martedì 6 settembre 2016

"SEI LEZIONI DI ECONOMIA": TRA MARGINALISMO, SRAFFA E...IL VINCOLO COSTITUZIONALE

Sei lezioni di economia
http://www.imprimatureditore.it/index.php/2016/08/25/sei-lezioni-di-economia/

1. Il libro di Sergio Cesaratto, la cui copertina vedete nell'immagine di apertura, è una piacevole lettura, solida e scorrevole, sia dal punto di vista storico che, ovviamente, teorico-economico. 
Si può non concordare in toto con talune implicazioni che, d'altra parte,  sono comunque dimostrate nel quadro di una rigorosa ricostruzione economica, senza però debordare sul dato istituzionale; ma, nondimeno, anche in questo caso, il libro ci offre una fondamentale spiegazione, particolarmente rilevante per i lettori di questo blog.
La spiegazione di come, e perché, la parte della sinistra in origine comunista, poi in mutevole e variegata definibilità nominalistica e ideologica, sia risultata solo marginalmente - e comunque in modo costantemente "selettivo"- ascrivible al "partito della Costituzione del 1948": su di essa la stessa sinistra marxista avrebbe nutrito una costante "diffidenza", scientifica e, prima ancora, politica (Cesaratto, preoccupandosi del profilo scientifico, ritiene, con ampie argomentazioni, più attendibile Sraffa rispetto a Keynes; ma il primo, a differenza del secondo, è inevitabilmente al di fuori del processo Costituente, come vedremo tra breve).

2. Cerchiamo di evidenziare i passaggi del libro da cui scaturisce questa utile, e comunque interessantissima, spiegazione: nella parte in cui ricostruisce, - con l'occhio lealmente dichiarato di un insider -, le vicende della scienza economica italiana "vista da sinistra", Sergio attribuisce un giusto rilievo a Marx, ed alla sua sopravvivenza rispetto al tramontare di alcune, ma non altre, delle sue analisi, e conferisce, come accennato, un grande rilievo a Sraffa. 
Nel far ciò, implica una sottile ma estesa critica a Keynes,  denunciando l'insufficienza e la contraddittorietà delle sue "poliedriche" premesse teoriche ed empiriche (tacciate di essere oscure se non confusionarie: sulla definizione del modello classico K. sarebbe anzi un "arruffone" che, come sappiamo, finisce per essere fagocitato come sub-ipotesi del marginalismo e, aggiungiamo, del dichiarato neo-classicismo dei...neo-keynesiani).
Ma questa accurata descrizione di una traiettoria culturale, certamente importante, ci fornisce indirettamente anche una spiegazione del distacco, (inteso come "distanza da"), che, in tutte le sue varie e non proprio coerenti fasi, ha avuto la visione economica "di sinistra", marxista ortodossa e anche più "avanzata," rispetto alla rigorosa difesa della legalità costituzionale.

3. Si riesce cioè a cogliere il meccanismo causale di come tale visione si sia distaccata "da", e abbia avuto la tendenza, non tanto a negare, ma a rendere (politicamente) irrilevante, il legame essenziale tra il principio fondativo "lavoristico" della Costituzione e la Costituzione economica.
Un legame che, ne "La Costituzione nella palude" abbiamo ricostruito come "funzionale" e riassumibile nella visione keynesiana della piena occupazione, quale oggetto di obbligo (costituzionale) di attivazione, "tipizzato" nei suoi strumenti, da parte dei massimi organi espressivi dell'indirizzo politico e, ciò, punto importantissimo, al di sopra dello stesso processo elettorale, in sè assoggettato al Potere Costituente (v.p.4), quale mero "potere costituito" (incluso quello di revisione costituzionale "derivata"). 
Da tale non accettazione, o assunzione in termini di irrilevanza, del "vincolo costituzionale", si sono poste le premesse per lasciare enormi spazi alla penetrazione del neo-ordo-liberismo filo-europeista: e, citando la parabola di Luigi Spaventa, inizialmente "fervente sraffiano" e poi "difensore del monetarismo", Sergio ne pare indirettamente consapevole.

4. Insomma il libro ci rende testimonianza di una spiegazione culturale fondamentale: quella su come la Costituzione sia stata considerata "superata", e comunque superabile, in quanto keynesiana, dalla "sinistra"; e quindi non solo dalla reazione immediata e violenta del "Quarto partito", sempre in armi fin dal 1947.
Non bisogna dimenticare, infatti, che per fondare un'interpretazione sistematica e "armoniosa" dei principi e dei diritti inderogabili della Carta del 1948, occorre rifarsi alla teoria economica di Keynes, quale obiettivamente recepita in Costituzione, nel suo complessivo tessuto normativo.
Ciò avvenne attraverso l'elaborazione-guida di Meuccio Ruini e Federico Caffè (del keynesismo del secondo, Sergio dà espressamente atto), di cui abbiamo traccia certificativa diretta, nonché attraverso le varie anime "sociali" che facevano, anzitutto, capo a Lelio Basso e ad altri (Ghidini, Dossetti, gli stessi Moro e Fanfani, ecc.: sul punto rinviamo alla ricostruzione selettiva compiuta in "La Costituzione nella palude"). E questo, in un'ottica istituzionale dai risvolti molto pratici ed attuali, ben al di là della confutazione della Legge di Say "marginalista", ovvero, della sua anteriore versione ricardiana.

5. Questa realtà fondativa, su un piano normativo del massimo livello, darebbe (il condizionale è d'obbligo) alla democrazia italiana un'indicazione molto più "certa" quanto alla individuazione univoca di un "pensiero" di Keynes, di cui, pure, Cesaratto segnala, qualificandola come "notoria", l'assumibilità "multiverso" (nel senso che avrebbe espresso, Keynes stesso, molteplici approcci ed analisi, non sempre precisamente dimostrati e non necessariamente unificabili in una sola visione).
In un'ottica istituzionale, fondativa della nostra democrazia, infatti, come qui s'è evidenziato, Keynes, o una sua "determinata" versione, certamente intrisa, - via Lelio Basso (e Caffè)-, di richiami a Myrdal, Kaldor e al socialismo di Rosa Luxemburg, è tuttavia oggetto di una scelta vincolante e ritenuta perciò irreversibile, in quanto fondatrice del diritto, fondamentalissimo e assolutamente centrale, "al lavoro". 

6. By the way, la nostra Costituzione ritiene tutt'altro che "marginale" l'osservazione generale per cui si può supporre che, in un'economia caratterizzata da un rilevante accumulo di capitale pregresso, gli investimenti trovino nell'azione dello Stato un costante strumento di sostegno verso la piena occupazione e che la redistribuzione (specialmente ex ante!) ne costituisca un essenziale elemento complementare. Non escludendo neppure quelle che Caffè richiama "misure di razionamento", a tutela dell'equilibrio dei conti esteri (anche all'interno dell'allora "mercato comune", in base a regole che egli lamenta non essere legittimamente rivendicate a favore dell'Italia; qui, p.4).
E questo processo di "positivizzazione normativa" avviene proprio fissando la Grund-Norm del sistema italiano su una correzione permanente dei "rapporti di forza", come evidenziano Basso, autore dell'art.3, comma 2, della Costituzione, lo stesso Caffè - qui,p.7- e, naturalmente, Calamandrei. Il quale, va ri-sottolineato, costituì un caso unico di capacità di cambiare visione, sul piano delle categorie generali di interpretazione del "reale-razionale", almeno in Italia; l'altro raro esempio è quello di Hansen nell'ambito del New Deal.

7. Ma il libro, nel ridare fondamento teorico vasto e ben argomentato, alle teorie economiche "critiche", cioè non ortodosse, - evidenziando appunto l'importanza del problema "strutturale" dei rapporti di forza (che sono tanto più decisivi nel diritto internazionale dei trattati) compie una rassegna che, per i lettori di orizzonte48, potrà risultare particolarmente congeniale, data la "famigliarità" con i temi affrontati.

8. Il libro, poi, conferma un'altra cosa: fare divulgazione è più difficile che rimanere su un piano accademico.
Infatti, l'intento divulgativo impone di giustificare, in termini specialmente storici - gli unici capaci di portare in luce i "fatti" rilevanti per spiegare quanto importante sia l'aspetto politico nelle scienze sociali- dei passaggi che, nella letteratura didattico-accademica, (specie delle scienze sociali), sono l'oggetto riduzionistico di un metalinguaggio, che non si cura più di incorrere nel pericolo di divenire un preteso "dato" cognitivo, cioè arbitrario e storicamente contestualizzabile.
Si potrebbe dire che proprio la divulgazione è, probabilmente, il mezzo più eloquente per cercare di spiegare la complessità che viene (orwellianamente) "ridotta" dalla sede accademica, andando alla ricerca del consolidamento "scientifico" di un pensiero unico e, come tale, (in apparenza) semplificato.
Cesaratto rifugge da questo difetto e sviluppa un discorso costantemente attento alle fondamenta (Alberto direbbe "le bbasi"), storiche, abbiamo detto, politiche e persino antropologiche del discorso.
Quindi un percorso altamente istruttivo, nel senso migliore del termine, e che vale la pena di affrontare: col conforto di sapere che qualche "professore" è ancora dotato dello spirito indagatore della complessità. Uno spirito che è l'unica via che possa condurre alla consapevolezza utile a "uscire dalla crisi".

43 commenti:

  1. ordinato proprio ieri…al solito quando ho chiesto del libro alla libreria universitaria mi è stato detto che l'unica copia che gli era stata fornita (come no) era stata già venduta. Stessa cosa accaduta con i suoi due libri. Ma alla fine il bene vince sempre.

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  2. Sei troppo buono Quarantotto.

    Metto da parte un attimo il sicuramente ottimo lavoro di Cesaratto.

    Non è difficile dimostrare che la "radicalità" stupida di un certo comunismo del '900 è l'altra faccia del piddinismo.

    Radicalmente "antagonisti" prima, radicalmente "collaborazionisti" dopo: mai radicalmente socialisti.

    Anche la Luxemburg finì per dare ragione - come in molte altre occasioni - alle scelte politiche di Lenin: in quel contesto geostorico - la Russia zarista - « non c'erano alternative ».

    Questo è marxismo: ovvero, nella sua « poliedricità », è stato - ed è - uno strumento borghese messo al servizio delle classi subalterne.

    Il motivo di questa alleanza con le masse incolte va ricercato nella passionarietà della classe borghese ottocentesca.

    Seguo la divulgazione di Cesaratto e voglio essere cattivo: quale passionarietà hanno avuto i marxisti europei del tardo '900?

    Devono sparire.

    Lo vuole la Storia: perché il marxismo moderno è tutto - ripeto, TUTTO - falsa coscienza sovrastrutturata ai rapporti di produzione neoliberisti.

    Il Gregge.

    Ricordando un altro marxista, poco marxiano, ma sicuramente meno omodosso del grande gregge: ovvero Costanzo Preve.

    Questa massa di pecoroni guidata da pastori, invece che da "compagni di lotta".

    Ma perché si chiamano tra loro "compagni"? Compagni de che? Ma quale "lotta", soprattutto?

    Quando c'è stato da lottare hanno lasciato Bagnai solo a tener serrate le file della tradizione della Sinistra democratica.

    Ma già! Non sono "democratici"!

    « Tanto peggio, tanto meglio. » Così,aspettando, dovrebbero "esplodere le contraddizioni del capitalismo"...

    Banda di pifferai magici che, invece di emancipare i subalterni promuovendo marxianamente gli strumenti cognitivi atti alla coscienza politica e di classe, hanno manipolato - preso per il culo! - i subalterni nella miglior tradizione del cattolicesimo romano.

    A costoro preferisco <a href="http://www.webalice.it/mario.gangarossa/sottolebandieredelmarxismo_identita/amadeo-bordiga_abbasso-la-repubblica-borghese-abbasso-la-sua-costituzione.htm>Bordiga</a>: non aveva capito nulla, ma almeno era un passionario.

    Come Lelio Basso.

    <i>(Che però arrivava probabilmente da un altro pianeta, unendo passione e ragione)</i>

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  3. Divulgare mettendo in contrapposizione il borghese Keynes - con l'immagine da borghese - ed il borghese Marx, con l'immagine da rivoluzionario, significa, ad essere gentili, non aver capito nulla di Marx e delle scienze sociali di cui è padre.

    Ogni situazione geostorica ha le sue peculiarità: è noto che erano i sovietici i primi a non sostenere la soluzione leninista in Italia.

    Interessante l'alquanto poco patriottica affermazione del buon Cesaratto, per cui: « Se una “costituzione più bella del mondo” v’è stata, è stata probabilmente quella sovietica. »

    Ora: tralasciando che l'Inno Russo dovrebbero "inserirlo nel patrimonio dell'UNESCO", è anche comprensibile che molti vorrebbero far sì che il ciarpame collaborazionista e bancarottiero del nostro capitalismo - lo sponsor del degasperiano "quarto partito" - facesse la fine dei Romanov.

    Una dittatura di un partito come via per la dittatura del proletariato sarebbe sicuramente preferibile alla dittatura della Trojka (Trojka l'hanno pur chiamata!) sulla via della Grande Società aperta del popper-hayekiano Soros con genocidio kalergico annesso.

    Bene, questi pensieri sono da bar dello Sport. O, se si vuole, da circolino.

    Queste sono considerazioni fuori dalla Storia: quest'ossimoro - stando con Marx - che dovrebbe essere ortodossia marxista, vorrebbe che l'intellighenzia dell'ultimo secolo avesse tanto Hegel quanto Keynes nel sangue.

    Noi, che rappresentiamo probabilmente il dibattito più importante in Italia e non solo, possiamo permetterci di citare anche Carl Schmitt che, oltre ad essere nazista, era pure intelligente: «l'ermafroditismo» del riformismo rivoluzionario della nostra Carta è «facilmente spiegabile con paralleli politici e sociologici. Ogni partito che abbia una solida visione del mondo può, nella tattica della lotta politica, formare coalizione con i gruppi più disparati. E questo vale per i socialisti convinti, nella misura in cui hanno princìpi radicali, non meno che per i cattolici. Anche il movimento nazionalista, secondo la situazione di ciascun paese, ha stretto patti ora con la monarchia legittima ora con la repubblica democratica» Schmitt, "Cattolicesimo romano e sua forma politica", 1923.

    Machiavelli lega tanto Schmitt, quanto Lenin.

    Quanto la Chiesa cattolica.

    Questa "sinistra", è radicale in tutto tranne che nella Weltanschauung socialista e nella prassi marxista.

    Senza Coscienza non è possibile influenzare i rapporti di forza che si materializzano nei rapporti di produzione.


    (Spingere costoro a studiare Husserl è inutile, per quel noto problema morale evidenziato da Scheler, e di cui Kant stigmatizzava il fenomeno notando che «quel difetto di giudizio - quella grulleria - che non si lascia mai correggere» anche nei «dotti»)

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    1. Quello che non ho mai capito è che se "è anche comprensibile che molti vorrebbero far sì che il ciarpame collaborazionista e bancarottiero del nostro capitalismo - lo sponsor del degasperiano "quarto partito" - facesse la fine dei Romanov", poi occorra una svalutazione così sistemtatica della Costituzione del '48, per rendere irrilevanti proprio i poteri democratici della masse da libbberare.

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    2. « Ermafroditismo », non si capisce, era la definizione di Byron citata da Schmitt per descrivere la Chiesa Cattolica nella sua componente volta contemporaneamente verso le masse schiavizzate e verso il padrone.

      La «rigidità marxista» - cit. Arturo in rif. a Bordiga - non è marxiana.

      La Robinson dà il merito a Sraffa di aver dato un grande contributo nel far convergere "il keynesismo al marxismo", rendendo il marxismo «intelleggibile»

      Marx vive nei post-keynesiani: anche se nominalmente pare ci sia un contrasto.

      È "l'atteggiamento" che è mostruoso dell'asinistra: pura appartenenza nominalistica.

      Ma non è sempre stato così, e riporto un intervento segnalatomi da Arturo da cui aveva estratto quella perla di Togliatti: «Strana pretesa quella dei liberali. Sono quattro noci in un sacco e vorrebbero tracciare loro la strada al mondo», pag. 5091

      pag. 5093: «E veniamo alle questioni economiche, sulle quali ha parlato a lungo l’onorevole Ministro del bilancio. Mi permetta l’onorevole Ei­naudi se non mi associerò al coro di elogi che ha raccolto, anche per il motivo che molte delle cose che ho sentito dire da lui tre giorni or sono, le avevo sentito dire, non ricordo con precisione quante decine di anni fa, quando ero allievo del Professore Einaudi ed ero obbligato perfino a ripeterlo all’esame se volevo prendere il ventisette o il trenta che mi doveva permettere di continuare gli studi senza pagare le tasse. (Si ride). Non ho sentito nelle cose che egli ha detto l’accento dell’attualità politica, né il senso dei pro­blemi che angustiano oggi la massa dei la­voratori. Questo non l’ho sentito!»

      Ricorda poi che Einaudi era contemporaneamente ministro e governatore della Banca d’Italia (povero Einaudi, una specie di esiliato in patria sotto l’uggiosa cappa cattocomunista!)

      «Il fatto che l’onorevole Einaudi conservi la carica suscita un’impressione singolare, onorevoli colleghi, perché noi parliamo spesso di controllo del governo sulle Banche e sul credito e quindi anche sulla Banca d’ Italia; ma invece qui si crea una situazione parti­colare nella quale sembra che sia la Banca d’Italia che controlli il governo... ( Applausi a sinistra) e questo non è giusto. La verità è che la direzione della Banca d’ Italia deve essere profondamente trasformata da quella che è oggi. Devono entrare in quella direzione rappresentanti di tutte le forze produttive del Paese, non soltanto banchieri e capitalisti; vi devono entrare rap­ presentanti delle classi lavoratrici, dei sin­dacati, delle cooperative. Dobbiamo avere una direzione collettiva della Banca d’ Italia, la quale ci dia la sicurezza che non prevalga alla testa di quell’ istituto né una dottrina né la concezione politica di un determinato partito né gli interessi di un particolare gruppo sociale; ma siano tenuti in considera­zione tutti gli interessi di tutta la Nazione.»

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    3. Apperò.

      Sentiamo un po’ come prosegue: «Perché, quando sen­tiamo avvalorare l’opinione che un governo particolare, un governo, anzi, di un particolare colore e di una particolare struttura, e di quella struttura che io prima ho definita non rispondente alle necessità della democra­zia in Italia, deve essere messo a capo del Paese perché questo possa avere quegli aiuti di cui ha bisogno, ebbene, se le cose stanno così, allora non siamo più d’accordo. Questo infatti è un intervento diretto nella vita po­litica interna del nostro Paese, e quando si interviene nella vita politica interna del nostro Paese, vuol dire che non si fa più una politica di prestiti e aiuti a scopo di ricostru­zione, ma una politica di potenza, di conqui­sta di determinate posizioni, e a una cosa simile noi come italiani né ci possiamo né ci dobbiamo prestare, se vogliamo siano ri­sparmiate al nostro Paese le sciagure di un nuovo conflitto nel quale qualcuno sembra ci vorrebbe trascinare. Sono inoltre completamente in disaccordo con l a posizione che ho visto accennata, non so se in una dichiarazione ufficiale del Presi­dente del Consiglio, o in articoli dell’organo del partito democristiano, dove si dice che noi dovremmo portare il nostro Paese al li­vello del regime democratico di coloro che ci aiutano. Non sono d’accordo. Il nostro re­gime democratico si deve sviluppare a seconda del nostro genio nazionale, a seconda delle aspirazioni della maggioranza dei cittadini italiani ed esso avrà la sua impronta partico­lare, che non sarà né americana, né inglese, né francese, né russa, ma italiana e soltanto ita­liana. (Applausi a sinistra). E poi, a che còsa livellarci? A che cosa adeguarci ? Forse che per metterci allo stesso livello con gli americani dovremmo avere anche noi una legge che metta fuori legge, i sindacati e distrugga le libertà recentemente scritte nella nostra Costituzione? Questa sarebbe democrazia ? Oppure dovremmo metterci a linciare i negri? Oppure dovremmo avere un regime come quello che in una grande parte, badate, in una gran parte dell’opinione pubblica ita­liana, suscita sempre l’impressione di essere un regime nel quale in realtà la direzione politica appartiene a plutocratici gruppi e non, come noi vogliamo, alla maggioranza del popolo liberamente espresso attraverso forme concrete di organizzazione e lotta politica? L’onorevole Giannini ha scoperto che non c’ è un problema dell’indipendenza. Mi pare che egli faccia confusione fra la questione della interdipendenza dei singoli Paesi e quella dell’ indipendenza nazionale. Quella è sempre esistita, in una certa misura, ed aumenterà sempre più. Lo sviluppo economico di ogni Paese dipende da quello dei paesi vicini e lontani; ma questo non vuol dire che non esista un problema di indipendenza, cioè di libertà interna di ogni popolo, il quale deve essere pienamente nella facoltà di darsi quel regime che crede e di governarsi come crede senza intervento straniero. E questo non vuol dire affatto un ritorno all’autarchia, ma semplicemente il rispetto di quell’ideale per cui hanno combattuto i nostri antenati nel secolo passato e i nostri concittadini che sono morti negli anni del recente passato nella lotta per cacciare dal nostro Paese quello straniero, che pensava di toglierci l’indipendenza, ma copriva anche lui le sue intenzioni reali con le ciance relative a una cosiddetta unione dei popoli europei nella quale la libertà dei popoli sarebbe stata sof­focata e distrutta. (Applausi a sinistra).»

      Quando a sinistra non ci stava l'asinistra....

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    4. Ma ti pare che Togliatti si possa nominare? "E le foibe"? Einaudi è la nuova icona dell'asinistra

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    5. Uno stalinista.

      Capisco perché Putin ha di recente esplicitamente richiamato i russi per trovare spiragli nei media globali affinché la Storia non venga falsificata.

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    6. De Felice nella sua biografia di Mussolini ha evidenziato più volte lo scetticismo di questi nei confronti della dirigenza socialista italiana ma non solo italiana. Già la grande guerra aveva ben evidenziato la fragilità del solidarismo socialista. Gli interessi nazionali - quanto poi coincidessero con quello delle classi subalterne dei rispettivi paesi è dubbio - avevano la meglio e la inutile strage non è stata evitata.
      Mi chiedo se Mussolini nella sua presa del potere resa possibile dall' appoggio del "quarto partito" di allora non si muovesse su linee di puro, cinico, personale esercizio del potere a causa di questo radicale scetticismo. Non vorrei offrire una interpretazione assolutoria del fascismo ma credo che il socialismo italiano non fosse nella maggioranza dei suoi dirigenti disposto ad una soluzione come quella offerta dalla costituzione del 48. Lelio Basso apparteneva ad una minoranza. Alla stessa minoranza a cui apparteneva Gramsci.
      Mussolini d'altro canto dovrà ricredersi a sua volta sulla validità delle teorie economiche che avevano ispirato la politica economica dei suoi primi governi e che erano di chiara impronta liberista. La crisi del 29 spazzerà via ogni dubbio al riguardo, ma mi chiedo se abbia mai colto il suggerimento di Keynes sulla quota 90.

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    7. Come spiega Engels nell'introduzione italiana del Manifesto, il rapporto tra interessi nazionali e classi subalterne è tutt'altro che dubbio: Engels sostiene che senza Stati nazionali non ci sarebbe potuta essere una Internazionale.

      Il problema politico è l'uso del nazionalismo a fine imperialistici e per neutralizzare la coscienza di classe.

      Tant'è che oggi che gli Stati nazionali sono neutralizzati, l'imperialismo ha come ostensione fenomenologica il "terrorismo".

      A differenza di quel che sostiene imbarazzato Cesaratto, i grandi teorici del socialismo riconoscevano piuttosto compattamente l'importanza dell'arena nazionale per la lotta di classe, tant'è che votarono compattamente contro all'integrazione europea, parlando esplicitamente di "sovranità nazionale", con lo stupore del "capo dei rivoltosi" anti-europeisti Lelio Basso, a cui premeva sottolineare che il principio guida non è di per sé il "nazionalismo sovrano" ma la democrazia sostanziale, di cui il primo è solo strumentale alla seconda.

      L'intervento di Togliatti è in Costituente: "dopo" la IIGM...

      (Poi c'era quella cosmopolita comunità di "figli dei fiori" dell'esperanto che ispirò la neolingua di Orwell in 1984...)

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    8. Il difetto principale del primo volume del Mussolini di De Felice (sì, l'ho letto e ho letto pure tutti quelli seguenti) è che manca un'interpretazione coerente della storia italiana (Tranfaglia).
      Ha poco senso individuare una qualche continuità di correttezza del giudizio mussoliniano nel passaggio del futuro "duce" dall'entusiasmo rivoluzionario all'interventismo, salvo proporre, cosa che De Felice esplicitamente non fa, un'interpretazione assai stravagante della storia italiana del periodo (sugli aspetti psicologici, posto che interessino, le osservazioni più convincenti restano, per quanto mi riguarda, ancora quelle contenute nel primo volume del Vivarelli. In ogni caso il revirement degli anni Trenta non ebbe granché a che fare con particolari "ripensamenti" (Mussolini non fu mai un dogmatico in economia), ma semplicemente con cambiamenti nei rapporti economici internazionali e nelle esigenze del grande capitale).

      Detto molto semplicemente, il punto non è se la sinistra dell'epoca avesse la cultura costituzionale del '48: quest'ultima è impensabile senza la crisi del '29 e la seconda guerra mondiale, quindi ovviamente la risposta è no.

      Quello su cui mi pare sarebbe utile interrogarsi è quali erano i coevi spazi politici democratici per una politica che si allontanasse dalle "regole del gioco" del gold standard: se guardiamo alla fine che fecero il Cartel des gauches prima, il Front Populaire dopo e il governo laburista britannico nel '31 in mezzo (tutti episodi segnati da un pesante intervento delle rispettive banche centrali, ovviamente, che Polanyi definì "governig by panic". La shock doctrine non è certo un'invenzione recente...), non sembra facile dare una risposta incoraggiante.

      L'altro problema, certo, è la c.d. "integrazione negativa" dei partiti che dovrebbero rappresentare le classi popolari. Altra questione molto difficile.

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    9. Il concetto di integrazione negativa, accostato alla parabola di Syriza, è molto interessante.
      A mio avviso pecca, però, di una certa astrattezza astorica, o meglio sovrastrutturale.

      Nel momento in cui - forse l'ho già detto- ogni soluzione politica discenda da scelte tra opzioni apparentemente alternative e in teoria tutte praticabili (con diversi costi/benefici), e quindi la scelta divenga un apparente fatto tecnico, ho già rinunciato a utilizzare il paradigma della Costituzione nazionale; cioè dell'interesse generale democratic,o e lo reinvento, come se fosse una scelta continuamente rinnovabile, già secondo i dettami di una neo-costituzione extratestuale (e occultata ai governati).

      E' quello che Calamandrei chiamava "politica allo stato puro": quello che conta però, è come e in base a quali eventi si sia arrivati a questo "status", che è di per sè alternativo alla democrazia sovrana nazionale.

      Nel caso, evidentemente, si presupponeva, già nel fatto di porsi certe opzioni, la già avvenuta fine della democrazia costituzionale: quello che ne è conseguito non era (ormai) più, in partenza, "cura dell'interesse nazionale", nel senso indicato da Bazaar.


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    10. grazie a Bazaar e Arturo per le illuminanti puntualizzazioni.
      Convengo senz'altro che l'unico spazio dove poter perseguire e difendere gli interessi di una collettività é la nazione. Tutti gli internazionalisti ,consapevoli o no, perseguono interessi particolari o addirittura particolarissimi e quasi sempre confliggenti con quelli della collettività di appartenenza. I mei dubbi si riferivano a quel momento storico e alle motivazioni che hanno portato alla guerra.
      Mi chiedo se sia davvero possibile dare una interpretazione coerente e però anche veritiera di quel tormentato caotico periodo. Probabilmente lo sarà e Tranfaglia ha ragione da vendere.
      La sinistra ha dovuto essere scossa da eventi così brutali per accettare un paradigma quale quello che ha ispirato la nostra costituzione. Ma Keynes l'aveva già concepito molto prima che quegli eventi si manifestassero. Aveva ben previsto le conseguenze della pace.
      Pertinentissima la domanda se vi fossero spazi sufficienti a che quel paradigma potesse essere attuato e chiarissima è la risposta. La Shock doctrine fu e continua ad essere attuata con sempre maggiore dovizia di mezzi. A volte produce un contro shock. Nel 33 furono i nazisti che con la loro nota brutalità smantellarono il Gold Standard. Chissà da dove verrà il prossimo

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    11. grazie anche per l'indicazione del Vivarelli proverò a leggerlo

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    12. In realtà fu la Gran Bretagna (com'era inevitabile) a far saltare il gold standard, abbandonandolo nel '31; la Germania, pur avendo revocato la convertibilità a breve e introdotto controlli di capitali (già in epoca pre nazista) e poi forme sempre più severe di controllo del commercio estero (questo lo fecero i nazisti. Anche se di rado quelli de "la via verso la schiavitù" ne ricordano i motivi), conservò la parità aurea ad oltranza, tanto che alla vigilia dell'Anschluss la Germania era sull'orlo di una crisi di bilancia dei pagamenti da cui solo le riserve austriache la salvarono.

      Quanto alla storiografia, sui periodi di cui parli esistono bibliografie ottime e vastissime. Peccato che non facciano il benché minimo capolino nel dibattito pubblico, tanto meno quando si parla di economia. Lo notava già Caffè (E' consentito discutere di protezionismo economico?, "L'astrolabio", XV, n. 12 (28 giugno 1977), pp. 18 e ss. ora in La solitudine del riformista, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, pag. 240) : "D’altronde che la difesa del libero scambio abbia avuto, nel nostro paese, aspetti costantemente oltranzistici è lezione evidente che emerge dalla storia del pensiero economico. Bisogna averli letti, i saggi e i discorsi parlamentari di Francesco Ferrara; bisogna averli meditati, gli articoli di Luigi Einaudi, oggi raccolti nelle Cronache economiche e politiche di un trentennio per essere in grado di rendersi conto di quanto l’oltranzismo delle loro posizioni abbia nociuto alla causa stessa che sostenevano più di contribuire a moderare quella che combattevano, traendone gli elementi validi che pur da essa avrebbero potuto desumersi per il progresso del paese. Il fatto stesso che la funzione avuta dal protezionismo nell’avanzamento del sistema industriale italiano sia stata rivalutata dai cultori di storia, più che dalla professione degli economisti nelle sue varie articolazioni, non è privo di un importante significato.”

      E stiamo parlando in primis di Romeo e Are, due storici liberali.

      Altro esempio, altro storico liberale, allievo di Romeo, Pescosolido (Unità nazionale e sviluppo economico, 1750-1913, Laterza, Roma-Bari, 2007, pag. 155) a proposito del corso forzoso (1866): "Il corso forzoso provocò poi una svalutazione del cambio della lira, variamente stimata nell'ordine del 7,4-8 o anche 10%, cui non corrispose un analogo incremento dei prezzi, cosicché la competitività delle merci italiane si accrebbe con effetti favorevoli sulla bilancia commerciale. Il giudizio negativo che sulla misura venne dato in sede parlamentare e da parte della cultura economica dominante è stato quindi radicalmente capovolto da una riflessione più attenta sugli esiti ultimi dell'operazione".

      Insomma: la storia ci darà ragione. Magra consolazione.

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    13. « quanto l’oltranzismo delle loro posizioni abbia nociuto alla causa stessa che sostenevano più di contribuire a moderare quella che combattevano »

      Che poi, come sappiamo, è solo un'apparenza: se lo Stato-nazione è solo strumentale alla democrazia, anche il free-trade e il laissez-faire sono solo strumentali ad un determinato ordine sociale.

      Tu stesso, caro Arturo, hai riportato quella citazione di Einaudi in cui i liberali temevano più i keynesiani e, in genere, «i neocomunisti di Cambridge», perché, appunto, il keynesismo veniva visto come una una prassi politica che paludava la diffusione del socialismo.

      Infatti, secondo Einaudi e Röpke, i problemi economici non sono solo una questione "economicistica".

      Il keynesismo fa finta che il conflitto tra classi non ci sia, però offre una soluzione di politica economica che dà per scontato il fatto che si voglia realmente massimizzare il benessere economico indistintamente di tutta la comunità....

      Epistemologicamente si basa su una risposta di filosofia morale opposta a quella comunemente condivisa dalla classe dominante.

      E parlo di keynesismo, non solo di Keynes.

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    14. “Il protezionismo si affermò compiutamente in Italia a partire dal 1887, quando fu adottata una tariffa doganale generale che perseguiva finalità di natura spiccatamente protettive e concludeva un iter di revisione della politica economica del governo che si era aperto nel 1878 con l'adozione di una nuova tariffa generale in sostituzione di quella introdotta nel 1861.

      Nel 1887 ebbe dunque termine la prima fase liberoscambista della storia economica italiana, che era iniziata al momento della formazione dello Stato unitario, quando era stata estesa repentinamente all'intero territorio nazionale la tariffa adottata dal governo sardo nel 1851, auspice Cavour, ed erano stati sottoscritti una serie di trattati commerciali di impronta ancor più liberista. Fra questi ebbero un'importanza fondamentale quelli stipulati nel 1863 con l'Inghilterra e con la Francia.Prima del 1887 il liberoscambismo era stato solo parzialmente attenuato, ma mai abbandonato. In modo indiretto fu mitigato, a partire dal 1867, dall'introduzione del corso forzoso della cartamoneta, che, specialmente attraverso l'aumento dei cambi, ebbe come effetto secondario un leggero incremento dei prezzi all'importazione con qualche punta del 15-20% nei primi anni e poi di circa il 6% in media fino al 1882 (v. Luzzatto, 1968, pp. 70-71; v. Spinelli e Fratianni, 1991).
      Di sola attenuazione del regime liberoscambista si deve parlare anche riguardo alla nuova tariffa generale introdotta nel 1878, poiché, pur sostituendo il sistema dei dazi ad valorem, molto imprecisi, con quelli specifici basati sulla quantità delle merci importate e pur istituendo i dazi all'importazione su alcuni principali prodotti manufatti (essenzialmente tessili), essa ebbe un carattere prevalentemente fiscale e la protezione eretta fu del tutto insufficiente a incidere sugli orientamenti economici generali. Peraltro il rinnovo nel 1881 del trattato commerciale con la Francia, di gran lunga il maggior partner commerciale dell'Italia, limitò il già debole carattere protettivo della revisione tariffaria del 1878.

      Un effetto parzialmente protettivo ebbero poi, nel corso degli anni ottanta, le misure varate dal governo a favore dell'industria pesante e degli armamenti, nonché la legge Boselli sulla marina mercantile. La svolta decisiva si ebbe comunque solo nel 1887 con un intervento di carattere non più settoriale, ma generale e di assai forte intensità.Sia sulla scelta liberoscambista del 1861 che su quella protezionista del 1887 il dibattito è stato sempre abbastanza vivace.Gli effetti del regime di libero scambio con l'estero sullo sviluppo dell'economia italiana nei primi decenni postunitari sono stati variamente giudicati. Le cause del ritardato decollo dell'industria italiana non sono state ovviamente ricondotte solo ad esso. Nessuno però pone più in dubbio che quella politica fu l'asse portante di una concezione eminentemente agriculturista dello sviluppo economico italiano, secondo la quale, nella divisione internazionale del lavoro, il ruolo che più si confaceva e conveniva all'Italia era quello di paese esportatore di materie prime (zolfo, minerali di ferro), prodotti agricoli (olio, vino, frutta, paste alimentari) e zootecnici (formaggi, carne), semilavorati (fibre tessili, soprattutto seta greggia e, in minor misura, filatoiata) e importatore di prodotti manufatti, in particolare dell'industria pesante e di base.” Fonte: Il caso italiano di Guido Pescosolido

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    15. Praticamente la distinzione bassiana tra socialdemocrazia (di stampo keynesista, come correttamente da te osservato) quale partito subalterno - anche attraverso il gioco combinato dell’elettoralismo - e socialismo autentico.

      Quella socialdemocrazia illusionista ha sempre considerato la massa dei lavoratori come dei "minus" ai quali concedere le briciole sedative spacciandole per benessere funzionale solo al conservatorismo neocapitalistico del momento. Per poi vantarsene, magari, alle grigliate dell'Unità; quella socialdemocrazia che si è guardatabene, però, dallo sviluppare la coscienza di classe, ma che si è rivolta solo agli individui (l'uomo-lavoratore medio in cui vengono stimolati quei bisogni effimeri che l’ordine sociale appare in quel momento in grado di soddisfare, ovviamente per gentile concessione delle élites capitalistiche!). Questa una delle colpe irredimibili di tutta quella marmaglia di intellettuali pseudo-marxisti della "asinistra" dal dopoguerra in poi. Ed infatti nella situazione attuale, nella quale vi sarebbero le condizioni per una rivoluzione, ci troviamo con la classe lavoratrice completamente decerebrata e divisa.

      Certo, se quell'uomo-lavoratore medio la piantasse di vedersi solo come animale salariato (mi chiedo cos'altro debba succedere ancora), forse faremmo qualche passo avanti

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    16. la scelta di conservare la parità aurea ad oltranza derivava dalla necessità di dare stabilità al marco ? considerato che un paese esportatore che non disponga di ingenti materie prime è anche un paese importatore.
      La conquista di un Grosse Raum avrebbe comportato l'adozione di un sistema generalizzato di Clearing come quello adottato con le nazioni alleate (soggette) ?
      Questo sistema avrebbe definitivamente cancellato il Gold Standard nello spazio in questione ?
      chiedo venia in anticipo qualora queste domande potessero risultare incoerenti attendo vostre preziose risposte.
      Grazie ancora per riferimenti bibliografici.

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    17. Più che "keynesista" direi di stampo anglo-tedesco: quella da cui nasce il reddito di cittadinanza di neoliberista memoria: ovvero "le briciole sedative".

      Ai tempi di Basso era il "consumismo" usato nelle Guerra Fredda.

      Il socialismo "autentico" è quello in cui ogni uomo ha le medesime possibilità di esprimersi secondo le proprie capacità: e questo può essere ottenuto esclusivamente socializzando il potere politico tramite la socializzazione della capacità economica.

      Questo processo non può avvenire tramite il laissez-faire, ma tramite il controllo collettivo dell'economia per mezzo dello Stato.

      Ovverosia, la libera concorrenza non porta "all'egualitarismo astratto dal liberalismo", ma all'asservimento di chi rimane escluso dal - o asservito al - processo produttivo a causa del fatto che, come qualsiasi competizione, anche quella del mercato ha i suoi vincitori.

      (Vincitori che - come in qualsiasi competizione in cui ci sono mezzo i soldi - sono tali in quanto i migliori a "barare": da cui il liberalismo come via verso la tirannide)

      Coloro che vincono a questa competizione a cui molto pochi hanno interesse a partecipare, hanno in premio il "monopolio".

      Gli unici monopoli ammessi dal socialista - ossia dal democratico "sostanziale" - sono quelli di Stato.

      I "socialdemocratici illusionisti" di cui parla Basso assomigliano molto ai socialisti liberali tedeschi ed italiani.

      Infatti il keynesismo della nostra Carta non è quello né inglese, né tedesco, né rooseveltiano.

      Il secondo comma del terzo articolo fa la differenza... portando il keynesismo alle sue estreme conseguenze.

      Kalecki o la Luxemburg l'avrebbero sottoscritta la nostra Carta.

      Con lode.

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    18. @Domenico Scalamandrè: no, in realtà le ragioni erano essenzialmente due: la prima era il timore che un aumento dei prezzi di generi, in particolare alimentari, necessari ai lavoratori potesse minare la ferrea disciplina salariale imposta dai nazisti; la seconda era il balance sheet effect sul debito estero ancora dovuto dalla Germania.
      In realtà però, attraverso un complicato e intelligente meccanismo finanziario messo in piedi da Schacht facendo leva sul deprezzamento dei bond tedeschi, gli esportatori tedeschi beneficiarono di una svalutazione di fatto di circa il 50%.

      Una volta risolto il problema del debito e una volta che anche i paesi del blocco oro si avviarono allo sganciamento dalla parità aurea come via verso un ritorno alla normalizzazione liberale delle relazioni economiche internazionali ("Faced with the prospect that Leon Blum's Popular Front government, which depended on Communist support, might complement its policy of domestic work creation with the imposition of exchange controls - Schacht's formula since 1933 - the French right wing abruptly abandoned its dogged attachment to the gold standard.": Adam Tooze, Wages of Distructions, Allen Lane, London, 2006, pp. 217-8), gli interessi dominanti tedeschi, che fino a quel momento si erano allineati dietro la politica nazista (di fatto diretta essenzialmente da Schacht), si orientarono anche loro verso questa soluzione. Nel '36 fu scritto il famoso rapporto Goerdeler, che caldeggiava la svalutazione e l'abbandono dei controlli sugli scambi esteri come via verso un ritorno a una "rispettabilità conservatrice", come dice Tooze. Ma...con un ma. Che è questo (la citazione è tratta direttamente dal rapporto):

      "The choice of whether we should in this case maintain our parity [with gold] will in the first instance have to be judged in relation to the question of rearmament. Maintaining the parity will make rearmament more difficult but not impossible.
      Devaluation and rearmament, by contrast, are mutually exclusive; one has to choose one or the other. If not, devaluation will slide into inflation, a second definitive devaluation would follow and rearmament would in any case be brought to a halt."


      Per essere ancora più chiari: "One of the principal attractions of a policy of devaluation and exchange liberalization for Goerdeler was precisely that it would have a bracing effect on German public finances. To maintain the confidence of the currency markets following a devaluation, Germany would need to return to fiscal discipline. In the short run, the effects on the German economy might be severe. Goerdeler calculated that there might be as many as 2 to 2.5 million unemployed. But, as a veteran of Bruening's deflation, Goerdeler did not shrink from such hardships." (Ibid., pag. 217). Ah, le durezze della vita!

      Ovvero, con un cambio flessibile, un esteso programma di spesa pubblica rischiava di compromettere la "fiducia", cioè di consegnare troppo potere ai lavoratori (“I banchieri centrali erano sostenitori dei cambi fissi; disponiamo di dichiarazioni, ripetute anche di recente, secondo le quali i banchieri centrali affermavano: se ci togliete i cambi fissi, ci rendete disarmati di fronte alle richieste sindacali, data la possibilità di far slittare il cambio. Questa era la posizione dei banchieri centrali.”, il solito Caffè nel solito La dignità del lavoro). Il problema era che a quel punto Hitler dal riarmo non intendeva affatto desistere: *solo allora* quelle forze economiche che ne avevano appoggiato l'escesa compresero di avere un problema. Dopo che il suo memorandum fu cassato, Goerdeler iniziò infatti a cospirare contro il regime, fu coinvolto nell'attentato del '44 e venne fucilato il 2 febbraio del '45.

      Chiedo scusa per l'OT, ma ricordare i sacrifici compiuti sull'altare della "fiducia" non lo trovo comunque inutile.

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    19. Grazie Arturo: approfondimento interessantissimo. Proprio oggi un collega si ribadiva convinto della vulgata delle "politiche keynesiane di Hitler" (cui Keynes stesso diede lo spunto, in virtù di un passaggio di una riga e mezzo, in un famoso scritto; http://www.panarchy.org/keynes/autarchia.1933.html).

      La realtà era riarmo über Alles; e gli USA (che avevano dato fiato al debito tedesco), lo sperimentarono entro pochi anni successivi.
      Come appare ormai chiaro, dipende sempre da CHI e per quali scopi si serva di ALCUNI principi di politica economica keynesiana. Come Bazaar ben focalizza appena più sopra...)

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    20. Arturo, ti rendi conto che è immorale che non ti sia stata ancora assegnata una cattedra in Storia moderna?

      Con le conoscenze che hai di macroeconomia e di diritto pubblico, potresti mandar finalmente in pensione i Giannuli e diventare un italianissimo Braudel.... :-)

      Bene: abbiamo confermato per l'ennesima volta che i nazisti erano liberali... e che Hitler è diventato "illiberale" nel momento in cui ha finanziato il riarmo senza gold standard - ovvero senza "euro"! - lasciando che i lavoratori potessero potenzialmente beneficiare di aumenti salariali.

      Lo Stato che sfugge al controllo del mercato...

      (I britannici non lo avrebbero mai permesso)

      Insomma, gli olocausti sono buoni se fatti in nome del Mercato, e dai sociopatici che siedono ai consigli di amministrazione delle organizzazioni che formano questa divina istituzione, ma cattivi se fatti da una banda di psicopatici sciamannati al timone di uno Stato-nazione.

      Le radici nazifasciste del liberismo eurista.

      Dobbiamo pensare che negli USA c'è chi vorrebbe sfruttare l'eurozona per riarmare alla maniera di Goerdeler il mercato europeo contro la Russia?

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    21. Mi associo a Bazaar e ringrazio Arturo per il suo lavoro a dir poco straordinario. Grande

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    22. Sì, vabbeh, anche meno. ;-)

      Solo un punto: Hitler continuò a finanziare il riarmo *mantenendo* la parità aurea (per questo, come dicevo, la Germania all'epoca dell'Anschluss, nel '38, era sull'orlo di una crisi di bilancia dei pagamenti), e quindi una ferrea disciplina salariale (con accompagnamento di lauti profitti: il che spiega perché furono in pochi a seguire la strada di Goerdeler).
      Col manifestarsi di una scarsità di manodopera l'imposizione risultò sempre più difficile e sempre più frequenti i casi di indisciplina da parte dei lavoratori, in particolare giovani, cosa a cui il regime rispose con un irrigidimento poliziesco all'interno dei luoghi di lavoro e il terrore. Ci sono i rapporti degli ispettori dell'economia di guerra in cui si legge che l'indisciplina dei giovani è dovuta proprio al fatto che non hanno "mai conosciuto il valore educativo della paura della disoccupazione" (T. Mason, La politica sociale del III Reich, Bruno Mondadori, 2003, pag. 317).

      Insomma, disciplina del mercato o disciplina della Gestapo, l'essenziale è che il lavoro se ne stia al suo posto.

      E dalle ceneri di quella follia si decise di fondare la Costituzione...proprio sul lavoro, guarda tu: vai a sapere perché!

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    23. Gratissimo ad Arturo per la sua sapiente risposta

      Opportuna la precisazione riguardo lo scopo preminente dei nazisti e cioè il riarmo. Non lo citavo nella domanda posta ma lo implicavo. Il passaggio riportato dall’opera del Toozie del rapporto Goedeler risponde esaurientemente. Del resto vi era una notevole urgenza nel riarmarsi. Toozie lo sottolinea chiaramente nell’opera da te citata (mi permetto di darti del tu).

      Si la grande industria si accorse di avere un problema (quando una espressione veritiera procura il riso) . Hitler messo lì a mettere in riga le classi subalterne si immagina imperatore e senza curarsi della fiducia dei mercati muove guerra alla Russia con l’intento di impossessarsi delle sue materie prime.

      Ma in verità nell’altra opera del Toozie “The Deluge” ho letto delle idee geopolitiche di Ludendorff che sembravano collimare con quelle di Hitler. Tanto da sembrarne la continuazione. (Non ho ancora preso la sana abitudine di utilizzare i segnalibri e non saprei al momento darti i riferimenti precisi di pagina.)

      Sono curioso di conoscere il parere di Arturo ma direi che ll vulcanico Bazaar coglie (al solito) con estrema efficacia l’essenza del ragionamento. Solo cambierei il lemma “Le radici nazifasciste del liberismo eurista” con “le radici liberali del nazifascismo” essendo già implicite nella ideologia liberale/liberista ,non vedo alcuna differenza tra i due termini e spero don Benedetto mi perdoni di questo, tutti gli esiti atroci e catastrofici a cui l’umanità assiste dalla guerra di seccessione americana ad oggi.

      Colgo molto volentieri il suggerimento del presidente a non abusare del termine Keynesismo. Mi permetto di arguire che gli USA si accorgeranno con molto piacere che il riarmo è anche contro di loro. Ancora una bella occasione per una guerra…molto distante da casa loro e che non potrà che portare benefici (a loro).
      La stessa occasione che oggi Putin si ostina a non concedere nonostante riesca a riarmarsi.

      Infine mi associo con Francesco, con Bazaar, con il Presidente nel lodare e ringraziare Arturo

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    24. A me la storia piace, non dovete ringraziarmi. :-)

      Non son sicuro di capire la domanda: vuoi sapere cosa ne penso degli elementi di continuità della politica estera hitleriana col tradizionale imperialismo tedesco? Mi pare che si vada davvero molto OT, quindi mi limito a riportare la valutazione, che mi pare equilibrata, di un finissimo conoscitore della storia diplomatica e militare tedesca come Hillgruber (in Hildebrand, Il Terzo Reich, Laterza, Roma-Bari, 1997, pag. 277): "L'obiettivo "ultimo" del "programma" di Hitler era senza dubbio "rivoluzionario": la supremazione mondiale fondata sulla razza e la creazione di un "uomo superiore" quale membro di una élite biologicamente selezionata. [...] Se è vero tuttavia che in questi "obiettivi ultimi" di Hitler erano contenuti elementi sostanziali completamente estranei alla tradizione tedesca, è pur vero d'altra parte che i suoi obiettivi politici in senso stretto (per così dire di breve-lungo periodo) mostrano molti tratti che coincidono in maniera impressionante con le valutazioni e le aspirazioni dell'era guglielmina".

      Certo, en passant uno potrebbe osservare che questa continuità escludeva in partenza la possibilità di un blocco alternativo a quello anglo-americano, prospettiva di per sé niente affatto mostruosa: cercando l'alleanza con la Gran Bretagna e attaccando la Russia era veramente un po' difficilino riuscire a mettere in piedi qualcosa. Per contrasto si possono confrontare le idee della sinistra nazionalsocialista (qui qualche notizia su quel curioso movimento), la quale aveva anche promesso, per bocca di Strasser, l'abbandono del gold standard. Sennonché "his promise had been quietly removed from the Nazi party electoral manifesto in the autumn of 1932 and Strasser himself had been expelled" (Tooze, op. cit., pag. 82); il resto del gruppo fu spazzato via da Hitler durante la Notte dei lunghi coltelli.

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    25. Arturo

      Mi riferivo al sintetico e brillante commento di Bazaar al tuo pregevole intervento.
      A mia volta suggerivo il nazismo come inevitabile fatalità di certe risposte della storia a errori fondamentali come il liberismo/liberalismo (per me pari son).
      Non intendevo spingerti in territorio OT…ma le tue escursioni risultano sempre molto interessanti e quindi non mi rammarico dell'equivoco.




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  4. “La parte della sinistra in origine comunista, poi in mutevole e variegata definibilità nominalistica e ideologica” non ha mai creduto veramente in Marx (ed infatti, Basso definisce quella parte di sinistra “pseudo-marxisti” e “opportunista”), non lo ha mai studiato o non lo ha mai intimamente assimilato, pur agitando bandiere rosse. Con queste premesse, il tatticismo adottato per sganciarsi dal “partito della Costituzione” doveva essere solo questione di tempo. Il che equivale a dire che:
    1) quella sinistra non ha mai creduto nel socialismo democratico “… democrazia nel suo significato autentico di autogoverno di tutti i cittadini in condizioni di eguaglianza, che è appunto il significato che la democrazia è venuta via via assumendo attraverso non soltanto l’elaborazione concettuale, ma attraverso le lotte politiche concrete…”, democrazia come “autogoverno di tutti i cittadini che è quanto dire che la sovranità appartiene al popolo ed è esercitata dal popolo, ciò che dichiara appunto il primo articolo della nostra Costituzione…” disposizione “rivoluzionaria rispetto alle impostazioni tradizionali” che “implicava una serie di conseguenze” la prima delle quali “era quella di un RADICALE SPOSTAMENTO DEL POTERE DAL VERTICE ALLA BASE”. Ecco allora “il significato dell’art. 3, 1° capoverso…Se infatti il cittadino deve esser messo in grado di esercitare i suoi diritti sovrani, cioè di partecipare alla direzione della cosa pubblica, la collettività ha il dovere di fare tutto quanto è in suo potere per assicurargliene la possibilità, sia fornendogli i necessari mezzi culturali, sia mettendolo al riparo da troppo gravi preoccupazioni economiche che ne subordinino la libertà a forze diverse (per es. licenziamento ad nutum da parte del datore di lavoro), o che comunque lo assillino al punto da non consentirgli né il tempo né la serenità per l’adempimento del suo diritto-dovere di partecipare al potere sovrano (quindi diritto al lavoro, a un salario sufficiente, alla salute, a una abitazione decorosa e sana, a una vecchiaia tranquilla, ecc.)”. [L. BASSO, Per uno sviluppo democratico nell’ordinamento costituzionale italiano, in Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea Costituente, IV, Aspetti del sistema costituzionale, Vallecchi, 1969, 10-36]. Il diritto al lavoro come strumento funzionale alla democrazia sostanziale “… POICHÉ … QUESTA PARTECIPAZIONE COSCIENTE E RESPONSABILE (delle masse alla direzione dei processi sociali politici) RAPPRESENTA, AI MIEI OCCHI, L’ELEMENTO FONDAMENTALE DEL SOCIALISMO…” [L. BASSO, La crisi del socialismo, in I problemi di Ulisse, settembre 1971, 127-137].
    (Oggi leggo sulla Stampa che D’Alema arringa le folle a votare no al referendum costituzionale appellandosi alla “democrazia”. Quella liberale, ovviamente, che come al solito fa presa sui cervelli rincoglioniti …). All’“utopismo” ed al “blanquismo” (che infatti non c’entrano nulla con Marx), quella parte ha sostituito la “distopia” del mercato. Di male in peggio; (segue)

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  5. 2) quella sinistra pseudo-marxista, in tal senso, non ha ancora compreso che non c’è compatibilità alcuna tra il sistema capitalistico (oggi giunto alla sua fase suprema di cui parla Lenin) e la democrazia sostanziale di cui parla Basso. Il capitalismo ha una grande capacità di adattamento ai momenti storici, ma il conflitto è destinato a riesplodere secondo alcune proposizioni di Marx “… La prima e più trascurata di queste proposizioni, che lo stesso Marx ha messo meno in evidenza ma che tuttavia costituisce uno dei pilastri del suo pensiero, è il carattere di “sistema” o di “totalità” che Marx attribuisce al capitalismo, nel senso cioè di un complesso di meccanismi (sempre più perfezionato fin quasi ad essere automatico) avente una propria logica interna, un funzionamento coerente, che riconduce sotto il dominio della razionalità capitalistica ogni modifica parziale. a mano a mano che il capitalismo si sviluppa, IL SISTEMA SI ARRICCHISCE DI NUOVI STRUMENTI D’INTERVENTO, DI NUOVI CONGEGNI AMMORTIZZATORI O MEDIATORI, DIVENTA PIÙ COMPLESSO E PIÙ ARTICOLATO E PUÒ TRANQUILLAMENTE DIGERIRE E RIASSORBIRE OGNI RIFORMA CHE RIMANGA FINE A SE STESSA, SUBORDINANDOLA APPUNTO ALLA LOGICA DEL PROFITTO: COSÌ IL PROGRESSIVO AUMENTO DEI SALARI È DIVENTATO DA UN LATO IL SUPPORTO DEI CONSUMI DI MASSA, E QUINDI DELLO STESSO SVILUPPO CAPITALISTICO, MENTRE DALL’ALTRO È STATO SEMPRE CONTENUTO E CONTROLLATO ORA CON L’INFLAZIONE E L’AUMENTO DEI PREZZI CHE LO HANNO ANNULLATO, ORA CON LA DEFLAZIONE E LA DISOCCUPAZIONE CHE NE HANNO FRENATO LA SPINTA SALARIALE, ORA CON IL PROGRESSO TECNICO CHE HA PURE CREATO DISOCCUPAZIONE, ORA CON LA REGOLAMENTAZIONE ATTRAVERSO LA POLITICA DEI REDDITI, ECC.; così il suffragio universale, sperata conquista “rivoluzionaria” della democrazia, è stato privato di ogni carica di rottura grazie allo svuotamento dell’istituto parlamentare e alla formazione di centri decisionali extra-istituzionali. È questo carattere di “sistema”, da cui si sprigiona automaticamente una forza che assoggetta tutti i momenti particolari alla logica intrinseca della totalità, è questo carattere di “sistema” (di cui la formazione delle cosiddette “aristocrazie operaie” non è che un aspetto) che spiega I PROCESSI DI “INTEGRAZIONE” DELLA CLASSE OPERAIA, LA SOCIALDEMOCRATIZZAZIONE GENERALE DEL MOVIMENTO, in altre parole lo stesso movimento operaio trasformato in un meccanismo del sistema a maggior gloria del profitto capitalistico. IN QUESTA CONCEZIONE DEL CAPITALISMO COME “SISTEMA” È QUINDI IMPLICITA LA CONDANNA DI OGNI POLITICA DI RIFORMISMO SPICCIOLO, SETTORIALE, CHE NON ATTACCHI IN RADICE LA LOGICA STESSA DEL SISTEMA. ... (segue)

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  6. Per Marx, cioè, LA RIVOLUZIONE SOCIALISTA TROVA IL SUO FONDAMENTO OBIETTIVO NELLE CONTRADDIZIONI DEL CAPITALISMO, il quale contiene, sì, una propria logica che assolve alla funzione che abbiamo sommariamente descritto, ma contiene altresì la sua negazione, la sua logica antagonista. In altre parole la contraddizione fondamentale del capitalismo è quella fra le forze produttive e i rapporti di produzione: le prime (strumenti di produzione, lavoratori, scienza, processi organizzativi, ecc.) sono sospinte dalle necessità imprescindibili dello sviluppo verso forme sempre più collettive, verso una crescente socializzazione, a cui dovrebbe corrispondere anche una socializzazione dei rapporti di produzione; questi invece, nella società capitalistica, sono subordinati alle esigenze del profitto privato, e si trovano quindi costantemente in tensione - e in tensione crescente - con il carattere sociale delle forze produttive…LA GRANDE FLESSIBILITÀ ED ELASTICITÀ DI CUI IL CAPITALISMO HA DATO PROVA, BEN OLTRE LE PREVISIONI DEI SUOI AVVERSARI, HA FATTO SÌ CHE QUESTA CONTRADDIZIONE FONDAMENTALE NON SIA MAI ARRIVATA AD UN PUNTO DI ROTTURA MA SI SIA DI VOLTA IN VOLTA PIEGATA AI COMPROMESSI CHE HANNO PERMESSO AL CAPITALISMO DI USCIRE DALLE SITUAZIONI PIÙ DRAMMATICHE: SI PENSI ALL’INTERVENTO PUBBLICO NELL’IMPIEGO DI MEZZI ANTICICLICI, SUGGERITO DALLE TEORIE KEYNESIANE, PER SFUGGIRE ALLA STRETTA CHE PAREVA MORTALE DELLA GRANDE DEPRESSIONE ECONOMICA…” [L. BASSO, La crisi del socialismo, cit].
    “… La necessità di un funzionamento dell’apparato produttivo sempre più razionale ai fini del profitto. realizzabile solo attraverso l’intervento statale, si manifestò tanto nelle esperienze rooseveltiane quanto nelle teorie keynesiane, che parvero infondere, soprattutto dopo la tormenta della seconda guerra mondiale, una nuova linfa giovanile ad un sistema giunto invece ad una fase di avanzata maturità. Il neo-capitalismo, LA PIENA OCCUPAZIONE E IL WELFARE STATE FURONO LE ILLUSIONI CHE LA DURA REALTÀ DELLA CRISI IN CORSO HA DEFINITIVAMENTE DISPERSO. Ancora una volta il capitalismo mondiale si trova costretto ad affrontare LE SUE DRAMMATICHE CONTRADDIZIONI e a cercare nuove forme di equilibrio …” [L. BASSO, Introduzione al problema, in Multinazionali imperialismo e classe operaia, in Problemi del soclalismo, aprile-settembre 1977, 5-13]. (segue)

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  7. Ed ancora “…Sarebbe troppo lungo condurre in questa sede un’analisi per mostrare LE DIFFERENZE FRA IL SOCIALISMO E IL COSIDDETTO WELFARE STATE che rappresenta il massimo delle realizzazioni ottenute dai partiti socialdemocratici al governo e forma ancor oggi la meta delle loro aspirazioni. Basterà ricordare il giudizio che nei già citati Saggi Fabiani ne danno due laburisti. “Il governo laburista postbellico segnò la fine di un secolo di riforme sociali, anziché l’inizio di una nuova epoca, come i suoi sostenitori socialisti speravano. DIR QUESTO NON È CONDANNARLO. Occorreva si completasse l’evoluzione del liberalismo del 1906 al moderno Welfare State, così come la trasformazione dall’Impero al Commonwealth. MA NÉ L’UNO NE L’ALTRO DI QUESTI PROCESSI ERANO ESPLICITAMENTE SOCIALISTI... In effetti l’opera del primo governo laburista rappresenta il vertice di un lungo processo attraverso il quale il capitalismo si è incivilito e, in larga misura, conciliato coi principi della democrazia... È un risultato storico; rimane però il fatto che, nel realizzarlo, il partito laburista corre pericolo di divenire non il partito del progresso, ma il difensore dello status quo postbellico. “Una risposta immediata è offerta da un tipo oggi popolare di definizione, di cui è esempio caratteristico la dichiarazione di Francoforte della ricostituita Internazionale Socialista nel 1951. Qui l’accento è posto essenzialmente sulla pianificazione democratica, considerata come la condizione-base del socialismo. Ora il tratto significativo di questa dichiarazione è che il socialismo, come vi è definito, ottiene già molto sotto lo statalismo... Il nome può continuare ad essere socialismo, ma i tratti appaiono straordinariamente simili a quelli del Welfare State”. Ma anche questo welfare state, CHE È BEN LUNGI DALL’ESSERE SOCIALISMO, È UNA CONQUISTA LIMITATA AD ALCUNI PAESI. IN GENERALE L’OBIETTIVO PRINCIPALE CONSEGUITO, GRAZIE SOPRATTUTTO AL FAVORE DELLA CONGIUNTURA POSTBELLICA, È STATO LA PIENA OCCUPAZIONE; … quanto alle nazionalizzazioni, estese in quasi tutti i paesi a diversi settori della vita economica, esse sono in realtà un’arma a doppio taglio, a seconda delle forze che gestiscono il potere politico e che esercitano il potere di decisione all’interno del settore nazionalizzato…” [L. BASSO, Contributo ad un bilancio del movimento operaio occidentale, in Problemi del socialismo, luglio-agosto 1959, 505-521].
    In mancanza di un radicalismo democratico improntato ai valori morali del socialismo (lo stesso dimostrato da Basso), quella parte della sinistra era destinata a spiaggiarsi, vale a dire a staccarsi dal partito della Costituente, cambiando sigle e rinnegando Marx, Gramsci e Basso (e sotto la sigla “riformista”, continuare a servire il neocapitalismo), per poi salire senza pudore sul carro del neoliberismo: (segue)

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  8. “… leaders opportunisti del movimento operaio hanno sempre insistito su alcuni motivi essenziali: il rifiuto della dottrina marxista e quindi dello scopo finale del socialismo per sostituirvi una prassi empirica in vista di vantaggi immediati; L’AZIONE LIMITATA AL PIANO DELLA DISTRIBUZIONE DEL REDDITO E DEL CONSUMO SENZA INCIDERE MAI SUL MOMENTO DELLA PRODUZIONE, LASCIANDO COSÌ INTATTE LE BASI DEL DOMINIO DI CLASSE CAPITALISTICO; il legalitarismo borghese (“cretinismo parlamentare” secondo la definizione marxista) contro ogni concezione rivoluzionaria e contro la dottrina della dittatura del proletariato; l’accettazione dei motivi ideologici dei ceti medi, che sono l’espressione tipica della coscienza mistificata della società borghese…” L. BASSO, La lotta di classe nel mondo-Il Fronte operaio, in Quarto Stato, 1 settembre 1949, 3-7].
    Quella parte di sinistra ha annientato quel tanto di welfare attuato (che ora, in forza di dette contraddizioni, infatti viene richiesto indietro con gli interessi), ma soprattutto annacquando definitivamente ogni istanza rivoluzionaria della classe operaia assuefatta “… quel che occorre per mutare il segno della società È CHE MUTI IL SEGNO DEL CARATTERE DI CLASSE DEL POTERE POLITICO, E CIOÈ, IN ALTRE PAROLE, IL PASSAGGIO DEL POTERE DALLE MANI DEGLI ATTUALI DETENTORI ALLE MANI DEI LAVORATORI, onde distruggere i vecchi rapporti di produzione e il vecchio meccanismo del profitto in nome di una superiore esigenza di solidarietà sociale…” [L. BASSO, Contributo ad un bilancio del movimento operaio occidentale, cit.]. Appunto, la democrazia sostanziale. Sino ad allora, non vengano a parlarci di democrazia né di sinistra.
    Il libro di Cesaratto purtroppo non è ancora disponibile. Spero comunque di poterlo leggere al più presto.

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    1. Il problema del capitalismo democratizzato e civilizzato è proprio la variabilità arbitraria del livello del welfare, in contrapposizione alla invariabilità dell'appello allo straniero ed alla "competitività".
      Sono vicende che peraltro, riguardo ai tentativi dei laburisti prima dell'avvento della Thatcher, il libro di Sergio mette bene in evidenza.

      Ma il problema è che una concessione politica ("la concessione Beveridge", si potrebbe dire richiamando un precedente post), non è mai un obbligo legalmente sancito.

      La nostra Costituzione (a differenza di quanto avvenuto col Rapporto Beveridge) era tesa a rendere irreversibile un livello crescente del welfare, gestito secondo un'accorta politica ciclica keynesiana.
      Inutile (ri)dire che si rivela comunque di una gestione estremamente ardua, quando si tratti di raffreddare l'economia in funzione del "vincolo" della bilancia dei pagamenti.

      Basso, ineccepibilmente, evidenzia che molto, se non tutto, dipende da CHI sia chiamato a svolgere queste politiche: la tensione passionale di cui parla Bazaar non è mai albergata nelle fila degli apparatnik; non più (e forse meno) che in quelle del Quarto Partito, sempre seduto nella sala di comando.

      E perciò aveva ragione Calamandrei quando, parlando del sistema di istruzione pubblica previsto dalla Costituzione, cominciava a esporre dall'art.3, "1° capoverso" e dal suo carattere di "accusa contro il presente".
      Ma nessun procuratore della Repubblica (in senso metaforico) fu mai disposto ad istruirla. Basso, Giannini, Caffè, furono solo dei magnifici eccentrici, a rigor di benpensante. Di sinistra e di destra.

      Ma forse tutto questo un giorno ce lo ricorderemo soltanto noi; quattro gatti memori della democrazia sostanziale come unico autentico parametro della legalità. Costituzionale.

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  9. Ed infatti, a proposito di Caffè, nel sostenere che il benessere economico non elimini comunque il rischio di emarginazione dalla vita civile, in un'intervista del 1977 egli afferma "...se per miracolo qualche risultato si dovesse raggiungere, ma andasse nel senso di un avvicinamento della nostra situazione a quella, poniamo, della Germania, non è questo il destino che augurerei al mio paese. Si tratta, infatti, di una situazione in cui i lavoratori, pur godendo di un certo benessere, sono in una posizione fortemente subalterna. Non credo, in altri termini, che il risanamento della bilancia dei pagamenti e un riassetto dell'economia, SENZA L'INTRODUZIONE DI VERI ELEMENTI DEL SOCIALISMO, sia qualcosa che vale, un traguardo degno di essere indicato alla società italiana. Se ci mettessimo su questa strada, tradiremmo per la seconda volta gli ideali della Resistenza. non vorrei apparire retorico. Ma tradiremmo l'ideale di costruire un mondo in cui il progresso sociale e civile non rappresenti un sottoprodotto dello sviluppo economico, ma un obiettivo coscientemente perseguito" [F. CAFFE', 1977b,in Federico Caffè. Un economista per gli uomini comuni, a cura di G. Amari e N. Rocchi, Roma, Ediesse, 2007, 311]. Perché le persone perbene la pensano allo steso modo?

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    1. Grande Caffè, fino in fondo! Questa mi mancava: sembra scritta da Basso, infatti.
      (A proposito, sto riflettendo sul tuo maxi-lavoro...
      E rammenta, se puoi, di mettere punti e a capo e spazio-riga fra i periodi...)

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    2. «radicalismo democratico improntato ai valori morali del socialismo»

      In questo senso il "pathos che nasce dalla ricerca esistenzialista" diventa parte imprescindibile della prassi politica.

      Certo, però, sentire tanta emozione nel criticare la differenza tra liberalismo sociale e socialismo, mi ha un po' inquietato.

      Potessero vedere ora la barbarie del capitalismo finanziario nel suo totalitarismo liberale...

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  10. Mi scusi, Presidente. Io ci provo, ma a volte la foga prende il sopravvento

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  11. Avendo Sergio concessomi l'onore di essere tra coloro che han letto in bozza la sua ultima fatica, mi sono subito reso conto che data la complessità delle questioni trattate (al netto dell'efficace stile divulgativo), prima di dare un giudizio conclusivo occorre leggerlo e rileggerlo almeno un paio di volte.
    Mi sono tuttavia a subito permesso di segnalargli che la critica sraffiana della teoria del valore di Marx (quindi la concezione sraffiana del surplus) non mi ha mai convinto prima e non mi convince nemmeno nella sua riarticolazione.
    Non è questione di lana caprina: c'è di mezzo l'analisi del modo capitalistico di produzione, delle sue contraddizioni intrinseche e quindi della sua destinazione.
    Modo di produzione dico, fisica struttura economico-sociale, su cui si regge la complessa e non meno pesante sovrastruttura —quella giuridico-istituzionale compresa.
    Invito ognuno all prudenza nel giudicare il lavoro di Sergio, poiché solo con una riflessione attenta si può capire la critica a Keynes il quale, malgrado il suo genio, non è riuscito ad evadere dalla gabbia concettuale marginalista.

    Per dire a Bazar che sono rimasto francamente basito da certi suoi giudizi tranchant di vago sapore anticomunista che certo non gli fanno onore.
    Liquidare in tal malomodo il poliverso marxista, teorico anzitutto, e poi accumulazione di colossali, per quanto tragicamente falliti, tentativi storico-pratici che hanno coinvolto centinaia di milioni di uomini e donne, di paesi grandi e piccoli, getta chi lo fa, lo voglia o meno, nell'orbita del pensiero unico. Ed a poco vale la chiamata di correo su Costanzo Preve, che in difesa di Marx ha scritto decine di volumi per scagliarli non solo contro la feccia dei sinistrati, ma anzitutto contro le divisioni corazzate degli intellettuali liberisti di regime.

    Moreno Pasquinelli

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    1. Mi pare che (ammetto che ciò accada sovente a chi non ne conosce il complessivo lavoro e la cifra peculiare di espressione) tu incorra in un equivoco su Bazaar.

      "Radicalmente "antagonisti" prima, radicalmente "collaborazionisti" dopo: mai radicalmente socialisti.

      Anche la Luxemburg finì per dare ragione - come in molte altre occasioni - alle scelte politiche di Lenin: in quel contesto geostorico - la Russia zarista - « non c'erano alternative ».

      Questo è marxismo: ovvero, nella sua « poliedricità », è stato - ed è - uno strumento borghese messo al servizio delle classi subalterne.
      Il motivo di questa alleanza con le masse incolte va ricercato nella passionarietà della classe borghese ottocentesca.
      Seguo la divulgazione di Cesaratto e voglio essere cattivo: quale passionarietà hanno avuto i marxisti europei del TARDO '900?
      ...il marxismo moderno è tutto - ripeto, TUTTO - falsa coscienza sovrastrutturata ai rapporti di produzione neoliberisti."
      E soggiungo la prima premessa: "Metto da parte un attimo il sicuramente ottimo lavoro di Cesaratto".

      La premessa di Bazaar è il suo apprezzamento (scientifico) per Marx, per Rosa Luxemburg, e per quel massimo marxiano del '900 che è stato Lelio Basso; non per i "marxisti" del "tardo '900".
      A parte evidenziare come Togliatti - non di "tardo" novecentismo- fosse di tutt'altra pasta.

      Credo che sostanzialmente, conoscendoti un po', siate invece d'accordo: tieni conto che Bazaar alterna, a rigorose definizioni (ad alta densità), delle puntualizzazioni ironiche (cioè NON degli sviluppi dimostrativi delle proposizioni che precedono: io riconosco questo procedimento, molti no, e assumono il discorso come sequenza dimostrativa interconnessa lavvove è, invece, "contrappunto").

      Tralascio poi il riferimento alla fenomenologia, parte di un discorso metodologico proprio della comunità di questo blog, che pure è importantissimo.

      Ma credo che ti risponderà lui stesso...

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    2. Certo, è così, grazie Quarantotto.

      (A cui non nascondo un certo gusto per i flame...)

      Caro Moreno, dico la verità: avrei scommesso che mi avresti capito e avresti apprezzato la critica allo pseudo-marxismo che si è definitivamente cristallizzato con la contro-rivoluzione neoliberista.

      Non c'è niente di più marxiano della critica al marxismo: e tu dovresti saperlo meglio di me.

      Tra l'altro, sei proprio una delle poche persone sul pezzo che ha contribuito a sedare la polemica assurda tra keynesismo e marxismo (un po' come quella se Hegel era di destra o di sinistra...)

      La mia è una critica non per seppellire un'esperienza storica, ma, al contrario, per riscoprirla. Per riscoprirla nella sua essenza, per ciò che è stata.

      Non perché "importante": ma perché imprescindibile a qualsiasi approccio analitico a quei fenomeni complessi che sono quelli sociali.

      Per quel che mi riguarda, "anticomunista" è sinonimo di "antidemocratico".

      Cito appunto Preve, perché è Preve che parla di "Gregge" e usa i medesimi toni quando parla dei teorici marxisti.

      Io affermo che Preve (e Losurdo) sono - uno a livello puramente filosofico-intellettuale, l'altro, per come lo conosco, a livello storicistico, i migliori esempi del pensiero marxiano in Italia.

      Eppure - da ciò che emerge da questa perpetua ricerca e discussione - mi accorgo che anche la "pecora nera" Preve non ha finito di riportare la riflessione sulla strada "ortodossa" tracciata da Marx.

      Questo perché nel suo pensiero valorizza il Marx filosofo e critico degli assetti sociali, ma non ne valuta l'aspetto oggettivamente ora più importante della filosofia marxiana: il matrimonio con l'empirismo che è a fondamento del materialismo storico!

      Marx rivoluziona il tragico empirismo anglosassone significandolo grazie all'idealismo e alla filosofia della storia.

      Riportare Marx all'idealismo puro e semplice, è dimenticarsi che il genio comunista ha scritto "La miseria della filosofia".

      Ha finito quel lavoro di "matrimonio" con l'empirismo inglese?

      No.

      Pensava di saltarci fuori in fretta, ma "il garbuglio economico" che è fondamentale per comprendere "il materialismo storico" verrà sistematizzato da Keynes e da Kelecki.

      Quindi un marxiano ortodosso deve aver a che fare con la macroeconomia keynesiana.

      Poi gli economisti potranno sezionare i capelli i mille parti, ma da questa grossolana riflessione bisogna passarci.

      Spero che non si ripetano più questo genere di incomprensioni visto che, di fronte del macroscopico problema dell'euro e della sovranità, Sollevazione ha portato avanti la medesima critica e ha cercato di comprendere come mai fossero, al di là dell'immagine, i keynesiani a difendere i lavoratori e non gli "pseudo-marxisti", come li chiamava Lelio Basso.

      È chiaro ora che "i pifferai magici" sono quelli di "usciamo dall'euro da sinistra" altrimenti ci svendono il patrimonio produttivo?

      Un caro saluto.


      (Lo spirito del CNL si è materializzato in Costituente riconoscendo che il vero elemento fondante della comunità sociale è il Lavoro: indipendentemente da particolarissime indagini sulla teoria del valore)

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    3. p.s.

      Ovviamente CLN... il CNL è il figlio :-)

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  12. Comunque non ho finito di gettare benzina sul fuoco: si decida poi da che parte stare; i fattori produttivi sono sostanzialmente due.

    O si è dalla parte del lavoro e della democrazia; o si è dalla parte del capitale e del mercato liberista.

    Un archetipo di anticomunista è - date le riflessioni appena svolte al di là del mero nominalismo politologico - l'eurista Tony Negri.


    Se si vuole che tutto il patrimonio della lotta socialista e democratica non vada perduto, ma vada riscoperta come un tesoro preziosissimo, questa gente deve sparire dal dibattito.

    Perché, se le cose andranno come probabilmente andranno, l'inquisizione per vedere chi "è vagamente anticomunista" la faranno i sopravvissuti alla Trojka a questi stessi che, riempendosi la bocca con "Marx, comunismo o progressismo", hanno veduto le classi subalterne al capitale.

    Pseudo-marxisti europeisti e neoliberisti hanno fatto una scelta.

    È finita: l'orrenda farsa degli ultimi decenni è grottescamente sempre più alla luce del sole.

    Ha fatto più morti l'FMI in Russia che le purghe staliniane.

    Capire che nel pensiero critico marxiano è l'eterodossia ad essere ortodossia, sarà, come la posizione sull'euro e sulla sovranità nazionale, la linea di confine tra chi ha tradito o meno.

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