Per "riposarsi" dalle questioni della rifoma ESM, dell'ex Ilva di Taranto, della franco-cinesizzazione (Dongfeng) di FCA, - di cui tanto abbiamo parlato - vi propongo, in bozza, un capitolo del prossimo libro che ho in preparazione. Riguarda il tema dei moltiplicatori fiscali; che appare molto tecnico ma è anche molto istituzionale, storico e politico-ideologico.
Come vedrete, questo aspetto delle politiche economiche intercetta quasi tutti i punti critici del paradigma della globalizzazione e delle regole dell'eurozona.
CAPITOLO
4.
IL
MOLTIPLICATORE FISCALE. IL FATTORE FONDAMENTALE DELLE POLITICHE ECONOMICHE IN
ECONOMIA APERTA. LA “MANOVRA IN PAREGGIO DI BILANCIO” TRA TEORIA TRASFORMATA IN
REGOLE E LA REALTA’ CONTRASTANTE DEI LORO EFFETTI NELL’ECONOMICA REALE
1. Cos’è il moltiplicatore del
reddito e come funziona -
Una definizione
preliminare
In
macroeconomia, con il concetto di moltiplicatore del reddito, inizialmente
proposto da Richard Kahn, si esprime la relazione funzionale fra la una
variazione della componente autonoma
della domanda e la variazione del reddito. La
componente autonoma della domanda include la parte di domanda aggregata che si
ipotizza non dipendere dal reddito. Se consideriamo un sistema economico
senza rapporti con il resto del mondo (ovvero chiusa agli scambi
internazionali) abbiamo che il reddito Y può essere scritto secondo la seguente
equazione:
dove:
1)
è
la componente autonoma del consumo, ovvero i consumi che non dipendono dal
reddito perché insopprimibili (ovvero quelli necessari per il sostentamento);
2)
rappresenta la propensione marginale al
consumo data dal rapporto fra incremento del consumo e incremento del reddito
.
Essa è sempre compresa fra 0 e 1 (al massimo si può consumare tutto il
reddito). Se, ad esempio questa è pari a 0,8, l’80% dell’incremento del reddito
si traduce in aumento dei consumi;
3)
rappresenta l’aliquota fiscale;
4)
sono gli investimenti;
5)
è
la spesa pubblica;
6)
rappresenta i trasferimenti verso famiglie e
imprese;
7)
rappresenta le imposte (con lo zero al pedice
che indica, come nel caso della componente autonoma del consumo, l’indipendenza
dal reddito).
La
componente autonoma della domanda è
dunque pari a
.
2. Il pieno impiego dei
fattori produttivi e l’ipotesi di equilibrio di sottoccupazione
Per
comprendere il funzionamento del moltiplicatore del reddito e il suo potenziale
ruolo ai fini della politica economica occorre in via preliminare introdurre
una distinzione fondamentale lungo la quale si è spesso tracciata la differenza
fra la teoria classica (e marginalista) e la teoria keynesiana.
In
estrema sintesi, nella teoria classica e marginalista, l’assenza di vincoli all’aggiustamento dei prezzi porta ad escludere,
per ipotesi, situazioni nelle quali esistano nel sistema economico
lavoratori disoccupati e capacità produttiva inutilizzata (ovvero crisi
sistemiche di sovraproduzione, generate da una domanda complessiva per i beni
inferiore al valore complessivo dei beni offerti). Il naturale funzionamento del mercato, e del sistema dei prezzi,
assicura il pieno impiego dei fattori e garantisce l’immediato assorbimento
degli eventuali squilibri fra domanda e offerta (c.d. Legge di Say).
È
bene evidenziare come l’aggiustamento non riguarda solo il prezzo dei beni
prodotti dalle imprese, ma, soprattutto, coinvolgerà anche il mercato del
lavoro: si ipotizza infatti che esso “debba” funzionare come gli altri mercati,
sulla base dell’interpretazione del
lavoro come merce. In caso di crisi di sovraproduzione, la deflazione dei
prezzi e dei salari consente dunque di eliminare tanto l’eccesso di capacità
produttiva quanto la forza-lavoro inutilizzata.
Keynes
ammette, al contrario, la possibilità di equilibri di sottoccupazione
persistenti. La critica all’approccio classico che si sviluppa dall’iniziale
contributo keynesiano, che si sofferma in particolare sulla mancanza di
riscontro empirico della istantaneità (socialmente
e politicamente indolore) del meccanismo della perfetta flessibilità dei prezzi, al quale si sostituisce il
concetto di vischiosità dei prezzi e
di rigidità verso il basso in
particolare dei salari.
In
questa prospettiva, nell’attuale teoria macroeconomica prevalente, il contributo
keynesiano è presentato come un caso particolare del modello classico e
marginalista, (in particolare nella nuova macroeconomia “classica” e dai c.d.
neo-keynesiani), nel quale i prezzi non sempre si riducono rapidamente in modo
da permettere l’immediato riequilibrio di domanda ed offerta e la piena
occupazione. I salari, ad esempio, tendono a diminuire con molta lentezza e a
non scendere oltre determinati livelli.
In
concreto, potremmo avere un salario minimo legale, se esistono obblighi
normativi in tal senso (previsione diretta legislativa, ovvero efficacia,
comunque normativa, di minimi fissati dalla contrattazione sindacale); e,
comunque, in una visione di riequilibrio
“fisiologico”, il salario è commisurato alla soglia di sussistenza: nel
senso che nessuno lavorerebbe per ottenere un salario inferiore a tale soglia. E la “soglia” in realtà dipende da una
pluralità di fattori storicamente variabili che agiscono combinandosi in un
clash tra tendenze contrastanti; quali, principalmente, il consolidarsi di
abitudini di consumo di massa (“psicologicamente” divenute incomprimibili) e la
tendenza pregressa all’elevazione generazionale del livello di istruzione,
contrapposti alla variazione restrittiva
della legislazione di tutela del lavoro e all’immissione di forza lavoro aggiuntiva derivante da una crescente
immigrazione. Insomma: è la stessa crescente apertura delle economie che
tende ad abbassare istituzionalmente la “soglia di sussistenza” disattivando
meccanismi precedenti di mobilità sociale e tentando di abituare la percezione
di massa ad una nuova generale aspettativa sulla remuneratività del lavoro.
Ne
consegue che, secondo l’attuale visione dominante del “ciclo economico”, nel
sistema potrebbero verificarsi delle situazioni di sottoccupazione, con uno
squilibrio sul mercato del lavoro dove a fronte delle richieste delle imprese
di domandare lavoro a salari più bassi, l’offerta di lavoro non si allinea
automaticamente in quanto i lavoratori continuano a chiedere un salario più
elevato.
3. La perfetta flessibilità (verso il
basso) del “prezzo” del lavoro come tendenza al salario di sussistenza: la cui
soglia ideale viene variata attraverso una spinta istituzionale (“riforme
strutturali”) rendendo “patologica” la tutela lavoristica e previdenziale, e “fisiologici”
il conflitto generazionale e l’esercito industriale di riserva della forza
lavoro immigrata.
Ma
questo fenomeno viene considerato una patologia
transitoria.
Il
perdurare delle resistenze, a livello culturale, si annida nelle generazioni che,
per anno di nascita, hanno potuto fruire del precedente modello di Stato del welfare e perciò si tenta sia di “sostituire”,
più rapidamente possibile, chi, per anno di nascita, alimenta la resistenza
alla “deflazione salariale”, sia variando con varie forme di retroattività la
portata dei precedenti benefici legislativi abrogati o ristretti, sia
alimentando un concetto “para-economico” e costituzionalmente disinvolto di “conflitto
generazionale”; la cui idea portante è che la precedente condizione di
realizzazione del diritto al lavoro tutelato sia un privilegio e che, date le “risorse
scarse”, non siano state sottratte ai giovani tutele un tempo considerate
conquiste di civiltà e democrazia, quanto piuttosto bollabili di “immoralità” e
parassitismo le precedenti realizzazioni di un certo grado di mobilità sociale.
Proprio
la persistenza di equilibri di sottoccupazione giustificherebbe, in questa
visione, oggi prevalente, limitativa (e
trasformativa) della visione keynesiana, un intervento dello Stato, da
realizzarsi primariamente attraverso l’incremento della spesa pubblica (ma
preferibilmente in pareggio di bilancio). Questo paradigma tende a perseguire
simultaneamente sia un’incessante riduzione del livello delle pensioni
pubbliche e della altre forme costituzionali di prestazioni sociali, sia di
finanziarie, in pareggio di bilancio, la c.d flexicurity, che contiene in sé l’assuefazione alla opportuna “soglia”
di salario di sussistenza.
E
insistentemente, si dice: in una situazione di sottoccupazione, le imprese
tenderanno a fronteggiare la crescente incertezza con una riduzione dei propri
investimenti, fattore che genera un evidente effetto pro-ciclico nell’acuire lo
stallo in cui versa il sistema economico. Le imprese segnalano che potranno
riprendere a investire solo ove realizzata la deflazione salariale (riduzione
del costo del lavoro e del “cuneo” fiscale, cioè delle prestazioni sociali a
favore di ogni genere di lavoratori). In questo contesto, ma solo se opportunamente ridisegnato in via istituzionale,
l’incremento della spesa pubblica, però reindirizzata, determinerebbe un
aumento della domanda aggregata, tale da far ripartire gli investimenti delle
imprese e l’occupazione, senza la (eccessiva) caduta dei salari.
Sotto
questo profilo, il meccanismo del moltiplicatore, nella misura in cui creerebbe
una relazione semplice e automatica fra variazioni della domanda autonoma e
variazioni del reddito, offrirebbe ai responsabili di politica economica uno
strumento immediato attraverso cui stabilizzare il ciclo economico.
4. Il moltiplicatore come
strumento di politica economica. La versione neo-classica o marginalista.
Per
quanto in precedenza descritto, se nel sistema economico esistono capacità
produttiva inutilizzata e lavoratori disoccupati, un aumento della componente autonoma della domanda può determinare
un incremento del reddito attraverso il meccanismo del moltiplicatore.
Si
ipotizzi dunque che ad aumentare sia la voce della componente autonoma della domanda relativa alla
spesa pubblica,
. Nel caso di un’economia chiusa agli scambi internazionali, l’incremento del
reddito (
) dovuto ad un incremento di spesa
pubblica (
), può essere quindi scritto come segue:
La
(2) rappresenta il moltiplicatore della spesa pubblica. Il moltiplicatore è
dunque quel numero per il quale occorre appunto moltiplicare la variazione
della spesa pubblica per ottenere la variazione di reddito necessaria a
ristabilire l’equilibrio. Come è facilmente osservabile, il valore del moltiplicatore
è superiore all’unità ed è tanto maggiore quanto più bassa è la propensione
marginale al consumo,
.
Nell’interpretazione
marginalista del pensiero keynesiano (nota come modello IS-LM, inizialmente
proposto da Hicks) sarebbe dunque
sempre possibile assicurare la piena occupazione del sistema economico
attraverso variazioni in aumento della spesa pubblica (ma strettamente
provvisorie e dirette a rimuovere gli ostacoli legislativi unfit in un’economia di mercato, incentrata sul concetto di
lavoro-merce).
Da
tale prospettiva consegue tuttavia che il meccanismo del moltiplicatore
risulterebbe al contrario inefficace
nel momento in cui si assume che il sistema economico sia in una situazione di pieno impiego e un
eventuale utilizzo della spesa pubblica, non potendo accrescere il reddito,
avrebbe come unico risultato una ricomposizione della componente autonoma della
domanda a favore dei consumi pubblici e a svantaggio degli investimenti
privati.
In
effetti, data l’ipotesi di pieno impiego (politicamente prescelta), l’innesco
del moltiplicatore è precluso da un meccanismo di retroazione monetaria che porta a una riduzione della voce
investimenti
della componente autonoma della domanda della
medesima entità dell’aumento della spesa pubblica (cd. effetto spiazzamento).
In
sintesi, l’aumento del reddito e dunque dei consumi associato all’incremento
della spesa pubblica comporta una crescita della domanda di moneta a scopo
transattivo che comporta, data l’offerta di moneta, un aumento del tasso di
interesse e di conseguenza una contrazione degli investimenti privati. Per
ovviare a questa eventualità occorre sviluppare parallelamente una politica
monetaria accomodante, tesa ad evitare l’incremento dei tassi di interesse fino
ad eliminare l’effetto spiazzamento. Tale effetto, comunque, non si verifica
nella situazione di trappola della liquidità, ossia quando i tassi di interesse
sono talmente bassi che famiglie ed imprese sono disposte ad assorbire al tasso
corrente qualunque quantità di moneta.
In
conclusione, secondo la teoria classica
e marginalista giacché il sistema è sempre in pieno impiego,
l’incremento di spesa pubblica non può comportare un incremento del reddito
(che è già al suo massimo livello di pieno impiego) per cui determina solo una
riduzione degli investimenti privati.
5. Il moltiplicatore secondo la
teoria keynesiana. Il concetto “neo-keynesiano” di piena occupazione e il
grande equivoco: spesso si dicono le stesse cose…per sostenere politiche molto
diverse tra loro.
Nell’ipotesi
keynesiana di equilibrio di sottoccupazione,
invece, l’incremento della spesa pubblica tramite il moltiplicatore farebbe
ripartire la domanda e il ciclo produttivo, attivando nuovi investimenti e
consentendo così al sistema di ritornare al livello di piena occupazione.
Quanto
osservato in contrasto con ciò, nel paragrafo precedente, contribuisce a
spiegare l’odierna generale avversione
all’utilizzo della spesa pubblica come strumento di contrasto alla
disoccupazione, che dipende dalla consapevole e/o inconsapevole adozione
della visione teorica marginalista e dalla convinzione che il sistema economico
sia in grado di tornare velocemente e in modo “naturale” a una situazione di
pieno impiego.
E
anche da un concetto tautologico e
statistico di “piena occupazione non inflattiva”: in sostanza, sul (mai
verificato) presupposto di piena
concorrenza (circoscritto all’assenza di monopoli privati e “tollerando” gli
oligopoli in ragione della loro capacità presunta
di investimento “innovativo” e di economie di scala), e quindi derivando
deduttivamente la piena flessibilità costante dei prezzi in funzione di domanda
e offerta, si ritiene piena occupazione
quella comunque registratasi in un periodo statistico significativo in cui sia
rispettato il “bene primario” che manterrebbe in salute l’economia: un basso e
costante tasso di inflazione (notoriamente posto, sia dalla Fed negli USA,
che dalla BCE nell’eurozona, nel target del 2%).
A
tale argomentazione si uniscono poi le tradizionali critiche monetariste
relative alle difficoltà connesse alla gestione concreta delle politiche di
stabilizzazione anticliche (gli sprechi! L'assistenzialismo!) e le preoccupazioni legate all’impatto di tali politiche sul
bilancio pubblico (Il debito pubblico!).
Nel dibattito corrente, la
distinzione fra pensiero classico/marginalista e pensiero keynesiano tende quindi
a dissolversi in una disputa sulla lontananza o meno del sistema economico dal
pieno impiego (da qui l’enfasi posta sul cosiddetto output gap) e sull’efficacia dei
meccanismi di aggiustamento dei prezzi nei diversi mercati, in primis il mercato del lavoro.
Si
tralasciano, per non allargare il campo eccessivamente, alcuni elementi fondamentali
del pensiero originario di Keynes: quelli che si legano soprattutto al tema
dell’incertezza (e della vagueness
per utilizzare le sue parole) e all’impossibilità
di fare riferimento alle sole basi logiche per comprendere e descrivere il
funzionamento del sistema economico. Tale critica interessa naturalmente
anche le relazioni logico-formali fra le variabili alla base della formulazione
del moltiplicatore del reddito, relazioni che dovrebbero dunque suggerire
estrema cautela nel momento in cui se ne voglia valutare la presunta efficacia
ai fini della politica economica.
La
possibilità che gli esiti possano essere diversi da quelli suggeriti dal
moltiplicatore in funzione del tempo storico e dei comportamenti concretamente
attuati dai singoli soggetti economici apre spazio a una riflessione più ampia;
soprattutto qualora il superamento della crisi richieda risposte più incisive
in termini di gestione del cambiamento strutturale che, in fondo, dipende da
elementi culturali che determinano le reazioni collettive, molto meno
razionalmente di quanto non si tenti di “matematizzare” con i modelli economici.
Basti
rammentare, con riguardo alla vagueness,
dei comportamenti (tutt’altro che istintivi e naturali) dell’insieme dei
soggetti coinvolti nel problema della “piena occupazione”, la frase “chiave”
con cui Hayek definisce la natura del controllo esercitato dagli operatori
economici dominanti in un certo momento storico: «Il controllo economico
non è il semplice controllo di un settore della vita umana che possa essere
separato dal resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri
fini. E chiunque abbia il controllo dei mezzi deve anche determinare
quali fini debbano essere alimentati, quali valori vadano stimati […] in breve,
ciò che gli uomini debbano credere e ciò per cui debbano affannarsi».
(F.
von Hayek da "Verso la schiavitù",
1944).[1]
6. Moltiplicatore del reddito e
bilancio pubblico
Come
in precedenza accennato, la diffidenza verso l’utilizzo della spesa pubblica
quale leva fiscale è principalmente legata alla convinzione (deduttiva) dei potenziali
effetti negativi sul sistema economico che potrebbero derivare da un
peggioramento del bilancio pubblico.
Se
non accompagnato da un pari incremento della tassazione
, si dice, l’aumento della spesa pubblica
peggiorerebbe (nel breve periodo) il saldo di
bilancio dello Stato e incrementerebbe di conseguenza il debito pubblico.
L’impatto
negativo sul sistema economico deriverebbe dalla circostanza che la presenza di
un deficit e il conseguente incremento del debito pubblico sarebbe interpretato
da coloro che prestano fondi allo Stato come un aumento del rischio di credito dello stesso, che si rifletterebbe
nella richiesta di un maggiore tasso di rendimento per i titoli di nuova
emissione.
Da
un lato, ciò determinerebbe l’incremento della spesa per interessi e un
ulteriore peggioramento del disavanzo di bilancio, a parità di avanzo primario,
con la possibilità di generare un circolo vizioso di maggiore debito, maggiore
spesa per interessi, maggiore disavanzo e così via.
Dall’altro,
il supposto incremento del rischio Paese
(che, come spiegano sia Benoît Cœuré,
membro francese nel Board della BCE, sia De Grauwe, illustre economista
coinvolto dalle origini nella creazione dell’eurozona, è un rischio esistente
solo a condizione di non avere un banca centrale, emittente la moneta, che
garantisca i titoli del debito pubblico emessi in un certo Stato sui appartenga
quella banca centrale)[2]
comporterebbe un aggravamento delle condizioni di credito e dunque una
riduzione degli investimenti privati; e ciò con la supposta conseguenza di una contrazione della domanda e del reddito
in grado potenzialmente di controbilanciare l’impatto espansivo dell’incremento
di spesa pubblica. Inutile aggiungere che, nella prospettiva descritta, i Paesi
con elevati livelli di debito (calcolati in rapporto al prodotto interno lordo)
manifesterebbero una maggiore fragilità rispetto a tale dinamica.
In
questa linea di pensiero (che assimila uno Stato contraddistinto da una
“economia avanzata” ad un comune debitore, rispetto al sistema creditizio) sarebbe
in ogni caso possibile ottenere un incremento del reddito qualora all’aumento
della spesa pubblica si faccia corrispondere un pari incremento della
tassazione di modo che il saldo bilancio pubblico rimanga invariato.
Il
moltiplicatore della tassazione (non
considerando per semplicità la componente
) è pari infatti a:
Tale
moltiplicatore è inferiore (in valore assoluto, ovvero non considerando il
segno negativo che lo precede) a quello della spesa pubblica.
Sommando
(2) e (3) otteniamo:
Se
ponessimo la condizione che contemporaneamente il bilancio dello Stato deve
essere in pareggio, per cui
da
cui
, sostituendo
con
nell’equazione (4) otterremo:
Come
è possibile osservare, volendo mantenere l’equilibrio di bilancio, il
moltiplicatore della spesa pubblica si riduce all’unità, in quanto il reddito
aumenterebbe esattamente della stessa misura della spesa pubblica. Da qui se ne
deduce che l’incremento del reddito
massimo dovuto alla spesa pubblica è massimo quando il disavanzo pubblico è
zero. Un incremento di spesa pubblica in disavanzo non converrebbe, in
quanto farebbe aumentare il reddito in misura meno che proporzionale.
Una
simile conclusione evidenzia inoltre come un avanzo di bilancio (
) non sarebbe comunque conveniente perché
il reddito crescerebbe meno della spesa pubblica o addirittura diminuirebbe. Il
cosiddetto teorema di Haavelmo, quindi, attesta che la politica fiscale
genererebbe i massimi benefici in pareggio di bilancio.
Nelle
esposizioni più recenti, politicamente
dovute alla difficoltà di conciliare la originaria ipotesi con la scarsa
crescita generata dall’adozione sistematica delle manovre in pareggio di
bilancio (“le coperture!”), il
teorema di Haavelmo viene riconosciuto
valido in caso di pieno impiego; laddove, in sottoccupazione, la spesa pubblica
in deficit può determinare incrementi anche più che proporzionali sul reddito.
La sottoccupazione, come abbiamo visto in precedenza, esaminando la teoria
marginalista e il suo parente “moderato”, il neo-keynesismo, sarebbe comunque
una situazione temporanea; la velocità di
aggiustamento verso il basso di prezzi e salari, è comunque considerata
tollerabile, in termini socio-politici, e il suo “malfunzionamento” dovuto a
“elementi frizionali” transitori e superabili con sollecite “riforme
strutturali” (del mercato del lavoro e di “spending review”,
immancabilmente abolitive del welfare pubblico).
In
questo frame teorico, oggi familiare
a tutti noi per la sua costante ripetizione mediatica, il teorema di Haavelmo dovrebbe valere “in media”
(cioè nelle prevalenti fasi di equilibrio non insidiate da “elementi
frizionali”; come rivolte sociali, tipo i gilet
gialli, o per “l’inspiegabile” ritardo degli investitori ad acquisire, a prezzi
spesso da “saldo” gli asset del Paese che compie l’aggiustamento dei prezzi
verso il basso; cioè rapidamente deflattivo).
Si
ammette perciò che (in parziale adesione alla teoria keynesiana, comunque
ritenuta colpevolmente cedevole alla irrazionalità delle masse, incomprensibilmente riottose a ricevere
una retribuzione di “mera sussistenza”), attraverso la spesa pubblica, il ruolo
dello Stato sia quello di stabilizzare il ciclo, quindi incrementare o
diminuire la spesa in base alla congiuntura: a) fase di recessione, aumento di
spesa pubblica e deficit di bilancio; b) fase di surriscaldamento
dell’economia, diminuzione della spesa pubblica e avanzo di bilancio.
7. Economia aperta, bilancia
commerciale e meccanismi di riequilibrio (ma anche qui: ci si comprende solo se
si definisce il concetto di “piena occupazione”).
Nel
caso di un’economia aperta agli scambi internazionali, l’equazione (1) deve
essere modificata per includere le esportazioni e le importazioni di beni:
dove:
1)
sono le esportazioni, ipotizzate indipendenti
dal reddito;
2)
sono le importazioni nella loro componente
autonoma, ossia indipendenti dal reddito;
3)
è
la propensione marginale all’importazione, calcolata come rapporto fra
l’incremento delle importazioni e l’incremento del reddito.
Come
è possibile osservare, la propensione
marginale all’importazione ha impatto negativo sul valore del moltiplicatore.
Poiché compare al denominatore, un incremento della propensione marginale
all’importazione riduce il rapporto totale
, come l’aliquota fiscale
.
Il
motivo è abbastanza ovvio: all’aumentare della quota di incremento del reddito che spendo per acquistare beni esteri (il
significato del parametro m), diminuisce corrispondentemente la quota
destinata ai beni domestici (domanda interna), per cui anche il reddito
prodotto.
Nel
caso di pieno impiego (assunto però
secondo l’ipotesi marginalista), l’incremento di spesa pubblica abbiamo già
visto non può aumentare il reddito (che è già al suo massimo), ma contribuisce
solo a diminuire gli investimenti e, nel caso di economia aperta, ad aumentare
le importazioni, quindi lo squilibrio con l’estero.
In
caso di pieno impiego (ove mai se ne
avesse una definizione unitaria e concorde), più in generale (e peraltro anche
secondo la visione keynesiana e kaldoriana), l’incremento di spesa può
essere nell’immediato soddisfatto solo importando, per cui la nuova spesa genera maggiori importazioni oltre allo spiazzamento
degli investimenti interni. Con la riduzione di questo ultimi si riduce la
capacità produttiva locale, con conseguenza di rendere strutturale la
dipendenza dall’estero per il soddisfacimento di tutta la domanda interna. È
implicito che l’ipotesi neoclassica preveda la perfetta sostituibilità di beni
interni con beni esteri, ipotesi non necessariamente verificata, ma comunque
plausibile se ci si riferisce ad economie con un grado si sviluppo ed una
struttura produttiva abbastanza simili.
Come
noto, la bilancia commerciale è data dalla somma di esportazioni e importazioni
e può essere scritta nel seguente modo.
dove
è
il saldo di bilancio commerciale dato dalla differenza tra le esportazioni (E,
esogene rispetto al modello perché dipendenti dal reddito dei Paesi esteri) e
le importazioni, date dalla somma della compenente autonoma
e
la componente legata al reddito (mY) tramite la propensione marginale ad
importare (m).
Il
saldo NX costituisce la sintesi dell’interscambio di merci con l’estero; se
positivo le esportazioni superano nel complesso le importazioni e viceversa se
negativo.
Il
saldo di bilancia commerciale può essere analizzato anche in relazione ai tassi
di cambio:
dove
p è il prezzo delle esportazioni in valuta nazionale, X il volume delle
esportazioni, p* il prezzo delle importazioni in valuta estera ed E il tasso di
cambio ed m il volume delle importazioni.
Il
mercato delle valute funziona come un qualsiasi mercato regolato dalla domanda
e dall’offerta. Se c’è un eccesso di domanda della valuta (nazionale) si ha un
apprezzamento del cambio (aumento del prezzo); al contrario se c’è un
incremento della domanda di valuta estera si ha un deprezzamento del cambio
(diminuzione del prezzo).
Gli effetti del cambio sulla bilancia
commerciale possono essere così sintetizzati (condizione di Marshall-Lerner-Robinson):
·
caso a) c’è un eccesso di importazioni
rispetto alle esportazioni, per cui c’è una maggiore domanda di valuta estera
proveniente dall’interno (tale valuta estera serve per pagare queste
importazioni, per cui c’è un incremento di persone ed imprese che vogliono
acquistare valuta estera cedendo valuta locale) con conseguente deprezzamento
del cambio. A sua volta il deprezzamento del cambio determinerà un incremento
del prezzo dei beni esteri (serve più valuta locale per acquistare gli stessi
beni in valuta estera anche a parità di prezzo estero) con conseguente
diminuzione delle importazioni ed incremento della domanda interna (famiglie ed
imprese sostituiscono beni che prima importavano con beni prodotti
internamente), riequilibrio del saldo di bilancia commerciale e incremento
degli investimenti interni con annessa crescita della competitività.
·
caso b) c’è un eccesso di esportazioni
rispetto alle importazioni, per cui c’è una maggiore domanda di valuta interna
proveniente dall’estero (tale valuta interna serve ad imprese e famiglie estere
per pagare i beni che loro importano e noi esportiamo) con conseguente
apprezzamento del cambio. A sua volta l’apprezzamento del cambio determinerà un
incremento del prezzo dei beni interni sui mercati esteri (serve più valuta
estera per acquistare gli stessi beni in valuta interna anche a parità di
prezzo interno) con conseguente diminuzione delle esportazioni e diminuzione
della domanda interna (famiglie ed imprese estere sostituiscono beni che prima
importavano con beni prodotti internamente ai loro Paesi) e riequilibrio del
saldo di bilancia commerciale, nonché diminuzione del reddito, decremento degli
investimenti interni con annessa riduzione della competitività.
All’interno di un’area valutaria, (qual
è l’eurozona, sia pure in modo incompleto rispetto al modello costituito dagli
USA), in presenza di una stessa moneta per diversi soggetti statuali, questi
meccanismi automatici di aggiustamento non ci sono più, ovviamente, perché
manca il tasso di cambio. Di conseguenza, un Paese rischia di
accumulare deficit commerciali senza potersi difendere con la politica
valutaria, così come altri Paesi possono avvantaggiarsi della situazione sena
temere un eccessivo apprezzamento della loro valuta ed esposizione quindi alle
importazioni.
Infatti,
eliminando il meccanismo di riequilibrio legato al tasso di cambio ci sono
Paesi in vantaggio di competitività (ossia Paesi che hanno un livello dei
prezzi relativi più competitivo, grazie alla maggiore efficienza della loro
struttura produttiva, è il caso a) che persisteranno nella loro situazione
favorevole accumulando sempre maggiore surplus commerciale ed incremento di
reddito e competitività (Germania) e Paesi che persisteranno nella situazione
di deficit (caso b) con conseguente diminuzione del reddito, degli investimenti
e della competitività.
L’importanza
del saldo della bilancia commerciale in un sistema economico complesso con la
stessa moneta è stata più volte evidenziato e la stessa Commissione Europea,
tra i 14 indicatori che servono a monitorare gli squilibri macroeconomici di un
Paese che potrebbero mettere a rischio la stabilità dell’area Euro, ha inserito
proprio il saldo della bilancia commerciale, che deve trovarsi tra il -4% e il
+6% del PIL. A differenza del rapporto debito Pil, disciplinato dal Fiscal
Compact e che in caso di sforamento della soglia del 60% prevede una procedura
d’infrazione secondo le norme dell’articolo 126 del Trattato sul funzionamento
dell’Unione Europea, il range della bilancia commerciale viene definita come
“soglia raccomandata”. La Germania ha sforato tale soglia consecutivamente
negli ultimi otto anni.
8. Efficacia della politica fiscale
in economia aperta. Il futuro non è sempre prevedibile e misurabile: dipende
dal ruolo che si attribuisce allo Stato, alla spesa pubblica e al suo rapporto
con la realtà produttiva. Le regole europee tra realtà e “fictio iuris”.
Nell’ottica
marginalista, l’ipotesi di rapido (al limite istantaneo) aggiustamento dei
prezzi riguarda anche il mercato dei tassi di cambio, per cui sarebbe sempre
possibile applicare la teoria della
parità dei poteri di acquisto, secondo la quale una unità di qualsiasi valuta deve essere in grado di acquistare la
stessa quantità di beni in tutti i Paesi. In altri termini il tasso di cambio reale tra due paesi deve sempre riflettere il
differenziale di competitività tra gli stessi.
Ne
consegue dunque che in un contesto di economia aperta la spesa pubblica potrebbe
avere una minore efficacia. Ma in una visione non aprioristica e basata sulla
mera competitività di prezzo (e in definitiva sulla compressione ossessiva
dell’inflazione nella sua componente generativa “interna”) l’elemento della spesa pubblica può, anzi dovrebbe, legarsi al
mantenimento o all’incremento della “qualità” delle produzioni del paese in cui
lo Stato esplica le sue azioni.
Ciò
vale, intuitivamente, con riguardo ai progressi tecnologici, e quindi ad una
ovvia condizione di mantenimento della competitività tipica di una “economia
avanzata”; ma questa capacità di competere,
a sua volta, può essere legata alla capacità di indirizzo statale nella spesa
pubblica: non parliamo ovviamente soltanto della spesa pubblica in ricerca
e formazione (a tutti i livelli della pubblica istruzione).
La
stessa spesa corrente (più “comune”) genera un flusso di skills sia nella componente di lavoro pubblico che nella stessa
offerta nazionale: si pensi all’adeguato finanziamento dei reparti medici negli
ospedali pubblici, grandi laboratori naturali di esperienza e evoluzione
clinica, o alle capacità di “maneggiare” e padroneggiare macchinari e congegni
nelle varie linee di attività della pubblica funzione: dalle tecniche di
investigazione di polizia o di diagnosi di eventi avversi sismici o
meteorologici, alla ingegneristica “pratica” che si trova a risolvere un
pompiere o un tecnico comunale nel fronteggiare una “emergenza” (e sono solo
esempi). L’arricchimento professionale di tali ruoli pubblici tesaurizza e
moltiplica, in senso adattativo, la stessa produzione nazionale. Allo stesso
modo, saper spendere per lumi da
tavolo o sedie ergonomiche per la grande dimensione delle strutture pubbliche,
“finanzia” un naturale miglioramento della qualità, e un aumento della
produttività, dell’offerta manifatturiera privata.
Naturalmente
ciò vale ove lo Stato si ponga il problema del proprio ruolo di attore del
progresso tecnologico, diretto ed indiretto: se però lo Stato è solo occupato
nella spending review, o
nell’ottenere i “conti in ordine” (secondo un concetto rigido ed arbitrario
come il pareggio di bilancio o il target inflattivo), un laboratorio
sperimentale di una scuola sarà considerato alla stregua di un “costo”, così
come l’assunzione di ingegneri o di ricercatori medici (decentemente
retribuiti). O l’acquisto delle forniture indispensabili per consentirgli di
svolgere le loro pubbliche funzioni. E di sicuro questa premura prioritaria per
l’aspetto fiscale “austero”, un effetto antieconomico lo avrà generato: tutto
l’investimento pubblico effettuato nella formazione di quegli ingegneri e di
quei medici, sarà “trasferito” all’estero, andando a rinforzare la “fuga di
cervelli” che si autoalimenta nel perseguimento di politiche deflazioniste e
“austere”.
Con
un vistoso paradosso: per evitare di
dover essere noi a alimentare il “capitale umano”, ovvero la capacità
competitiva di altri paesi, potremmo definitivamente chiudere l’intero sistema
della formazione e della ricerca scientifica, credendo forse così di mitigare un
vantaggio competitivo altrui e…di incentivare gli investimenti. Per la
teoria marginalista, comunque, la diminuzione della spesa pubblica, quasi perennemente ritenuta in “piena
occupazione”, dovrebbe stimolare gli investitori privati (meglio se
esteri). E, senza preoccuparsi di avere creato un deserto, cioè avendo finalmente
realizzato uno Stato “minimo”: con la perdita dello status di “economia
avanzata”, non avrebbe senso investire in Italia se non per produzioni primarie
e “arcaiche”, dove l’intensità dell’impiego di manodopera a basso costo
prevarrebbe su ogni speranza di rivedere un decente livello di sviluppo.
Precisata
l’opinabilità fenomenologica di usare un
concetto indifferenziato di spesa pubblica (e del suo effetto), non connesso ad
una visione organica del ruolo dello Stato e della complessiva traiettoria
dell’intero sistema produttivo e sociale italiano, rimane il fatto che il
prevalente approccio economico-ideologico al tema del moltiplicatore, deve fare
i conti con la sua, implicita ed esplicita, incorporazione delle regole e negli
istituti (spesso di soft law, e
quindi ancora più insidiosi) che governano l’eurozona.
In
questo quadro, come conseguenza di un
riordino strutturale della nostra economia indotto da tali regole, dobbiamo
prendere atto del fatto che l’incremento della spesa pubblica - in assenza
della possibilità di fare politiche industriali pubbliche mirate -, può tradursi in uno spiazzamento dell’investimento privato
(come in economia chiusa), e, con più probabilità, in un peggioramento del
disavanzo commerciale con l’estero.
9. Il moltiplicatore dentro
l’eurozona: le norme fiscali e gli automatismi trasformano la nostra economia e
diventano “self-fulfilling prophecies”.
In
un modello keynesiano, peraltro, (che nella situazione attuale esigerebbe un
prevalente intento applicativo del modello costituzionale italiano),
nell’ipotesi di sottoccupazione (effettiva,
ampiamente riscontrabile nonostante la Commissione Ue ci dica che siamo vicini
alla “loro” piena occupazione), l’incremento della spesa pubblica risulterebbe
comunque meno efficace per incrementare il reddito, giacché, come visto, il
moltiplicatore in economia aperta (5) è minore (a parità di tutte le altre
condizioni) rispetto a quello di economia chiusa; è quindi sempre da tenere
presente che una parte (più o meno ampia in funzione del valore della
propensione marginale all’importazione) della domanda aggiuntiva interna viene
soddisfatta da beni esteri.
In
via teorica, un possibile sostegno all’espansione fiscale potrebbe arrivare da
una politica valutaria che contemporaneamente svaluti il cambio in modo da
evitare che l’effetto sul reddito dovuto all’incremento di spesa pubblica sia
vanificato dall’aumento del disavanzo commerciale. Allo stesso modo sarebbero
necessarie politiche utili a favorire un cambiamento strutturale perseguendo una
maggiore coerenza del tessuto produttivo con il profilo attuale dei consumi e
degli investimenti, in questo modo riducendo in una prospettiva macroeconomica
la quota di reddito destinata alle importazioni (cioè cosa produrre in
sostituzione di ciò che viene prevalentemente importato, inclusi gli impianti/macchinari
per creare ciò che produciamo attualmente e ciò che sarebbe conveniente ricominciare
a produrre).
In
conclusione, la politica fiscale in economia aperta in assenza di politiche
di sostegno monetarie e/o valutarie e in assenza di politiche
industriali per il tessuto produttivo ha: a) un impatto negativo su
investimenti e avanzo commerciale (ipotesi marginalista); b) un impatto
limitato sul reddito (ipotesi keynesiana in equilibrio di sottoccupazione).
Nell’ipotesi
di assenza di sottoccupazione, risultante dalla disciplina regolatrice della
fiscalità dell’area euro (nella quale esiste dunque una presunzione
sostanzialmente normativa e quindi “a priori”, indipendente da verifica
empirica a posteriori), come quella formulata dalla Commissione Europea sul
nostro Paese (output gap molto
ridotto, quindi sostanziale pieno impiego delle risorse) prevale l’impostazione
marginalista, per cui una politica fiscale espansiva genererebbe nel nostro
Paese soltanto una riduzione degli investimenti e un peggioramento della
bilancia commerciale.
In
più, essendo tale visione (normativa) ideologicamente coerente con il cosiddetto
teorema di Haavelmo, poiché la spesa pubblica effettuata in deficit è
inefficace, sarebbe invece auspicabile una politica di pareggio di bilancio
finalizzata anche alla riduzione del debito pubblico. Questa è in estrema
sintesi la base teorica di riferimento delle politiche di austerity.
Tuttavia
in un contesto complesso come quello europeo, in particolare in assenza di
controllo sulla moneta e sui cambi, gli
effetti delle politiche di austerity
sono ben diversi da quelli auspicati “in teoria” (ma pur sempre, come in
precedenza osservato, teoria “normativizzata”, cioè ad applicazione
obbligatoria a priori: ciò, in
particolare nelle guidelines
applicative del c.d. fiscal compact).
Ed infatti, la riduzione della spesa
pubblica determina una compressione della domanda interna, con calo della
propensione agli investimenti delle imprese private e una conseguente perdita
di competitività. Tuttavia, l’assenza di qualsiasi meccanismo
di riequilibrio sul fronte monetario e valutario fa sì che, nonostante tutto,
la capacità ad importare resti immutata (la valuta unica è accettata allo
stesso modo, cioè ha identico incondizionato corso legale, in ogni Stato all’interno dell’area valutaria).
Dunque, alla perdita di reddito e competitività interna, dovuta alle politiche
di austerity, non segue un deprezzamento
del cambio, anzi, dato che la domanda interna sopperisce al calo degli
investimenti aumentando la sua propensione ad importare, si rafforza così il processo di deindustrializzazione del Paese. Allo stesso modo, anche nel
caso di sottoccupazione, un incremento della spesa pubblica avrà un effetto
limitato sul reddito nazionale, in quanto il moltiplicatore di economia aperta
è tanto più basso quanto più alta è la propensione marginale ad importare, e
tale politica non può essere supportata né dalla politica monetaria né dalla
politica valutaria.
10. Alcuni “fatti stilizzati” e
opzioni per il rilancio della crescita
Alcuni
specifici indicatori macroeconomici consentono di dare un preliminare riscontro
alle tendenze evidenziate.
In
primo luogo, la Figura 1 riporta l’andamento della propensione media all’importazione in Italia, nel periodo 1995-2019, calcolato come rapporto fra
il valore delle importazioni e il prodotto interno lordo (a prezzi costanti
2010). Come è possibile osservare, - al di là della cautela con la quale
occorre guardare a tale dato come proxy
del valore marginale della propensione all’import -, le importazioni sono aumentate più che proporzionalmente rispetto al
prodotto interno lordo concordemente a una ricomposizione della domanda a
favore di quella estera e a svantaggio di quella interna.
Figura
1. Propensione media all'importazione in Italia (prezzi costanti 2010,
1995-2019)
Fonte: elaborazione su dati AMECO
Sul
fronte dell’offerta, l’andamento della produzione industriale ben rappresenta
il processo di deindustrializzazione del Paese.
In
effetti, dal 2008 al 2018 il numero di imprese attive nella manifattura si è
ridotto di oltre 100mila unità (più di 20mila imprese in meno nei soli ultimi
tre anni). A tale aspetto andrebbe inoltre aggiunto come l’accresciuta
esposizione alla domanda estera dell’attuale struttura produttiva genera
inevitabilmente una crescente preoccupazione non più solo sotto il profilo
strettamente teorico (rispetto all’assunto marginalista che siano gli
incrementi di produttività a sostenere la crescita economica, in un contesto di
economia aperta agli scambi commerciali; e ciò in quanto il maggiore output si riflette inevitabilmente in
una maggiore domanda estera), ma anche in una prospettiva più concreta di
contrazione della domanda estera e di mutamento delle politiche commerciali di
molti Paesi.
Figura
2. Produzione industriale nei principali Paesi Europei e negli Usa, numero
indice, base anno 2000.
Fonte: elaborazione su dati AMECO
La
figura 2 (si veda anche la Tabella 1) riporta l’andamento della produzione
industriale italiana, di alcuni Paesi europei e degli Stati Uniti nel periodo
2000-2018.
Tra
il 2000 ed il 2008, la produzione
industriale italiana è stagnante (fatto 100 la produzione industriale nel 2000,
nel 2007 la stessa valeva 98,3), in controtendenza rispetto a quanto
accadeva nel complesso dell’area euro (identificata con i dodici Paesi che
aderirono inizialmente alla moneta unica) dove la produzione industriale passa
da 100 a 110; in Germania si ha la crescita più significativa da 100 a 119,5.
Successivamente
la crisi trasforma questa fase di stagnazione in recessione con la perdita di
ben 20 punti per il nostro Paese solo nel 2009. Se il crollo del 2009 è comune a tutti i Paesi analizzati, bene diversa
è la loro reazione. La Germania nel 2011 ha già recuperato tutta la
produzione industriale persa con la crisi e, dopo un consolidamento nel periodo
2011-2014, riprende la sua corsa evidenziando nel 2018 un valore di 127,4; in
estrema sintesi in Germania dal 2000 al 2018 la produzione industriale è
aumentata del 27,4%, nonostante il lungo periodo esaminato sia stato caratterizzato
dalla crisi globale.
L’Italia,
invece, dopo la stagnazione del periodo 2000-2008 subisce le conseguenze della
crisi con il crollo della produzione industriale nel 2009 (79,9) e a cui fa
seguito una debole ripresa, non in grado di riportare il Paese ai livelli
pre-crisi in poco tempo.
Al
contrario, la politica di austerità intrapresa negli anni 2011-2013 determina
un’ulteriore flessione della produzione industriale che nel 2014 si avvicina
nuovamente ai livelli minimi fatti registrare nel 2009, laddove invece altri
Paesi (come detto la Germania, ma anche gli USA) in quegli anni avevano già
pienamente recuperato la produzione persa con la crisi.
A
fine periodo nel 2018 l’Italia fa segnare un valore di 83,5%, ad indicare che dal 2000 (100) c’è stato un crollo cumulato
della produzione industriale del 16,5% e, dato molto più preoccupante, rispetto
al minimo post-crisi globale del 2009 (79,9) il recupero cumulato in 10 anni è
stato solo del 3,6% (in media una crescita dello 0,36% annuo). L’effetto
negativo delle politiche di austerità è ancora più evidente analizzando il dato
della Grecia, che segna un minimo non in corrispondenza della crisi del 2008,
ma a seguito dell’intervento della Troika (70,7 nel 2014).
Tabella
1. Produzione industriale nei principali Paesi Europei e negli Usa, numero
indice, base anno 2000.
Anni
|
2000
|
2001
|
2002
|
2003
|
2004
|
2005
|
2006
|
2007
|
2008
|
2009
|
European
Union
|
100,0
|
100,3
|
99,9
|
100,3
|
103,3
|
104,3
|
108,0
|
111,7
|
110,1
|
95,3
|
Euro
area
|
100,0
|
100,4
|
100,0
|
100,2
|
103,2
|
104,2
|
107,9
|
111,9
|
110,2
|
94,1
|
Germany
|
100,0
|
99,9
|
98,8
|
99,3
|
103,5
|
106,7
|
112,4
|
118,8
|
119,5
|
100,0
|
Greece
|
100,0
|
96,6
|
96,8
|
97,4
|
97,9
|
96,4
|
97,2
|
99,4
|
95,2
|
86,0
|
Spain
|
100,0
|
98,9
|
98,8
|
100,2
|
102,2
|
102,3
|
106,1
|
108,7
|
101,0
|
84,6
|
France
|
100,0
|
101,1
|
100,0
|
99,1
|
101,6
|
101,7
|
102,4
|
103,7
|
101,0
|
88,1
|
Italy
|
100,0
|
99,2
|
97,9
|
96,9
|
97,8
|
96,0
|
99,0
|
101,5
|
98,3
|
79,9
|
United
Kingdom
|
100,0
|
98,4
|
97,0
|
96,5
|
97,1
|
96,5
|
97,0
|
97,3
|
94,9
|
86,5
|
United
States
|
100,0
|
96,9
|
97,3
|
98,5
|
101,2
|
104,6
|
106,9
|
109,7
|
105,9
|
93,7
|
Anni
|
2010
|
2011
|
2012
|
2013
|
2014
|
2015
|
2016
|
2017
|
2018
|
|
European
Union
|
101,5
|
104,1
|
101,7
|
101,0
|
101,9
|
104,2
|
106,0
|
108,9
|
110,6
|
|
Euro
area
|
100,6
|
103,4
|
100,8
|
99,8
|
100,3
|
102,5
|
104,1
|
106,8
|
108,1
|
|
Germany
|
111,2
|
119,0
|
118,1
|
117,9
|
119,5
|
121,2
|
122,8
|
126,2
|
127,4
|
|
Greece
|
80,8
|
76,1
|
74,5
|
72,1
|
70,7
|
71,4
|
73,2
|
76,7
|
77,7
|
|
Spain
|
85,3
|
83,5
|
78,0
|
76,5
|
77,8
|
80,3
|
81,5
|
83,9
|
84,7
|
|
France
|
92,3
|
94,7
|
92,2
|
91,4
|
90,3
|
91,9
|
92,6
|
94,4
|
94,9
|
|
Italy
|
85,4
|
85,8
|
80,6
|
78,2
|
77,3
|
78,7
|
79,8
|
82,2
|
83,5
|
|
United
Kingdom
|
89,3
|
88,7
|
86,4
|
85,7
|
87,0
|
88,0
|
88,9
|
89,9
|
90,7
|
|
United
States
|
98,8
|
101,9
|
105,0
|
107,1
|
110,4
|
109,3
|
107,2
|
108,9
|
113,4
|
Fonte: elaborazione su dati AMECO
Quali
dovrebbero essere, in conclusione, gli interventi di politica economica più
efficaci per rilanciare la crescita?
Dalla
Tabella 2 possiamo analizzare il valore
dei moltiplicatori in funzione dei diversi strumenti di politica fiscale.
Dall’analisi
dei dati si evince facilmente che tutti
gli interventi di spesa (investimenti e consumi pubblici e occupazione) hanno
un moltiplicatore molto più alto di quelli inerenti le Entrate.
Questo
effetto è facilmente intuibile anche a seguito dell’analisi del teorema di
Haavelmo fatto in precedenza: pur in
economia aperta, la spesa pubblica genera in modo immediato un atto di
produzione (per lo più, l’esecuzione giuridicamente obbligatoria, ed immediatamente
esigibile, di un contratto con prestazioni di “dare” o di “fare”), innescando l’attivazione di nuovi
investimenti e nuova occupazione.
Per
contro l’intervento sulle entrate (lo sgravio fiscale ad esempio)
nell’immediato si traduce, a parità di aumento del reddito, in un risparmio che
solo su base “facoltativa”, e comunque ritardata, potrebbe determinare maggiori
investimenti con conseguente incremento del reddito (nella situazione attuale,
è anche ipotizzabile l’utilizzo per l’estinzione di precedenti posizioni
debitorie del “beneficiario”, e come è noto, “il pagamento estingue la
liquidità”).
Tabella
2. Moltiplicatore per strumento: approccio bucket applicato ai moltiplicatori
per il primo anno calcolati dal MEF mediante il modello ITEM per l’Italia.
Limite minimo
|
Limite massimo
|
Media
|
|
ENTRATE
|
|||
IVA
|
0,24
|
0,36
|
0,3
|
Contributi
sociali
|
0,32
|
0,48
|
0,4
|
IRPEF
|
0,24
|
0,36
|
0,3
|
IRES
|
0,16
|
0,24
|
0,2
|
IRAP
|
0,32
|
0,48
|
0,4
|
SPESA
|
|||
Investimenti
pubblici
|
0,80
|
1,20
|
1,0
|
Sussidi
agli investimenti
|
0,16
|
0,24
|
0,2
|
Consumi
intermedi
|
0,88
|
1,32
|
1,1
|
Occupazione
pubblica
|
0,96
|
1,44
|
1,2
|
Fonte: elaborazione su dati NADEF
2017.
In
conclusione, uno dei motivi della bassa crescita economica registrata in Italia
è senza dubbio la crisi del settore industriale la cui produzione, a differenza
di quanto accade in altri Paesi, non ha recuperato i livelli pre-crisi globale
del 2008 e neanche i valori registrati prima dell’adesione alla moneta unica.
Una
maggiore tenuta hanno mostrato le produzioni industriali non legate alla
domanda interna, ma la cui debolezza prospettica è resa estremamente evidente
dalla contrazione della domanda di beni dei nostri principali partner
commerciali (in primis Germania) e
del volume degli scambi globali indotto dai mutamenti delle politiche economiche,
in particolare di Stati Uniti e Cina. Inoltre,
l’incremento della propensione ad importare rischia di tramutarsi in una
dipendenza strutturale che il Paese potrebbe stabilizzare rispetto all’estero,
oltre che diventare un ulteriore elemento di debolezza per il rilancio
dell’industria nazionale.
Questo
quadro macroeconomico di riferimento spiega anche facilmente le forti
differenze tra “centro” e “periferia”, con il primo (Roma e Milano
essenzialmente) che è riuscito a contenere il declino grazie alla crescita dei
servizi, mentre la seconda si impoveriva sempre più a causa della
deindustrializzazione e della relativa perdita di competitività delle industrie
locali, con forti conseguenze sull’occupazione e sui livelli di reddito
dell’appunto “periferia”.
È
evidente che il miglioramento degli attuali livelli di benessere non può che
passare da una radicale modifica del percorso intrapreso negli ultimi due
decenni di deindustrializzazione a favore di un nuovo sviluppo industriale del
Paese, con l’obiettivo di mantenere e rafforzare capacità e competenze
industriali, e maturare posizioni di leadership internazionale nei settori che
si ritengono essenziali nelle future traiettorie di produzione e consumo.
A
tale scopo è dunque necessario un mix di politiche che insista su misure
coerenti dal lato dell’offerta e della domanda in grado di generare un elevato
moltiplicatore.
In
sintesi: a) individuare i settori “strategici” che dovranno costituire la base
del rilancio industriale del Paese; b) indirizzare verso tali settori le
risorse favorendo da un lato gli investimenti, anche con l’intervento diretto
dello Stato (in una prima fase, importando macchinari e tecnologie chiave per
il rilancio di questi settori strategici) e dall’altro la domanda finale di questi
prodotti; c) supportare la crescita di tali settori industriali con un
parallelo rafforzamento della qualità dei servizi erogati dal pubblico, da
sostenere attraverso un piano di rilancio del pubblico impiego.
[1] Hayek è
il miglior teorico del controllo culturale come determinante dei comportamenti
umani e si spese per tutta la vita per un’opera di persuasione e di
penetrazione mediatica, che considerava fondamentale per ottenere che si possa
arrivare a determinare, ciò che gli uomini debbano credere e ciò per cui
debbano affannarsi. Lo conferma
questa affermazione strategica: “Penso fermamente che lo scopo
principale del teorico dell’economia o del filosofo politico sia di agire
sull’opinione pubblica per rendere politicamente possibile quello che forse
oggi è politicamente impossibile, e quindi l’obiezione che le mie proposte sono
attualmente impraticabili, non mi scoraggia assolutamente a svilupparle.” (dal libro intitolato “Denationalisation
of money: the argument refined” , 1976. Cioè: “la denazionalizzazione
della moneta: l’argomentazione completa”.
[2] Così,
proprio spiegando l’anomala presenza di un rischio del debito pubblico
riscontrabile, tra quelle che egli stesso chiama “economia avanzate”, solo per i paesi dell’eurozona; cfr.
Benoît Cœuré, Member of the
Executive Board of the ECB, at Harvard University's Minda de Gunzburg Center
for European Studies in Cambridge, MA, 3 November 2016; https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2016/html/sp161103.en.html
I nostri Costituenti, manco a dirlo, queste cose le sapevano e recepirono senza dubbio le teorie keynesiane nell’ottica di un intervento dello Stato per combattere la disoccupazione agendo dal lato della domanda. E’ stata definita “politica di opere pubbliche” (oggi diremmo, in generale, di “spesa pubblica”).
RispondiEliminaInteressante, in proposito, è quanto emerge dalla “Commissione per lo studio dei problemi del lavoro”. In tal senso, particolarmente significativa (proprio dal punto di vista “…istituzionale, storico e politico-ideologico…”) risulta la relazione dal titolo “Disoccupazione ed opere pubbliche”, nella quale il prof. Paolo Sylos Labini richiama espressamente, non a caso, il moltiplicatore di Kahn:
“…economisti… si sono dimostrati favorevoli ad un a politica di opere pubbliche.
Tra questi si può ricordare il Kahn, la cui teoria del “moltiplicatore” ebbe, specialmente alcuni anni or sono, una notevole risonanza. Secondo il Kahn le spese effettuate dallo Stato per finanziare le opere pubbliche metterebbero in moto una spirale di benefiche azioni e reazioni: le im prese che ricevono le ordinazioni per le opere pubbliche a loro volta fanno ordinazioni ad altre imprese e queste ad altre ancora. D’altro lato i disoccupati che ottengono l’impiego vengono a disporre di un maggiore potere di acquisto ed effettuano una maggiore richiesta di beni di consumo; tale maggiore richiesta stimola la produzione e quindi la richiesta di lavoro. Per conseguenza l’occupazione dei lavoratori crescerebbe secondo un coefficiente, secondo un “moltiplicatore” che misurerebbe appunto l’occupazione indiretta, o indotta, o “secondaria”.
Tale teoria, sfrondata dei sottili ragionamenti e delle formule… in sostanza non fa che esprimere, riferendola alla politica delle opere pubbliche, una semplice verità: che, essendo i fenomeni economici interdipendenti, qualsiasi mutamento dei dati provoca altri mutamenti, ben più importanti di quello iniziale: in un certo senso gli effetti del mutamento iniziale risultano, dopo un certo periodo, amplificati o “moltiplicati…” [Atti della Commissione per lo studio dei problemi del lavoro, III, Memorie su argomenti economici, Roma, 1946, 287].(segue)
Tuttavia, Sylos Labini – riconoscendo che il moltiplicatore può avere effetti favorevoli a determinate condizioni - amplia prospetticamente il proprio discorso, affermando che:
RispondiElimina“…in una società prevalentemente privatistica e in periodo di depressione ciclica una vasta politica di opere pubbliche non può in nessun caso costituire il fattore determinante della ripresa produttiva; una tale politica può solo affrettare la ripresa e può, quindi, portare un effettivo ed efficace contributo alla soluzione del problema della disoccupazione quando si verifichino certe condizioni e quando sia accompagnata da una serie di altri interventi statali.
Ora, poiché l’esperienza ha dimostrato che lo Stato, specialmente durante le crisi, non può assolutamente sottrarsi dall’intervenire, e poiché gli interventi statali, attuati sotto la pressione della necessità, si manifestano spesso contraddittori, TANTO VALE CERCARE DI PREVENIRE IL MALE INVECE DI REPRIMERLO. Sono queste in sostanza le considerazioni che, come si è già accennato, possono consigliare un INTERVENTO SISTEMATICO E GENERALE DELLO STATO NELL’ECONOMIA, possono consigliare cioè una pianificazione dell’economia. Una politica di opere pubbliche che s’inserisse in una pianificazione dell’economia avrebbe un significato del tutto diverso da quello che ha una politica di opere pubbliche perseguita isolatamente…Non si cerca quindi ancora di impedire alle crisi di manifestarsi e di sanare in modo non transitorio IL CONFLITTO FRA INTERESSE INDIVIDUALE ED INTERESSE SOCIALE. Si vuole solo ridurre al minimo tale conflitto ed attenuare l’asprezza delle fluttuazioni cicliche. Tuttavia LA POLITICA DELLE OPERE PUBBLICHE IN FUNZIONE ANTICICLICA COSTITUISCE, SE È ATTUATA, UN ULTERIORE PASSO VERSO LA GENERALE PIANIFICAZIONE DELL’ECONOMIA [Atti della Commissione, cit., 291]. (segue)
Questo punto fondamentale, - specialmente nel primo periodo riportato in questo commento -, è un prezioso aiuto "legalitario-costituzionale", data la fonte da cui proviene, a quanto si tenta di esporre nel post (capitolo).
EliminaComprenderai che OGGI, data la mole di pensiero - accademico, politico-enfatico, sedicente tecnico-politico, tecnico-sovranazionale, e SOPRATTUTTO MEDIATICO -, abbiamo dovuto assumere un preciso punto di vista dialettico.
Non si può prescindere, infatti, da quel "controllo di tutti i mezzi e di tutti i fini", che ormai spadroneggia da ogni angolo della (quasi) completata rivoluzione liberale". Si è costretti a esporla, tale teoria mainstream, usarla come base di partenza, e sperare, tentare: tentare di indurre il pensiero (consapevole) che un qualunque lettore ridesti in sé l'urgenza di spiegare ciò che è sotto ai suoi occhi e che, nonostante, si ciò si vede costretto a CONTINUARE A IGNORARE.
Viviamo in un incubo: l'incubo del contabile.
Solo che questi contabili, che sentono vicino la vittoria definitiva sull'interesse sociale (cioè sull'interesse democratico dell'intera società), hanno raggiunto un controllo istituzionale probabilmente senza precedenti nella storia.
Le istituzioni non riflettono la società: la conculcano, la comprimono fin nei suoi pensieri e istinti più elementari e razionali.
Se fosse inteso correttamente cosa s'intende per "potere costituente", non si sarebbe costretti ad assumere di continuo alcun punto di vista dialettico, come se ci si dovesse ogni volta giustificare di fronte ad ogni assurdità. Ed invece oggi io sento addirittura parlare, anche tra alcuni costituzionalisti, che sarebbe necessaria una nuova "stagione costituente"!
EliminaE così, in un siffatto brodo culturale - che è la risultante di una partita smaccatamente truccata -
si è costretti a discutere persino per riaffermare l'ovvio. È il sonno della ragione.
Tuttavia sarà la gente, che dopo il sonno, andrà come in pellegrinaggio a cercarla questa Costituzione. Mi rifiuto di credere che i Costituenti siano passati invano.
A noi, è vero, tocca l'umile compito di testimoniarne la grandezza. Faremo il possibile, anche se i tempi volgono al peggio
In sostanza, in presenza di crisi cicliche – che sono connaturate al capitalismo [ed in cui “… La disoccupazione permanente…è uno degli indici più caratteristici del conflitto esistente fra interesse individuale e interesse sociale, fra interesse di coloro che sono economicamente più forti e interesse della società nel suo complesso, così pag. 275], lo Stato deve intervenire certamente attraverso la spesa pubblica applicando i principi dell’economia keynesiana, ma tale intervento non può essere concepito in modo sporadico ed in contingenze solo patologiche, ma deve essere considerato strutturale. Insomma:
RispondiEliminaFinora lo Stato, come spesso pel passato, ha mostrato di considerare esaurito o quasi esaurito il suo compito dopo aver predisposto l’autorizzazione di una certa somma pel finanziamento di opere pubbliche. L’azione dello Stato nel campo delle opere pubbliche si è risolta, cioè, in un intervento isolato, frammentario e di carattere quasi esclusivamente finanziario…
Un intervento di tale tipo può avere una certa efficacia in periodi di crisi dipendenti dal ciclo economico, crisi per giunta non gravissime; esso è assolutamente inadeguato in un periodo, come l’attuale…Ora si profila l’opportunità di una politica di opere pubbliche non perseguita isolatamente, nè solo sul piano finanziario, ma strettamente e coerentemente coordinata alla politica creditizia, a quella sociale, a quella del commercio estero, a quella tributaria e dagli altri rami della politica economica.
Un coordinamento fra i vari interventi non platonico e formale, ma concreto, È RAGGIUNGIBILE SOLO ATTRAVERSO UNA PIANIFICAZIONE DELL’ECONOMIA…la pianificazione dell’economia sembra opportuna per cercare di realizzare la massima stabilità economica possibile, ed in particolare per promuovere e regolare quel processo di industrializzazione…necessario per assicurare, insieme col più rapido sviluppo del reddito complfessivo, l’impiego di quantità crescenti di lavoratori [Atti della Commissione, cit., 298-299]. (segue)
Era già tutto previsto...
EliminaRammentiamo che Carli ci racconta però come, mentre così si discuteva in Costituente, la "Costituzione economica" veniva organizzata, completamente "al riparo dal processo elettorale", in tutt'altro modo.
Ed è questa, una storia che abbiamo già raccontato (invano)...
Che Caffè e Basso tentarono di denunciare. Il Quarto Partito, tutto sommato, perse il controllo solo in 2 occasioni: 1) nei confronti di Mattei e della sua politica energetica via ENI (e credo tu stesso abbia rammentato cosa ne pensasse...Sturzo); 2) nel periodo del primo centro-sinistra (fino alla svolta craxiana e alla strana conversione del PCI di Berlinguer).
Nel complesso, tra post e commenti relativi, ci sarebbe un altro, e probabilmente più necessario, libro da scrivere.
Mi piacerebbe, per una naturale evoluzione di voi co-scrittori del blog, che tentaste di farlo.
Il momento sarebbe propizio (proprio perché la notte più nera preannunzia che, prima o poi, arriverà l'alba...o, almeno, così DOBBIAMO credere)
Una pianificazione così intesa per intervento dello Stato - che nei momenti di crisi può tradursi sia “… in una statizzazione, parziale o totale, dell’offerta” sia in una “…statizzazione della richiesta” [Atti della Commissione, cit., 278-279] - ma concepita fisiologicamente in via preventiva e normale con funzioni stabilizzanti di lungo periodo. Le ragioni sono evidenti:
RispondiElimina“… il mercato, lasciato completamente a se stesso, è, sì, indice dei valori, MA, POICHÉ DIETRO I VALORI CI SONO GLI UOMINI, IL MERCATO È INDICE DELLA FORZA ECONOMICA, CIOÈ DELLA CAPACITÀ DI ACQUISTO DEI VARI UOMINI. E quando coloro che hanno una capacità di acquisto inferiore a quella necessaria a soddisfare almeno i bisogni vitali divengono via via più numerosi, divengono addirittura la maggioranza, il conflitto fra interesse individuale, cioè fra interesse dei più forti, e interesse sociale è evidentissimo…. La pianificazione eliminerebbe il conflitto fra interesse individuale e interesse sociale, appunto perché lo Stato, predisponendo il piano, avrebbe di mira quella che potrebbe esser definita la scala sociale dei bisogni [Atti della Commissione, cit., 281].
Ecco l’art. 41 Cost. che, non a caso, C. Mortati considerava il cuore pulsante della Costituzione nella sua parte economica. D’altronde, la “sintesi” indicata da Quarantotto alla fine del capitolo non riassume forse nella sua evidenza proprio quanto voluto dai Costituenti in detta disposizione? (http://orizzonte48.blogspot.com/2018/01/la-grande-assente-e-la-pianificazione.html)
In armonia con quanto ancora, in proposito, sostenuto da Federico Caffè:
“Un vero quadro incisivo di politica economica non può che essere fornito che da alcune opzioni fondamentali le quali sembrano essere costituite:
a) dalla riaffermazione di un livello pressoché pieno di occupazione…indispensabile per legittimare il consenso e reagire, in forme non repressive, ai fenomeni asociali di conflittualità;
b) dal riconoscimento che il pieno impiego comporta non soltanto una politica di controllo pubblico della domanda globale, ma altresì di una politica di attenta amministrazione dell’offerta complessiva. Sul terreno dell’offerta …sia i fenomeni aberranti delle eccedenze da distruggere sia i fenomeni di carenze strutturali di lungo periodo…attestano con chiara evidenza i limiti e le insufficienze delle indicazioni fornite dal mercato…” [F. CAFFE’. In difesa del Welfare State – Saggi di politica economica, Torino, 2014, 151-152].
Spero di leggere presto la prossima fatica di Quarantotto :-)
E quindi dell'insieme montato di questi commenti, varrà la pena di fare un post :-)
EliminaGrazie. E non solo a mio nome.