1. UNA PAROLA DI SPERANZA. E DI RINASCITA.
Combattiamo un "nemico" implacabile che tenta da decenni di svuotare la Costituzione e la sua democrazia redistributiva. Diciamo da almeno 30 anni. Da 30 anni in un balletto in cui le parole d'ordine, come saprebbe chi avesse la pazienza e la cultura civile di fare un pò di "ricerche", sono sempre le stesse.
Per darvi un'idea di ciò, e per capire come il "treno" sia lanciato ormai a grande velocità, tanto che è un miracolo se stiamo ancora qui "a discuterne", vi riposto un brano di uno splendido post, "Le origini del debito pubblico italiano" tratto dal blog "L'Umanista":
"Per rendersi conto delle motivazioni squisitamente ideologiche dell’attacco alla spesa sociale degli anni Ottanta basta seguire l’iter d’approvazione della legge finanziaria per l’anno 1986.
Le linee guida dell’azione di governo venivano chiarite fin dal mese di settembre dell’85 da Giovanni Goria: la «strategia del rigore» avrebbe dovuto basarsi “essenzialmente su due parole d’ordine: privatizzazione di una parte dei servizi sociali e limitazione delle prestazioni assistenziali ad una fascia realmente bisognosa di cittadini” [20].
D’accordo ovviamente il Presidente del Consiglio Craxi, secondo il quale “il grosso dei sacrifici necessari per risanare la finanza pubblica” doveva “ricadere sulle spese più che sulle entrate” [17].
La chiara presa di posizione del Partito Repubblicano (PRI) era affidata a Giovanni Spadolini: “bisogna subito fare qualcosa per ridurre il deficit pubblico, agendo in misura omogenea e con equi sacrifici su tutte le spese correnti” [17].
Al fronte reazionario costituito dalle correnti liberiste della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista, dal Partito Repubblicano e dal Partito Liberale, si contrapponeva il fronte socialdemocratico costituito dalle correnti di sinistra del Partito Socialista e della Democrazia Cristiana e dal Partito Socialdemocratico.
Ma la corrente sociale (o populista, secondo i suoi detrattori) era sempre più isolata: oltre agli interessi di partito che dirottavano la spesa sempre più verso interessi clientelari, agli attacchi della destra italiana, si associavano con sempre maggiore insistenza quelli internazionali.
Il Fondo Monetario Internazionale per esempio che, in una visita lampo proprio nel settembre del 1985, non esitava a «bacchettare» il governo riguardo alla situazione dei conti pubblici italiani. La ricetta, ovviamente, era senza appello: mettere subito sotto controllo la spesa pubblica [21].
Ma anche la Comunità Economica Europea (CEE) per cui “l’unica strategia efficace per invertire la tendenza” del disavanzo pubblico era “decurtare almeno in percentuale del PIL il totale delle spese” che non fossero “produttive o sociali di prima priorità” [22].
Tuttavia la palma del migliore inventore spetta senza dubbio all’Organizzazione di Cooperazione e Sviluppo Economico (OCSE ): gli «esperti» dell’OCSE si impegnavano a trovare le statistiche più esotiche che dessero l’Italia ai primi posti (come la variazione relativa delle entrate fiscali tra il 1974 e il 1982), o ad aggiustare il gruppo dei paesi analizzati per far balzare l’Italia ai primi posti [23].
Tutto ciò non mancava di produrre grossi titoli sui giornali nostrani."
Le linee guida dell’azione di governo venivano chiarite fin dal mese di settembre dell’85 da Giovanni Goria: la «strategia del rigore» avrebbe dovuto basarsi “essenzialmente su due parole d’ordine: privatizzazione di una parte dei servizi sociali e limitazione delle prestazioni assistenziali ad una fascia realmente bisognosa di cittadini” [20].
D’accordo ovviamente il Presidente del Consiglio Craxi, secondo il quale “il grosso dei sacrifici necessari per risanare la finanza pubblica” doveva “ricadere sulle spese più che sulle entrate” [17].
La chiara presa di posizione del Partito Repubblicano (PRI) era affidata a Giovanni Spadolini: “bisogna subito fare qualcosa per ridurre il deficit pubblico, agendo in misura omogenea e con equi sacrifici su tutte le spese correnti” [17].
Al fronte reazionario costituito dalle correnti liberiste della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista, dal Partito Repubblicano e dal Partito Liberale, si contrapponeva il fronte socialdemocratico costituito dalle correnti di sinistra del Partito Socialista e della Democrazia Cristiana e dal Partito Socialdemocratico.
Ma la corrente sociale (o populista, secondo i suoi detrattori) era sempre più isolata: oltre agli interessi di partito che dirottavano la spesa sempre più verso interessi clientelari, agli attacchi della destra italiana, si associavano con sempre maggiore insistenza quelli internazionali.
Il Fondo Monetario Internazionale per esempio che, in una visita lampo proprio nel settembre del 1985, non esitava a «bacchettare» il governo riguardo alla situazione dei conti pubblici italiani. La ricetta, ovviamente, era senza appello: mettere subito sotto controllo la spesa pubblica [21].
Ma anche la Comunità Economica Europea (CEE) per cui “l’unica strategia efficace per invertire la tendenza” del disavanzo pubblico era “decurtare almeno in percentuale del PIL il totale delle spese” che non fossero “produttive o sociali di prima priorità” [22].
Tuttavia la palma del migliore inventore spetta senza dubbio all’Organizzazione di Cooperazione e Sviluppo Economico (OCSE ): gli «esperti» dell’OCSE si impegnavano a trovare le statistiche più esotiche che dessero l’Italia ai primi posti (come la variazione relativa delle entrate fiscali tra il 1974 e il 1982), o ad aggiustare il gruppo dei paesi analizzati per far balzare l’Italia ai primi posti [23].
Tutto ciò non mancava di produrre grossi titoli sui giornali nostrani."
La chicca finale del corto circuito tra le "classifiche" dell'OCSE e i titoloni dei "giornali nostrani" è tragicamente esilarante.
E la dice lunga su come i soliti noti, in un ribaltamento kafkiano della verità, tirino da sempre la volata allo stesso "sprinter", doppato dagli interessi reali positivi, redistributivi "al contrario".
Ma siccome il precedente post ha suscitato un grande sgomento (perdonatemi, l'angoscia era prima di tutto mia), e siamo sotto Natale, vi rassicuro: c'è speranza.
C'è speranza perchè punto sull'ipotesi frattalica, con tutti gli aggiornamenti che ho cercato di darvi..e che vi darò.
Forse è troppo poco, ma non è "così poco", considerato che vi parla di un riequilibrio della sproporzione di forze in campo ( :-)...), tra gli amanti della democrazia costituzionale del lavoro e "il fronte reazionario".
In fondo oltre a resistere da 30 anni, siamo scampati alla "profezia dei Maya", versione catastrofe, e quindi possiamo aderire alla sua versione "Rinascita di una nuova umanità".
Tanto per dire, non siamo soli.
Vi segnalo questa intervista del prof. Guarino, dove, tra l'altro, si dice ciò che qui (ve lo ri-linko anche sotto) è stato sostenuto (nell'articolo cui si rinviava), per primi. E cioè che non solo "bisogna prepararsi a uscire dall'euro" ma che "gravi violazioni dei trattati sono state commesse". E si ipotizza (come pure è stato sostenuto, in termini "italiani", in un articolo pubblicato circa un anno fa e di cui parleremo) un "nuovo euro" gestito politicamente da un governo democratico...lasciando soli gli amanti dell'attuale "più europa" a gestirsi austerità e dominio di bundesbank-deutschebank.
Forse l'illustre prof. Guarino ha captato qualcosa anche da queste pubblicazioni qui divulgate? C'è da augurarselo e comunque il "fronte della Liberazione democratica" si arricchisce di forze "consistenti".
2- UNA "VERSIONE" DEI FATTI "RIASSUNTIVA"...DELL'ARTIGLIERIA PESANTE
Per coloro (molti a quanto pare) che avessero gradito il post su "area euro, mercantilismo e violazioni dei trattati" (quello su "google e l'artiglieria pesante"), vi offro una versione ridotta e...più "maneggevole" (con note "incorporate"!), pubblicata sul Foro Italiano, novembre 2012, la più prestigiosa rivista italiana di diritto. La versione è a cura di:
LUCIANO BARRA CARACCIOLO - VITO POLI
"Imperialismo mercantilista
e violazioni del trattato Ue"
Per la teoria economica oggi prevalente, una banca centrale deve poter funzionare come Lender of last resort (Lolr). Ciò sia rispetto al sistema bancario che si riconosce in quella divisa (cioè comunque «residente» in quell’area valutaria), sia nella funzione, oggi controversa, di «tesoriere del governo» o, comunque, del centro di imputazione della politica fiscale ed economica della medesima area valutaria (D.M. NUTI, Scenari possibili dopo la crisi globale, 15 gennaio 2012, in <www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/1834>). Se ciò non accade, in una «moneta unica», si verifica che:
a) i tassi del debito pubblico, se emesso indipendentemente dai vari paesi aderenti alla medesima moneta (come per Eurolandia), inevitabilmente saliranno in modo rilevante e ineguale fra i medesimi paesi;
b) la divergenza dei tassi metterà in crisi la sostenibilità della moneta stessa, come strumento fiduciario di pagamento all’interno dell’area (c.d. moneta «fiat»);
c) mancando una autorità federale capace di operare trasferimenti fiscali a favore delle aree in deficit commerciale e di liquidità (come per Eurolandia), gli squilibri si aggraveranno nel tempo (le problematiche inevitabilmente legate alla «moneta unica», con la rinuncia agli strumenti di riequilibrio commerciale consentiti dai cambi flessibili, furono evidenziate in dettaglio, con riferimento al nascente mercato comune europeo, da J.E. MEADE, The balance of payments problems in a European Free Trade Area, in Economic Journal, vol. 67, n. 267, sept. 1957, nonché da R. MUNDELL, nello studio sulle «aree valutarie ottimali», Optimun Currency Area, Oca, che gli valse il premio Nobel).
In relazione all’intervento diretto della Bce (fermo il fatto giuridico-economico che, comunque, tale intervento, in forma di emissione di moneta per acquisti di titoli, non grava direttamente sul bilancio federale), i tedeschi invocano il timore dell’inflazione, che farebbe salire anche i tassi nominali del debito tedesco, svalutando il valore di bilancio (secondo il controverso criterio c.d. mark to market imposto dall’Eba a fine 2011), per i bund emessi in precedenza.
Ma l’inflazione, in relazione alle effettive dimensioni dell’intervento Bce, non costituirebbe il problema: è stato infatti calcolato che il Non Inflationary Loss Absorbing Capacity - Nilac della Bce è attualmente di oltre 3.300 miliardi di euro, W.H. BUITER, The Debt of Nations Revisited: The Central Bank as a quasi-fiscal player: theory and applications, 2011, Federico Caffè Lecture n. 2, facoltà di economia, università La Sapienza di Roma). Una banca centrale, poi, assicurando acquisti illimitati nell’ammontare e nel tempo, inibisce la speculazione sui titoli «protetti» e, anzi, permette alla banca centrale stessa di «fermarsi» a un volume di interventi di fatto limitato, realizzando anche plusvalenze sugli acquisti dei titoli emessi con rendimenti precedenti più alti.
In sostanza, l’attribuzione alla Bce delle funzioni di Lolr produrrebbe un impatto sui tassi dei bund, e quindi sulle «tasche» dei tedeschi, minore di quello causato dal rapido «bruciarsi» dei fondi impiegati negli interventi «tipo» Esm, che si prospettano, nella pratica, quasi inutili: qualsiasi garanzia «limitata» nell’ammontare non è attendibile agli occhi dei mercati, sortendo semmai l’effetto contrario di affrettare le vendite del titolo «sotto tensione».
Si ribalta così il luogo comune secondo cui la popolazione tedesca soffre di effetti restrittivi della domanda interna e, prima di tutto, delle dinamiche salariali, per colpa dei paesi «spendaccioni»!
Piuttosto la compressione della domanda interna e quindi del «tenore di vita» tedeschi è dovuto ad una politica economica nazionale, definibile come «imperialismo mercantilista» (S. CESARATTO, in Europe, German Mercantilism and the Current Crisis a cura di E. BRANCACCIO-G. FONTANA, Roma, 2011; J. HALEVI, Sul capitalismo tedesco, in Proteo, 2001, 3), in quanto tende, in una certa area — l’Europa, data appunto la presenza della moneta unica — ad «asservire» alla propria offerta la domanda del «vicino», che, inevitabilmente, ne risulta impoverito dopo una fase iniziale espansiva di «precolonizzazione» economica. Tale definizione della politica tedesca all’interno dell’area monetaria, è affermazione degli stessi esponenti tecnici della governance di quel paese (P. BOFINGER, economista, consigliere del governo di Berlino, del Fmi, dell’Ilo, in <http://vocidallagermania.blogspot.it/2012/09/bofinger-la-fine-delleuro-sarebbe-la.html#comment-form>), nonché della più prestigiosa dottrina economica europea (P. DE GRAUWE, In search of simmetry in the Eurozone, London, 2012).
Tale mercantilismo ha registrato in Europa il suo «picco» di espansione proprio con la moneta unica che consente, a differenza del cambio flessibile, di sfruttare vantaggiosamente il deliberato perseguimento di un differenziale favorevole di inflazione.
Ciò è stato indicato chiaramente da MUNDELL (cit.) nella sua teoria delle aree valutarie ottimali: in un’Oca, la deflazione competitiva conferisce un decisivo vantaggio sul lato dell’esportazione e rende meno conveniente l’importazione, contraddicendo lo spirito cooperativo insito nei trattati Ue.
Per competere deflazionando, lo strumento unico a disposizione di un paese appartenente a un’Oca è agire sul costo del lavoro. E a ciò hanno provveduto le riforme Hartz (intendendosi per tale il compendio delle riforme in materia salariale e di welfare praticate dal governo Schroeder che prende il nome dal ministro Peter Hartz, già direttore del personale della Volkswagen) che hanno ancor più compresso la domanda interna e ridotto la già bassa inflazione tedesca.
I tedeschi hanno tenuto così l’inflazione costantemente al di sotto del due per cento indicato come tasso di convergenza «cooperativo» nel trattato Uem, cioè un tasso su cui si dovrebbe esattamente convergere non solo deflazionando se si è oltre, ma anche «riflazionando» se se ne è al di sotto.
Ma anche adottando ora la stessa strategia della Germania, i problemi sono difficilmente superabili: la diminuzione dei salari reali può portare al «recupero» di competitività dei paesi in squilibrio commerciale solo a costo di dilaganti disoccupazione e deindustrializzazione, nonché dell’apertura ulteriore al controllo estero delle proprie imprese, proprio da parte dei paesi in attivo commerciale (i paesi euro-virtuosi). Si omette però di considerare che i c.d. «virtuosi» (che hanno perseguito un’inflazione sotto il target del due per cento) hanno:
a) preventivamente, e senza alcuna giustificazione, se non quella della competizione commerciale, aggiustato il tasso di cambio reale via deflazione salariale (-sei per cento in termini reali, per i salari dei lavoratori tedeschi nell’ultimo decennio), con la segnalata distorsione del mercato Uem («svalutazione competitiva» volta all’export e alla minor convenienza dell’importazione dai partners);
b) fiscalizzato i costi del loro sistema industriale, amplificando il proprio deficit pubblico oltre il limite sancito da Maastricht, nei primi anni di circolazione dell’euro, a causa della spesa pubblica originata dal welfare connesso a disoccupazione e sotto-occupazione;
c) incentivato la domanda dei loro prodotti mediante credito (privato) concesso dal loro stesso sistema bancario, inoculando la «droga» dei capitali prestati ai paesi periferici (per permettere a questi ultimi il consumo di importazione), con l’effetto anche di aumentare il livello di inflazione in tali ultimi paesi, a causa del forzoso aumento della domanda e dei consumi, amplificando ulteriormente i differenziali di tasso di cambio reale.
Sopraggiunta la crisi dei subprime: i) è caduta la domanda dei paesi periferici, scoperchiando il vaso di Pandora dei loro crescenti debiti privati ed esteri; ii) il persistere, in Germania, del minor tasso di inflazione (mantenuto sotto della media europea) ha ancor più ampliato il gap con i paesi «più deboli»: quindi un maggior Clup (costo del lavoro per unità di prodotto), corrispondente a minor competitività, per i c.d. Pigs, a vantaggio di tassi di interesse reali sempre più alti goduti dai paesi creditori.
Questi fattori stanno causando, nei Pigs, una forte deindustrializzazione, con la vanificazione (a causa dell’«effetto strozzatura» contemplato nella c.d. «condizione» di Marshall-Lerner), di ogni ipotetica riespansione della produzione (impianti progressivamente smantellati); mentre il loro sistema produttivo residuo precipita nello schema della c.d. «fabbrica cacciavite»: lavorazioni a minor valore aggiunto, non esigenti investimenti, progressivamente impossibili per la caduta della domanda e il credit crunch.
Questa evenienza incombe sull’Italia, anche per la originaria via italiana al «tentativo» di deflazione salariale, cioè il precariato «sotto-demansionante», che dissuade, ulteriormente, data la maggior convenienza industriale del lavoro sotto-qualificato e temporaneo, da investimenti in ricerca e sviluppo.
Bisogna dunque essere coscienti che, in esito al processo di riallineamento attualmente perseguito, si creerebbe, all’interno dell’Europa, una «specializzazione» produttiva e finanziaria tra: i) paesi centrali Uem, destinati a mantenere un più forte avanzo commerciale, perché nutrito di merci ad alto valore assoluto e aggiunto; ii) paesi «cacciavite», permanentemente indeboliti dalla maggiore esposizione concorrenziale extra-Uem, cioè da parte dei paesi emergenti.
La condotta tedesca soffre così della intrinseca contraddizione logica di aver prima imposto uno standard di competizione elusivo dello «spirito» cooperativo proprio di un’unione monetaria, e poi dell’imputare agli altri, attinti dagli effetti distorsivi di tale politica, responsabilità e misure di adeguamento che finiscono per minare sia la posizione dei debitori, sia la propria nella posizione di creditore (M. WOLFF, Chief economics commentator, in The Financial Times, 25 settembre 2012).
Peraltro, gli interventi di (limitata) liquidità «a carico» dei vari fondi Ue, attivati per salvare il paese debitore dal c.d. default, sono attualmente, per patto tra Stati membri, ripartiti per quote proporzionali tra tutti gli Stati stessi: la Germania eroga (per ordine di grandezza del Pil) la quota maggiore, anche se però «riceve» in successiva restituzione — del debito privato sottostante — una quota ben maggiore del volume complessivo del «proprio» intervento, ma non a livello pubblico, appunto a livello privato bancario.
I fondi in uscita per il «salvataggio» (gravanti su ogni cittadino, procapite, quanto gravano sul cittadino italiano o francese) sono corrisposti emettendo debito pubblico o garanzia equivalente: si ha un onere «avvertito» dai contribuenti, innestando però l’esigenza politica di incolpare il debitore privato greco (o Pigs) di questo «aggravio» fiscale, e non addossando in modo trasparente la responsabilità al proprio sistema bancario, irresponsabile prestatore.
2. - Si può dunque ipotizzare che la Germania, nell’attuare la descritta politica economica, abbia violato:
a) l’art. 107, § 1, ultima parte, Fue, in materia di «aiuti di Stato», laddove si ottenga (appunto «in qualsiasi forma») una riduzione dei costi delle proprie imprese, incidente sugli scambi tra paesi membri, nel caso, mediante una svalutazione del tasso di cambio reale, che provochi, appunto, un vantaggio concorrenziale asimmetrico «intenzionale» per le proprie esportazioni, e ancor più, «restringendo» le importazioni;
b) l’art. 107, § 3, cit., cioè il complesso delle clausole in tema di «legittimazione», in sede Ue, a ricorrere agli aiuti di Stato in funzione anticongiunturale e di tutela di interessi «sensibili»; la situazione attuale, tra l’altro, autorizzerebbe (se non ora quando?), tutti i paesi in strutturale deficit della bilancia dei pagamenti, con alti livelli di indebitamento privato/estero (e non pubblico!) — oltre la media per un periodo prolungato e significativo — a lanciare programmi di aiuto ai sensi dello stesso art. 107 cit., ma tali paesi non possono farlo in quanto il fiscal compact, come corpo di disposizioni speciali «euro-zona», impedisce deliberatamente l’adozione di misure essenziali in origine legittime secondo il trattato, vincolando le politiche fiscali alla autodistruzione dei rispettivi sistemi industriali e alla cristallizzazione degli squilibri di area (altrimenti doverosamente compensabili);
c) l’art. 34 Fue, che vieta «... tra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione nonché qualsiasi misura di effetto equivalente» (tale essendo la deflazione salariale al fine di deprezzare il tasso di cambio reale, giustificata solo da fini di competizione mercantilistica);
d) l’art. 121 Fue, che obbliga gli Stati a «coordinare le politiche economiche per realizzare gli obiettivi dell’art. 3 del trattato sull’Unione europea», tra cui appunto la «piena occupazione»;
e) l’art. 127 Fue, che vincola la politica monetaria, oltre che alla «stabilità dei prezzi», anche al sostegno di «politiche economiche generali nell’Unione al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione definiti nell’art. 3 del trattato sull’Unione europea»; quest’ultimo aspetto è «singolare», perché, pur gettando una luce alquanto diversa sui presunti limiti di intervento della Bce, e più ampiamente del Sebc (cioè del sistema europeo delle banche centrali), il mandato di tali (uniche) istituzioni Uem è stato finora inteso in contraddizione con la esplicita lettera dell’art. 127 cit., rimanendo ignorato il richiamo agli obiettivi dell’art. 3 Ue, e, in particolare, a quello della «piena occupazione» (come se tali parole, nell’art. 127 stesso, non fossero affatto scritte).
La violazione dell’obbligo generale di prestare il necessario «spirito» cooperativo innervante un’unione monetaria, ha un particolare connotato lesivo proprio nei confronti dell’Italia, maggiormente colpita dalla impostazione «mercantilista», aspetto di cui il governo tedesco era cosciente fin dal concepimento della moneta unica (nelle parole dell’ex cancelliere tedesco Helmut Kohl, che si adoperò con tutte le sue forze affinché l’Italia entrasse nel primo gruppo dei paesi aderenti all’euro: «un’Italia fuori dall’euro farebbe una concorrenza rovinosa all’industria tedesca. L’Italia deve quindi essere subito parte dell’euro, alle stesse condizioni degli altri partner»).
La politica della Germania pare dunque essere fuoriuscita dalla «giustificazione causale» dell’intera pattuizione Uem, negando unilateralmente la funzione «socio-economica» del trattato: sul piano negoziale ciò equivale alla violazione del dovere di adempimento secondo «buona fede» in senso oggettivo, esprimendosi la «correttezza» nell’onere di sostenere un ragionevole sacrificio per rispettare il normale significato che le controparti potevano attribuire ai vincoli comunemente assunti.
Anche le istituzioni Ue non vanno esenti da una «imprecisa» e omissiva applicazione dei trattati.
Ciò può desumersi dall’oggettivo contenuto di una serie di disposizioni dei trattati medesimi, interpretate correttamente e, soprattutto, nella piena espansione delle clausole in esse contenute: ad es., l’art. 5 Fue per cui «1. Gli Stati membri coordinano le loro politiche economiche nell’ambito dell’Unione. A tal fine il consiglio adotta delle misure, in particolare gli indirizzi di massima per dette politiche. Agli Stati membri la cui moneta è l’euro si applicano disposizioni specifiche (ancor più stringenti e ancor più ignorate, n.d.r.). 2. L’Unione prende misure per assicurare il coordinamento delle politiche occupazionali degli Stati membri, in particolare definendo gli orientamenti per dette politiche. 3. L’Unione può prendere iniziative per assicurare il coordinamento delle politiche sociali degli Stati membri».
Queste misure e iniziative per coordinare politiche economiche, occupazionali e sociali, a fronte del conclamato atteggiamento, tenuto dalla Germania, di unilaterale alterazione degli equilibri, già di per sé estremamente difficili da raggiungere, non risultano nei fatti mai attivate (secondo J. Attali «Era evidente, e tutti coloro che hanno partecipato a questa storia lo sanno, che quando abbiamo fatto l’euro, sapevamo che sarebbe scomparso entro dieci anni senza un federalismo buggettario. Vale a dire con eurobond, ma anche con una tassa europea, e il controllo del deficit. Noi lo sapevamo. Perché la storia lo dimostra. Perché non c’è nessuna zona monetaria che sopravviva senza un governo federale ... Tutti sapevamo che questa crisi sarebbe arrivata»).
Focalizzandosi sulle politiche europee dell’occupazione, gli art. 145-148 Fue risultavano già violati, fin dai primi anni 2000, segnatamente, dalla riforma Hartz. La commissione è anche venuta meno ai criteri di monitoraggio e coordinamento dell’art. 147, per cui doveva «tenere conto» dell’«obiettivo di un livello di occupazione elevata», cioè nel quadro dell’art. 3, § 3, Ue, che pone l’obiettivo della «piena occupazione» ed è dunque strutturalmente incompatibile con politiche nazionali il cui effetto si risolva nella deflazione salariale non necessitata in base a congiunture internazionali. Risulta perciò «dimenticata», rispetto alla linea tenuta dalla Germania all’interno dell’area Uem, anche l’attivazione, da parte della commissione, dei meccanismi di accertamento e avvertimento previsti dall’art. 121, § 4, Fue, elemento su cui si registra, ora, l’«ammissione» persino del commissario Ue alle politiche sociali, Làszlò Andor.
3. - A questo punto la prospettiva dell’uscita dall’euro e dal suo inestricabile sovrapporsi di politiche generatrici di squilibrio economico, può assumere varie qualificazioni giuridiche: anzitutto, l’alterazione del modo di intendere la lettera e la portata «funzionali» delle norme dei trattati Ue e Fue «resecandone» il disposto in modo da avvantaggiare unilateralmente una parte del trattato, risulta addirittura ultra vires rispetto alle competenze dell’organizzazione sovranazionale, rendendo fortemente dubbia tutta la legittimità comunitaria di successive pattuizioni (ad es. il c.d. fiscal compact), che non risultano più avere un adeguato e sufficiente antecedente convenzionale.
Circa le previsioni di «uscita», si richiama talvolta l’art. 50 Ue, che prevede una procedura di uscita dall’Unione che non pare però attagliarsi al caso della cessazione dello specifico vincolo riferito all’euro. Infatti, si tratta di una norma «speciale», non in quanto contenuta in un trattato (cioè nel diritto internazionale «speciale»), ma per la sua particolare «onerosità» procedimentale e politica.
Si tratta, cioè, della decisione volontaria di uno Stato, politicamente discrezionale (libera nei «motivi» e nei «fini»), entro i limiti del rispetto della procedura. Peraltro nella procedura stessa sono previsti meccanismi di deterrenza e una parziale sindacabilità della scelta. La finalità «riflessiva» e la distillazione di tempi e adempimenti, peraltro, costituisce dunque la vera «specialità» dell’art. 50, essendo invece l’ipotesi di recesso volontario tout court corrispondente alla prassi prevalente (salvi opportuni tempi di preavviso), specie se si tratti di convenzioni internazionali ad ampio «impatto», in ragione della vastità e incidenza dell’oggetto e dell’intenso vincolo politico che implicano, prolungato in un arco di tempo praticamente «illimitato».
Lo specifico oggetto-procedura dell’art. 50 cit. escluderebbe perciò la sua applicabilità, in via analogica, al caso del recesso «meramente volontario» dalla sola unione monetaria. Tale uscita va più propriamente ricondotta alle norme generali del diritto internazionale anche sotto ulteriori profili.
Tra questi ultimi rilevano (nella prassi internazionale consolidata) le norme della convenzione di Vienna in materia di diritto dei trattati, conclusa nella cornice Onu: si tratta di una codificazione (sia ricognitiva della prevalente consuetudine sia fondativa di un nuovo diritto consuetudinario), che disciplina tutte le fonti pattizie e che si applica, perciò, a tutti i trattati compreso quello Uem, sebbene la cosa sia complicata dal fatto che quest’ultimo contiene anche norme non riguardanti l’unione monetaria in senso stretto e che, comunque, risulta poi inglobato nel trattato «sul funzionamento».
Il principio, è che denuncia o recesso — non dovuti a comportamenti illegittimi di altri contraenti, ovvero a cause sopravvenute di disfunzionalità ed eccessiva onerosità — sono possibili allorché previsti, anche implicitamente, dallo stesso trattato considerato.
Sull’individuazione di una volontà implicita di «risolubilità» del vincolo della moneta unica non influisce, per definizione, la mancanza di previsione «espressa», rendendosi solo più difficile il percorso emerneutico; la «difficoltà», per altro, fu «ricercata» dalla commissione «Attali», il che non preclude di superarla (lo stesso Attali affermò: «Abbiamo minuziosamente ‘dimenticato’ di includere l’articolo per uscire da Maastricht ... tra coloro, e io ho il privilegio di averne fatto parte, che hanno partecipato alla stesura delle prime bozze del trattato di Maastricht, ci siamo incoraggiati a fare in modo che uscirne ... fosse impossibile. Abbiamo attentamente ‘dimenticato’ di scrivere l’articolo che permetta di uscirne. Non è stato molto democratico, naturalmente, ma è stata un’ottima garanzia per rendere le cose più difficili, per costringerci ad andare avanti».
L’art. 50 cit. conferma semmai che, al di là della specialità derivante dalla sua peculiare procedura, i trattati Ue contemplano implicitamente (come prevede in materia la convenzione di Vienna), in forza di oggettivi fatti concludenti, cioè per la loro natura di convenzioni ad ampio oggetto e senza termine finale, la normale ipotesi di una volontà negoziale nel senso dell’estinguibilità per recesso-denunzia «anche» del trattato Uem, cioè dell’insieme delle relative disposizioni, scorporabili dal corpo più ampio dei trattati Ue.
Tale precisazione, inoltre, non esclude la ricorrenza delle altre cause generali di estinzione, ex parte, previste dalla convenzione di Vienna medesima: «l’inadempimento della controparte» (art. 60, principio inadimplenti non est adimplendum) e la sopravvenuta impossibilità dell’esecuzione (art. 61, principio rebus sic stantibus).
A fronte del quadro di alterazioni «rimarchevoli» dello spirito e della lettera di fondamentali clausole del trattato, quale sopra evidenziato, queste ultime due cause di estinzione volontaria appaiono utilizzabili da parte dello Stato italiano, una volta che l’interesse che giustifica l’originaria adesione al trattato stesso, fosse correttamente riferito alla tutela della comunità statale che ha originariamente espresso la sua adesione.
Tale interesse ha un fondamento inevitabilmente comune a tutti gli Stati-membri, dunque valevole come «condizione» essenziale (paritaria) per l’adesione, consistendo per necessità logico-costituzionale nella promozione del «benessere» dei cittadini che in quel soggetto aderente si riconoscono.
Da ciò si può trarre la ragionevole deduzione che la stessa manifesta violazione delle condizioni di parità «di interesse sostanziale» tra Stati (e rispettivi cittadini soggetti alle conseguenze politiche economiche del trattato) integri di per sé l’«eccessiva onerosità» che giustifica l’invocazione della clausola rebus sic stantibus.
Va in proposito rammentato che l’art. 11 Cost., seconda parte, afferma che l’Italia «consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».
Alla luce delle prescrizioni cogenti della Costituzione italiana e della «causa naturale» della partecipazione «europea», la denunzia del trattato appare una misura attuativa della previsione costituzionale, allorquando: i) un trattato venga applicato senza condizioni di parità effettiva fra le parti in conseguenza dell’affermarsi unilaterale di un’interpretazione «inattesa» (secondo il metro della buona fede in senso oggettivo), ovvero addirittura dolosa, delle clausole del trattato; ii) i contegni univocamente assunti da altri partners (violativi o elusivi di principî e obiettivi fondamentali della convenzione), dimostrino come le essenziali condizioni (di parità e perseguimento omogeneo del benessere dei cittadini), siano divenute non più avverabili a costi ragionevoli, nonché coerenti con un quadro correttamente cooperativo («causa» generale «tipica» di tale tipo di trattati)."
3- UN SALUTO DI AUGURIO PER UN NUOVO ANNO DI RISCOSSA DELL'UMANESIMO COSTITUZIONALE E...SOVRANO
Per alcuni giorni mi assenterò. Vado a fare cose che spero siano "utili" e interessanti.
Ma nel frattempo vi lascio in buone mani. Perchè a occuparsi del blog, per qualche giorno, ci sarà Umanesimo48, che voi già conoscete come seconda preziosa "tastiera" che produce post qui pubblicati.
Se qualcuno invierà post da pubblicare, nella sua creatività di collettivo e di Costituente "dal basso" che caratterizza questo blog, le cose continueranno, in mia assenza, per qualche giorno. Sempre con la collaborazione della grande Sil-viar. Insomma, l'invio di "vostri" post è più aperto che mai. E quelli già inviati li "lavorerò" presto o lo farà Umanesimo.
Al ritorno, nel nuovo anno, nuove iniziative e nuove prospettive di "sustained action" ci attendono. E con Sandra Moro rimessa alla grande (un abbraccio: ci contiamo su di te! Smack!).
A tutti voi un ringraziamento sincero e un pronti alla riscossa. Tanto Gian Luca Menti, Mauro Poggi, Bauduin, "C.", Sofia, Carlo P., hanno già iniziato a "mettere carne al fuoco" della democrazia costituzionale...e sovrana. E mi sa che molti altri seguiranno
A PRESTO!
A latere (di più non oso), mi spiace smentirti, 48, ma la fine del mondo c'è stata: si tratta del nostro mondo, e i discendenti dei Maya (che non sono scomparsi, semmai sono stati emarginati per secoli)ce lo hanno ricordato proprio il 21/XII:
RispondiEliminahttp://chiapasbg.wordpress.com/
Buon Natale a tutti gli affezionati del Blog.
RispondiEliminaGrazie per l'incoraggiamento, non mi sono proprio rimessa , ma sono a casa e questo è già molto:)
A presto
Auguro a 48, a tutti i lettori e ai collaboratori attivi di questo blog Buone Feste. Devo recuperare la lettura di molti post, conto di farlo a breve. Per il momento, di nuovo, Buone Feste
RispondiEliminaun piccolo appunto.. ma si cita il ciclo di Frenkel?
RispondiEliminapenso sia più comodo (oltre ai vari riferimenti) avere chiara una cosa: è sempre così quando si fanno le cose così!
una piccola nota polemica sulla divergenza dei tassi di inflazione ovvero la non divergenza: ma siamo sicuri che i dati forniti siano corretti? perché se noi barassimo in difetto e loro in eccesso avremmo differenziali accumulati nettamente maggiori!
faccio un esempio: è umanamente concepibile che nel 2002 l'inflazione in Italia sia stata sul 2%?
ma non ci credo nemmeno se me lo mostrate (scherzo!)!!!!!!!
In effetti è descritto il ciclo di Frenkel, perché è quello che è accaduto grazie alla Germania, e non si può dire sia molto da "Unione", e sarebbe non ammesso dall'art.11 Costituzione.
EliminaTHINK TANK & TINA? .... NO THANKS & HAPPY NEW YEAR!!
RispondiEliminaNel 1961, R Mundell, "reaganomics" per gli amici, ideò la teoria delle "aree valutarie ottimali" (AVO o OCA che dir si voglia) per "mitigare" le variazioni dei cambi, consentire il "movimento" dei capitali, "liberare" i mercati a patto che fosse realizzata con l' "indipendenza" delle politiche monetarie dalle politiche economice e fiscali dei governi nazionali.
Nel 1989, J Williamson scrisse il "decalogo" del Washington Consensus, adottato da tutte le istituzioni finanziarie internazionjali, FMI, BIRC, IAD, BCE e "troike" varie, un "pacchetto" standard di misure da applicare alle nazioni in difficoltà economiche.
(i bugiardini sono su wiki, io ho solo 1500 "battute" come la moder"azione" mi ricorda)
L'ideale della federazione europea voluta si è cementato solidamente in un "unione" a "presa rapida" della teoria della moneta unica che, senza i pre-requisiti iniziali, sono rapidamente divenuti VINCOLI ESTERNI e CONDIZIONALITA' AUTOMATICHE del decalogo.
Per certo, "il giorno che l'avrebbero ammazzata ..." gli Altiero Spinelli, gli Ernesto Rossi, i Robert Schuman, i Jean Monnet, gli Alcide De Gasperi, i Konrad Adenauer, Jacques Delors, per ricordarne alcuni dei padri nobili, avevano un idea un poco diversa di DEMOCRAZIA e di FEDERAZIONE DI STATI, liberi, pacifici, solidali, sussidiari.
Avevano chiara in mente la differenza tra EUROPA e EURO.
That's all, folks!