1. Nel post ALLA RICERCA DELLA SOVRANITA' PERDUTA: SALVIAMO (chirugicamente) LA COSTITUZIONE, e nell'articolato dibattito che ne è seguito, abbiamo cercato di delineare le misure di rafforzamento dell'attuale modello costituzionale di fronte allo svuotamento determinato da ogni genere di trattato economico che imponga un "vincolo esterno": in essenza, si tratta di
precisare i limiti e le procedure di verifica democratica della legittimazione e del modo
di esercizio del potere negoziale di coloro che sono chiamati a trattare in
nome e per conto dell’Italia.
E ciò rispetto ad ogni tipo di trattato
internazionale, futuro ma anche passato e ancora in applicazione.
"Messo in sicurezza" questo presupposto imprescindibile di ogni iniziativa negoziale legittima entro il quadro dell'art.11 Cost., in un modo che rifletta, né più né meno, la reciprocità rispetto a quello che reclama (qui pp.2-3) un "contraente" come la Germania rispetto al proprio modello costituzionale, proviamo di conseguenza a ipotizzare in che modo si possano modificare i trattati europei attuali, nell'ambito di qualsiasi strategia volta a renderli sostenibili in coerenza con la tutela della sovranità democratica del lavoro delineata in Costituzione.
2. La premessa "di sistema" dovrebbe basarsi, in teoria, sulla consapevolezza che occorra correggere un andamento del capitalismo contemporaneo che cerca di imporre "l'ordine internazionale del mercato", e che Basso aveva descritto in questo modo:
“… È la naturale tendenza antidemocratica del neocapitalismo che deve difendere il carattere privato dell’appropriazione del profitto in un’economia le cui dimensioni sono sempre più vaste e le cui fondamenta sempre più collettive; la contraddizione fondamentale del capitalismo giuoca qui nettamente nel senso di cercare di svuotare la collettività di qualsiasi potere decisionale con tanta maggior forza quanto più la logica delle cose spingerebbe nella direzione opposta.
“… È la naturale tendenza antidemocratica del neocapitalismo che deve difendere il carattere privato dell’appropriazione del profitto in un’economia le cui dimensioni sono sempre più vaste e le cui fondamenta sempre più collettive; la contraddizione fondamentale del capitalismo giuoca qui nettamente nel senso di cercare di svuotare la collettività di qualsiasi potere decisionale con tanta maggior forza quanto più la logica delle cose spingerebbe nella direzione opposta.
Che poi questo processo antidemocratico si svolga nel senso di una vera e propria dittatura di tipo fascista, o nella forma del potere personale di tipo gollista, o nella formazione di una ristretta oligarchia di uomini d’affari, alta burocrazia civile, militare e tecnica, e leader politici, non cambia molto la sostanza delle cose: i processi in atto nei paesi occidentali sono più o meno tutti in questa direzione.
In una società di massa, questo processo è possibile se si
riesce ad ottenere l’appoggio, magari passivo, delle masse: a questo fine la depoliticizzazione, la deideologizzazione, la mistificazione della coscienza delle masse, l’alienazione concepita soprattutto come non-partecipazione, come isolamento dell’uomo dalla sua vita collettiva …” [L. BASSO, L’integrazione e il suo rovescio, in Problemi del socialismo, marzo-aprile 1965, n. 1, 47-72].
3. Per individuare le linee fondamentali di una "revisione" dei trattati che riesca a preservare la democrazia dalle prevaricazioni dell'oligarchia cosmopolita (v. qui, p.2) del grande capitale, muoviamo dalle criticità evidenziate da Federico Caffè: l'attualità di queste indicazioni è oggi ancor maggiore, se si considera che la privazione della sovranità monetaria in cui ci colloca l'appartenenza all'eurozona, amplifica le esigenze di correzione dei problemi da lui evidenziati.
I trattati economici sono, com'è noto, ormai quasi esclusivamente volti a imporre il liberoscambismo, e utilizzano rigidi sistemi di condizionalità (derivati dal "sistema FMI") per travolgere ogni resistenza: quello europeo è un modello particolarmente intenso in questa direzione, acutizzando l'assoggettamento dei popoli coinvolti agli effetti della c.d. globalizzazione, con tutti i problemi di democrazia evidenziati da Rodrik.
Veniamo dunque all'analisi di Caffè sul problema delle relazioni economico-commerciali internazionali, e quindi del "vincolo esterno" considerato come ricerca dell'equilibrio dei conti nazionali con l'estero, e veniamo alla sua analisi sul come ogni soluzione sia resa più ardua dall'assoggettamento alle regole di un trattato federalista europeo (considerata la originaria e immutabile ideologia, mercatista e liberista, che caratterizza da sempre questa costruzione).
4- Caffè in termini generali sul problema dell'equilibrio dei conti con l'estero (il suo è definito "intelligente pragmatismo" in un mix dosato e ragionevole di liberoscambismo e protezionismo):
"La piena occupazione
e il vincolo dei conti con l’estero.
Una tipica applicazione dell’intelligente pragmatismo degli
economisti che Caffè si scelse come maestri - e di altri che ebbe per compagni,
come Giorgio Fuà e Sergio Steve - è rappresentata dal modo di trattare il
vincolo dei conti con l’estero. Tale vincolo - imposto dalla necessità, o dall’opportunità,
di non superare un certo disavanzo di parte corrente - è spesso assimilato a
quello della piena occupazione: se il vincolo dei conti con l’estero non viene
spontaneamente rispettato, si argomenta, bisogna intervenire con misure
deflazionistiche. Ragionare in questo modo significa rinunciare a chiedersi che cosa faccia sì che, nella concreta
situazione in esame, il vincolo dei conti con l’estero si incontri prima che
venga raggiunta la piena occupazione, e dunque che cosa possa essere fatto per allentare il vincolo stesso.
Se la difficoltà sorge dall’insufficienza della capacità
produttiva disponibile - che si traduce in un innalzamento della propensione a
importare quando venga superato un certo livello di attività produttiva - è a
tale insufficienza che va posto rimedio attraverso un’appropriata politica dell’offerta. Un compito,
questo, che risulta fortemente facilitato dal fatto che l’insufficienza della
capacità produttiva non si manifesta simultaneamente in tutta l’economia, ma
assume la forma di strozzature produttive,
aggredibili con interventi settoriali. Complementare, e non alternativo, al
compito suddetto è quello di accrescere la capacità di esportazione.
Degli ostacoli che le strozzature frappongono alle politiche
di piena occupazione erano ben consapevoli quelli che Steve ha chiamato i
«keynesiani della prima generazione», fra i quali vanno compresi Michał
Kalecki e gli altri autori del libro L’economia
della piena occupazione, del 1944, tradotto in italiano nel 1979 con un’introduzione
di Caffè.
«Se non esistono riserve di capacità o queste sono insufficienti
- scrive Kalecki in questo libro - il tentativo di assicurare la piena
occupazione nel breve periodo può facilmente causare delle tendenze
inflazionistiche in vasti settori dell’economia, poiché la struttura della
capacità produttiva non è necessariamente adeguata alla struttura della domanda
[...]. In un’economia nella quale l’attrezzatura produttiva è scarsa è quindi
necessario un periodo di industrializzazione o ricostruzione […]. In tale
periodo può essere necessario impiegare controlli non dissimili da quelli
impiegati in tempo di guerra.». Un’affermazione come questa basta da sola a
mostrare tutta l’inconsistenza e la superficialità dell’identificazione, che tanto
spesso si è voluta fare, fra keynesismo e politiche keynesiane, basate
esclusivamente sul sostegno della domanda aggregata.
Se, anziché con la politica dell’offerta, il miglioramento
dei conti con l’estero viene perseguito per mezzo della deflazione, il freno
che ne deriva alla formazione di capacità produttiva tenderà ad aggravare
ulteriormente la situazione. «E’ un affare molto serio - ha scritto un altro
keynesiano della prima generazione, Richard Kahn - se l’attività produttiva deve
essere ridotta perché la produzione a pieno regime comporta un livello di
importazioni che il paese non può permettersi. Ed è un affare particolarmente
serio se la riduzione in esame prende largamente la forma di una riduzione
degli investimenti, inclusi gli investimenti volti alla formazione della
capacità produttiva capace di farci esportare più beni a prezzi più
concorrenziali e di diminuire la nostra dipendenza dalle importazioni.» (11).
Se
proprio occorre ridurre gli investimenti, afferma ancora Kahn, tale riduzione
deve essere «altamente discriminatoria»: bisogna, cioè, tentare di «stimolare
gli investimenti nelle industrie esportatrici e in quelle capaci di sostituire
le importazioni, particolarmente nei settori in cui è l’attrezzatura produttiva
a rappresentare la strozzatura, e di scoraggiarli in tutti gli altri settori.
Le restrizioni monetarie possono, tuttavia, essere caricate di un contenuto
discriminatorio solo con difficoltà ed entro limiti piuttosto ristretti.
Vi
sono qui, per eccellenza, forti ragioni per ricorrere a metodi alternativi di
scoraggiare gli investimenti, e particolarmente a quei metodi che operano
attraverso controlli diretti» (12)...
«E’ consentito
discutere di protezionismo economico?».
Se mi sono dilungato sulle idee dei «keynesiani della prima
generazione» è per ricordare le radici di una posizione cui Caffè restò fedele
per tutta la vita. «Nel mio giudizio - egli affermava nel 1977 - gran parte dei
mali economici del presente è da attribuire al mancato impiego di ragionevoli,
circoscritti e selettivi controlli diretti; il che porta ad affidare soltanto
ai “prezzi di mercato” una funzione di razionamento, resa spesso iniqua da una
distribuzione del reddito e della ricchezza accentuatamente sperequata» (14).
...L’accoglienza riservata a proposte anche solo blandamente
protezionistiche era tuttavia tale da indurre Caffè a chiedersi, nel titolo di
un suo articolo, "E’ consentito discutere di protezionismo economico?"
Certo, non
era consentito discuterne pacatamente, la reazione degli avversari consistendo
spesso nel rifiuto aprioristico e nella sleale (o stupida) deformazione delle
proposte, quando non nell’accusa di volere l’«autarchia» (con quanto di
evocativo dell’esperienza fascista questo termine inevitabilmente comportava).
Per parte sua, Caffè non smise di fare appello alla ragione. «L’accorto
dosaggio tra le misure intese ad accrescere le esportazioni, mantenendole
competitive, e quelle rivolte a favorire l’incremento delle produzioni
sostitutive delle importazioni - leggiamo nell’articolo appena ricordato –
andrebbe cercato su un piano di mutua comprensione e di reciproco rispetto.
Colpire ogni voce di dissenso con l’addebito di tendenza all’autarchia è mera
espressione di arroganza intellettuale ben poco lodevole. E’ auspicabile che a
un inesistente monopolio della verità si sostituisca il proposito di tener
conto delle ragioni degli altri. E ve ne sono in abbondanza» (17).
Contro la libertà di
movimento dei capitali.
Un discorso a parte merita la necessità, su cui Caffè ha
sempre insistito, di limitare la libertà di movimento dei capitali,
particolarmente in un sistema di cambi come quello di Bretton Woods o come il
Sistema monetario europeo, cioè in un sistema di cambi modificabili di tempo in
tempo con determinate procedure, ma fissi, o pressoché fissi, fra una modifica
e l’altra. La necessità suddetta nasce da due diverse considerazioni.
La prima
è che, se i capitali sono liberi di spostarsi da una valuta all’altra, la
difesa del tasso di cambio grava interamente sulla politica monetaria,
impedendo a quest’ultima di tenere adeguatamente conto della situazione
economica interna (o costringendola addirittura a muovere nella direzione
opposta a quella che tale situazione richiederebbe). La seconda considerazione
è che la manovra dei tassi di interesse è comunque di limitata efficacia di
fronte a un attacco speculativo in atto; quando infatti la svalutazione di una
moneta è attesa a brevissima scadenza, può risultare attraente speculare contro
di essa anche in presenza di tassi d’interesse iperbolici, quali l’economia non
potrebbe sopportare per più di poche settimane.
Caffè lodava spesso la saggezza dei costruttori del sistema
di Bretton Woods, i quali avevano previsto la possibilità di imporre controlli
sui movimenti di capitale. E ricordava con particolare approvazione quella
clausola dello statuto del Fondo monetario internazionale (rimasta di fatto in
vigore solo fino al 1961) che escludeva che un paese membro potesse ricorrere
all’assistenza del Fondo allo scopo di fronteggiare un’ingente e prolungata
fuga di capitali, e prevedeva inoltre che il paese membro potesse essere
invitato ad adottare opportuni controlli, atti a impedire un tale uso dei mezzi
valutari concessi (18).
Egli non ha potuto assistere al tentativo europeo di
far convivere cambi fissi e totale libertà di movimento dei capitali: due
termini che l’esperienza e la riflessione facevano ritenere antitetici, e che
tali si sono rivelati. E non ha neppure potuto assistere al trionfo di una
concezione della politica economica che rappresenta l’esatto contrario
dell’intelligente pragmatismo: la concezione che suggerisce di fissare il tasso
di cambio, asservire a esso la politica monetaria e attendere che l’intera
realtà sociale, nella sua infinita complessità, si riassesti - non importa a
quali costi - intorno a questo punto fermo. Ma non è difficile immaginare cosa
ne avrebbe pensato.
...
Messaggi non
ricevuti.
Fra le manifestazioni della vocazione sobriamente
protezionistica (e accentuatamente anti-deflazionistica) di Caffè va ricordata
la sua opposizione alla partecipazione dell’Italia al Mercato comune europeo
nella seconda metà degli anni cinquanta (21). Non che fosse l’unico ad avanzare
dubbi e perplessità al riguardo: dubbi e perplessità, com’egli stesso amava
ricordare, erano anzi alquanto diffusi fra gli economisti (22).
Particolarmente
degni di nota appaiono tuttavia i due pericoli che Caffè segnalava: quello del
predominio economico della Germania e quello, conseguente al primo, dell’affermarsi
a livello europeo di orientamenti di politica economica poco favorevoli al
raggiungimento e al mantenimento nel tempo della piena occupazione. Così come
non è senza significato che egli si dichiarasse favorevole alla Zona di libero
scambio (proposta allora in alternativa al Mercato comune), al cui interno il
peso economico della Germania avrebbe potuto essere controbilanciato da quello
dell’Inghilterra e l’inclinazione deflazionistica della prima essere corretta
dal prevalere nella seconda di correnti d’opinione e impostazioni di politica
economica di derivazione keynesiana...
La preoccupazione che l’Europa nascesse sotto un segno
deflazionistico ci rimanda alla preoccupazione per la nascita sotto lo stesso
segno dell’Italia repubblicana, manifestata da Caffè in un articolo come Il mito della deflazione, pubblicato in forma
anonima sulla rivista «Cronache sociali» nel 1949 (23).
Al grande equivoco del
dopoguerra – la riscoperta in nome dell’antifascismo di un liberismo
oltranzista – egli contrapponeva in questo notevolissimo articolo una solida
formazione keynesiana, un pacato realismo e un’acuta consapevolezza che le
occasioni di progresso sociale, una volta perdute, difficilmente si
ripresentano...
Fra coloro che non davano segno di ricevere i suoi messaggi
Caffè annoverava non solo le forze di governo, ma anche quelle di opposizione, e
in particolare il Partito comunista, cui rimproverava la fede incrollabile nel
primato della politica sull’economia e una cultura economica subalterna a quella
dominante e impermeabile al keynesismo.
La sua critica assunse toni particolarmente accesi poco dopo
la metà degli anni settanta, quando il Partito comunista, forte di poderosi
successi elettorali, entrò a far parte di una vasta coalizione parlamentare che
trovava il suo fragile cemento in un programma di stabilizzazione monetaria.
Caffè sorrideva amaramente di quel programma e dei suoi presupposti teorici,
come anche della generale approvazione con cui venivano accolte le
terroristiche ingiunzioni del Fondo monetario internazionale (divenuto ormai,
com’egli sottolineava, un organismo ben diverso da quello prefigurato dagli
accordi di Bretton Woods).
Considerava un grave errore, da parte della sinistra,
garantire il consenso a una politica deflazionistica. E parlava dei guasti
economici e sociali che in questo modo si producevano e di quelli cui ci si
asteneva dal porre rimedio, del dramma dei giovani senza lavoro, della
disgregazione sociale del Mezzogiorno, delle speranze suscitate e destinate ad
andare deluse.
La sinistra, soleva ripetere, cadeva in un errore simile a
quello commesso nell’immediato dopoguerra, quando aveva preso parte a governi
di coalizione caratterizzati sul piano economico in senso conservatore; con il risultato
di consentire alle classi dominanti di rafforzarsi fino al punto di poter fare
a meno di dividere con le sinistre il governo del paese.
“Se sono esatte le notizie riferite dalla stampa circa le
“sollecitazioni” con le quali la Comunità economica europea avrebbe
accompagnato l’accettazione del provvedimento italiano di un deposito
provvisorio infruttifero, nella misura del 30%, su determinate
importazioni o acquisti divaluta estera per specificati scopi, ci si
trova di fronte a un comportamento che attesta con chiarezza come la
cooperazione comunitaria si sia trasformata in esplicito rapporto di
vassallaggio.
Una espressione di indignazione morale di fronte a questo
stato di cose lascerà del tutto indifferenti le autorità politiche del
nostro paese, alle quali è verosimilmente da riferire l’origine prima di
quelle “sollecitazioni”.
Ma è bene che i giovani i quali seguono queste
note e le considerano quasi una continuazione del colloquio nell’aula
universitaria siano consapevoli che condizionamenti del genere venivano,
in un passato alquanto remoto, imposti ad alcuni paesi (come l’Egitto,
la Turchia, la Cina) in momenti in cui non erano in grado di far fronte
agli impegni del loro indebitamento verso l’estero.
Questi
condizionamenti venivano designati come regime delle “capitolazioni” e
la parola rende abbastanza bene l’idea.
Ma, prescinendo dagli aspetti etico-politici, sono quelli di carattere strettamente tecnico che vanno contestati punto per punto.
Ma, prescinendo dagli aspetti etico-politici, sono quelli di carattere strettamente tecnico che vanno contestati punto per punto.
In primo luogo (sono cose che
giova ripetere) i trattati comunitari prevedono, in caso di comprovate
difficoltà della bilancia dei pagamenti, “clausole di slavaguardia” che
possono condurre anche alla temporanea reintroduzione di quote o
contingenti alle importazioni.
I paesi membri, vale a dire nel caso che
ne ricorresse la necessità, potrebbero imporre misure restrittive più
severe di quelle che si concretano con l’adozione di sovraddazi, o
l’imposizione di un deposito infruttifero.
Può essere discutibile se sia
stato opportuno, a suo tempo, accettare provvedimenti restrittivi più
blandi, ma non previsti dalle disposizioni comunitarie.
In tesi
generale, sembra preferibile attenersi alle carte statutarie, anziché
tollerare prassi difformi (alle quali, in altre circostanze, hanno fatto
ricorso anche paesi diversi dal nostro).
Ma l’importante è di tenere
presente che i paesi membri hanno “diritto” di far appello alle clausole
di salvaguardia e che le autorità comunitarie avrebbero soltanto titolo
a verificare se ricorrano o meno gli estremi che ne giustificano
l’applicazione.
Detto questo, non si intende contestare alle autorità comunitarie di valutare i fattori di difficoltà della bilancia dei pagamenti italiana e di esprimere le loro raccomandazioni. Stupisce, tuttavia, che queste raccomandazioni siano la replica puntuale di interventi molto controversi nel dibattito economico che si svolge nel nostro paese (dalla “soluzione” del problema della scala mobile, al contenimento del disavanzo pubblico, dal “divorzio” tra il Tesoro e l’Istituto di emissione, alla predisposizione della copertura a fronte di nuove spese pubbliche, alla realizzione di un accordo tra le parti sociali). Ancora una volta lasciando da parte i risvolti politici di simili raccomandazioni, vi è una tale sensazione di stantio, di ripetitivo, di carenza di originalità da lasciare perplessi sulle capacità di ispirazione di organi che hanno l’arduo compito di tracciare il disegno dell’armonizzazione delle politiche comunitarie."
Detto questo, non si intende contestare alle autorità comunitarie di valutare i fattori di difficoltà della bilancia dei pagamenti italiana e di esprimere le loro raccomandazioni. Stupisce, tuttavia, che queste raccomandazioni siano la replica puntuale di interventi molto controversi nel dibattito economico che si svolge nel nostro paese (dalla “soluzione” del problema della scala mobile, al contenimento del disavanzo pubblico, dal “divorzio” tra il Tesoro e l’Istituto di emissione, alla predisposizione della copertura a fronte di nuove spese pubbliche, alla realizzione di un accordo tra le parti sociali). Ancora una volta lasciando da parte i risvolti politici di simili raccomandazioni, vi è una tale sensazione di stantio, di ripetitivo, di carenza di originalità da lasciare perplessi sulle capacità di ispirazione di organi che hanno l’arduo compito di tracciare il disegno dell’armonizzazione delle politiche comunitarie."
6. Questo insieme di notazioni di Caffè, relative all'opportunità e alle modalità di adesione ad un'organizzazione internazionale che instauri un'area di liberoscambio in Europa, ci porta a evidenziare alcuni aspetti "correttivi" di immediata priorità, resi ancor più attuali dalla vigenza della moneta unica.
Le linee di un riforma dei trattati sono dunque conseguenziali ai problemi evidenziati:
a) evitare la rigida fissazione dei cambi internamente all'area (a fortiori, scartando la soluzione di una moneta unica), per non rendere la politica monetaria quella "variabile indipendente", dal costo in termini di occupazione, che il mantenimento del cambio impone, deprimendo la domanda interna e, di conseguenza, gli investimenti e la capacità produttiva. Ogni Paese-membro deve poter svolgere la sua politica monetaria avendo di mira le esigenze di autonomo finanziamento delle proprie politiche volte al raggiungimento della piena occupazione, potendo contare sulla rispettiva Banca centrale come ente ausiliario e strumentale di tali politiche, secondo le rispettive previsioni costituzionali "fondamentali".
b) evitare un regime di indiscriminata libertà di movimento dei capitali interni all'area di liberoscambio, cioè limitando all'aspetto daziario-doganale e dell'imposizione sul valore aggiunto (nel paese di effettivo acquisto dei beni e servizi scambiati), il regime essenziale dell'area.
c) prevedere clausole che consentano, in caso di persistenti squilibri commerciali e di crescente indebitamento di uno Stato-membro con l'estero, l'adozione di misure che consistano, sul lato della domanda, in controlli e contingentamenti dei settori merceologici in cui siano ravvisate delle "strozzature", cioè la persistente incapacità del settore nazionale interessato di produrre a prezzi competitivi e il crescente e irreversibile aggravamento della situazione di importazione, laddove tale strozzatura riguardi beni fortemente incidenti, per il loro valore aggiunto, sui conti nazionali. A ciò, sul lato dell'offerta, si devono poter accompagnare politiche pubbliche di investimento diretto e/o di incentivazione all'investimento, che evitino lo strutturarsi del modello squilibrato (e gerarchico) di specializzazione che si verifica in virtù del principio dei vantaggi comparati (qui, p.2).
d) nella realtà applicativa, - come mostra il riferimento di Caffè al "regime della capitolazioni" e alle "sollecitazioni" che si sono accompagnate, de facto, già nella vigenza del trattato del 1957, alla "accettazione di provvedimenti restrittivi più blandi" rispetto a quelli normativamente previsti dalle "clausole di salvaguardia"-, ciò significa l'attenta calibratura delle norme che consentono gli interventi correttivi, in modo che siano lasciati alla autodeterminazione degli Stati in caso di squilibrio dei conti con l'estero, nonché in modo che eventuali organi "comunitari" abbiano un limitato potere di riscontro e "presa d'atto", non esteso ad accentrare in termini discrezionali la decisione su tali politiche di "riequilibrio" (ed al fine di imporre pesanti "condizionalità" deflazionistiche).
e) ciò implica anche che il regime dei "divieti di aiuto di Stato", quale previsto dall'attuale trattato, sia sostanzialmente superato, chiarendo delle ampie e ragionevoli ipotesi di deroga, in un complesso di formulazioni che non si prestino, come le attuali, a disapplicazioni e discriminazioni incomprensibili e, spesso, tese a favorire il più "furbo" e il più forte.
7. Naturalmente, non occorrerebbe ancora ribadire che le due linee di "uscita dalla crisi" qui suggerite, - cioè precisare, già in sede costituzionale, i limiti di legittimazione e dei modi di esercizio del potere di negoziare i trattati economici, nonché aderire a contenuti coerenti con tali limiti costituzionali - sono tra loro non separabili: la prima è il presupposto necessario della seconda. Non si può permettere, la già provata società italiana, (cioè il popolo detentore della sovranità), di correre ulteriori rischi per il proprio benessere e la propria democrazia, e di ritrovarsi, nuovamente, di fronte al fatto compiuto di negoziati il cui contenuto, nell'epoca del diritto internazionale privatizzato, sia lasciato a forze democraticamente incontrollabili.
Caffè e l’Europa ma anche specificamente Caffè e l’euro.
RispondiEliminaNel suo manuale (Lezioni di politica economica, a cura di N. Acocella, Bollati Boringhieri, Torino, 1990) mette in guardia per ben tre volte contro l’ipotesi di una moneta unica europea. Eccovele:
pagg. 110-11: “Il difficile cammino della integrazione europea viene reso più arduo sia dalla pretesa di anticipare gli eventi, prima che se ne siano stabilite le basi (ad esempio ‘la moneta europea’); sia dalla pretesa di non tener conto delle fasi congiunturali avverse, come se la Comunità fosse stata configurata soltanto in vista di periodi favorevoli.”;
pagg. 298-99: parlando del gold standard: “In esso coesistevano varie e distinte monete (sterlina, dollaro, marco, franco ecc.), ma, attraverso il vincolo dei cambi fissi e sin quando fossero rispettate le “regole del gioco” necessarie per il buon funzionamento del gold standard (le regole, cioè, elencate a p. 294), si può dire che sostanzialmente la situazione era molto analoga a quella che comportasse l’esistenza di una moneta unica. Le singole economie nazionali dovevano adattarsi alle esigenze di uno standard monetario intemazionale: questo assicurava la stabilità dei cambi; ma non la stabilità dei prezzi interni dei singoli paesi che dovevano adattarsi, come si è visto, per assicurare il riequilibrio delle bilance dei pagamenti.
La stabilità dei cambi favoriva lo sviluppo degli scambi e degli investimenti internazionali; ma imponeva questo vincolo di adattabilità delle economie interne, adattabilità che molto di frequente si realizzava attraverso la disoccupazione e in genere la più o meno prolungata sottoutilizzazione delle risorse disponibili. E opportuno non perderlo di vista oggi che (in mutate condizioni) si prospettano possibilità di una “moneta unica" nell’ambito di aree integrate.”;
pag. 344: “Rispetto a questi problemi costituiscono ’’risposte fatue” quelle fornite dal moltiplicarsi di progetti di pretese soluzioni che sembrano non tener conto degli insegnamenti della storia (dalle proposte per la creazione di una “moneta europea”, alla possibilità che dovrebbe essere concessa ai cittadini di economie ritardatane di effettuare investimenti in valuta estera, all’attrattiva che continua a esercitare il ritorno al sistema aureo). Il carattere “fatuo” delle risposte non vuol dire, peraltro, che esse non siano rappresentative di giudizi di valore e di interessi sezionali chiaramente individuabili. A monte dei problemi tecnici considerati nel presente capitolo vi è una crisi irrisolta delle politiche economiche: la riaffermazione di un liberismo economico che spesso confonde la valorizzazione dell’iniziativa individuale con la salvaguardia a oltranza di posizioni privilegiate; l’offuscarsi della concezione di Stato garante del benessere sociale, che spesso si tende a valutare alla stregua di uno Stato acrìticamente assistenziale (Caffè, 1982), la tendenza a riabilitare il mercato, trascurandone le inefficienze (vedi p. 50).”.
Insomma, anche Caffè era fra "quelli che ce l’avevano detto". Ovviamente, direi.
Grazie Arturo di questa "rassegna".
EliminaL'ultimo brano, in particolare, pare un'elegante ridicolizzazione del manifesto di Ventotene: l'€uropa come rappresentanza di interessi sezionali ("chiaramente individuabili": e non certo quelli della maggioranza della società).
La fine di un equivoco basato su artifici lessicali che, nel ribaltamento del senso logico, anticiparono Orwell...
Nella mia mente il Prof. Caffe' riposa insieme a Moro e Matteotti, non certo insieme al Prof. Caccioppoli.....
EliminaQuel “cosmopolitismo” (l’ordine sovranazionale del mercato) denunciato da Basso corrisponde a “l’automatismo internazionale” criticato duramente da Federico Caffè proprio per gli sviluppi decisionali che si sono poi materializzati in seno agli organismi internazionali:
RispondiElimina“… La circostanza che Beyond the Welfare State costituisca una raccolta di saggi e non un’opera unitaria non diminuisce l’interesse di un pensiero come quello di Gunnar Myrdal sempre ricco di approfondite riflessioni. In primo luogo, nel discutere sullo “Stato dei servizi”, che è l’equivalente svedese della ricordata espressione inglese, egli può parlare come protagonista: come componente, cioè, del gruppo di coloro che “in qualità di esperti e talvolta anche di veri e propri uomini politici, promossero attivamente riforme sociali ed economiche intese a perfezionare…questo grande movimento riformistico della nostra epoca”.
Proprio in conseguenza di questa diretta partecipazione egli fun in grado, da un lato, di rendersi conto della “costante lotta di retroguardia contro le riforme” organizzata da coloro “che avevano interessi legati al vecchio ordine”. In realtà, come accade per tutte le posizioni conservatrici, essa si rivelò completamente miope, in quanto “lo stato organizzatore dei servizi ebbe un’influenza così forte sullo sviluppo della produttività potenziale degli individui, che nel processo dinamico della sua realizzazione, si potè avere un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle masse povere in una situazione economicamente progressiva senza deprimere le condizioni della maggior parte di coloro che, godendo dall’inizio di una situazione vantaggiosa, dovettero in un primo tempo fare le spese delle riforme”.
Ciò non evitò che queste posizioni di retroguardia trovassero un appoggio negli economisti legati alla TRADIZIONE DELL’AUTOMATISMO INTERNAZIONALE, la cui preservazione richiedeva che le singole economie nazionali fossero obbligate ad adattarsi ai mutamenti del mondo circostante, anche a costo di subire disoccupazione e depressione. Senza concordare con le conclusioni pratiche di questi economisti, Myrdal riconosce l’importanza della premessa di valore internazionalistica, la quale, peraltro, nelle condizioni contemporanee, non può trovare un’adeguata difesa in un utopistico “automatismo”.
“Dobbiamo innanzi tutto tenere presente che lo Stato del benessere è uno Stato organizzatore”. Oggi IL GIOCO DELLA DOMANDA, DELL’OFFERTA E DEI PREZZI non può considerarsi effettivamente “libero”, né sul mercato dei capitali e della mano d’opera, né su quello delle merci e dei servizi; è regolato, infatti, dalla legislazione e dall’amministrazione statale …nonché dalle grandi imprese semipubbliche e private operanti entro la struttura e sotto il controllo statale (segue)
In ultima analisi, se vogliamo ristabilire l’integrazione dell’economia mondiale, dobbiamo preoccuparci di coordinare e armonizzare proprio tali complesse strutture di interferenza organizzata sui mercati”. Purtroppo, la rete delle organizzazioni cui era stato affidato il compito di realizzare una cooperazione internazionale “organizzata” (equivalente in qualche modo allo “stato organizzatore” sul piano interno) si è dimostrata incapace di conseguire i suoi obiettivi, proprio per il progressivo stravolgimento delle meditate carte statutarie su cui le varie organizzazioni si fondavano. Stravolgimento nel senso di ricondurre, attraverso successive crisi, VERSO SOLUZIONI “AUTOMATICHE” LE QUALI …RIFLETTONO IN REALTÀ LE PRESSIONI DELLE POTENZE EGEMONI.
RispondiEliminaIn tal modo lo sforzo compiuto da Myrdal di porsi in una posizione più ampia, libera da preoccupazioni nazionalistiche, finisce da un lato per fornire una conferma ulteriore di quanto è mancato nella realizzazione dello “stato dei servizi”; dall’altro…ci porta a riflettere sull’appoggio concreto che…l’internazionalismo nominalmente automatico finisce per dare alle resistenze di retroguardia delle posizioni di privilegio. Basti pensare al CARATTERE FARISAICO che assume la martellante insistenza contro I PERICOLI DEL PROTEZIONISMO SUL PIANO MONDIALE E L’ASSOLUTA INDIFFERENZA NEI CONFRONTI DELLE CONDIZIONI DI LAVORO E DI SFRUTTAMENTO…”.
Il nazionalismo-guerrafondaio-brutto di Einaudi che funge da copertura al sabotaggio e/o inattuazione delle Bretton Woods Institutions dietro influenza americana. Con brutale sbocco nel Washington Consensus .
E l’allora CEE, ricorda Caffè “… va considerata nel vasto movimento di idee, di dibattiti, di concretamenti e di inevitabili compromessi che contraddistinsero, prima ancora della cessazione del secondo conflitto mondiale, il disegno di dar vita a una collaborazione economica internazionale organizzata, basata cioè su concordati impegni e su istituzioni intese a favorirne…l’osservanza. Nell’ambito mondiale questo disegno contemplava una cooperazione istituzionalizzata sul piano valutario, su quello finanziario e su quello commerciale…Ma sul piano della cooperazione commerciale internazionale si dimostrò insuperabile il contrasto tra un liberalismo di tipo tradizionale e l’aspirazione … a evitare, come si disse, la stabilizzazione delle disuguaglianze”.
Perciò “possiamo renderci conto delle ragioni che impediscono ai distinti monologhi di tradursi in costruttivi dialoghi. In un saggio molto noto, Lord Kaldor ha posto in evidenza le limitazioni imposte alla politica economica dai conflitti nell’impiego di determinati strumenti, per inibizioni di carattere politico, sociale, ideologico. Se la collaborazione internazionale organizzata costituisce un punto dal quale non si torna indietro, nulla, tranne l’interpretazione deviante dei tecnocrati, preclude che, con motivate richieste avanzate nelle sedi stabilite, sia possibile far ricorso, quando occorra, a temporanee misure di contingentamento, di razionamento, di controlli fisici, di regolamentazione delle forme e della entità ENTITÀ DELL’INDEBITAMENTO ESTERO E DEI MOVIMENTI DI CAPITALI IN GENERE …” (segue)
In definitiva, “un vero quadro incisivo di politica economica non può essere fornito che da alcune opzioni fondamentali le quali, nelle condizioni contemporanee, sembrano essere costituite:
RispondiEliminaa) dalla riaffermazione di un livello pressoché pieno dell’occupazione, come traguardo fondamentale, indispensabile per legittimare il consenso e reagire, in forme non repressive, ai fenomeni asociali di conflittualità;
b) dal riconoscimento che il pieno impiego comporta non soltanto una politica di controllo pubblico della domanda globale, ma altresì una politica di attenta AMMINISTRAZIONE DELL’OFFERTA COMPLESSIVA. Sul terreno, appunto, dell’offerta, sia i fenomeni aberranti delle eccedenze agricole da distruggere sia i fenomeni di carenze strutturali di periodo lungo attestano con chiara evidenza i limiti e le insufficienze delle indicazioni fornite dal mercato;
c) queste indicazioni non sono che il riflesso dell’esistente distribuzione dei redditi e dei patrimoni. E poiché tale distribuzione risulta estremamente sperequata nella realtà comunitaria, occorre essere chiaramente consapevoli che questa sperequazione si riflette necessariamente nel sistema dei prezzi. Questi sono bensì degli indicatori sociali …; ma proprio perché espressione di una sperequata distruibuzione dei redditi e dei patrimoni sono fattori di cumulativo aggravamento di queste tendenze e non di una loro attenuazione che può soltanto attendersi dall’azione dei poteri pubblici;
d) occorrerebbe riacquistare la consapevolezza che il peso ingente e a volte esclusivo, fatto gravare sulla politica monetaria come strumento di lotta antinflazionistica, è necessaria conseguenza della generale riluttanza all’impiego dei controlli diretti…” [F. CAFFE’, In difesa del Welfare State – Saggi di politica economica, Rosemberg& Sellier, 1986, 40-43, 98, 144, 151-152]. (segue)
Ci tengo a sottolineare, come puntualmente fatto nel post, l’aspetto riguardante anche la politica di amministrazione dell’OFFERTA, perché è strettamente legato alla strumentazione dell’IMPRESA PUBBLICA (art. 43 Cost.) con la quale lo Stato organizza servizi pubblici e produce beni essenziali nell’interesse della collettività e non per profitto, strumento necessario non solo ai fini del livello occupazionale, ma anche per combattere quelle “strozzature” che vengono utilizzate dai trust finanziarizzati per imporre “l’inflazione programmata” (!). Ma sia il sostegno alla domanda che all’offerta necessita della sovranità monetaria:
RispondiElimina“… Le imprese pubbliche appartengono a due tipi fondamentali: le imprese di servizi pubblici, le imprese per obiettivi politici (politico-economici, politico sociali…). Con queste configurazioni si presentano già allorché sorgono, nel sec. XVII: le fabbriche d’armi, gli arsenali, LE BANCHE PUBBLICHE…).
Lo Stato liberale fu, per sua ideologia (dati gli interessi che impersonava) avverso all’impresa pubblica: onde le soppresse, e quelle di cui non si potè provare, le trasformò in organizzazioni di tipo amministrativo…mentre altre che non potè sopprimere, FURONO PRIVATIZZATE…
L’avvento dello STATO PLURICLASSE ha mutato il quadro, in quanto le nuove classi emergenti reclamarono la collettivizzazione di imprese private che per la loro posizione dominante o il loro carattere monopolistico fossero ritenute perturbatrici, o di interi settori di attività imprenditoriali attinenti a servizi di interesse pubblico generale…” [M.S. GIANNINI, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 1981, 234-235]. Prodi e l’asinistra avrebbero portato indietro le lancette dell’orologio all’’800. (segue)
Per il passato, però, io credo che sia quasi impossibile una riforma dei trattati in senso democratico:
RispondiElimina“… la rivendicazione di una maggiore giustizia distributiva, di una maggiore eguaglianza sociale… la rivendicazione della piena occupazione e cioè di una garanzia di stabilità nel lavoro, del salario annuale garantito (stabilità anche nel reddito), di un efficiente sistema di sicurezza sociale. Ora non c’è dubbio che giustizia distributiva, stabilità e sicurezza sono rivendicazioni il cui soddisfacimento è incompatibile con la natura instabile e con il permanente squilibrio cui la lotta per il profitto condanna il capitalismo: sono, cioè, in altre parole, delle rivendicazioni LA CUI PIENA ATTUAZIONE SAREBBE EVERSIVA DEL SISTEMA.
Non a caso da parte degli economisti e dei politici borghesi è in atto una lotta contro le pretese alla stabilità, alla sicurezza, alla giustizia distributiva per il loro carattere antagonistico alla natura stessa della società capitalistica… (in nota: Cfr. CAFFÈ, Note su alcuni moventi odierni dell’attività economica in Moneta e Credito, 1959, vol. XII, n. 16, pp. 151 sgg.: “Da tempo si assiste ad una critica insistente di taluni moventi che vengono riconosciuti operanti negli odierni sistemi economici capitalistici - in aggiunta a quello tradizionale del profitto - ma dei quali viene, in genere, sottolineata esclusivamente la portata eversiva, o comunque pregiudizievole, agli effetti della vitalità e della persistenza dei sistemi stessi. Si tratta, principalmente, del movente che esprime la diffusa aspirazione odierna verso l’attenuazione di sperequazioni distributive, ritenne troppo stridenti per essere socialmente tollerabili, e del movente che riflette l’inclinazione attuale per un pubblico impegno inteso a salvaguardare la sicurezza e la stabilità”) ” [L. BASSO, Introduzione a un programma, in Problemi del socialismo, ottobre 1959, n. 10, 713-731].
Grazie anche a te: hai fatto un lavorone sulle fonti veramente rilevanti sul tema.
EliminaLa "durezza del vivere", d'altra parte, ha "sfondato" ampiamente pure presso la nostra Corte costituzionale, che reinterpreta i principi fondamentali della Costituzione in base al sincretismo con regole tecnico-economiche extratestuali che ritiene prevalenti sulla lettera stessa della Carta.
Questo aspetto, in realtà, è molto preoccupante, perché limita fortemente la stessa possibilità di utilizzare, in sede di negoziato internazionale,un richiamo al proprio diritto "supremo vivente" in condizioni di eguaglianza e reciprocità con la Germania.
Nessuno dei nostri politici - compresi quelli variamente "critici" se n'è accorto: e se se n'è accorto, ne è addirittuta contento (specie se si autoproclama "espertologo")!
Non parliamo poi dei "costituzionalisti" prevalenti, la cui incapacità cognitiva di scorgere questa fallace etero-integrazione del modello costituzionale è pari alla mancanza di dubbi nel confrontarsi con le divergenti analisi che venivano compiute da Giannini e Basso.
Per troppi, la indubbia "dissonanza cognitiva" è distrattamente liquidata come necessità di adattamento ai "tempi": che è, in buona sostanza, la mistica della "costituzione materiale". Cioè il tradimento dei chierici assurto a "ortodossia teologica".
Questo è giustissimo. Infatti, per una volta, dovremmo utilizzare con gioia l'odiosa espressione del "fare prima i compiti a casa". Prima di andare alla negoziazione, è necessario rivoltare la Corte come una calza, e ottenere, nel modo costituzionalmente più dignitoso, che i nuovi giudici facciano una pesante e risolutiva pulizia giurisprudenziale. Altrimenti, come dice lei, non si andrà lontano nel negoziato
EliminaI dati fenomenologici, storico-economici e giuridici, caro Presidente, sono chiari ed inequivocabili. Definitivi.
RispondiEliminaSolo chi non vuol capire non capisce, in quella che, a conti fatti, è solo ottusità ideologica dolosa e traditrice. Ne terremo conto
OT, ma nemmeno troppo.
RispondiEliminaVladimiro Zagrebelsky ci spiega perché non bisogna opporsi ad una “legge di civiltà” (ius soli):
“L’Italia è un Paese il cui carattere e la cui ricchezza derivano da ondate di migrazioni e dominazioni straniere, che hanno creato una popolazione italiana nei cui geni, modi di vita e cultura non ci sono solo i romani, ma anche i greci, gli arabi, i normanni, gli ebrei, i germani e tanti altri…”.
E quindi possiamo pure andare avanti con le dominazioni ad infinitum, nella più completa fatalizzazione della realtà e nel rispecchiamento della oggettività data.
Se non si recuperano a monte le fondamentali categorie hegelo-marxiane, come dice Bazaar, credo che andremo veramente incontro alla catastrofe
Oltretutto, trovo questo riferimento ai "geni" francamente imbarazzante. Schaeuble, di recente, ha detto che l'immigrazione è buona perché rinnova il patrimonio genetico tedesco. Non c'è nulla da fare: gratti l'ordoliberale e spunta fuori lo Speer. Più triste è dover constatare che gratti il "libero e giusto" e vien fuori lo Schaeuble. Più che matrioske, questi sono Alien...
EliminaTra l'altro, l'influenza genetica delle c.d. "dominazioni" è scientificamente smentita
Eliminahttp://www.eupedia.com/genetics/italian_dna.shtml
D'altra parte, se austriaci, francesi, spagnoli e arabi avessero così profondamente alterato geni e cultura italiani, perché sono stati a un certo punto tutti cacciati via a furor di popolo (o completamente ital-assimilati come i Borboni)?
In tanti casi la "dominazione germanica" in Italia non mi pare abbia lasciato molti superstiti..
Eliminahttps://it.m.wikipedia.org/wiki/Eccidio_di_Pietransieri
Dal punto di vista scientifico risulta ormai provato che tutta l'umanità oggi vivente discende da una sola 'eva mitocondriale' e da un solo 'adamo y-cromosomiale'.
Ciò che rende unica una popolazione rispetto alle altre è la lingua e la storia.
I Russi per esempio non danno troppa importanza al territorio e considerano Russia il luogo dove si parla russo ed in guerra non hanno remore a ritirarsi e lasciare terra bruciata al nemico invasore, perché la priorità è quella di mantenere viva almeno una parte della popolazione in modo da tramandare la lingua e la storia.
Per capire l'enorme patrimonio storico e linguistico che ci rende unici basta contare con quante parole diverse si può dire casa nella lingua italiana.
Concedere la cittadinanza a chi non conosce o non vuole apprendere l'italiano e la storia mazionale è un atto criminale.
La ricchezza che deriva dalle dominazioni straniere mi giunge nuova.
EliminaÈ storicamente accettato universalmente che il declino italiano del 16esimo secolo iniziò con la perdita di indipendenza seguita alle guerre di italia....ma a noi italiani...essendo geneticamente incapaci di autogovernarci (questo è ovviamente sottinteso)...le dominazioni straniere ci arricchiscono.
Quando ci trafugano le opere d arte ci arricchiscono. Quando ci fanno a pezzi le imprese ci arricchiscono. Quando ammazzano per rappresaglia ci arricchiscono. Quando ci escludono dalle rotte del commercio globale ci arricchiscono.
Federico Caffè ricordava sempre a tutti che l'economia non è governata da leggi naturali, la cosidetta mano invisibile. Il mercato è una creazione dell'uomo dove si scontrano gli interessi dei vari gruppi. Federico Caffè, keynesiano convinto, ma soprattutto uomo saggio e di buon senso, ripeteva che questi interessi vanno contemperati e governati attraverso l'azione dello Stato nell'economia, pena il prevalere degli interessi dei più forti a scapito dei deboli ed indifesi.
RispondiEliminaCome ci ricorda il Suo articolo con Le varie citazioni, ogni decisione in materia economica deve mirare alla tutela degli interessi dell'economia nazionale ed avere come obbiettivo il creare le condizioni favorevoli allo sviluppo e alla piena occupazione. In Italia da decenni si perseguono politiche monetarie, fiscali, di Bilancio, Industriali, del Lavoro essenzialmente deflazionistiche.
Il Motivo ? L'asservimento totale della classe dirigente agli interessi dei grandi gruppi industriali, bancari e finanziari.
La Costituzione è disapplicata ed ha la pecca di impedire i referendum in materia di Trattati Internazionali, leggi di Bilancio e Tributarie. Non se ne esce.
MARGINALITA'
Elimina@josef sezzinger
"classe dirigente", meglio collaborazionisti come Vidkun Quisling.
La lingua italiana ha - oltre il significato della virgola - la potenza del senso della PAROLA.
Altrimenti non si affermano SIGNIFICATI UNIVOCI e "non se ne esce".
COLLABORAZIONISTA: fenomeno sociale e politico connesso alle vicende di governo di un paese occupato da una potenza straniera, che vi organizza una classe dirigente totalmente asservita agli interessi degli occupanti.
THIS SHIT MUST GO OUT!
Non ho elementi certi per sostenere il supposto collaborazionismo, non amo le polemiche e tanto meno le parole gridate.
EliminaPenso che se agli italiani fosse permessa, dalla Costituzione Repubblica, la possibilità di decidere nelle tre materie:
- Trattati Internazionali
- Leggi di Bilancio
- Leggi Tributarie
sarebbe una Costituzione più adatta ai tempi attuali.
Ma, come si dice, dalla vita non si può avere tutto.....ci adegueremo allo "spirito del tempo", come hanno fatto i nostri familiari, prima di noi.
Gli elementi (poco supposti)son chiari e certi non tanto nella filologia espressa dai ricercatori - Arturo, Baazar, Francesco .. in ordine alfabetico - nelle dichiarazioni documentate di Amato, Einaudi, Napolitano, Padoa Scioppa, Visco .. come sempre dimentico qualcuno, son troppi.
EliminaNOI NON CI ADEGUEREMO, come hanno fatto i nostri Padri prima di NOI.
ps: "Costituzione Repubblica" ..
Prodi, Amati, Visco, Napolitano,
Caro Poggio, aggiungiamo che, per chi abbia realmente seguito questo blog, e non si avventuri in permeistiche opinioni, il problema della nostra Costituzione non risiede nell'art.75 Cost. e negli oggetti, correttamente, sottratti a referendum.
EliminaSui guasti della "democrazia diretta", appunto "diretta" agli effetti e idraulicamente versata a confermare le cause, abbiamo abbondantemente spiegato.
Dunning-Kruger e il controllo mediatico fanno a pugni con la democrazia sostanziale. Alla cui mancanza, direi, non ci "adegueremmo" (fosse per noi) :-)
DEI POPOLI E DELLE PLEBI ovvero DEL LIBERAL-SOCIALISMO EUROPEO
Elimina(otc, di classi sociali che si contraddistinguono per scarsità di risorse e basso livello culturale)
«È ben chiaro che l’Italia dei piccoli paesi e delle lunghe periferie, sotto i colpi della crisi riscopre antiche paure, un inedito egoismo del welfare, una nuovissima gelosia del lavoro, uno smarrimento identitario sconosciuto. A tutto questo bisogna rispondere ma dentro un sentimento di comunità, su una scala europea, nella fiducia di una tradizione occidentale di inclusione responsabile e di apertura culturale».
AMEN, andate in pace che fuori c'è il MONDO !!
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RispondiEliminaclipping path
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