venerdì 2 ottobre 2015

LA COMPRENSIONE CHE NON C'E': SINISTRA/DESTRA E LA COSTITUZIONE CONGELATA (KU)

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18. KU - L’emendamento delle cose guaste

1. Nel dibattito seguito ai post su "Feltri e la grecizzazione dell'Italia" nonchè sui "diritti di libertà inghiottiti dalla doppia verità" sono emerse due questioni fondamentali che attengono allo stesso rapporto tra l'orientamento politico espresso dal popolo italiano nel corso della Storia repubblicana - e in fondo anche "prima" -, e la connessione del comune sentire di tale popolo con la sostanza democratica della Costituzione.
I due interrogativi presuppongono sia di identificare il senso della distinzione tra "destra" e sinistra" in termini storici e attuali (dato che proprio l'attualità pare mettere in crisi tale distinzione, secondo una diffusa, quanto confusa e non univoca, opinione), sia di comprendere quale sia il grado di aderenza dell'ordine sociale in cui, nel secondo dopoguerra, si sono trovati a vivere gli italiani, rispetto al modello costituzionale
E tale "aderenza", a sua volta, determina una identità di cittadinanza che, molto probabilmente, prescinde dall'autodefinizione politico-partitica che gli italiani stessi si attribuiscono.

2. Il punto di partenza è questo mio commento in risposta a un intervento di Matteo:
"Recentemente mi hanno proprio domandato quali differenti programmi (o "ideologie"...) avrebbero potuto connotare l'attuazione della Costituzione, in termini di "parti" politiche contrapposte (ma all'interno del quadro costituzionale).

In realtà, una prima risposta sta nelle diverse intensità di utilizzo dei vari strumenti di politica economica previsti nella Costituzione (appunto) "economica": non è però sicuro che la correzione dei cicli economici sia così "multipla" e discrezionale, una volta che, nelle linee keynesiane, si sia intrapresa una cornice che attui e preservi la piena occupazione. Ma aggiungerei (in questa sede) ciò dipende anche dal quadro "istituzionale" che, nello sviluppo della congiuntura economica, si è realizzato rispetto al momento in cui una certa misura di politica economica debba essere adottata (es; più o meno intensa attuazione dell'art.43 Cost. relativo alla proprietà pubblica industriale, o dell'art.47 Cost., relativo agli interventi legislativi di promozione del "risparmio diffuso").
Infatti, l'output gap - e quindi la potenziale deriva della sottoccupazione - sono per definizione derivanti dalla liberalizzazione-internazionalizzazione dell'economia: quando ti trovi a correggere squilibri economici di questo genere, trovandoti con un rilevante "balance of payment constraint", vuol dire che hai già deragliato da politiche keynesiane.
E, ancor peggio, che avrai normalmente già apportato modifiche istituzionali che impediscono gli strumenti di intervento keynesiano. Come sappiamo questa funzione (de)istituzionale è stata svolta dai trattati.

Ergo: un equilibrio keynesiano (tentato) è una scelta economicamente e politicamente molto forte, con una discrezionalità tecnica alquanto delimitata.

L'unico limite è che, politicamente, come evidenzia Galbraith, è facile applicare politiche economiche keynesiane espansive, ma molto più difficile farle in funzione anticiclica di "raffreddamento". E da lì, da questo trend (anti)inflattivo che si sono insinuati i revanchismi neo-liberisti
..."

3. Di questa risposta sono ancora convinto, nonostante la giusta obiezione di Bazaar che la famosa stagflazione, susseguente alla duplice crisi petrolifera degli anni '70, sia una situazione contingente peculiare fatta assurgere, opportunamente, a modello di spiegazione delle crisi economiche in chiave anti-keynesiana (e anche antidemocrazia costituzionale):
"Il disgelo costituzionale avviene infatti solo quando "Confidustria" viene "messa all'angolo": fosse stato per quel gruppo sociale la "segnaletica" l'avrebbe messa in modo tale da far finire sessanta milioni di Italiani in uno sterrato nel deserto o in una palude. Come poi sul finire dei '70 ha proprio fatto...

Einaudi e i suoi han fatto la figura dei cinici fessi tutta la Costituente ma, subito dopo, ci siamo trovati il nostro Hayek italiano alla BdI e come Presidente della Repubblica.

Poi, diciamocelo: quella dello shock petrolifero è stata una delle solite ciniche e sociopatiche pagliacciate... altro che politica anticiclica per raffreddare l'economia... Si è, guarda a caso, creata ad arte la situazione pochi anni prima paventata da una delle figure più eminenti della Mont Pelerin: ovvero inflazione e recessione insieme. Non c'era da raffreddare un bel niente, se non solo la finanza angloamericana che, tirato il pacco con la convertibiltà in oro, si è assicurata comunque il signoraggio della Fed che, invece di convertire i dollari in oro giallo, ha cominciato "a convertirli in oro nero".

Infatti gli "einaudiani" se ne sono usciti con "l'austerità"... con il supporto della sinistra ormai in massa coartata.

Capire ora cosa siano sostanzialmente "destra e sinistra", cosa implichi difendere la rendita da oligopolio o il reddito da lavoro, potrebbe essere lievemente importante: proprio perché è da quasi trentacinque anni che abbiamo abbandonato progressivamente la strada "asfaltata" della Costituzione. Parlare ora di destra e sinistra non è più una questione "cosmetica"...
"

4. Dunque, affermare che la stagflazione sia stata la "prova" della erroneità del modello keynesiano di equilibrio, infatti, è una diagnosi affrettata, quanto di successo, che ha prodotto danni, democratici e alla crescita mondiale, enormi e oggi sempre più evidenti: tuttavia, rimane il fatto che le politiche keynesiane non funzionano solo in senso espansivo, proprio perchè prevedono esse stesse che, in condizione di piena occupazione il moltiplicatore della spesa pubblica si riduca e, cosa ancora più importante, si traduca in domanda di beni esteri più che proporzionale alla crescita. 
Però, come evidenzia Galbraith, questa fase anticilica di raffreddamento ha un forte "political constraint", laddove sia affidato alle stesse forze di governo che abbiano in precedenza raccolto il consenso legato alla fase espansiva e che, dunque, dovrebbero assumere misure "impopolari". 

5. D'altra parte, il paradosso è che se non fosse affidata, tale difficile gestione del "raffreddamento" (sottointendiamo inflazionistico in condizione, tendenziale, di piena occupazione), a quelle medesime forze di governo, la gestione stessa sarebbe, giocoforza, operata da chi avversa da sempre, (e per scelta identitaria che considera di "vita o di morte"), le teorie keynesiane; quindi, tale gestione "avversa" diventerebbe la tanto attesa occasione per smontare tutto intero il paradigma, incentrato sull'intervento dello Stato a correzione delle crisi economiche ricorrenti, provocate dalla intrinseca dannosità speculativo-finanziaria delle forze del "mitico" mercato. 
In tale evenienza (molto concreta ed attuale) l'ordine sociale sarebbe di nuovo e, come constatiamo oggi, per sempre vincolato allo "stato di necessità" (determinato dal superiore ordine dei mercati" da ripristinare all'interno delle loro pretese "leggi naturali") che governa la logica del (neo)liberismo, sacrificandosi illimitatamente la democrazia e il benessere diffuso.
Che è quanto oggi si sta puntualmente verificando.

6. Questo dunque ci riporta a un problema di democrazia "economica" che, appunto come evidenzia Bazaar, è di democrazia tout-court; il che equivale a dire che o la democrazia è legata allo Stato sociale (ovvero all'equilibrio keynesiano) o "semplicemente non è", come disse esattamente Mortati parlando della Costituzione. 
Lo stesso Bazaar conferma questa interpretazione, a mio parere.
In un successivo intervento, dove il discorso introduce direttamente a cosa significhi, in concreto, essere di "destra" o di "sinistra" (in una "democrazia" contemporanea globalizzata, imperante il liberismo della "scienza (economica) dell'800", -per usare le parole di Ruini in Assemplea Costituente in risposta a Einaudi-, l'istanza democratica è molto più semplificata: si tratta di materia "idraulica", cioè mediatico-sondaggistica. E questo ci torna utile per spiegare la situazione di oggi, come abbiamo appena visto), Bazaar precisa:

"...la particolarità di una democrazia moderna, che, per essere tale "nella sostanza" - come faceva notare Mortati - necessitava un ordinamento lavoristico con una forte Stato sociale. Ovvero, si fondava l'intero ordinamento, con convergenza di tutte le forze politiche, sulla Sinistra economica: sinistra economica che propugna la necessità della giustizia sociale affinché la democrazia possa essere chiamata tale.

I liberali - ovvero la destra economica - oltre alla "giustizia commutativa" storicamente non chiedono altro: anzi.
Quindi, la domanda che sorge spontanea consiste in: « ma se tutti convergono sui caposaldi storici "socialisti", che legittimità e che spazio hanno nel panorama costituzionale le "istanze liberali"» (in democrazia "compiuta", beninteso, ndr.)?

Risposta: tendenzialmente nessuna.

I liberali alla Einaudi avrebbero dovuto difendere gli interessi di classe in una dialettica che avrebbe dovuto escludere la radicalità sostanziale della ideologia storica, risultata definitivamente screditata dalla crisi del '29 e dalla seconda guerra mondiale: avrebbero dato un eventuale contributo nel "come" raggiungere gli obiettivi
Non più "quali" obiettivi.

Infatti, a differenza degli stati liberali "classici" come USA e UK, che avevano adottato le politiche keynesiane nel trentennio d'oro senza "obblighi costituzionali", smantellando tutto lo stato sociale in breve tempo e senza troppi problemi (Reagan e Thatcher), per l'Europa il vecchio ordine (a vertice USA) ha tenuto "un piede nella porta" con la Germania ordoliberista, e, tramite i trattati di libero scambio dipinti di rosso da Spinelli, Rossi e utili geni del caso, tramite il "vincolo esterno", ovvero il "balance of payment constraint", ovvero tramite SME ed euro, la classe dominante internazionale, con il capitale internazionale "vassallo" e per definizione collaborazionista, si sono avviati a "ricordarci la durezza del vivere".
Perché la democrazia è tale se, e solo se, esiste lo Stato sociale con le sue protezioni. (v. Mortati).

Il fatto che nonostante la scelta unanime verso il keynesismo Einaudi potesse godere di tali "riconoscimenti", potrebbe essere proprio considerata come il segnale della scelta EXTRA-istituzionale di un determinato gruppo sociale di influenzare la politica nazionale al di fuori della legalità costituzionale. Obiettivo poi effettivamente perseguito a livello "tecnico" a fine anni '70.

Arturo ha recentemento riportato a riguardo il discorso a Londra di Agnelli prima dell'entrata nello SME: dovevamo abituarci ad avere "più disoccupazione"... con buona pace dell'art.1 cost. e seguenti.
Ma il "livello tecnico" è proprio quello che ha permesso di far percepire solo le conseguenze all'intellighenzia "democratica", che ne ha potuto descrivere le derive politiche e culturali - magari in modo "illuminante" - senza, però, saper distinguerne le cause e promuovere delle soluzioni a contrasto.

Contrasto che, infatti, non c'è stato. Testimone la colossale sconfitta di classe che rappresenta lo sbriciolamento delle democrazie occidentali.

Quindi, ripeto, dire che "gli Italiani sono di destra", che sono "fascisti", disquisire sulla psicologia dell'appartenenza fine a se stessa, e tante altre analisi di ordine più pseudo-antropologico o pseudo-sociologico, come generalmente vuole la vulgata che va dal bar dello sport all'intellettuale "di area" passando per gli utili Feltri, è il tipico segnale dell'assoluta inconsistenza di capacità di analisi e, in ultimo, di indirizzo politico di chi ha un'etica più o meno "democratica
".

7. In sostanza, il segno di una democrazia compiuta (e non revocabile, in modo assolutamente discrezionale, secondo il capriccio dello "stato di necessità" imposto dai mercati) è il costituzionalismo.
Vale a dire:
a) l'esistenza della Costituzione rigida - cioè al di sopra della "politica" dei rapporti di forza sociali comunque raggiunti, come evidenziò Calamandrei, cioè della politica espressa nelle leggi del Parlamento;
b) della costituzionalizzazione del sistema di garanzia della gerarchia delle fonti, - al cui vertice sia sempre la stessa Costituzione nei suoi enunciati inderogabili;
c) del principio di eguaglianza sostanziale legato alla enunciazione del principio supremo di tutela del lavoro, come sistema centrale di risoluzione democratica del conflitto sociale.

6. Ora, anche solo aggiungendo tutti gli spunti fornitici da Arturo (e da Matteo), se volessimo commentare e sviluppare funditus (come ho improvvidamente preannunciato e chiedo venia), trattare la questione della possibilità di essere di sinistra o di destra all'interno del vincolo democratico-costituzionale, esigerebbe scrivere un libro. O, anche più volumi.
Mi limito a fare due cose: 
- mi riprometto di incorporare in questo post le eventuali sintesi e osservazioni significative che saranno fatte nei commenti (procedimento cui già Arturo ha dato spunto produttivamente in passato);
- produco una (succinta) sintesi del problema che tiene conto, per quanto possibile, dei commenti già svolti nei due post citati.

7. La sintesi (che è anche un punto di partenza nel senso sopra precisato), è grosso modo questa.
Gli italiani sono di destra (nel senso di "prevalentemente")?
La risposta potrebbe essere positiva se, e solo se, si  faccia questa ricognizione, - sbagliando, come ben ha evidenziato Bazaar- avendo mancato preliminarmente di studiare le scienze sociali e volendo fare "politologia" avulsa: cioè che reinterpreti il dato storico alla luce di un'ostinato trascurare i dati e la comprensione economica e istituzionale nelle sue dinamiche "reali" (alla Montanelli, per citare il più recente esempio qui emerso).
Ma una volta impostato il discorso nei suoi termini "obiettivi"- nel senso dell'accuratezza delle fonti utilizzabili e dell'intera considerazione metodologica dei fatti-, la risposta deve essere: prevalentemente no.
Se gli italiani votano "a destra", o, il che è la stessa cosa trasposta ai tempi odierni, per "soluzioni di destra", lo fanno perchè l'opinione di massa è formata non sulla sostanza, ma sulla vulgata pseudo-scientifica, e cioè "politologica" e "mediatica", di tale contrapposizione destra-sinistra; e questo fenomeno di "manipolazione" va, come detto più sopra, rapportato alla prevalente considerazione economica della: 
a) (ir)realizzazione della eguaglianza sostanziale; 
b) (indebolita) garanzia della tutela del lavoro nel senso della piena occupazione in senso proprio. 

8. Nei commenti ai post da cui prende spunto il "dibattito", ho menzionato che, se agli italiani fosse chiesto di essere-agire come se appartenessero veramente alla destra (sempre nel senso economico realmente rilevante) e, quindi, di rinunciare alla pensione pubblica, alla sanità pubblica e all'accesso, mediante il risparmio diffuso, alla casa di abitazione, risponderebbero prevalentemente in senso negativo con il proprio voto.

E' pur vero che la maggioranza degli italiani non pare in grado di connettere questi aspetti qualificanti della propria condizione, - indubbiamente delle conquiste "sociali", ergo "di sinistra" in termini economici, - al mercato del lavoro e alla sua struttura legislativa (cioè politica); che è comunque"ordinamentale" in senso proprio, perchè caratterizza l'intero ordinamento sociale mediante la principale normativa giuridica prevista dalla Costituzione; e lo caratterizza comunque, anche quando la tutela del lavoro non sia prevista nella Costituzione e permanga, come negli USA o in UK, l'indiscriminata discrezionalità dei forti di comprimere per via legislativa ogni forma di tutela.

Perchè non siano, gli italiani, in maggioranza, in grado di farlo, in fondo è il tema di questo blog e abbiamo visto vari "perchè" connessi: 
- perchè la cultura non è (intenzionalmente) diffusa come vorrebbe il principio di eguaglianza sostanziale (art.3, comma 2, Cost.);
- perchè l'internazionalismo della pace non fa percepire, (ai più, occupati a prendersela con lo Stato tasssatore, dimenticando che è un non-Stato-passacarte), le "condizionalità" sovranazionali come strumenti intenzionali e programmatici per smontare il caposaldo del mercato del lavoro democratico, mediante la sottrazione dei diritti sociali (e viceversa, in un processo circolare innescato sempre dallo "stato di necessità" della legge dei mercati).

9. A questo punto, vorrei quotare Arturo che, in altri termini, mediante una citazione, (di Bin), propone indirettamente lo stesso interrogativo sulla rinuncia ai fondamentali beni della vita cui gli italiani non darebbero risposta (elettorale) positiva:
"In epoca liberale si poteva tranquillamente scrivere, come faceva Bagehot[29], che “le classi lavoratrici non contribuiscono quasi per niente alla formazione dell’opinione pubblica”, per cui i lavoratori “sono esclusi dalla rappresentanza ed anche da ciò che è rappresentato”; perciò - Bryce aggiungeva – l’opinione pubblica “è un contrappeso alla strapotenza del numero… Alle urne un voto vale l’altro, l’ignorante e l’irriflessivo contando come il ben informato ed il saggio. Invece nella formazione dell’opinione pubblica, dicono la loro parola cultura e pensiero”[30]"

Pensate forse che se i cittadini italiani - che, anarcoidamente e inconsapevolmente (rispetto agli effetti dell'euro e dei suoi vincoli fiscali), ritengono che essere di destra implichi invocare meno tasse e il taglio della spesa pubblica-, comprendessero che, per chi veramente stabilisce quelle tasse e quei tagli, essi stessi sono visti come la neo-classe lavoratrice che "non contribuisce quasi per niente alla formazione dell'opinione pubblica", (che è invece fissata in strategie concepite da circoli molto, ma molto ristretti), e si rendessero conto del perchè il loro voto non conti nulla, sarebbero ancora disposti a supportare le forze che rappresentano chi di loro ha questa considerazione?

10. Ergo gli italiani, se votano "a destra", o per soluzioni "di destra" (credendo di votare "a sinistra"), lo fanno perchè sono ingannati e ridotti a una condizione di disprezzo verso la loro intelligenza, mortificata prima di tutto, dalla rinuncia ad attuare la Costituzione sulla eguaglianza sostanziale. 
Esattamente, cioè, come evidenzia Rawls, parlando della redistribuzione ex ante, che è la forma di eguaglianza sostanziale più difficile ma anche più utile e "strutturale" da realizzare per avere una democrazia (che consenta, parificando la posizioni di partenza ad handicap, di sprigionare tutte le risorse del sub-strato umano della società). 
E questo, considerato che, invece, la redistribuzione ex post, cioè la progressività di sistema dell'imposizione fiscale, risulta agevolmente ribaltabile in funzione di interessi nettamente contrari alla eguaglianza sostanziale, come ci insegna la Storia dell'asservimento finanziario privato degli Stati, oggi perseguito mediante le Banche centrali indipendenti: che, poi se fosse culturalmente dinamico il dibattito politico diviene il perno della rivendicazione democratica e, economicamente, della sinistra sostanzialmente maggioritaria.
Insomma, ridotto in soldoni, il problema degli italiani è quello di tutti i popoli che vivono sotto il tallone di ferro, più o meno abilmente mascherato, della restaurazione liberista contraria alle Costituzioni democratiche (qualcuno mi citerà JP Morgan? Diamolo per acquisito): un problema di controllo mediatico e di impossibilità, in assenza di condizioni istituzionali di rappresentatività, di partecipare realmente, avendo preliminarmente avuto la possibilità di dotarsi degli strumenti culturali, alla vita politica che li riguarda.
Dunque, un problema di democrazia economica che non lascia, a nessun popolo, altra alternativa che quella di comprendere che si può essere di "destra" (dentro la democrazia), solo "non" essendo liberisti-a-propria insaputa (cioè senza saper come ciò colpisca i propri stessi interessi maggioritari); ovviamente questa precondizione vale sempre che non si appartenga alla ristrettissima cerchia di quelli che si avvantaggiano veramente della "restaurazione" liberista e della sospensione sine die  dei principi fondamentali della Costituzione.

11. Per questo, come qui emerge, in termini che sono "quasi" utopici, nello stato mediatico delle cose (cioè programmaticamente oligarchico), avevamo indicato, proprio come cura all'astensionismo, - che divenendo il primo "partito" dovrebbe di per sè far pensare che la questione di destra e sinistra non possa proprio più essere proposta nei termini tradizionali, ma che si ponga solo un problema di democrazia (economica)-, questa sequenza:
"In sintesi, il cittadino dovrebbe pensare di non votare per chiunque non ponga la questione della inaccettabilità democratica della banca centrale indipendente, da cui deriva la conseguente inaccettabilità di tutti i corollari che, affermatisi a livello europeo, costituiscono il vincolo esterno.
E' sufficiente notare come, questa opzione di autotutela democratica del cittadino, non implica l'adesione a questa o quella ideologia che (sempre ingannevolmente) si arrogano il ruolo di soluzioni alla crisi (il caso Syriza è evidente, in tal senso): la lotta per la riconquista della sovranità popolare che passa per l'abrogazione del paradigma della banca centrale indipendente, attiene a una pre-condizione minima e coessenziale della democrazia in senso sostanziale, e può prestarsi alla unificazione ed alla confluenza di una pluralità di "visioni del mondo" all'interno della stessa democrazia.
Nella condizione di emergenza democratica attuale, in effetti, la battaglia per la ri-democratizzazione delle istituzioni bancarie e creditizie sarebbe il vero "distinguo" di un nuovo partito di massa, capace di dar voce agli interessi effettivi della maggioranza dei cittadini."


39 commenti:

  1. Utili idioti da Dietlinde

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  2. Dal punto di vista della Costituzione è come se fosse stato riorganizzato in una certa forma il disciolto partito fascista.

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  3. Per chiarezza: quella su Galbraith non era "un'obiezione" :-)

    lo sottolineo per un doppio motivo:

    1 - per il contenuto valoriale del messaggio che verrebbe lasciato passare: senza una citazione di "pari fonte", posso obiettare ad un gigante del pensiero qualsiasi cosa, dal colore delle cravatte al bridge, ma non il prodotto del suo lavoro professionale.... (visto l'epoca di espertologia diffusa, meglio non dare "cattivo esempio")

    2 - il fatto che mi sia "agganciato" al problema delle "infiammate inflattive" ricordando - in modo piuttosto colorito - la grossolana mistificazione che ha fatto da "coprifuoco" all'incipit della controrivoluzione neoliberale, non significa che in quell'occasione sia stata eccettuata la raffinata considerazione di Galbraith: anzi, al di là della pretestuosità dei provvedimenti "austeriano/restrittivi", l'episodio sembra proprio confermare la dinamica descritta dall'economista americano.

    Inoltre, proprio Arturo ricorda i due famosi casi antecedenti: di cui il primo fu gestito dal solito Federico Augusto Einaudi, che, tra l'altro, oltre a far riconquistare consenso elettorale alla ordoliberale DC degasperiana, consacrò la grande maestria liberale nel gestire "la moneta", giustificando, in qualche modo, la consuetudine di nominare banchieri centrali di estrazione liberale.

    Alle opposizioni la commissione di vigilanza sui servizi segreti, alle destre liberali la politica monetaria.

    Infatti, come argomenta Galbraith in sintonia con la citazione di Caffè proposta da Arturo, abbiamo conferma da Paul Ginsborg che: «Nel giro di pochi mesi l’ex governatore della Banca d’Italia fece quello che allo sfortunato Scoccimarro [precedente ministro delle Finanze comunista] era stato sempre impedito di fare: intervenire con decisione nell’economia per tenere l’inflazione sotto controllo. I metodi di Einaudi non furono certo gli stessi proposti da Scoccimarro, poiché egli attuò un classica politica deflazionista.[…]

    Quindi perché le sinistre (vere) insorsero contro Einaudi? Perché, sì, certo, l'inflazione era stata combattuta, ma, rimanendo con Paul Ginsborg: «La restrizione del credito colpì in profondità la piccola e media industria, provocando un complessivo declino degli investimenti e quindi della produzione industriale. I padroni reagirono a questa rigida deflazione con massicci licenziamenti.»

    D'altronde la destra liberale è questa, rappresentata al suo meglio da Federico Augusto Einaudi:

    «Urge che il proposito manifestato dal governo di porre fine al prezzo politico del pane e di porvi fine in modo radicale, senza alcuna possibilità di ritorno e senza eccezioni per questa o quella classe sociale, eccezioni le quali ridurrebbero ben presto la regola, abbia pronta attuazione. Periculum est in mora.

    Urge che al fato, il quale costringe la Banca d'Italia ad emettere ognora nuovi biglietti, sia tolta una delle armi più potenti le quali ci costringono, volenti o nolenti, a malfare»


    Son cose belle.

    Infatti, come fa notare Baffi, il nostro ebbe maggior fortuna «nel far accogliere nella nuova carta costituzionale dello Stato italiano, il principio, sancito dall'articolo 81, che con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese, e che ogni altra legge la quale importi nuove o maggiori spese deve indicare l mezzi per farvi fronte.»

    Figuriamoci se Luigino non riusciva a pizzare il cavallo di Troia già dall'inizio....

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    1. Hai fatto bene a rammentare il "filone" aperto da Arturo (visto che coinvolgeva anche il prezzo del pane...).
      Non dobbiamo dimenticare che l'effettività del modello costituzionale - e quindi della piena occupazione all'interno del principio-cardine "lavoristico"- fu posta in contestazione nel dopo Costituente con grande spiegamento di mezzi.

      La vicenda storico-economica italiana non può essere riletta prendendo a esempio, diciamo, operativo e paradigmatico, Basso o Mortati o, se vogliamo, quanto alla comprensione dei principi, Calamandrei (per rimanere ai più grandi finora citati): le vicende che, notoriamente, seguirono al Piano Marshall nella sua applicazione italiana, non devono far dimenticare che:
      a) l'Italia è un paese che si richiama alle sue capacità "mercantilistiche" tradizionali e che in questo senso si spiega l'amore-odio per il modello economico tedesco (segnatamente ordoliberista);
      b) che quest'ultimo fu appositamente promosso, nel dopoguerra, dagli USA come caposaldo di riferimento per rendere inattaccabile l'economia di mercato, oltre qualsiasi livello di concessione tattica al "sociale".

      Non è dunque un caso, culturalmente, che ci sia stato il "1978" (e a fortiori il "1992"): anzi, all'opposto, una continuità prepotente, sfuggita alla massa e persino combattuta con crescente mancanza di convinzione dal PCI, era stata fissata a Costituzione appena...sfornata e proseguita come revanche senza troppi tentennamenti (basti pensare che lo Statuto de lavoratori arriva nel 1970 - e dalla lettura dei lavori della Costituente ciò "potrebbe" apparire clamoroso-, mentre poi le crisi petrolifere gli diedero poco tempo prima di farlo divenire un elemento spurio e di colpevolizzazione incessante da parte di una classe dirigente inferocita. Fino al "regolamento" di conti odierno).

      Quanto a Galbraith, la sua analisi di metodo politico va in effetti vista in un quadro di storia generale dell'economia; mi pareva, tutto sommato, di aver evidenziato la compatibilità tra la tua condivisibile obiezione e questa analisi.

      L'art.81, infine, come ben sappiamo, fu una mezza sconfitta per i neo-liberisti italici (certamente degli inguaribili nostalgici del "primo" De Stefani): la parola "indebitamento" come oggetto di divieto dovette attendere i caps ipotizzati dall'Atto Unico e da Maastricht.
      Cioè la crisi del sistema sovietico: neppure Einaudi sperava, prima di ciò, che si potesse eccedere dalla leva monetaria per forzare la disoccupazione oltre certi limiti.

      Perciò Mitterand (post elezioni e non in campagna elettorale), Il Consiglio del Castello sforzesco, e gli Andreatta, Amato, Ciampi e, naturalmente, Prodi sono stati così rilevanti: avevano una discesa davanti e la sfruttarono efficacemente.

      Non "efficientemente" in termini di Costituzione: ma a quel punto, per l'opinione di massa, e per la sovrastante "opinione pubblica", era divenuto un prezzo trascurabile.
      Oggi addirittura un enunciato che la Corte costituzionale deve fare da sè oppure subire un'apposita legge costituzionale!

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    2. Tra l'altro lo stesso Ginsborg nota come gli USA avrebbero applaudito a questo tipo di politica economica. (Raffreddamento della dinamica dei prezzi per via di shock deflattivi - che scarica i costi sui lavoratori e sulla classe produttiva in genere (PMI) -, piuttosto che, ad es., un uso diverso di politiche doganali e strumenti di indicizzazione salariale che lascino "la patata bollente" in mano al cartello bancario e alla rendita finanziaria in genere.

      Se i rapporti di forza fossero giunti - a dispetto di quelli contingenti di classe nazionali, e di "vassallaggio" internazionali - ad essere abbastanza equilibrati da permettere l'uso di strumenti di politica economica orientati alla tutela dell'occupazione - come da dettato costituzionale -, anche i rentier, pur di non trovarsi nella scomoda situazione di accollarsi le correzioni dei saldi della bilancia commerciale, sarebbero stati più restii a collaborare con la finanza internazionale e a sostenere i paradigmi liberoscambisti in spregio all'art.11 Cost.

      L'ideologia promossa dalla destra economica esprime un tale classismo che risulta di per sé incompatibile con la democrazia tout-court: il "prezzo politico del pane" come "ingiusto privilegio" di una classe che si vuole allontanare dalla "naturale durezza del vivere", distorcendo "l'ordine naturale del mercato" stampando, "senza sudore della fronte", "biglietti col torchio".

      Periculum est in mora!

      Fate presto!

      È cambiato il livello culturale, ma la strategia direi che è ben collaudata.

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    3. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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    4. Comunque, tornando a bomba: Corey Robin analizza nei più intimi dettagli l'antropologia - o meglio la psicologia - del "conservatore". (Negli USA hanno probabilmente mille altri motivi per non aver chiara la dialettica politica, ma si dà per scontato che alla destra economica corrisponda una destra politica: immagino che, non avendo dovuto sorbirsi fascismi, nazionalsocialismi ed economie sociali di mercato varie, a destra ci sta il capitalismo sfrenato e a sinistra ci sta il liberalismo sociale rooseveltiano (non pervenuto tra i democratici...).

      Partendo da Edmund Burke fino ad arrivare ai giorni nostri, Paul Krugman, recensendo il lavoro del prof.Robin, sintetizza così l'essenza del conservatore (che in Europa è il liberale classico):

      “And I think that the best model [of conservatism] is, as I said the other day, the Corey Robin notion that it’s about preserving hierarchy.”

      Full stop.

      Gli Italiani sono individualisti e conservatori di destra?

      A suffragio universale sono stati eletti settantacinque rappresentanti di tutti i gruppi e le classi sociali d'Italia per fondare un nuovo patto sociale: l'etica che è stata condivisa e che ha trovato un compromesso politico per sviluppare uno Stato di diritto conforme al perseguimento di un obiettivo comune è stata, come ricorda Calamandrei nel '55, quella solidaristica fondata sul lavoro.

      L'ordine sociale così come è , ovvero la gerarchia che vorrebbe conservare la destra economica, viene rifiutato a favore di un riformismo progressivo: il celebre secondo comma dell'art.3 Cost.

      Orgogliosamente a suffragio universale, in Italia.

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    5. Va bene: queste sono le destre e le sinistre storiche: e quelli che invece sono "sopra"? Come hanno più volte ripetuto Bossi e Grillo, sulla falsa riga dei movimenti populisti?

      Secession (what about Catalogna?, ndr) and privatization are the primary vehicles and means by which to overcome democracy and establish a natural order.
      […]
      Nothing is more effective in persuading the masses to cease cooperating with government than the constant and relentless exposure, de-sanctification, and ridicule of government and its representatives as moral and economic frauds and impostors: as emperors without clothes subject to contempt and the butt of all jokes.” (Forza Peppe!, ndr)
      […]
      “The natural outcome of the voluntary transactions between various private property owners is decidedly non-egalitarian, hierarchical, and elitist. As the result of widely diverse human talents, in every society of any degree of complexity a few individuals quickly acquire the status of an elite. Owing to superior achievements of wealth, wisdom, bravery or a combination thereof, some individuals come to possess “natural authority” – HH Hoppe

      (Democracy-The God That Failed)


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    6. Bè, da democratico, dopo liberali e gatekeepers, per capire l'assoluta scorrelazione tra destra e sinistra economica, e quelle politico/ideologiche, mi mancano i marxisti che, a quanto pare, a differenza dei postkeynesiani, Marx ed Engels non li hanno mai letti:

      «Senza la ricostituzione dell'indipendenza e dell'unità di ogni nazione non si sarebbe potuta compiere né l'unificazione internazionale del proletariato né la pacifica, intelligente collaborazione di queste nazioni per raggiungere obiettivi comuni. Si provi solo a immaginare una comune iniziativa internazionale dei lavoratori italiani, ungheresi, tedeschi, polacchi, russi nelle condizioni politiche di prima del 1848!»

      Il Manifesto del Partito Comunista

      Prefazione della traduzione italiana richiesta da Turati, Londra, 1° febbraio 1893, di Friedrich Engels

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    7. Discussione affascinante e complessa: per cogliere tutti gli aspetti della funzione del vincolo esterno si dovrebbe riconsiderare l’intera storia repubblicana, nei suoi aspetti politici, economici e istituzionali. Per il momento mi limito a fornire un po’ di materiale, naturalmente dando la precedenza alle dinamiche costituzionali.
      Parto quindi da questo lavoro in cui Dogliani propone una periodizzazione della storia costituzionale italiana. Che, se da un lato, avendo lasciato fuori il vincolo esterno (ci si limita a parlare genericamente di "suggestioni della rivoluzione passiva reaganiana e thatcheriana" e a vedere l'incarnazione della vague liberista in...Abberluscone. Lasciamo perdere...), risulta monca, dall’altro dimostra che gli andamenti di quest’ultimo hanno ripercussioni costituzionali quasi immediate. L’autore riscontra infatti una soluzione di continuità proprio alla fine degli anni ’70, quando si manifesta una “slealtà” costituzionale di tipo nuovo: dopo il “disgelo” degli anni ’69-’78 ("sono gli anni che vanno dalla riforma pensionistica del 1969, dallo statuto dei lavoratori e dall’attuazione delle regioni del 1970, al nuovo diritto di famiglia del 1975 e alla realizzazione del servizio sanitario nazionale del 1978"), si manifesta una “nuova glaciazione”. Il precedente “congelamento”, che viene definito ”armistizio”, aveva conosciuto un “consolidamento della Costituzione” “attraverso il suo congelamento nella condizione, appunto, di “cornice” (non di “disegno”) della politica. La parte “non minima” della Costituzione (il suo progetto riformatore) era riconosciuta solo come orizzonte di valori, non di programmi; come insieme di fini, non di mezzi. Il "gelo costituzionale", dunque, fu gelo sì, ma non fu proposito di rovesciamento, se non da frange minoritarie che furono dette, appunto, "eversive"”. Il nuovo “raffreddamento” segna un salto di qualità nella misura in cui si passa da una “lotta sulla Costituzione”, cioè uno scontro per il prevalere di una sua interpretazione, a una “lotta per la Costituzione”, cioè “il patologico conflitto tra chi ne difende l’attuale validità e chi ne afferma invece interpretazioni svalutative, al limite della desuetudine, invocando discontinuità sostanziali (e dunque l’instaurazione, di fatto o di diritto, di un nuovo ordinamento)”, sostanzialmente inaugurato con la “grande riforma” , “orientata in chiave presidenzialistica, proposta da Bettino Craxi e Giuliano Amato”, guarda un po’ proprio nel 1979, con cui si sanciva “che la Costituzione del ‘48 aveva cessato di rappresentare lo strumento essenziale di un equilibrio strategico vitale”

      Mi pare un’analisi molto simile a quella proposta qui. Bisogna però aggiungere il vincolo esterno. Dopo il ’78 ne sappiamo già parecchio, ma è il prima su cui forse c'è ancora da scavare un po'. Come ho detto, per ora mi limito a fornire alcuni materiali storici.

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    8. Visto che s’è menzionato De Gasperi, parto col suo celebre discorso del maggio ’47, quando annunciò la crisi del governo di unità nazionale: il discorso del “quarto partito” (in Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, pag. 40):

      “i voti non sono tutto (...). Non sono i nostri milioni di elettori che possono fornire allo Stato i miliardi e la potenza economica necessaria a dominare la situazione. Oltre ai nostri partiti, vi è in Italia un quarto partito, che può non avere molti elettori, ma che è capace di paralizzare e rendere vano ogni nostro sforzo, organizzando il sabotaggio del prestito e la fuga dei capitali, l'aumento dei prezzi e le campagne scandalistiche. L'esperienza mi ha convinto che non si governa oggi l'Italia senza attrarre nella nuova formazione di governo (...) i rappresentanti di questo quarto partito”

      Prosegue Graziani (pag. 41): “Tutti i ministeri economici vennero affidati a uomini di sicura fede liberista. Einaudi lasciò il governo della Banca d'Italia a Menichella e assunse la direzione del nuovo ministero del Bilancio: Del Vecchio, autorevole studioso di eguali tendenze liberiste, assunse il ministero del Tesoro; i ministeri delle Finanze e dell'Industria andarono rispettivamente a Pela e a Merzagora, ambedue legati agli ambienti della grande industria del Nord. A questo governo spettò di prendere nei mesi immediatamente successivi i provvedimenti di maggiore portata, e di realizzare la famosa svolta deflazionistica del 1947.” .

      Veniamo al ’63. S’è accennato alla stretta estiva della Banca d’Italia, ma qui voglio spostare lo sguardo a qualche mese dopo: il primo governo di centro-sinistra con la partecipazione socialista si costituisce nel dicembre del 1963 e dura fino al giugno del '64. Un mese prima delle dimissioni del governo, il ministro del Tesoro Colombo invia una lettera-memorandum a Moro, "filtrata" sui giornali (Messaggero, 27 maggio 1964). Nel documento "il ministro presentava un quadro catastrofico della situazione economica italiana, parlava di "pericolo mortale" dell'economia e della democrazia italiana, chiedeva il blocco delle riforme sostenute dai socialisti (Statuto dei lavoratori, istituzione delle regioni, legislazione urbanistica) in quanto agenti di effetti negativi sulla competitività dell'economia italiana e disincentivanti degli investimenti; esprimeva in termini assolutamente netti l'alternativa: "O attuare la stabilizzazione col concorso dei sindacati o procedere energicamente senza il concorso dei sindacati alle misure necessarie per arrestare l'inflazione e difendere il potere d'acquisto della moneta". Occorreva scegliere senza indugio, perché lo imponeva la situazione interna e lo richiedevano i partners europei "che giudicano in maniera severissima la situazione italiana"." (F. De Felice, La questione della nazione repubblicana, Roma-Bari, Laterza, 1999, pag. 104).

      Quanti argomenti mai sentiti! :-)

      Per il momento mi fermo qui.

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    9. Condizionalità.
      Esterne e...interne (la categorizzazione di Dogliani della legislazione ascritta al "disgelo" mi trova largamente dissenziente, sia i settori di intervento menzionati sia per disomogeneità di quella legislazione in termini di rilevanza rispetto all'attuazione del disegno costituzionale).

      Sul 1978 (che nel relativo post comincia, se ricordate, nel 1974) come padre del 1992 siamo ovviamente d'accordo.

      Graziani, meglio dei costituzionalisti, capisce che il "quarto partito" è condizionalità, politico-internazionale, allo stato puro cioè, scevra da legami in trattati economici.
      Bastava la Nato, al tempo. E (perciò) rammentare che eravamo un paese sconfitto.

      Nel 1963, la questione era diversa: si doveva evitare ogni cedimento verso qualsiasi forma di "sinistra" perchè "non SE LO POTEVANO permettere" (mentre provavano a riprendere il controllo, proprio in quell'anno: il Viet-nam era alle porte e non solo).
      Basti vedere in quell'anno quanti eventi mitizzati avvengono negli Usa
      https://it.wikipedia.org/wiki/1963

      Lelio Basso rimane l'interprete migliore dell'epoca che culmina nell'anno della sua morte, appunto il 1978.
      Il "vincolo esterno" istituzionalizzato si conferma come figlio del dissolvimento dei carri armati di Stalin.

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    10. @Bazaar: diamo atto a Bagnai di averlo già citato (in un post di qualche mese fa se non ricordo male).
      Sul principio di Westfalia scaturente dal 1948, basti vedere il nome di questo blog, d'altra parte...

      Comunque, l'opposto di gerarchico, nel politichese USA, è "liberal" (nel senso di "progressive" o appunto progressista, ma essenzialmente rispetto ai diritti civili: legati aduna questione razziale, nella storia USA, ma, a ben vedere, strettamente connessa con il mercato del lavoro e un esercito di riserva "razziale": eliminato, in parte, è stato reintrodotto allargando il novero delle etnie..Cioè le gerarchie sono state rinforzate. Con la liberalizzazione dei capitali, il che appare ovvio...in questa sede).
      "Liberalism" non ne costituisce la forma espansa (poi contratta come spesso fanno...): ma è pacificamente considerato sinonimo di "free competition" in economia. Talora, non a caso, associato, per evoluzione a base inglese, a "free-trade"...

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    11. @Arturo4 ottobre 2015 23:07

      Impagabile la citazione di quel particolare Graziani (che era ignoto alla mia mia diversa conoscenza).
      Per l'aspetto evidenziato rammento il commiato di Ike da presidente. Il successore ebbe tristemente a dimostrare quanto pericoloso possa risultare tentare lo scardimamento del "quarto partito"

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    12. Confermo sul Manifesto: c'è anche la prefazione di Engels, che non mi ricordavo: d'altronde mi è balzata all'occhio leggendo le varie prefazioni proprio perché, quella in lingua italiana, era rivolta ad una "giovine Italia".

      Ma ci sono un sacco di perle in quel documento storico, che, in riferimento a quello che stiamo vivendo oggi, nonostante i "rapporti di produzione" siano completamente trasformati, la sociologia (conflittualista) rimane un caposaldo per le analisi di qualsiasi orientamento ideologico: che può essere inerente al dibattito segnalo, a proposito di Bobbio, del liberalismo, e, in genere della sinistra cosiddetta "liberale", dalla posizione sull'immigrazione e sul "sottoproletariato", a quella sulle "privatizzazioni" (a proposito di "proprietà"), ricordando la sinistra "liberale" diessina/piddina "pannellizzata":

      «[L'attacco generale alla classe media pare ci porti indietro alla prima metà dell'800, dove per borghesia leggere "quarto partito"...] In questo stadio dunque i proletari non combattono i loro nemici, ma i nemici dei propri nemici, i residui della monarchia assoluta, i proprietari terrieri, i borghesi non industriali, i piccoli borghesi. L'intero movimento storico è in tal modo concentrato nelle mani della borghesia; ogni vittoria così ottenuta è una vittoria della borghesia.

      Il sottoproletariato [leggi: disocuppati, sottooccupati, immigrati...], questa marcescenza passiva dei ceti infimi della vecchia società, viene in qualche caso trascinato da una rivoluzione proletaria, ma per tutta la sua esistenza sarà più incline a vendersi ai reazionari intriganti.
      [...]
      Non nel contenuto, ma nella forma, la lotta del proletariato contro la borghesia è dapprima nazionale. Per prima cosa il proletariato di ogni paese deve naturalmente far fuori la sua borghesia.
      [...]
      La borghesia [leggi "quarto partito"] è incapace di governare perché non è in grado di garantire l'esistenza ai suoi schiavi all'interno del suo stesso schiavismo, perché è costretta a lasciarli sprofondare in una condizione che la costringe a nutrirli, anziché esserne nutrita. La società non può più vivere sotto la borghesia, insomma l'esistenza della borghesia non è più compatibile con quella della società.

      Ciò che distingue il comunismo non è l'eliminazione della proprietà in quanto tale, bensì l'abolizione della proprietà borghese [leggi nazionalizzazioni versus privatizzazioni].

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    13. [De liberalismo...]Nella società borghese il capitale è indipendente e personale, mentre l'individuo attivo è dipendente e impersonale. E l'abolizione di questo rapporto la borghesia la chiama abolizione della personalità e della libertà! E a ragione. Si tratta però dell'abolizione della personalità, indipendenza e libertà borghesi.
      Con "libertà" si intende nell'ambito degli attuali rapporti borghesi di produzione il libero commercio, la libertà di acquistare e di vendere. [Cioè, nel 1848, con buona pace di Bobbio che aveva evidenze solo dal neoliberalismo, si dava per scontato che per liberalismo non si intende altro che liberismo]
      Ma se scompare il traffico, allora scompare anche il libero traffico[per libero traffico si legga "free trade", considerando il radicalismo del comunismo]. Gli stereotipi a proposito del libero traffico, come tutte le ulteriori bravate liberali del nostro borghese, hanno un senso solo nei confronti del traffico vincolato, nei confronti del cittadino medievale asservito, ma non nei confronti dell'abolizione comunista del traffico, dei rapporti borghesi di produzione e della stessa borghesia.
      Voi inorridite perché noi vogliamo eliminare la proprietà privata. Ma nella vostra società esistente la proprietà privata è abolita per i nove decimi dei suoi membri; anzi, essa esiste proprio in quanto non esiste per quei nove decimi. [Ci stiamo tornando a gran velocità?]
      Voi ci accusate dunque di voler abolire una proprietà che verte necessariamente sulla mancanza di proprietà della stragrande maggioranza della popolazione.
      In una parola, voi ci accusate di voler abolire la vostra proprietà. È proprio quello che vogliamo.

      [...]cioè dal momento in cui la proprietà personale non può tramutarsi in proprietà borghese, da quel momento voi dichiarate che ad essere abolita è la persona.
      Voi ammettete così di considerare come persona nient'altro che il borghese, il proprietario borghese. Epperò questa persona deve essere abolita.
      [Il "filantropo" liberale come Übermensch, unico "spirito" che rappresenta l'archetipo di Uomo, il "quarto partito" come coordinazione tra Ubermenschen che non riconoscono lo stato di "umanità" alle classi subalterne]
      [...]
      Dovendo anzitutto conquistare il potere politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, il proletariato resta ancora nazionale, ma per nulla affatto nel senso in cui lo è la borghesia.
      [...]
      Con l'antagonismo delle classi all'interno delle nazioni cade la reciproca ostilità fra le nazioni. [La "concertazione"... e la "pace"]
      [...]
      Le idee di libertà di coscienza e di religione non esprimevano altro che il dominio della libera concorrenza nel campo coscienziale. [Con buona pace dei crociani...]»


      Trovate le differenze tra il 1848 e il post 1989...

      Secondo la tradizione biblica, potrebbe essere il caso di dar forma alle idee, e sostanza alla prassi, cominciando a chiamare le cose col proprio nome.

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    14. @Bazaar5 ottobre 2015 14:48

      " Ciò che distingue il comunismo non è l'eliminazione della proprietà in quanto tale, bensì l'abolizione della proprietà borghese"

      Perdonate se colgo l'occasione al volo (OT perfino nei confronti del testo citato)
      La questione è fondante della civiltà umana (religione, diritto e derivati connessi)
      Tutto è iniziato con la proprietà della terra. In realtà tale proprietà è inammissibile. Dato che ad un certo punto, anche nei casi totalmente legittimi, se ne possono esistere, non si può più trovare un documento frutto della civiltà che attesti un tale diritto. L'unica vera proprietà può riguardare unicamente e solo il valore aggiunto attraverso il lavoro umano.

      Sono molto schematico ma essendo OT...

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    15. Solo per rendere giustizia a Bobbio, poco oltre la citazione che ho riportato: "Naturalmente anche il termine «liberalismo», come tutti i termini del linguaggio politico, ha avuto diversi significati, più o meno estesi. Però il pensiero di von Hayek, esposto in numerose opere che possono bene essere considerate la summa della dottrina liberale contemporanea, rappresenta un'autorevole conferma di quello che è stato il nucleo originario del liberalismo classico: una teoria dei limiti del potere dello stato, derivati dalla presupposizione di diritti o interessi dell'individuo, precedenti alla formazione del potere politico, tra i quali non può mancare il diritto di proprietà individuale. Questi limiti valgono per chiunque detenga il potere politico, anche per il governo popolare, cioè anche per un regime democratico in cui tutti i cittadini hanno il diritto di partecipare se pure indirettamente alla presa delle grandi decisioni, e la cui regola è la regola della maggioranza. Sin dove si estendano i poteri dello stato e sin dove i diritti degli individui, o la sfera della cosiddetta libertà negativa, non può essere stabilito una volta per sempre: però è principio costante e caratteristico della dottrina liberale in tutta la sua tradizione, specie anglosassone, che lo stato sia tanto più liberale quanto più questi poteri sono ridotti e correlativamente quanto più la sfera della libertà negativa è ampia."

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    16. @AP

      Il comunismo alla fine si rifà fondamentalmente all'organizzazione sociale di tipo tribale: ti dirò che, avendo avuto recentemente l'occasione di conoscere (appena) questa forma di organizzazione - anche se "stemperata" nell'civiltà moderna, nella particolare valorizzazione e rispetto dell'ethnos autoctono tipico della cultura e della politica russa - effettivamente non sentirai mai costoro gioire di perdere la cultura ultramillenaria, e il sistema sociale ad essa connesso.

      Di "privatizzazioni" della terra - comprese quelle in senso di "protezione naturalistica" - e generica "economia di mercato", non ne vogliono sentir parlare: l'ultimo "congresso sciamanico" in Mongolia era volto proprio su questi temi.

      Un altro conto è, invece, il senso di "proprietà" in una società finanziarizzata e, ora, basata sui "servizi": non riesco a veder nessun "comunismo" che non sia la progressiva distribuzione del potere di classe tramite la partecipazione del popolo alla vita politica, alla progressiva identificazione tra ente statuale e comunità sociale, e, per finire, la convergenza verso l'effettivo interesse generale tramite l'istituzionalizzazione del conflitto politico e di classe.

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    17. Il comunismo pre-sovietico (come impulso naturalistico immanente e autonomo dal capitalismo "politico"): la centralità pianificata dell'economia e la concidenza apparatnik partitici-Stato sono altamente idonei ad alterare l'identità etnico-culturale dei popoli.

      La "non proprietà" (della terra) ha sostanze molto differenti a seconda che sia prevalente, o meno l'agricoltura, ovvero "caccia e raccolta".
      Ma qui ci inoltriamo su un terreno dagli orizzonti vasti e sorprendenti...

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    18. A scanso di qualsisia equivoci ribadisco il mio status di incallito conservatore seduto sulla Costituzione della Repubblica italiana.
      In merito alla proprietà della terra e, per estensione, delle risorse naturali costituenti stock, le implicazioni culturali sono esplosive (naturalmente non nel senso dei soliti rompipalle che ti fanno saltare in aria se gli rendi la vita appena un pochino più dura).

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    19. @48

      Effettivamente in Siberia, per evidenti motivi climatici, l'agricoltura è praticamente inesistente....

      Comunque, rispetto alla segmentazione e alla "salad bowl" statunitense e dei "federalismi" post-colonialismo europeo, non si può non notare che - nonostante alcune politiche di epoca stalinista - ogni stato federato ha conservato un proprio identitarismo: l'impero russo non ha sterminato gli autoctoni e "l'area del rublo" non ha cancellato i "confini culturali" per la gioia della libera circolazione del fattore lavoro: i georgiani stanno in Georgia, i Ceceni stanno in Cecenia, gli autoctoni degli Altaj vivono sugli Altaj... con una legislazione cucita su misura per le loro particolari esigenze "etnico/culturali"... non sono sicuramenti chiusi in una "riserva".

      Stalin era georgiano, Caterina II era tedesca, Puskin era nipote di uno schiavo di origine africana.... insomma, così, ad impressione, mi sembra uno delle poche, sanguinose, unità politiche veramente multietniche.

      @AP

      Rimuovere le classi o gli ostacoli di ordine economico e sociale, assomigliano molto a strumenti che suonano la stessa musica.

      Chioserei in tema con un:

      «Ogni scienza sarebbe superflua se l'essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero.»

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  4. J.P.Sartre, Ebrei (1948) p.18:
    “L’uomo sensato cerca penosamente, egli sa che i suoi ragionamenti sono soltanto probabili, che altre considerazioni subentrano a metterli in dubbio; non sa mai molto bene dove va; è “aperto”, può passare per esitante. Ma ci sono invece alcuni che sono attratti dalla stabilità della pietra. Vogliono essere massicci ed impenetrabili, non vogliono il cambiamento: dove li condurrebbe il cambiamento? Si tratta di una originaria paura di se stessi e di una paura della verità. E ciò che li spaventa non è il contenuto della verità, che essi nemmeno sospettano, ma la forma stessa del vero, questo oggetto di approssimazione indefinita. È come se la loro esistenza fosse perennemente in sospeso. Ma essi vogliono esistere tutto in una volta e subito. Non ne vogliono sapere di opinioni acquisite, le desiderano innate; poiché hanno paura del ragionamento, vogliono adottare un modo di vita in cui il ragionamento e la ricerca non abbiano che una parte subordinata, dove si cerchi solo quello che si è già trovato, dove si diventi solo ciò che già si era.”

    Sarà pure una riflessione antropologica, non prodotta tuttavia in sede teorico filosofica, era stato in campo di concentramento, trascriveva in pensieri osservazioni empiriche rielaborate. Comunque sia sono idee illuminanti. E anche insidiose però, a quanto pare.
    Perché se le cose stanno come dice Sartre allora alla domanda:
    “Pensate forse che …....destra......sarebbero ancora disposti a supportare le forze che rappresentano chi di loro ha questa considerazione?”
    la risposta sarebbe si!
    La scelta è stata già fatta, da sempre, ci si è decisi per un bene “superiore”: affrancarsi dall'onere “penoso” del pensiero.
    Il popolo dei clientes, inculcato da 2000 anni, ha infine imparato il suo posto. Il padrone non è cattivo!
    Temo che nell'ipotesi che qui viene fatta, ma anche nel blog di Bagnai, per spiegare la persistenza assurda e incomprensibile in questa situazione economica masochistica, del controllo assoluto dell'informazione che ha prodotto il condizionamento perpetuo, vada retrodatata la data di inizio dell'operazione.

    Tuttavia, se devo accogliere come risposta alla domanda: quali potrebbero essere alternative forze contrapposte, che possono attuare una costituzione pensata proprio per comporre i dissidi di forze contrapposte?, che: “ il segno di una democrazia compiuta (e non revocabile, in modo assolutamente discrezionale, secondo il capriccio dello "stato di necessità" imposto dai mercati) è il costituzionalismo.”, e cioè che esse non esistono, e l'unica via d'uscita è il congelamento della Costituzione, mi viene da dire: se non ci riuscì Calamandrei allora, che pure ebbe questa fugace finestra operativa e la Costituzione ancora fumante sul tavolo, che speranza c'è oramai per una simile strada?
    I liberisti avranno già mangiato la foglia.

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    1. Distinguerei tra conflitto sociale, elemento immanente dell'assetto capitalista, e che, qui si evidenzia, è risolto in modo (teoricamente) stabile e definitivo dalla Costituzione, e "forze politiche contrapposte" che possono (o avrebbero dovuto) muoversi all'interno di tale quadro costituzionale.

      E' ovvio che oggi constatiamo come questo appaia un problema superato dagli eventi.
      Sul perchè ciò sia avvenuto, spero ti risulti utile l'intervento di Bazaar (riallacciato al precedente di Arturo) e la ricostruzione storica sintetizzata in risposta a Bazaar poco sopra.

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    2. Più che utile. E sconcertante.
      V'è la constatazione di qualche cosa che ha a che fare con un persistente gioco sporco, sempre e continuamente di bari che si proclamano liberali, come immaginavo, sol per copertura. Ma va bene così, e in più mi allineo anche in questo, ho potuto leggere tutto quello che mi è stato dato da leggere, sono stato malato a casa e il tempo non mi è mancato, insistere su una distinzione liberalismo-liberismo, quando l'universo mondo usa i termini come sinonimi, e anche sorprendentemente in Italia, sembra essere un preziosismo inutile, una battaglia di poco momento, e lo stesso dicasi per la deficienza del popolo, visto che essa viene utilizzata come ulteriore argomento mimetico.
      Tuttavia, prima di abbandonare queste posizioni, e sempre se non suscita irritazione, vorrei ribadire che, dal punto di vista teorico:
      1) la distinzione liberismo-liberalismo è sacrosanta (Croce non può, in nessun modo, essere creduto della compagnia)
      2) il popolo italiano è un terreno fin troppo fertile (Machiavelli lavorò in epoca non sospetta; il coro dell'Adelchi è una constatazione lacerante, è il motivo ripetuto per secoli; manca in esso, in effetti, solo la figura dei collaborazionisti, dei venduti, degli stupidi traditori in ultima analisi)
      3) i liberisti non rappresentano un pensiero effettivo, l'apparente argomentare è solo uno dei qualsiasi espedienti di cani da riporto, sono antropologicamente esattamente quanto descritto da Sartre (si veda questa sconcertante, disperata ma illuminante motivazione di riaffermata volontà di distinzione quand'anche l'avversario si dichiari vinto, sia vinto e aderisca alle opinioni che gli erano avverse:
      Sergio Ricossa a radio radicale del 1998 (minuto 23.30- 25.35) :
      http://www.radioradicale.it/scheda/106520/107017-si-puo-essere-liberali-senza-essere-liberisti-il-rapporto-tra-libero-mercato-e
      In buona sostanza: l'opinione è un espediente tattico semovente. (Ricossa evidentemente è un degno rappresentante della loggia del monte Pelerin, esempio lampante di quello che dice Sartre: noi siamo i Buoni, gli altri sono Satana, se anche sembrano fare come noi: vuoi forse credere che Satana non abbia un suo piano quando aiuta le vecchiette ad attraversare?)

      Qualche perplessità mi accompagna sulla soluzione della Costituzione congelata, ma il punto è che tutto si inquadra in una mia dimensione obliqua, riassunta nei punti sopra. E se potrò contribuire in futuro, credo che sarà solo nel chiarimento di cose, appunto, inutili.

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    3. Non porre limiti alla "provvidenza": leggere, rileggere e approfondire, partendo anche da diversi approcci culturali, serve a rammentare che la logica è un esercizio tendenzialmente vincolato ai presupposti (non a caso detti "razionali")m da cui si muove. Ampliarli è stato proprio un lavoro, collettivo, condotto in questi anni dal blog. E personalmente constato che ne è valsa la pena.

      Poi, (quanto alla logica e al personale "psicologico")c'è sempre il problema cognitivo della "precomprensione": non a caso affrontato in uno dei primi post del blog...

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    4. Caro Matteo, la condivisione del tuo percorso di riflessione la trovo utile e interessante: non è il caso di essere timidi. :-)

      Sui punti che sollevi:
      1) sono d'accordo che sul piano teorico-astratto la distinzione liberalismo-liberismo è possibile. Quello su cui ci si deve interrogare è però la sua rilevanza *pratica*. Ti rimando a una citazione di Bobbio, un autore certo non sospettabile di avversione preconcetta al liberalismo, che avevo riportato qualche tempo fa.

      Poi certo il liberalismo è molto flessibile. In effetti questo secondo Losurdo (ne parla nella sua Controstoria del liberalismo pubblicata da Laterza: credo sia un libro che potresti trovare interessante...) è stato una dei suoi principali punti di forza. Il più celebre costituzionalista liberale italiano (no, non Bognetti ;-)), Carlo Esposito, nel suo famoso commento all'art. 1, scriveva: "la seconda formula [quella secondo cui la sovranità "emanerebbe" dal popolo] era stata preferita perché si riteneva che la sovranità è un attributo dello stato e perché si affermava che, essendo sottoposti all'approvazione popolare solo pochi atti degli organi dello stato, non può dirsi che in Italia l'esercizio della sovranità sia attribuito al popolo distaccandosi da lui (senza tornare indietro) ma appartiene in maniera *inalienabile* [enfasi mia] al popolo.
      E veramente il contenuto della democrazia non è tanto che il popolo costituisca la fonte storica o ideale del potere, ma che abbia il potere; non già che esso abbia solo il potere costituente, ma che a lui spettino poteri costituiti; e che non abbia la nuda sovranità (che praticamente non è niente) ma l'esercizio della sovranità (che praticamente è tutto)." (in Rassegna di diritto pubblico del 1948 ora in La Costituzione italiana, Milano, Giuffrè, 1979, pag. 10). Appunto, nel '48. Insomma, venuta (forse...) meno l'esplicita spendibilità delle ideologie autoritarie, il "capitalismo selvaggio", quando sente il bisogno di indossare il vestito buono, può appoggiarsi solo sul liberalismo.

      Sul punto 2), sono stra d'accordo con l'osservazione di 48 nella risposta delle 08:58 al tuo omonimo. Direi semplicemente che l'offensiva neoliberista nei diversi paesi ha ovviamente attinto a specificità ideologiche e "psicologiche" nazionali, ma quando ci si accorge che, dietro alle apparenti differenze, il pacchetto è sempre lo stesso, risulta chiaro che il punto non sono gli "stili" locali della manipolazione, ma la manipolazione stessa, salvo scambiare gli effetti con le cause. Seguendo un po' i media negli altri paesi te ne accorgi subito. Per esempio di recente ho provato a seguire qualche talk francese...e mi son reso conto che il lib-lab chic europeista è molto più denso in Francia che non in italia. All'epoca del referendum del 2005 Onfray aveva scritto questa divertentissima lettera sull'Europa dei "cretini" con cui metteva alla berlina un pacchetto ideologico che da noi - almeno a me pare - è molto più diluito. Lo stesso Onfray di recente è stato messo in croce a On n'est pas couché (chi capisce il francese e ha tempo se lo guardi perché lascia veramente attoniti) in un modo che da noi non credo che in televisione vedremmo mai. La spiegazione dell'esistenza di questa ideologia è che i francesi sono "snob"? Magari in questo c'è anche del "vero", ma non credo sia il punto fondamentale. :-) (Ho poi un altro paio di osservazioni sul post, ma le rimando a un altro commento).

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    5. Caro Arturo
      credo sia proprio questo il punto. Proprio a Bobbio pensavo, esitando. La citazione che produci non basta tuttavia. In essa Bobbio si limita ad una constatazione empirica:
      “la progressiva identificazione del liberalismo con il liberismo è un dato di fatto inoppugnabile”.
      Il carattere di questa inoppugnabilità, per il momento, non consente replica.
      Bobbio, poi, rigira il coltello nella piaga:
      “Se si guarda al significato prevalente di liberalismo, con particolare riferimento alle diverse correnti cosiddette neo-liberali, bisogna ammettere che tra il filosofo e l'economista ha avuto ragione il secondo.”
      Questo va bene sempre dal punto di vista fattuale, ora, però, si dovrebbe credere che Bobbio condivida una specie di logica statistica per pensare che egli considerasse chiusa la questione in questo modo. Bobbio stesso, da solo, in effetti, minaccia di rendere plausibile questa ipotesi bislacca con la frase: “In Italia un episodio estremamente significativo di questo chiarimento è stata la disputa che si svolse tra Croce e Einaudi” , qui la parola “chiarimento” lascia col fiato sospeso.
      A questo punto ci si deve chiedere se dicendo anche:
      “Nessuno più di uno degli autorevoli ispiratori dell'attuale movimento per lo smantellamento dello stato dei servizi, l'economista austriaco Friedrich von Hayek, ha insistito sulla indissolubilità di libertà economica e di libertà senz'altri aggettivi.”
      Bobbio arrivasse a pensare che Hayek fosse riuscito a conseguire la confutazione della filosofia crociana, quella cosa che era sfuggita ai tentativi maldestri di Enriques. Perché è chiaro che senza il suo concetto di liberalismo non esiste nessuna filosofia crociana. Altra cosa che non dovrebbe essere sfuggita a Bobbio, tuttavia, è che quei due concetti di liberismo e liberalismo, posti così come li pone Hayek non sono in semplice concorrenza per prendersi la maggioranza del mondo, sono in opposizione. Stato per Hayek non è un oggetto inerte malformato, Stato è Politica e in subordine Etica.
      Ma mi riservo, prima di formarmi un giudizio, di leggere: Benedetto Croce e il Liberalismo.

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    6. E sarebbe forse un'operazione di lettura interessante (dipende sempre dai "rationali" di cui disponi), ma che ti allontanerebbe dalla comprensione, o dall'acquisizione degli strumenti "di" comprenione, del nostro tempo.

      Ho cercato più volte di evidenziare che questa distinzione nasce da un equivoco linguistico nella trasposizione in italiano (e probabilmente in tedesco) di un filone culturale che nasce in Gran Bretagna dalla 1a rivoluzione industriale e si evolve ruvidamente negli Stati Uniti: il "liberalist" nasce e si autodefinisce come colui che legittima le gerarchie "nuove" dal capitalismo parlamentarizzato, susseguente al primo capitalismo, in contrapposizione alle monarchie dell'ancien regime.

      Si fa, più o meno esattamente, riferimento a Smith ma, above all, con più certezza, a Ricardo e poi a Malthus e, in forme di evoluzione verso la scienza, a Pareto e a Jevons. Costoro si esprimono, inizialmente (prima che nascesse il positivismo come teoria filosofica omnicomprensiva e praticamente neo-epistemologica) nell'ambito della "filosofia morale" (come, ancor prima, gli stessi "fisiocrati" di cui Malthus incorpora una parte fondante del suo pensiero...liberalista che è il più spietatamente liberista).

      Ma dalla teorizzazione di questi imprescindibili pensatori (proto-economisti, per l'oggetto specifico della loro indagine), possono derivare altre osservazioni, appunto "derivate", e che finiscono per essere avulse dal corpo di pensiero originario per pura speculazione selettiva (appunto "derivata", è il caso di Croce in Italia); i liberalist originari si occupano dunque di fondare l'economia "classica", portandola attraverso l'uso di matematica e statistica verso la neo-classica, cioè verso una pretesa scienza obiettiva e "naturale".

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    7. Ebbene, il liberalismo (linguistico: da suggestione derivante dalla intraducibilità univoca dell'inglese "iberalism", compatibile in italiano sia con liberismo che liberalismo), ha il difetto di volersi occupare dello stesso contenuto delle scienze sociali (nel frattempo divenute autonome) senza appunto riconoscerne la affermata autonomia e senza "conoscerne" la vera elaborazione, che è ormai il bagaglio ideologico del sistema di potere "effettivo" e non "ideale" (appunto Croce).

      Chi specula su "libertà" e dignità morale dellindividuo come fondamento di una società giusta, non fa altro che applicare il senso comune imposto dall'assetto di potere capitalista, senza poterlo più mettere in discussione (dopo Marx, specialmente, diventa un esercizio, tutto italiano, che relega persino il materialismo storico e la distinzione struttura-sovrastruttura, nel campo del possibile idealismo).

      Ma, per farla breve, si tratta di una duplice, inavvertita (dal liberale) derivazione:
      - sul piano sociologico, perchè il liberismo ha prima ancora, già automaticamente ed espressamente elaborato il concetto di controllo cultural-propagandistico come sua parte strumentale essenziale (per il controllo dei parlamenti di fronte all'allargamento dell'elettorato)
      - sul piano logico concettuale, perchè i liberali (politico-filosofici) assumono come fatto morale (epistemologico) dei dati che non sono altro che la registrazione (per lo più inconscia) di un tipo di società che ipostatizzano senza alcuna seria indagine storica.

      Insomma, si può dire che i "liberali" come fenomeno di filosofia poliica esistono, certo, ma ciò assume solo un carattere descrittivo (tautologico: se esistono non lo si può negare) e privo di autonomia nella spiegazione dei fenomeni: certo, a livello intuitivo individuale, non tutto quello che dicono è apparentemente assurdo o inaccettabile, purchè non se ne contestino le premesse ellittiche e non indagate.

      Ma Croce si interessa, senza volerlo, di ipostatizzare le "gerarchie"" della borghesia (liberista): non si rende conto che queste riposano sui liberisti-economisti, che, con ben altro rigore metodologico e politico, impongono il mercato del lavoro-merce e la deflazione per avere interessi reali positivi a favore del capitale (sempre più finanziarizzato).

      Per di più le gerarchie sociali, acriticamente "naturalistiche", le postulano dal lato difensivo e vittimistico: contestarle, dicono, pone in pericolo il pacifico ordine sociale raggiunto da un nuovo tipo "brava gente comune" contro scellerati eversori (che sarebbero una costante, le cui cause, percuò, non vale la pena di indagare).

      Ma tendono a concepire questo schema per un fatto (inconsciamente?) molto personale.

      Si tratta di piccolo borghesi intellettuali che assurti a facitori del controllo sociale liberista (formatori dell'opinione pubblica e quindi appostatisi nella "media" borghesia intelletuale) voglino in sostanza conservare il proprio piccolo privilegio contro aggressioni che sentono violente e espressione di degenerazione "bestiale" della natura umana.

      La struttura dei rapporti di produzione non gli interessa; gli interessa fissare, senza troppo indagare, una meritocrazia - che offrono come soluzione generale e quindi politica-, che bolli come innaturale la eguaglianza sostanziale e ragionano, a posteriori rispetto al fatto compiuto, di assetti istituzionali (niente affatto meritocratici, ad avere i mezzi di analisi degli economisti) che, conservando l'ordine sociale pseuso-naturale e "etico", forniscano una ideologia di lotta politica abbastanza di massa per far vivere sonni tranquilli al capitalismo sfrenato.

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    8. In breve, nella discussione tra Einaudi e Croce si potrebbe assumere che aveva "filologicamente ragione" Einaudi.

      Ma, ora, non so se Quarantotto abbia usato intenzionalmente il termine "liberalist": questo termine non è mai stato diffuso, né in inglese, né in italiano.

      Ed è un proplema in ordine di offuscamento dell'impianto morale del liberalismo non indifferente: il suffisso *ism* indica generalmente una qualificazione di carattere ideologico piuttosto che generico attributo o qualità dell'individuo.

      Questo, stando con la splendida panoramica offerta da Quarantotto, tende ad esprimere il carattere "sovrastrutturale" nella sua qualità più "cosmetica" ed "estetica", di "marketing" dietro a questa coloratissima ideologia.

      Perché chi promuove politiche sociali è "socialista", chi auspica al comunismo è "comunista", mentre chi promuove il lberalismo è... "liberale".

      Che, come faceva notare Strauss in relazione alla sua etimologia completamente storpiata, è un termine che nella nuova élite mercantile e finanziaria è venuto ad assumere una qualità morale.

      Anzi, oserei paragonare la qualificazione di "liberale", a quella di "cavaliere" per i conservatori anglosassoni (la virtù della tradizione cavalleresca, per esempio la cavalleria verso la donna come anticipatrice del femminismo del liberalismo sociale): poiché i conservatori tendenzialmente rappresentavano l'aristocrazia terriera, i "liberali" rappresentavono la nuova élite borghese. Poiché si contendevano i medesimi posti nella gerarchia sociale, il progressismo dei secondi sui primi non poteva che essere cosmetico.

      Sicuramente non ha mai avuto un significato generico di "progresso sociale" inteso come impegno alla giustizia distributiva, almeno fino a quel percorso che inizia con J.S. Mill e finisce con Keynes in UK e, per altri aspetti, con Dewey in USA.

      Per questo il "liberalismo filosofico", al di là degli aspetti meramente nominalistici, fa più danno che altro.
      La stessa distinzione nominalistica tra liberalismo e liberismo, non solo rimane inutile, ma diventa controproducente: perché "liberista" è immediatamente riconoscibile come attributo ideologico, rafforzando l'idea che "liberale" sia una qualificazione eminemente morale.

      Lo stesso Bobbio riconosce che il liberalismo sociale è il socialismo "preso da destra", mentre l'italianissimo "socialismo liberale" è liberalismo preso da sinistra: non a caso Salvemini aveva contaminazioni di liberismo economico tout-court e... federalismo.

      Se è chiaro che federalismo e liberismo/liberoscambismo sono due facce della stessa medaglia, è evidente il motivo per cui dai Salvemini, Gobetti, Rosselli, si arriva ai Rossi a agli Spinelli che a Ventotene non fanno altro che scrivere a pappagallo ciò che blaterano da decenni gli Einaudi.

      Prima di Roosevelt e Keynes i "liberali" americani erano il non plus ultra del liberismo/liberoscambismo, mentre i repubblicani erano coloro che avevano più contaminazioni socialiste: infatti, ora, in pieno *neoliberalismo*, i liberali, che, dopo Roosevelt, sono teoricamente i promotori del socialismo democratico per via del PD, auspicherebbero all'introduzione del termine "liberalist".

      Con la libertà in senso ideale, il liberalismo non ha mai avuto a che fare: ne è l'estetica, non l'etica. L'etica è sempre stata lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

      Chi aveva reali premesse morali nel senso ideale e utopico di "libertà" furono i "libertari", perlopiù anarchici. Ora sono gli austriaci.... gli anarcocapitalisti.

      Direi che è meglio parlare di "giustizia sociale" che, per prassi come indicata dalla scienza economica e giuridica, implica la libertà e l'eguaglianza in senso sostanziale, non estetico.

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    9. Caro Matteo, credo che l'astrazione dal preciso contesto storico della disputa Croce-Einaudi abbia fatto sfumare il significato esatto sia della crociana religione della libertà sia delle preoccupazioni einaudiane.
      Sul primo punto, aveva scritto pagine incisive Asor Rosa (quando ancora non invocava golpe democratici). Croce intendeva "staccare la borghesia dalla sua radice economica, di classe" (Asor Rosa, La cultura, in Storia d'Italia Einaudi, vol 10, pag. 1528), dilatando "i confini ideologici della concezione liberale, fino a farne, né più né meno, una concezione della vita, consistente, al pari dell'etica moderna, nel rifiutare "il primato di leggi e casistiche e tabelle di doveri e virtù", e nel porre "al suo centro la coscienza morale" (dove è trasparente l'allusione polemica al tentativo gentiliano d'incardinare concezione della vita e morale ai valori dati e immobili del fascismo)". Il liberalismo crociano "assume sempre più un carattere religioso". Scrive Croce: "senza religiosità, cioè senza poesia, senza *eroismo*, senza coscienza dell'universale, senza armonia, senza sentire *aristocratico* [enfasi mie], nessuna società vivrebbe [...]". In parole povere, l'allargamento teorico del liberalismo operato da Croce non coincide con un allargamento sociale, ma mi pare proprio nel suo contrario, cioè finisce col far coincidere il liberalismo con una coscienza di ceto di quegli intellettuali a cui il ruolo di trombette a cui il fascismo li relegava andava stretto.
      Quello che preoccupava Einaudi, che ben sapeva il successo che fra gli intellettuali italiani il liberalismo crociano aveva raccolto, era che esso fosse il sintomo di una possibile disponibilità dei medesimi *verso il comunismo*: questo, e non altro, secondo me preoccupava Einaudi. Giustamente, peraltro, vista l'apertura verso il PCI mostrata da Croce con l'opuscolo Nota sui partiti e la libertà "redatta nell'aprile del 1943" e "fatta circolare clandestinamente fra la cerchia degli amici" (G. Santomassimo, La terza via fascista, Roma, Carocci, 2006, pag. 139). Un'apertura che tuttavia non impedì a Croce, vistane sfumare la praticabilità, di assumere, sia pure senza convinzione e solo per breve tempo, la presidenza del nuovo partito liberale, la cui ricostruzione era però avvenuta "sotto il segno delle idee di Einaudi, delle aspettative e della tutela confindustriali". (Ibid., pag. 140).
      Citiamo direttamente Croce (Croce, Einaudi, Liberalismo e liberismo, Milano, RCS Quotidiani, 2011, pag. 89): "Di questo liberismo, dell'"economia di mercato", di questa che chiama "la terza via", il Roepke è il principale autore e l'indefesso apostolo, e la dimostrazione che egli ha data, con argomenti di fatti, del fallimento di un'economia pianificata, è fortemente probante. Ma non bisogna, d'altra parte, mai trascurare che anche le pianificazioni serbano il loro diritto, e anche, in certe condizioni e con certe precauzioni, il diritto all'eventuale esperimento, perché, sebbene la critica dottrinale, con la logica che la regge e con le conseguenze pratiche che ne discendono, abbia grandissimo peso e stia a fondamento di di tutto, l'imponderabile che è negli atteggiamenti degli animi e negli spontanei accomodamenti prodotti dalla necessità inevitabile di salvare l'individualità e la socialità, può rendere talvolta concrete e storiche certe formazioni che sembravano alla prima non attuabili o attuabili solo con gravi danni e finale fallimento. E cotesto non è scetticismo né agnosticismo, ma *cautela* e riconoscimento che il pensiero, che è verità, fa della forza creatrice della volontà umana, più ricca dei nostri schemi e dei nostri calcoli".

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    10. Una "cautela", che una volta stabilizzatisi i rapporti di potere e assegnato agli intellettuali il ruolo a cui realisticamente possono ambire, non ha più motivo di esercitarsi.
      Mi pare insomma gran tempo di liberarsi del mito di Croce.

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    11. Cautela e riconoscimento.
      Caro Arturo
      “Cautela” può apparire rassicurante per le preoccupazioni einaudiane. “Riconoscimento” conduce alla scarica adrenalinica.
      La prima è una parola che può apparire tattica, tutta politica. La seconda è filosofica. L'ultima frase a me suona diversa. Ma mi si deve dare tempo. Per ora ripeterei che, nei fatti Croce si mise di traverso per la pubblicazione de La Via della Schiavitù, come ho già ricordato un'altra volta, tanto da rendere il compito che si era assunto Eiunaudi, per non mancar di rispetto, piuttosto delicato. Alla fine fu pubblicato dalla casa Einaudi un volume sul pensiero austriaco, più serio, ma per il libro di Hayek, il quale era divenuto intanto querulo e petulante sulla pubblicazione, la cosa finì in sceneggiata napoletana. E questa forma d'anatema indiretto si protrae fino a noi; quel libro che è celebrato in tutto il mondo e soprattutto negli Stati Uniti, come una pietra miliare del pensiero politico, come dice anche Friedman, qui è toccato di pubblicarlo sempre di contrabbando, in collane secondarie o case editrici di secondo piano, almeno per quanto ne so. Ad esempio non lo trovai nella mia biblioteca provinciale, dove ho trovato cose inaudite. Ma insomma il pensiero di Croce per il momento mi appare contrario esplicitamente, non mimetizzato. Devo leggere Bobbio, e riflettere. E non è per sfiducia nei vostri confronti. Di materiale qui mi avete subissato, io però devo seguire i miei percorsi, e non assumo nulla per scontato mai.

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  5. DISSEMINAZIONI & PROPAGGINI

    Hai proprio ragione – caro Knight – nel proporre dapprima il 36° esagramma degli steli d’achillea, quello dell’ottenebramento della Storia che, a guardar bene, è scritto a lettere chiare nella cronacistica quotidiana di e/venti che ululano minacciosi, e immeditamente da/dopo la sua metà – “il fratto / due” - il 16° che, della tabella pitagorica, ne diviene la quarta potenza – e non più la quinta - del “duale”.

    Restano – nell’elevazione a potenza tra i 4 e il 5 – i dispacci imperiali della banca centrale in/dipendente [BIS, banca dei regolamenti internazionali – www.bis.org] sulla DISSEMINAZIONE & PROPAGGINI delle politiche monetarie planetarie, natural/mente distolte da ogni controllo e regolamento, e i cablogrammi che annunciano Jens Weidmann – il “ragazzo di BuBa” che certa/mente non ha assaporato e non assaporerà il Carlo Cassola e molti altri ancora – come prossimo presidente della banca dei banchieri.

    C’è da tenere - senza sandali - ben saldi i piedi per terra, la testa sul collo e il “core” in mano per vedere l’effetto che fa ..

    That's all, folks!

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  6. il cittadino dovrebbe pensare di non votare per chiunque non ponga la questione...

    io dico che bisogna votare chiunque si opponga al sistema ... quantomeno " a chiacchiere" .. perche' poi se costui "vince" e' tutta un' altra "pratica".
    Infatti lo strapotere del sistema e' tale che l' unica cosa che possiamo fare e' tentare di smascherarne i meccanismi. Ad esempio le elerzioni del 2013 andarono benissimo perche' costrinsero la falsa destra ( berlusconi) e la falsa sinistra ( bersani) a mettersi insieme dando il ruolo di ( falsa) opposizione all' M5s, in pratica quindi smascheando tutti e 3.
    Poi pero' le cose sono andate come sono andate, dimostrando lo strapotere del sistema e i suoi molti strumenti di " ribellettmento" ,e quindi che sara' una strada lunga , direi anche quasi senza speranza

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  7. io credo che l'analisi vada fatta dal punto di vista storico culturale, gli italiani sono un popolo individualista per ragioni storiche basta considerare che già parlare di popolo basta per farsi additare comunista da molti, e poco si è fatto per creare una coscienza di popolo in italia e da ciò deriva citando bagnai l'incapacità di capire quali sono i propri interessi nel lungo periodo.
    A ciò si aggiunge in molti la totale incomprensione delle meccaniche macroeconomiche, incomprensione alimentata dai media e da ciò si arriva alla concezione che lo stato sia un entità terza in contrasto con il popolo anzi contro il cittadino ignorando totalmente la funzione redistributiva che esso svolge quindi ben venga chiunque promette tagli di tasse e di spesa pubblica.

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    1. Si potrebbe trovare queste stesse spiegazioni all'avanzata neo-liberista in tutta €uropa. Anzi, in tutto il mondo.
      Seguendo il dibattito relativo a questo post e a quelli citati in apertura, si può comprendere come siano problemi da dare per scontati proprio dal punto di vista storico e culturale (cultura delle scienze sociali, economia e diritto pubblico anzitutto): quello che interessa è la ricostruzione, la più accurata possibile, e senza appiattimenti su formule tutto sommato statiche, degli eventi che storicamente consentono di spiegare i fenomeni presenti e i loro antecedenti "organici".

      Individualisti è una categoria che mi sfugge, alla luce dei dettami scientifici appropriati all'analisi: da Pareto a Jevons, a Malthus ai von Hayek italici e non, la categoria dell'individualismo è una deduzione sedativa brandita in ogni parte del mondo (capitalista) per coinvolgere nella "opinione pubblica", (calata dall'alto), le classi subalterne, in modo che debbano, per legge naturale darwinista (e già si scorge la contraddizione tra ferrea propaganda mediatica e realtà che si vuole imporre contro...natura) rimanere tali.

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    2. ma li sta il dramma del neo-liberismo che ha trovato facilmente la strada per insinuarsi nella cultura europea. e aggiungerei che molti percepiscono la realtà anche non avendone una conoscenza precisa ma si rassegnano all'ineluttabilità degli eventi e cercano di trarne il massimo vantaggio e finché saranno convinti di poter approfittare degli eventi o passarli indenni non accetteranno mai la verità.

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