119,0
118,1
117,9
119,5
121,2
122,8
126,2
127,4
Greece
80,8
76,1
74,5
72,1
70,7
71,4
73,2
76,7
77,7
Spain
85,3
83,5
78,0
76,5
77,8
80,3
81,5
83,9
84,7
France
92,3
94,7
92,2
91,4
90,3
91,9
92,6
94,4
94,9
Italy
85,4
85,8
80,6
78,2
77,3
78,7
79,8
82,2
83,5
United Kingdom
89,3
88,7
86,4
85,7
87,0
88,0
88,9
89,9
90,7
United States
98,8
101,9
105,0
107,1
110,4
109,3
107,2
108,9
113,4
Fonte: elaborazione su dati AMECO
Quali dovrebbero essere, in conclusione, gli interventi di politica economica più efficaci per rilanciare la crescita?
Dalla Tabella 2 possiamo analizzare il valore dei moltiplicatori in funzione dei diversi strumenti di politica fiscale.
Dall’analisi dei dati si evince facilmente che tutti gli interventi di spesa (investimenti e consumi pubblici e occupazione) hanno un moltiplicatore molto più alto di quelli inerenti le Entrate.
Questo effetto è facilmente intuibile anche a seguito dell’analisi del teorema di Haavelmo fatto in precedenza: pur in economia aperta, la spesa pubblica genera in modo immediato un atto di produzione (per lo più, l’esecuzione giuridicamente obbligatoria, ed immediatamente esigibile, di un contratto con prestazioni di “dare” o di “fare”), innescando l’attivazione di nuovi investimenti e nuova occupazione.
Per contro l’intervento sulle entrate (lo sgravio fiscale ad esempio) nell’immediato si traduce, a parità di aumento del reddito, in un risparmio che solo su base “facoltativa”, e comunque ritardata, potrebbe determinare maggiori investimenti con conseguente incremento del reddito (nella situazione attuale, è anche ipotizzabile l’utilizzo per l’estinzione di precedenti posizioni debitorie del “beneficiario”, e come è noto, “il pagamento estingue la liquidità”).
Tabella 2. Moltiplicatore per strumento: approccio bucket applicato ai moltiplicatori per il primo anno calcolati dal MEF mediante il modello ITEM per l’Italia.
Limite minimo
Limite massimo
Media
ENTRATE



IVA
0,24
0,36
0,3
Contributi sociali
0,32
0,48
0,4
IRPEF
0,24
0,36
0,3
IRES
0,16
0,24
0,2
IRAP
0,32
0,48
0,4
SPESA



Investimenti pubblici
0,80
1,20
1,0
Sussidi agli investimenti
0,16
0,24
0,2
Consumi intermedi
0,88
1,32
1,1
Occupazione pubblica
0,96
1,44
1,2
Fonte: elaborazione su dati NADEF 2017.
In conclusione, uno dei motivi della bassa crescita economica registrata in Italia è senza dubbio la crisi del settore industriale la cui produzione, a differenza di quanto accade in altri Paesi, non ha recuperato i livelli pre-crisi globale del 2008 e neanche i valori registrati prima dell’adesione alla moneta unica.
Una maggiore tenuta hanno mostrato le produzioni industriali non legate alla domanda interna, ma la cui debolezza prospettica è resa estremamente evidente dalla contrazione della domanda di beni dei nostri principali partner commerciali (in primis Germania) e del volume degli scambi globali indotto dai mutamenti delle politiche economiche, in particolare di Stati Uniti e Cina. Inoltre, l’incremento della propensione ad importare rischia di tramutarsi in una dipendenza strutturale che il Paese potrebbe stabilizzare rispetto all’estero, oltre che diventare un ulteriore elemento di debolezza per il rilancio dell’industria nazionale.
Questo quadro macroeconomico di riferimento spiega anche facilmente le forti differenze tra “centro” e “periferia”, con il primo (Roma e Milano essenzialmente) che è riuscito a contenere il declino grazie alla crescita dei servizi, mentre la seconda si impoveriva sempre più a causa della deindustrializzazione e della relativa perdita di competitività delle industrie locali, con forti conseguenze sull’occupazione e sui livelli di reddito dell’appunto “periferia”.
È evidente che il miglioramento degli attuali livelli di benessere non può che passare da una radicale modifica del percorso intrapreso negli ultimi due decenni di deindustrializzazione a favore di un nuovo sviluppo industriale del Paese, con l’obiettivo di mantenere e rafforzare capacità e competenze industriali, e maturare posizioni di leadership internazionale nei settori che si ritengono essenziali nelle future traiettorie di produzione e consumo.
A tale scopo è dunque necessario un mix di politiche che insista su misure coerenti dal lato dell’offerta e della domanda in grado di generare un elevato moltiplicatore.
In sintesi: a) individuare i settori “strategici” che dovranno costituire la base del rilancio industriale del Paese; b) indirizzare verso tali settori le risorse favorendo da un lato gli investimenti, anche con l’intervento diretto dello Stato (in una prima fase, importando macchinari e tecnologie chiave per il rilancio di questi settori strategici) e dall’altro la domanda finale di questi prodotti; c) supportare la crescita di tali settori industriali con un parallelo rafforzamento della qualità dei servizi erogati dal pubblico, da sostenere attraverso un piano di rilancio del pubblico impiego.




[1] Hayek è il miglior teorico del controllo culturale come determinante dei comportamenti umani e si spese per tutta la vita per un’opera di persuasione e di penetrazione mediatica, che considerava fondamentale per ottenere che si possa arrivare a determinare, ciò che gli uomini debbano credere e ciò per cui debbano affannarsi. Lo conferma questa affermazione strategica: “Penso fermamente che lo scopo principale del teorico dell’economia o del filosofo politico sia di agire sull’opinione pubblica per rendere politicamente possibile quello che forse oggi è politicamente impossibile, e quindi l’obiezione che le mie proposte sono attualmente impraticabili, non mi scoraggia assolutamente a svilupparle.” (dal libro intitolato “Denationalisation of money: the argument refined” , 1976. Cioè: “la denazionalizzazione della moneta: l’argomentazione completa”.
[2] Così, proprio spiegando l’anomala presenza di un rischio del debito pubblico riscontrabile, tra quelle che egli stesso chiama “economia avanzate”, solo per i paesi dell’eurozona; cfr. Benoît Cœuré, Member of the Executive Board of the ECB, at Harvard University's Minda de Gunzburg Center for European Studies in Cambridge, MA, 3 November 2016; https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2016/html/sp161103.en.html


8 commenti:

  1. I nostri Costituenti, manco a dirlo, queste cose le sapevano e recepirono senza dubbio le teorie keynesiane nell’ottica di un intervento dello Stato per combattere la disoccupazione agendo dal lato della domanda. E’ stata definita “politica di opere pubbliche” (oggi diremmo, in generale, di “spesa pubblica”).

    Interessante, in proposito, è quanto emerge dalla “Commissione per lo studio dei problemi del lavoro”. In tal senso, particolarmente significativa (proprio dal punto di vista “…istituzionale, storico e politico-ideologico…”) risulta la relazione dal titolo “Disoccupazione ed opere pubbliche”, nella quale il prof. Paolo Sylos Labini richiama espressamente, non a caso, il moltiplicatore di Kahn:

    …economisti… si sono dimostrati favorevoli ad un a politica di opere pubbliche.
    Tra questi si può ricordare il Kahn, la cui teoria del “moltiplicatore” ebbe, specialmente alcuni anni or sono, una notevole risonanza. Secondo il Kahn le spese effettuate dallo Stato per finanziare le opere pubbliche metterebbero in moto una spirale di benefiche azioni e reazioni: le im prese che ricevono le ordinazioni per le opere pubbliche a loro volta fanno ordinazioni ad altre imprese e queste ad altre ancora. D’altro lato i disoccupati che ottengono l’impiego vengono a disporre di un maggiore potere di acquisto ed effettuano una maggiore richiesta di beni di consumo; tale maggiore richiesta stimola la produzione e quindi la richiesta di lavoro. Per conseguenza l’occupazione dei lavoratori crescerebbe secondo un coefficiente, secondo un “moltiplicatore” che misurerebbe appunto l’occupazione indiretta, o indotta, o “secondaria”.

    Tale teoria, sfrondata dei sottili ragionamenti e delle formule… in sostanza non fa che esprimere, riferendola alla politica delle opere pubbliche, una semplice verità: che, essendo i fenomeni economici interdipendenti, qualsiasi mutamento dei dati provoca altri mutamenti, ben più importanti di quello iniziale: in un certo senso gli effetti del mutamento iniziale risultano, dopo un certo periodo, amplificati o “moltiplicati…
    ” [Atti della Commissione per lo studio dei problemi del lavoro, III, Memorie su argomenti economici, Roma, 1946, 287].(segue)

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  2. Tuttavia, Sylos Labini – riconoscendo che il moltiplicatore può avere effetti favorevoli a determinate condizioni - amplia prospetticamente il proprio discorso, affermando che:

    …in una società prevalentemente privatistica e in periodo di depressione ciclica una vasta politica di opere pubbliche non può in nessun caso costituire il fattore determinante della ripresa produttiva; una tale politica può solo affrettare la ripresa e può, quindi, portare un effettivo ed efficace contributo alla soluzione del problema della disoccupazione quando si verifichino certe condizioni e quando sia accompagnata da una serie di altri interventi statali.

    Ora, poiché l’esperienza ha dimostrato che lo Stato, specialmente durante le crisi, non può assolutamente sottrarsi dall’intervenire, e poiché gli interventi statali, attuati sotto la pressione della necessità, si manifestano spesso contraddittori, TANTO VALE CERCARE DI PREVENIRE IL MALE INVECE DI REPRIMERLO. Sono queste in sostanza le considerazioni che, come si è già accennato, possono consigliare un INTERVENTO SISTEMATICO E GENERALE DELLO STATO NELL’ECONOMIA, possono consigliare cioè una pianificazione dell’economia. Una politica di opere pubbliche che s’inserisse in una pianificazione dell’economia avrebbe un significato del tutto diverso da quello che ha una politica di opere pubbliche perseguita isolatamente…Non si cerca quindi ancora di impedire alle crisi di manifestarsi e di sanare in modo non transitorio IL CONFLITTO FRA INTERESSE INDIVIDUALE ED INTERESSE SOCIALE. Si vuole solo ridurre al minimo tale conflitto ed attenuare l’asprezza delle fluttuazioni cicliche. Tuttavia LA POLITICA DELLE OPERE PUBBLICHE IN FUNZIONE ANTICICLICA COSTITUISCE, SE È ATTUATA, UN ULTERIORE PASSO VERSO LA GENERALE PIANIFICAZIONE DELL’ECONOMIA
    [Atti della Commissione, cit., 291]. (segue)

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    1. Questo punto fondamentale, - specialmente nel primo periodo riportato in questo commento -, è un prezioso aiuto "legalitario-costituzionale", data la fonte da cui proviene, a quanto si tenta di esporre nel post (capitolo).

      Comprenderai che OGGI, data la mole di pensiero - accademico, politico-enfatico, sedicente tecnico-politico, tecnico-sovranazionale, e SOPRATTUTTO MEDIATICO -, abbiamo dovuto assumere un preciso punto di vista dialettico.

      Non si può prescindere, infatti, da quel "controllo di tutti i mezzi e di tutti i fini", che ormai spadroneggia da ogni angolo della (quasi) completata rivoluzione liberale". Si è costretti a esporla, tale teoria mainstream, usarla come base di partenza, e sperare, tentare: tentare di indurre il pensiero (consapevole) che un qualunque lettore ridesti in sé l'urgenza di spiegare ciò che è sotto ai suoi occhi e che, nonostante, si ciò si vede costretto a CONTINUARE A IGNORARE.

      Viviamo in un incubo: l'incubo del contabile.
      Solo che questi contabili, che sentono vicino la vittoria definitiva sull'interesse sociale (cioè sull'interesse democratico dell'intera società), hanno raggiunto un controllo istituzionale probabilmente senza precedenti nella storia.

      Le istituzioni non riflettono la società: la conculcano, la comprimono fin nei suoi pensieri e istinti più elementari e razionali.

      Elimina
    2. Se fosse inteso correttamente cosa s'intende per "potere costituente", non si sarebbe costretti ad assumere di continuo alcun punto di vista dialettico, come se ci si dovesse ogni volta giustificare di fronte ad ogni assurdità. Ed invece oggi io sento addirittura parlare, anche tra alcuni costituzionalisti, che sarebbe necessaria una nuova "stagione costituente"!

      E così, in un siffatto brodo culturale - che è la risultante di una partita smaccatamente truccata -
      si è costretti a discutere persino per riaffermare l'ovvio. È il sonno della ragione.

      Tuttavia sarà la gente, che dopo il sonno, andrà come in pellegrinaggio a cercarla questa Costituzione. Mi rifiuto di credere che i Costituenti siano passati invano.

      A noi, è vero, tocca l'umile compito di testimoniarne la grandezza. Faremo il possibile, anche se i tempi volgono al peggio

















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  3. In sostanza, in presenza di crisi cicliche – che sono connaturate al capitalismo [ed in cui “… La disoccupazione permanente…è uno degli indici più caratteristici del conflitto esistente fra interesse individuale e interesse sociale, fra interesse di coloro che sono economicamente più forti e interesse della società nel suo complesso, così pag. 275], lo Stato deve intervenire certamente attraverso la spesa pubblica applicando i principi dell’economia keynesiana, ma tale intervento non può essere concepito in modo sporadico ed in contingenze solo patologiche, ma deve essere considerato strutturale. Insomma:

    Finora lo Stato, come spesso pel passato, ha mostrato di considerare esaurito o quasi esaurito il suo compito dopo aver predisposto l’autorizzazione di una certa somma pel finanziamento di opere pubbliche. L’azione dello Stato nel campo delle opere pubbliche si è risolta, cioè, in un intervento isolato, frammentario e di carattere quasi esclusivamente finanziario…

    Un intervento di tale tipo può avere una certa efficacia in periodi di crisi dipendenti dal ciclo economico, crisi per giunta non gravissime; esso è assolutamente inadeguato in un periodo, come l’attuale…Ora si profila l’opportunità di una politica di opere pubbliche non perseguita isolatamente, nè solo sul piano finanziario, ma strettamente e coerentemente coordinata alla politica creditizia, a quella sociale, a quella del commercio estero, a quella tributaria e dagli altri rami della politica economica.

    Un coordinamento fra i vari interventi non platonico e formale, ma concreto, È RAGGIUNGIBILE SOLO ATTRAVERSO UNA PIANIFICAZIONE DELL’ECONOMIA…la pianificazione dell’economia sembra opportuna per cercare di realizzare la massima stabilità economica possibile, ed in particolare per promuovere e regolare quel processo di industrializzazione…necessario per assicurare, insieme col più rapido sviluppo del reddito complfessivo, l’impiego di quantità crescenti di lavoratori
    [Atti della Commissione, cit., 298-299]. (segue)

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    1. Era già tutto previsto...

      Rammentiamo che Carli ci racconta però come, mentre così si discuteva in Costituente, la "Costituzione economica" veniva organizzata, completamente "al riparo dal processo elettorale", in tutt'altro modo.

      Ed è questa, una storia che abbiamo già raccontato (invano)...
      Che Caffè e Basso tentarono di denunciare. Il Quarto Partito, tutto sommato, perse il controllo solo in 2 occasioni: 1) nei confronti di Mattei e della sua politica energetica via ENI (e credo tu stesso abbia rammentato cosa ne pensasse...Sturzo); 2) nel periodo del primo centro-sinistra (fino alla svolta craxiana e alla strana conversione del PCI di Berlinguer).

      Nel complesso, tra post e commenti relativi, ci sarebbe un altro, e probabilmente più necessario, libro da scrivere.
      Mi piacerebbe, per una naturale evoluzione di voi co-scrittori del blog, che tentaste di farlo.
      Il momento sarebbe propizio (proprio perché la notte più nera preannunzia che, prima o poi, arriverà l'alba...o, almeno, così DOBBIAMO credere)

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  4. Una pianificazione così intesa per intervento dello Stato - che nei momenti di crisi può tradursi sia “… in una statizzazione, parziale o totale, dell’offerta” sia in una “…statizzazione della richiesta” [Atti della Commissione, cit., 278-279] - ma concepita fisiologicamente in via preventiva e normale con funzioni stabilizzanti di lungo periodo. Le ragioni sono evidenti:

    … il mercato, lasciato completamente a se stesso, è, sì, indice dei valori, MA, POICHÉ DIETRO I VALORI CI SONO GLI UOMINI, IL MERCATO È INDICE DELLA FORZA ECONOMICA, CIOÈ DELLA CAPACITÀ DI ACQUISTO DEI VARI UOMINI. E quando coloro che hanno una capacità di acquisto inferiore a quella necessaria a soddisfare almeno i bisogni vitali divengono via via più numerosi, divengono addirittura la maggioranza, il conflitto fra interesse individuale, cioè fra interesse dei più forti, e interesse sociale è evidentissimo…. La pianificazione eliminerebbe il conflitto fra interesse individuale e interesse sociale, appunto perché lo Stato, predisponendo il piano, avrebbe di mira quella che potrebbe esser definita la scala sociale dei bisogni [Atti della Commissione, cit., 281].

    Ecco l’art. 41 Cost. che, non a caso, C. Mortati considerava il cuore pulsante della Costituzione nella sua parte economica. D’altronde, la “sintesi” indicata da Quarantotto alla fine del capitolo non riassume forse nella sua evidenza proprio quanto voluto dai Costituenti in detta disposizione? (http://orizzonte48.blogspot.com/2018/01/la-grande-assente-e-la-pianificazione.html)

    In armonia con quanto ancora, in proposito, sostenuto da Federico Caffè:

    Un vero quadro incisivo di politica economica non può che essere fornito che da alcune opzioni fondamentali le quali sembrano essere costituite:
    a) dalla riaffermazione di un livello pressoché pieno di occupazione…indispensabile per legittimare il consenso e reagire, in forme non repressive, ai fenomeni asociali di conflittualità;
    b) dal riconoscimento che il pieno impiego comporta non soltanto una politica di controllo pubblico della domanda globale, ma altresì di una politica di attenta amministrazione dell’offerta complessiva. Sul terreno dell’offerta …sia i fenomeni aberranti delle eccedenze da distruggere sia i fenomeni di carenze strutturali di lungo periodo…attestano con chiara evidenza i limiti e le insufficienze delle indicazioni fornite dal mercato…
    ” [F. CAFFE’. In difesa del Welfare State – Saggi di politica economica, Torino, 2014, 151-152].

    Spero di leggere presto la prossima fatica di Quarantotto :-)

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    1. E quindi dell'insieme montato di questi commenti, varrà la pena di fare un post :-)
      Grazie. E non solo a mio nome.

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