martedì 2 giugno 2015

MONDIALISMO DELLA DOPPIA VERITA', LA DIALETTICA COSMETICA E L'ILLUSIONE DELLA GLOBALIZZAZIONE ("buona").



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http://www.voltairenet.org/article187426.html
Questo scritto di Bazaar "pare" essere attinente alla sfera del filosofico: ma, come non sfuggirà ai più attenti lettori, non lo è affatto. Piuttosto è molto politico, operativo, cioè di rinvio ad una "prassi" oggi più che attuale che mai.
Lo smascheramento del (vero significato del) linguaggio delle elites liberal-mondialiste è in realtà un compito preliminare fondamentale. Senza questo smascheramento non sarebbe possibile comprendere, attraverso un processo riduzionistico dei concetti comunemente usati (da media e "potere"), la natura e gli scopi "antropologici" del mondialismo (id est; della sua forma oggettivata, per renderla apparentemente inoffensiva, della "globalizzazione").
Se non si compie questo lavoro linguistico e concettuale, quindi, si rimane invariabilmente prigionieri della "dialettica cosmetica", che illude abilmente i progressisti "sociali" (i pochi rimasti); il loro destino è di rimanere in preda alla esile convinzione che la loro stessa presenza - non dico la loro "cultura"- sarà tollerata, giunti a un certo grado di realizzazione del governo "mondiale". Quest'ultimo, inevitabilmente e rigorosamente "tirannico", nella teorizzazione (verità esoterica) di chi lo propugna, prevede già di realizzarsi con la progressiva eliminazione (fisica; con qualunque mezzo strategico) di chi sia dotato di conoscenze non rudimentali e non sia perciò immediatamente riducibile alla sterminata platea dei "poveri" o neo-schiavi".
Di conseguenza, aggiungiamo all'analisi del post, è essenziale, per i mondialisti che governano, in indisturbato monopolio, il processo della globalizzazione, - simulando, per gli ingenui, che possa esservi la presenza di più essenze alternative all'interno di essa - proseguire la loro strategia di "riforme" destrutturanti dall'interno l'ostacolo costituito comunque dagli Stati nazionali.
Il risultato di queste strategie "riformistiche", persino quando presentate come volte alla "protezione sociale" (il caso principale è quello del reddito di cittadinanza, in presenza di un incontestato mercato del lavoro-merce), è la progressiva estinzione di ogni traccia della cultura critica diffusa: eliminandosi ogni Resistenza derivante dalle passate politiche (culturali e della istruzione pubblica ) degli Stati sociali democratici, si rende definitivamente accettata solo la "neo-lingua" essoterica del mondialismo. E si deve, quanto prima, neutralizzare definitivamente chiunque sia ancora in grado di riconoscere la "doppia verità".
A questo punto è giunta la vicenda umana del XXI secolo: sta a voi tutti ascoltare il "suono della campana" e difendervi, ri-diffondendo il pensiero critico democratico. O non ascoltarla...e perire schiavi.
1 – Introduzione: comunicazione, interlocutori e strumenti cognitivi.
Questa vuole essere una semplice riflessione, non direttamente collegata ai fatti contingenti – già ben approfonditi in questi spazi – ma che nasce dall'idea che solo comprendendo la radice profonda di un fenomeno sociale si possa in qualche modo modificarne l'evoluzione.
Cosa voglio dire?
Che compro ciò che commenta questo utente in calce al brillante articolo di Lameduck sulla nauseante propaganda a sostegno – de facto – della dittatura finanziaria: « il vero problema è capire perché non si vergognano, una volta compreso quel punto avremo trovato la soluzione. »[1]
Credo, quindi, che per comprendere la disfunzionalità prodotta dal conflitto distributivo, la filosofia morale e certi strumenti dialettici adatti alla speculazione filosofica, aiutino nel percorso cognitivo di chi partecipa al dibattito politico.
Cognizione ed ermeneutica sono due concetti distinti ma, in qualche modo, collegati e, credo, indispensabili per trattare sistemi complessi come quelli sociopolitici.
Mi limito a constatare quell'esigenza che spinge alcune persone a non accettare quella sensazione di  quel qualcosa che non quaglia”, quella sensazione di fastidio che “si sente” percependo un pensiero, o la stessa persona che lo espone, come falso. Pensiero più o meno palesemente contraddittorio con la logica, l'esperienza e la propria cultura.
Quando questa sensazione frustrante e, per certi versi – mi capite! – “delirante”, raggiunge la quasi totalità dei dibattiti sull'attualità, qualcosa di inquietante sta, per l'ennesima volta, minacciando il diritto ad un'esistenza libera e dignitosa. 
(Riflessioni alla “Winston Smith” che difficilmente possono trovare spazio – e utilità – su Twitter...)
Ma perché qualcuno accetta il principio di non contraddizione, mentre la stragrande maggioranza accetta la disintegrazione di qualsiasi possibilità di logica? Come mai gli oppressi in piena sindrome di Stoccolma, messi di fronte all'evidenza, perpetuano la propria personalissima “visione della realtà” disgiunta da qualsiasi logica fattuale, apparentemente contro qualsiasi tipo di istinto alla sopravvivenza?
Come è possibile, semplicemente, comunicare e iniziare un processo dialettico con chi non ha chiaro che che se 2 + 2 = 4, allora, 2 + 2 non può essere uguale anche a 5? (Sì, certo, in base 10...)
Innanzitutto, spiegare l'aritmetica e quantificare la menzogna, è un punto imprescindibile: la scienza è lo strumento più importante per conoscere: conoscenza che si ritiene corretta e veritiera nel momento in cui la teoria è strumentale alla prassi.
Poiché le dinamiche storiche tendono a coincidere con le dinamiche del potere economico, l'Economia diventa la regina delle scienze sociali: se a teoria deve corrispondere prassi, e l'esperienza-risultato non coincide con quella da ipotesi teorica, o è sbagliato il paradigma teorico, o la prassi segue obiettivi diversi da quelli dichiarati in pubblico.
Esiste anche un caso ancor più inquietante: la prassi segue obiettivi diversi da quelli dichiarati in pubblico (ovvero è antidemocratica), dati e interpretazioni dei dati sono colposamente e dolosamente manipolati e – sorpresa! – il paradigma economico dominante fonda le proprie premesse epistemologiche su un'etica assolutamente scorrelata dall'ethos della comunità sociale di riferimento.
Se l'etica su cui si fondano le premesse epistemologiche di un paradigma di una scienza sociale non è conforme a quella del sistema di valori sociali di riferimento, è necessario che, dato il conflitto dell'interesse particolare con quello generale, il sistema di valori dominante venga messo in discussione, attaccato e destabilizzato: da una parte l'opinione pubblica deve essere coartata ad accettare un'etica irrazionale e disfunzionale al benessere collettivo (della maggioranza), dall'altra gli obiettivi ultimi di questo paradigma economico, sociale e, in ultimo, politico, non possono essere enunciati chiaramente.
Chi non accetta “l'aritmetica” e, in generale, gli elementi base della logica e della dialettica, non è, per definizione, un interlocutore: o vive nel comodo mondo dei pavidi e degli individualisti, oppure è dotato di pensiero esoterico per cui ciò che è irrazionale può essere reale. (Per quest'ultimo caso rivolgersi a mia moglie...)
Chi, invece, può contribuire alla cultura e alla coscienza condivisa, ovvero chi usa con razionalità le proprie facoltà cognitive, può avere la necessità di doversi dotare degli strumenti necessari per la dialettica: ovvero quel processo di astrazione logico-analitica necessario per l'analisi del reale e atto ad essere oggettivabile e comunicabile tramite dialogo. Possiamo definire, quindi, il pensiero come “dialogo con se stessi”, ovvero “riflessione”; una discussione basata sulla dialettica permette la condivisione, la moltiplicazione, e la socializzazione della conoscenza: si produce cultura.
Se, ad esempio, lo studio della contabilità nazionale fornisce quell'insieme di concettualizzazioni empiriche e simboliche per la conoscenza dell'Economia, posando con forza i piedi sul solido terreno della quantità, arduo rimane trovare quelle concettualizzazioni simboliche ed empiriche che permettano di analizzare – con un coerente sistema dialettico – l'aspetto qualitativo.
L'etica non si può misurare. Come non si può misurare l'estetica.
Ma ci sono rapporti tra etica e regno delle quantità? C'è un rapporto tra l'estetica e la scienza?
Non mi aspetto di rispondere a queste domande, riservate al mondo dell'Accademia, delle cattedrali, in cui “la musica viene suonata sul serio”.
I beni pubblici come la conoscenza o gli strumenti per ottenerla, però, possono essere prodotti e condivisi con un sistema in cui credo molto: quello a bazar, apparentemente confusionario, in cui, però, una sorprendente logica organizzativa nasce da quel caos di “voci e musiche strimpellate.
Un po' come il jazz: dall'apparente – improvvisata – confusione, nasce qualcosa di coerente e impressionante.
Cercare la razionalità nell'irrazionalità dovrebbe significare cercare l'ordine nel disordine, contrapporre Apollo a Dioniso.
Mentre nella dinamiche interne della persona umana lascio ad altre riflessioni quale giusto rapporto assegnare a queste due forze, l'ordine sociale – per definizione – in quanto razionalizzazione delle relazioni che edificano la comunità sociale, ha radice apollinea.
L'Ordine di una comunità sociale è normato dal Diritto, fondato sul concetto di Giustizia intesa, almeno stando con Kelsen, come uguaglianza ed equità: la fonte moderna di questa eguaglianza ed equità si trova nel dettato costituzionale.
Poiché  abbiamo appena accennato che l'economia è regina delle scienze sociali in quanto “motore della Storia”, e per cui il potere economico è principe, è necessario che il principio primo su cui si fonda l'ordinamento, ovvero la forma di governo, cioè la modalità di gestione del potere sovrano, sia informato ad un modello socioeconomico che ne concretizzi l'effettività.
Il paradigma economico che materialmente regola una comunità sociale ne determina  tanto i principali tratti della forma di governo quanto il rapporto tra gruppi e classi.
Nell'accezione stessa di Giustizia troviamo la doppia valenza di potere di realizzare il Diritto (potestas), sia quella di virtù eminentemente sociale: se « giusto non è altro che l'utile del più forte », ricordando Trasimaco e Platone, allora possiamo riconoscere che l'etica non è altro che la vision stessa dell'ordine sociale, in cui il disordine del kratos dionisiaco trova contrapposto l'ordine dell'arché apollineo: la Costituzione. La dialettica conflittuale viene ricondotta all'Uno.
La filosofia morale in politica cessa di essere speculazione meramente teoretica, e diventa volontà condivisa per cui, se è vero che “giusto non è altro che l'utile del più forte”, ovvero “del più potente”, è interesse collettivo che la forza, ovvero il potere, venga “democraticamente” distribuito. Pena la tirannide.
Diritto ed economia – ovvero le scienze alla base dell'ordine sociale stesso – sono espressione di compromessi etici, e, per sua natura, l'etica non è di per sé quantificabile.
Giustizia”, come nella morale dei promotori della Shoah, può significare il rifiuto stesso della coesistenza sociale: se è l'ethos, quindi, a temperare la ruvidezza della Storia, allora possono essere fondamentali strumenti concettuali e simbolici che permettano quella dialettica del potere che viene chiamata Politica.
Bene, queste riflessioni hanno la velleità di fornire strumenti cognitivi in funzione della prassi.
 https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjvU-sswa_AsoZTrHaTIZtP8VFYx3taF3jDv33XjWOVFEvFnO2CDkAi668lDKcQseXndPB2FoIEwfecBUycEAEdBDU0lz4EFUnLrLJXzZGvSnQjTQOgPL1OPsihc7KyMwqpu9aBHZymhOs1/s1600/mondialisti3.JPG
2 – Ermeneutica e “doppia verità”.
« Uno non solo desidera essere compreso quando scrive; desidera allo stesso modo non essere compreso », Friedrich Nietzsche, La Gaia Scienza

Il rapporto tra ermeneutica, “bis-linguaggio doppio veritiero”, metanarrativa fatta di giochi linguistici e, in ultimo, ciò che Orwell definì neolingua, è evidente. La prima è un pilastro di resistenza agli altri.
Un esempio, praticato su un must del moralismo neoliberalista e della sua retorica della responsabilità, viene così impostato dal filosofo Leo Strauss: « la parola “responsabilità” per come oggi è comunemente usata, […] è un neologismo. Credo che sia la sostituzione alla moda di “dovere”, “coscienza” o “virtù”. Diciamo frequentemente che una persona è responsabile, quando le generazioni precedenti avrebbero detto che è solo un uomo, un uomo coscienzioso o un uomo virtuoso.
All'inizio, si definiva “responsabile” una persona che deve rendere conto delle proprie azioni -  per esempio, per un omicidio. Essere responsabile, quindi, non significava essere virtuoso, che è meramente una delle condizioni possibili tra l'essere virtuoso e vizioso. Scambiando la responsabilità per virtù, siamo quindi molto più facilmente soddisfatti rispetto ai nostri padri, o, forse più precisamente, supponiamo che, ad essere una persona responsabile, sia già virtuoso in sé, o, che nessun uomo vizioso è responsabile dei propri vizi.»[2] 
Questo divorzio tra significante e significato, secondo Strauss, sarebbe da addebitare alla maggior “political correctness” e al mondo degli affari, liberale, che pervade la cultura moderna.
La forza dell'ermeneutica.
Leo Strauss, infatti, distinguendo i Grandi Pensatori dai Professori, propone che i veri grandi filosofi abbiano generalmente comunicato il loro pensiero in modo esoterico, in modo che i contenuti più intellettualmente interessanti, magari scabrosi, rivoluzionari e socio-politicamente inaccettabili, venissero riservati a pochi iniziati.
Ciò che hanno lasciato scritto, quindi, è tipicamente interpretabile a diversi livelli di profondità, vengono usati l'ironia, il paradosso ed oscuri riferimenti se non, addirittura, deliberate contraddizioni.
Questo dovrebbe essere uno strumento che ha permesso, e permette, ai grandi pensatori di difendere la propria libertà di pensiero nelle condizioni più o meno esplicitamente oppressive della Storia.
Al grande pubblico veniva riservata la comunicazione essoterica, mangime in cui far grufolare i vari  “piddofederalisti” della Storia.            
Il messaggio che lascia passare potrebbe essere riassunto in:
1 – ci sono cose che non si possono dire;
2 – il presupposto del punto precedente è che la politica ha per sua natura un profilo amorale e “indicibile”, in funzione del luogo e del tempo storico;
3 – le sovrastrutture etiche sono concepite e “suggerite” dai filosofi/profeti;
4 – i grandi pensatori non divulgano alla massa appiattendo il loro pensiero:  la complessità delle loro opere è, in primis, fondata sul concetto socratico di “maieutica” in favore di coloro che hanno fortuna ed interesse ad essere “iniziati”.                

3 – Conservatori progressisti e progressisti conservatori?
« The word “Liberal” always have had a political meaning, is almost opposite to it's present political meaning »
 Leo Strauss, “Liberalism, Ancient and Modern”, 1968
Leo Strauss, allievo di Carl Schmitt e a lungo insegnante di filosofia politica alla mitica Università di Chicago (la “holding della Bocconi”), rimane uno dei maggiori simboli dell'estrema destra conservatrice americana, tanto che lo straussianism è stato indicato come la maggior corrente di pensiero influente nelle bellicose amministrazioni Bush: i neo-conservatori vengono anche chiamati “Leo-cons”.
La tesi è che i grandi intellettuali reazionari possano fornire eccellenti strumenti cognitivi anche per chi è orientato verso la progressività sociale, e che sia poi un problema esistenziale di valori umani la finalizzazione delle doti culturali.
La reticenza e la “doppia verità” sono ipotesi che rendono particolarmente interessante la precedente tesi, quindi si ritiene che l'interesse filologico debba essere parimenti orientato tanto verso i grandi autori progressisti quanto verso quelli conservatori.
Bene: Strauss fu amico storico di Alexandre Kojève, filosofo hegeliano e fervente stalinista che si prodigò per il progetto europeista mentre ricopriva incarichi nel governo francese del dopoguerra come ministro dell'economia. Similmente ad Hegel con lo Stato liberale, e come farà in seguito il neo-conservatore Fukujama con la fine della guerra fredda, Kojève argomentava circa “la fine della Storia”. (Che, stando similmente con Hegel e Strauss, corrisponderebbe pure alla fine della filosofia).
Se la fine della Storia nell'utopia marxiana sarebbe dovuta consistere nella fine del capitalismo con la palingenesi della rivoluzione comunista, per Kojève, come per Fukujama, la fine della Storia si sarebbe realizzata con la globalizzazione neo-liberale. Che siano “libertari repubblicani” (de derecha, conservatori) o “liberali democratici” (de izquierda, progressisti), a morale è sempre questa, la fine della Storia sarà col superstato mondialista.
Di cui, ovviamente, l'Unione Europea è uno dei massimi caposaldi.
Ma cosa risponde l'amico Strauss al mondial-europeista Kojève, argomentando diffusamente[3]? « Un unico Stato universale ed omogeneo[4] potrebbe essere esclusivamente una tirannia ».
Una TIRANNIA.

4 – Strauss e la scrittura reticente.
Ora, si potrà discutere sul sistema di valori che spinge un conservatore ad essere tale, ma, evidentemente, la “doppia verità”, se dovesse sempre esserci, pare si manifesti in modo “asincrono” rispetto alla vulgata liberale: insomma, nel caso, è funzionale a ciò che si vuol dimostrare come dialettica cosmetica tra liberali e conservatori.
http://www.nilalienum.it/images/CodiciIIN.jpg
Sempre Strauss:
« Il relativismo liberale ha le sue radici nel tradizionale diritto naturale di tolleranza o nell'idea che ognuno ha il diritto naturale di ricercare la felicità, in qualsiasi modo concepisca la felicità; ma, di per sé, è un seminario di intolleranza »
« [...] La parola “liberale” aveva all'inizio, proprio come ora, un significato politico, ma il suo significato era praticamente l'opposto del significato politico attuale. Originariamente un uomo liberale [ndt: in Italiano si usa generalmente il sostantivo “liberto”, che dovrebbe essere tradotto letteralmente in inglese con “freedman”, che però perderebbe l'etimologia latina]  era colui che si era comportato in maniera tale da diventare un uomo libero [“free” nell'originale, ndt], come stato distinto dall'essere schiavo.  La “libertà” [“liberality” nell'originale, ndt] è quindi riferita alla schiavitù e la presuppone. »[5]
A questa riflessione aggiungiamo che il liberalismo classico ha pretese censitarie, ovvero certe libertà possono essere godute solo se appartenenti ad una determinata classe sociale.
Considerando che il termine “liberal” si diffonde soprattutto contestualmente al liberalism che, come ideologia, si diffonde dopo il XIX secolo per opera soprattutto dei Britannici, pare che Strauss attribuisca questa scelta linguistica al fine di tener distinta la libertà in senso “ontologico” e generale – freedom – da quella intesa anticamente come stato di emancipazione sociale dalla schiavitù[6]. Insomma, se si accetta che esistano dei liberti/liberali, si accetta che esistano degli schiavi.        
Ma chi sono questi schiavi? 
Il politicamente corretto non sembra garbargli, infatti, aggiunge brutalmente:
« Uno schiavo è un essere umano che vive per un altro essere umano, il suo padrone; in un certo senso non ha una propria vita: non ha tempo per se stesso. Il padrone, dall'altro lato, ha tutto il tempo per se stesso, che viene destinato per le attività che gli appartengono: la filosofia e la politica. Ci sono ancora molti uomini liberi che sono pressoché degli schiavi poiché hanno pochissimo tempo per se stessi, poiché devono lavorare per i loro mezzi di sussistenza e riposare affinché possano lavorare il giorno dopo. Questi uomini senza tempo libero sono i poveri, la maggioranza dei cittadini. »
Quindi, chi può permettesi di dedicarsi alla filosofia e alla politica deve essere abbastanza ricco da poter, come aggiunge Strauss continuando ad esporre il suo pensiero, aver abbondante leisure, otium, ovvero tempo libero dalle fatiche lavorative.
Ciò che rende una élite tale, è quindi l'istruzione superiore di chi può permettersela; questa istruzione può essere, a parole libere, o “scolastica”, ovvero quella raggiunta dai ricchi gentleman che si occupano di politica, oppure quella “massima”, ovvero quella dei “filosofi”; ovvero di coloro che non hanno necessità di ricercare o mantenere ricchezze materiali, e si dedicano tutta la vita squisitamente a studiare, rimanendo comunque lontani dalla prassi – πρᾶξις – politica. Socrate è in questo, per Strauss, emblematico.
Riassumendo: un ordine antidemocratico, aristocratico in senso “tradizionale”, o “meritocratico” in senso liberale, presuppone una classe di schiavi formalmente o sostanzialmente analfabeti, e un ceto di persone istruite che concentrano il potere economico e militare supportato da tecnici, intellettuali ed esoteristi (spesso queste tre ultime categorie si confondono).
Certo, ora sarebbe necessario capire se lo stesso Strauss sia stato “reticente” e se i suoi insegnamenti non celino una doppia verità...[7]


[1]      La “vergogna” dovrebbe essere quello sgradevole sentimento che si prova quando la propria “immagine” entra in contrasto con il modello promosso dall'etica sociale del gruppo di riferimento.
[2]      [2]Leo Strauss, “Liberal education and responsability”, pag. 322.
[3]      [3]Evidentemente Kojève doveva essere un “piddofederalista” ante-litteram, di cui si può cogliere una certa affinità elettiva con Giorgio Napolitano: inutile quindi, anche per Strauss, argomentare “diffusamente”. Fiato sprecato.
[4]      [4]Quello che Coudenhove-Kelergi intendeva come superstato non composto da popoli, ma da individui.
[5]      È talmente falsante la retorica sulla libertà, per cui la promozione delle “libertà democratiche” coincidono, in particolare con il nuovo imperialismo USA che nasce a fine Ottocento (v. Turner e Adams), con gli stessi interessi stessi dell' upper class anglosassone, che, ben prima di Hitler, ha fatto coincidere il suo lebensraum con tutto il globo... tanto che, seguendo le argomentazioni di Carl Schmitt, si potrebbe parlare di ideologia liberale come prima ideologia funzionale ad un sistema totalitario. (No, non è un caso che si parli del ruolo “messianico” degli USA nel costituire il super-governo mondiale....)
[6]      [6]“Liberty” nella tradizione anglosassone è il termine usato generalmente nel senso di “diritto civile”, come nella celebre “Dichiarazione d'Indipendenza degli Stati Uniti d'America: « We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness ».
[7]      « Democracy gave rise to a new kind of esotericism in philosophy », Laurence Lampert.

7 commenti:

  1. Molto, molto interessante e da approfondire.
    Ricorda molto Bertrand Russel, che, nel suo "elegio dell'ozio",auspicava una società dove chiunque avesse a disposizione il tempo per poter indulgere anche in approfondimenti di natura culturale, e concludeva che "l'etica del lavoro è l'etica degli schiavi".
    Etica del lavoro che era propugnata, guarda caso, dalle classi dominanti. Da coloro che tessevano le lodi "degli onesti attrezzi da lavoro e della vita semplice" (=durezza del vivere) "comportandosi in maniera poco dignitosa sotto questo aspetto"

    Ulteriori note sparse e domande. Se il governo mondiale non può che essere una tirannia, in un certo senso si ritornerebbe a..... Hobbes? La stessa UE, per certi versi, assomiglia molto al suo "Leviatano".....

    Si dovrebbe inoltre concludere che l'affermazione dello stato di diritto era, nell'ottica liberale, non un principio, ma solo uno strumento utile a cassare l'ordinamento sociale preesistente da un lato (ancien regime), e a contrastare le pretese del socialismo reale dall'altro. Ora che non serve più, lo si può tranquillamente buttare nel cestino. Ma allora sorge la domanda: quanto un liberale crede davvero nello stato di diritto?

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    1. Ci crede secondo una concezione del diritto rigorosamente pseudo(o molto "para")scientifico-naturalistica: il diritto, cui anche lo Stato deve sottostare è la Legge (non, se rammenterai, la "legislazione"). Eteronoma, rispetto allo stesso Stato, immutabile (quanto lo sarebbero i mercati), e tale da garantire la libertà dei...liberi (disinteressandosi di chi la libertà, di perseguire il benessere, non debba possederla per non ostacolare l'utile svolgimento del mercato).

      E' un po' l'altra faccia della legislazione proconcorrenziale: risponde alla Legge fin quando sanziona il monopolio statalista dell'offerta di lavoro (cioè il sindacato), mentre diviene opinabile e dai confini mobili quando si confronta con li oligopoli e i monopoli privati internaziolizzati. Ma sempre privati: lo Stato semmai è l'ostacolo all'allargamento dei mercati, e quindi deve essere ridotto al minimo. Nell'interesse dei "liberi" (tali per solo diritto naturale)...

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    2. Grazie Lorenzo, sono contento che hai trovato interessanti gli spunti.

      Per provar a rispondere alle tue domande:

      1 - Strauss si rifà alla filosofia classica, Platone su tutti: sarà proprio Strauss a riportare nel dibattito di filosofia politica il concetti di "tirannide" come anche quello di "regime".

      La argomentazioni di Strauss riguardo il progetto "mondialista" sono nel carteggio della lunga corrispondeza con Kojeve: sicuramente quando parla di tirannia si riferisce al suo concetto classico. Quindi la UE la si potrebbe considerare come espressione della degenerazione della "democrazia" in senso classico, quindi "oligarchia" potrebbe essere l'espressione migliore, anche stando ai suoi ideologi che, appunto, parlano di "dispotismo illuminato" (tipo "degenerazione controllata" in quanto temporaneamente funzionale ad un ordine "aristocratico"?).

      2 - In realtà sull' "ottica dei liberali" non mi pronuncio, proprio perché è un'ideologia infida: prima di tutto non si fa riconoscere come ideologia, nascondendosi dietro alle accezioni positive di "liberalitas" e "libertas" che sembrano essere promosse e garantite dal parlamentarismo. Il discorso che si cerca di promuovere è che la Storia dimostra che i grandi "liberali" (Cavour compreso), queste qualità "etiche" in politica non le dimostravano, indipendentemente da quanto mostrassero di essere legati alla nuova grande borghesia "liberista" (Croce è un esempio eclatante di chi non riconosce che sono i presupposti stessi individualistici e "reificanti" del liberalismo a portare alla tirannide...). Da Salvemini, a Croce, a Montanelli, ovvero dal socialismo liberale ai "frondisti", appoggiarono per un periodo più o meno lungo la "tirannide" fascista.

      Il moralismo austero deflattivo da cui nascono i nazifascismi arriva da lì: che piaccia o meno.

      L'idea alla base di questo tipo di riflessioni è che ciò che significa "stato di diritto" per te non trova il medesimo significato nella testa di De Benedetti, che pure vuole vincere le proprie "giuste" cause con Berlusconi: come si fa a tornare ad un'analisi condivisa dei fatti e fare gli interessi del 99,9999% della popolazione terrestre quando la comunicazione è impossibile a causa della mancanza di un linguaggio comune? Come ci fa ad essere "solidarietà" - presupposto "etologico" per la sopravvivenza della specie - quando qualsiasi possibilità di dialettica è smontata ab origine anche tra chi dovrebbe parlare la stessa lingua?

      Lo stesso concetto di "valore" su cui si basa "l'infrastruttura etica" è condiviso?

      Perché le democrazie fondano sul "lavoro" le democrazie?

      Qual è la concezione di "valore" dei neoliberisti post-rivoluzione marginalista?

      Ma se - stando con Russell - il "lavoro" è visto come "schiavitù", può essere fonte di "valore"? Si può fondare un ordine sociale democratico sul lavoro? Sulla schiavitù?

      Discutere di etica è discutere di "valori": secondo i liberali tutti "valori" sono tendenzialmente prezzabili in funzione "utilitaristica".

      Eppure secondo una visione prettamente umanistica a certi valori non può essere apposto un numero "cardinale", ma, al limite, "ordinale".

      Credo che chiunque discuta di politica dovrebbe riflettere sul significato e sul senso delle parole che usa quotidianamente: soprattutto da quelle più comuni e di cui dà il significato per scontato.

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  2. Nella nostra Costituzione oltre il diritto al lavoro vi è anche il diritto allo studio, e in una nazione autenticamente democratica il diritto allo studio dovrebbe essere garantito a tutti; Il nazismo fu molto attento a far deragliare l'istruzione pubblica verso l'attività fisica.
    "Seguendo le direttive del Führer, la ginnastica assurse ad attività scolastica principale.
    Le ore dedicate ad essa vennero più che raddoppiate, a scapito di quelle dedicate a materie come la religione, la storia dei paesi in cui non veniva parlata la lingua tedesca e, ovviamente, la letteratura, considerata un'espressione artistica pericolosa perché legata alla libertà di pensiero e dominata dalla presenza di autori ebrei."
    http://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/hitler2.htm
    Non per nulla si cerca di portare avanti il processo di demolizione della scuola pubblica anche all'interno della nostra Italia europeista, dove la Gioventù Federalista sostituirà la Gioventù Hitleriana.
    Il seguente passo secondo me è emblematico:"Ci sono ancora molti uomini liberi che sono pressoché degli schiavi poiché hanno pochissimo tempo per se stessi, poiché devono lavorare per i loro mezzi di sussistenza e riposare affinché possano lavorare il giorno dopo. Questi uomini senza tempo libero sono i poveri, la maggioranza dei cittadini."
    A mio avviso ci sarebbe da fare una riflessione su quel diritto al lavoro messo a fondamento nella nostra Costituzione; se quel diritto al lavoro viene sganciato dal diritto allo studio l'impalcatura democratica crolla, mentre avanza la dittatura manipolatoria di un'élite creata dagli esperti di comunicazione eredi di Edward Bernays (al quale Goebbels si ispirò).

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  3. Se un uomo per guadagnarsi da vivere deve essere costretto a lavorare 8 o più ore al giorno, magari faticosamente, quanto tempo poi gli rimane per approfondire temi sociali, economici, politici complessi (perché viviamo in una società complessa) sui quali poi dovrà decidere con il suo voto? Se si svolge un lavoro eccessivamente faticoso, frustrante, stressante, anche se poi si viene pagati il giusto, ma non si ha il tempo per essere liberi dal bisogno, se non si ha il tempo per pensare a cosa accade nel nostro paese e fuori dal nostro paese, come si potrà mai costruire una democrazia compiuta?
    Quelli che molti di noi chiamano volgarmente PIDDINI a mio avviso sono l'emblema di tale stato di cose; tralasciando quelli che hanno tutto l'interesse a non capire, perché parte dell'elite o loro tirapiedi, gli altri magari hanno un lavoro, più o meno retribuito, sono dei subalterni, ma la loro consapevolezza latita; dedicano al lavoro la maggior parte del tempo, e nel tempo libero si vogliono svagare, ragionevolmente, perché il lavoro li ha fatti stancare; lo svago, naturalmente comprende anche la visione di show politici in prima serata, al ritorno da lavoro; questi show non sono momenti in cui il lavoratore, una volta a case, deve faticare pensando e leggendo (è già stanco) , basta qualche frase ad effetto, qualche slogan, per convincerlo. Anche Hitler aveva intuito che la sera, al ritorno dal lavoro, era il momento più proficuo per i comizi:"La mattina e durante il giorno sembra che le forze della volontà umana si ribellino con massima energia ad ogni prova di imposizione della volontà o dell'idea dell'altro: di sera invece si assoggettano facilmente all'autorità di una volontà superiore. Perché, in pratica, ognuna di queste adunanze costituisce una lotta fra due forze contrarie. Le qualità oratorie di un carattere di un apostolo e di un dominatore, saranno più capaci di convincere alla nuova volontà individui naturalmente più indeboliti nella loro capacità di resistenza, che individui ancora nel completo possesso delle loro facoltà volitive e intellettuali" (A. Hitler, Bologna 1970)
    La tecnologia dovrebbe liberarci dal bisogno, dalla fatica di guadagnarsi la pagnotta lavorando 10 ore nei campi, al fine di dirigere le energie e il tempo nell'ambito dell'istruzione diffusa, elevando culturalmente i cittadini, una cultura che non sia nozionismo, ma fonte di autentico pensiero critico; cosa che attualmente non si fa e non si vuole fare.

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  4. Queste considerazioni sulla schiavitù della mancanza di tempo ci riportano anche a quanto scriveva Sofia in “Pride”: vincitori e vinti nell'era della distruzione del welfare sullo sciopero dei minatori inglesi del 1984:

    «Addirittura la Thatcher escogitò l’idea di spingere molti lavoratori ad acquistare le proprie case popolari perché questo li avrebbe intrappolati nella cosiddetta “democrazia dei proprietari di immobili”, dove il pagamento delle rate del mutuo è più importante di ogni tendenza all’impegno militante.»

    Il cerchio si chiude tra la scarsità di tempo libero e quella di risorse.

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  5. Molto interessante il garfico sul pensiero conservatore/liberale: da dove è tratto ?

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