Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo intervento di Bazaar e Francesco Maimone sul tema, molto attuale, dell'esigenza e delle condizioni di un'alleanza di tutte le forze, espresse dalla società italiana, che comunque si riconoscono nella rivendicazione della "questione nazionale": cioè della sovranità, in assenza della quale, si è irreversibilmente in balia di un potere sovranazionale che non può che avere caratteri imperialisti. Il che vuol dire relegare il popolo italiano (art.1 Cost.) nella condizione di "nazione oppressa". La sovranità, cioè il potere di autodecisione delle nazioni, è indisgiungibile dalla democrazia. Ogni (ri)conquista della sovranità in senso democratico, perciò è un passo verso la democrazia.
Rimane in buona parte fuori dall'analisi, peraltro, il tema scabroso se vi sia un "piccolo capitale", contrapposto, in modo contingente, al "grande capitale", che abbia un interesse, temporaneo e strumentale, alla "questione nazionale", ma che rimanga portatore di un obiettivo materiale, irresistibile, a ripristinare forme di autoritarismo antitetiche al fondamento lavoristico della nostra Costituzione.
Questo, in realtà, (se correttamente assunto sotto il punto di vista fenomenologico) è un falso problema: i ceti produttivi "minori" sono tra le prime vittime dell'imperialismo capitalista condotto dalle oligarchie dei paesi dominanti.
Di questo aspetto, nel blog, ne abbiamo già discusso, evidenziando come sia stata proprio la "mobilità sociale" (certo parziale e contrastata) consentita dal nostro modello costituzionale (che è orientato alla redistribuzione ex ante, promossa dall'intervento attivo dello Stato pluriclasse costituzionale), e dalla prevalenza del modello keynesiano nel "trentennio d'oro", a consentire la trasformazione delle classi operaia e degli artigiani in imprenditori e lavoratori autonomi di carattere professionale.
Oggi, più che mai, il lavoro dipendente e questi "figli" dell'emancipazione sociale connessa ad un certo grado di democrazia sostanziale, - anzitutto economica e, perciò, politica-, sono "sulla stessa barca". E di fronte a una "sfida finale" per la propria sopravvivenza come individui dotati di dignità sociale.
L'alleanza, dunque, risulterebbe inevitabile: il problema sarà vedere se essa sarà anche "tempestiva", cioè in grado di salvare quel che "resta del giorno" prima della notte definitiva della Repubblica fondata sul lavoro (e che da ciò reclama la sua sovranità).
ADDENDUM: su questo punto introduttivo, ci pare coerente, rispetto alla trattazione del post, ribadire quanto lo stesso Lelio Basso aveva poi chiarito nel 1962 (qui, p.2), tirando le fila dell'evoluzione socio-economica occidentale (proprio alla luce della incombente "costruzione europea"):
ADDENDUM: su questo punto introduttivo, ci pare coerente, rispetto alla trattazione del post, ribadire quanto lo stesso Lelio Basso aveva poi chiarito nel 1962 (qui, p.2), tirando le fila dell'evoluzione socio-economica occidentale (proprio alla luce della incombente "costruzione europea"):
"...oggi il settore monopolistico (usiamo questa espressione nel senso che essa
ha oggi assunto nella polemica politica e non in senso rigorosamente
tecnico-economico che suggerirebbe piuttosto l’espressione di ‘oligopolio concentrato’) non soltanto si appropria del plusvalore
prodotto dai suoi operai, ma, grazie al suo forte potere di mercato, che gli
permette d’imporre i prezzi sia dei prodotti che vende che di quelli che
compra, riesce ad appropriarsi almeno di una parte del plusvalore prodotto in
tutti gli altri settori non monopolistici: sia in quello agricolo, sia in
quello del piccolo produttore indipendente, sia anche in quello delle aziende
capitalistiche non monopolistiche, dove il tasso di profitto è minore e spesso,
di conseguenza, anche i salari degli operai sono più bassi proprio per il peso
che il settore monopolistico esercita sul mercato.
Ridurre quindi, nella
presente situazione, la lotta di classe al rapporto interno di fabbrica,
proprio mentre la caratteristica della fase attuale del capitalismo è la
creazione di questi complessi meccanismi che permettono di esercitare lo
sfruttamento in una sfera molto più vasta, anche senza il vincolo formale del
rapporto di lavoro, è perlomeno curioso...
Una seconda tendenza destinata ad
accentuarsi sempre più in avvenire è quella relativa all’interpenetrazione di
potere economico e potere politico, cioè, praticamente, all’orientamento di
tutta la politica statale ai fini voluti dal potere monopolistico..."
PROLEGOMENI A COSCIENZA, AUTOCOSCIENZA E LOTTA
(ovvero
spunti teorici sulla tattica nelle alleanze per il recupero della sovranità
democratica-costituzionale)
«Nessuno è colpevole di essere nato schiavo. Ma lo schiavo al quale
non solo sono estranee le aspirazioni alla libertà, ma che giustifica e dipinge
a colori rosei la sua schiavitù, un tale schiavo è un lacchè e un bruto che
desta un senso legittimo di sdegno, di disgusto e ripugnanza»
Lenin,
Sull'orgoglio nazionale dei Grandi
Russi, 12 Dicembre 1914
Introduzione
Le presenti note intendono costituire una riflessione che
scaturisce dal confronto sul tema del sostegno o meno a nuove o
vecchie formazioni politiche nella lotta volta alla riappropriazione della sovranità
e, in generale, sul tema delle “alleanze”.
Approfittiamo
di questo spazio di discussione, quindi, per sviluppare alcuni ragionamenti i quali, più che rilanciare la dialettica “nel merito” ed in concreto, rispetto al supporto di eventuali alleanze che si
rifanno alla tradizione della destra politica o meno, per provare – a
beneficio di un tentativo di (ri)fondare il pensiero critico – a
fornire spunti teorici
generali sul metodo.
In particolare sul metodo d’analisi dell’unico grande laboratorio per l'indagine critica della totalità in possesso dei ceti subalterni: ossia sul metodo d’analisi marxiano, ragionando dei risvolti politici e morali di chi si prende la responsabilità materiale di dibattere su temi fondanti la vita sociale.
In particolare sul metodo d’analisi dell’unico grande laboratorio per l'indagine critica della totalità in possesso dei ceti subalterni: ossia sul metodo d’analisi marxiano, ragionando dei risvolti politici e morali di chi si prende la responsabilità materiale di dibattere su temi fondanti la vita sociale.
Queste
non vogliono essere
considerazioni rivolte esclusivamente a coloro che si rifanno al marxismo, ma a
tutti coloro ai quali sta a cuore la democrazia costituzionale.
1
– Coscienza, autocoscienza e lotta: il rischio di paralogismi ed aporie
nell’analisi affetta da precomprensione ideologica. L’ideologia come falsa
coscienza
In
un articolo precente veniva evidenziato come storicamente il grande pensiero di scuola
marxiana abbia individuato l’oppressione fascista come un prodotto
sovrastrutturato di peculiari fenomeni congiunturali e – come da
pacifica sociologia marxiana – di particolari tensioni di carattere strutturale
che, nell'attuale frangente, vediamo già all'opera.
Gran parte dell'attuale sinistra militante, tuttavia, ritiene che partiti come il FN o la Lega Nord siano una
sorta di “portatori sani di fascismo”, dove il “fascismo” sarebbe, in breve, ma senza troppo
allontanarsi dal pensiero “mediano”, una manifestazione di politica oppressiva
avente le “sembianze” del fenomeno storico.
In
particolare, secondo tali comuni ricostruzioni, si potrebbe pensare che a
caratterizzare il “fascista”, il “leghista”, il “razzista”, lo “xenofobo” (e
via coi vari attributi sorosiani inventati dai vari think tank al
servizio dell'imperialismo del capitalismo liberale) non sarebbe la struttura
esponenziale di particolari ideologie come si riscontra nelle analisi dei
grandi autori socialisti e democratici – ritenute anzi obsolete – ma sarebbe quasi un requisito di carattere morale,
connaturato antropologicamente a determinati gruppi sociali; posizione, in
sé, che – come abbiamo appena sottolineato – sarebbe in linea con la quasi
totalità di chi oggi si ritiene “progressista” e si riconosce nella sinistra
moderna, post-moderna, post-sessantottina, nicciana, post-ideologica e post…
socialista? (non a caso appellata spesso e volentieri “buonista”).
Sinistra
“moderna” che noi, infatti, riteniamo abbia acquisito il moralismo
tipico del liberalismo piccolo borghese nel processo totalizzante di
restaurazione neoliberale, compattando le forze di reazione, e proponendo una
finta dialettica tra liberali “modernisti” (alla Soros, per intenderci…) e
liberali “conservatori/tradizionalisti” (cattolici, “destra sociale”, ecc.).
Moralismo
che, tra l’altro, riteniamo essere una forma di classismo visto che,
come nel caso delle posizioni a prescindere “antileghiste”, viene
sottintesa e stigmatizzata una qualche forma “d’ignoranza” del gruppo
sociale – di subalterni!, che siano salariati o piccoli e medi
imprenditori – la quale si riconosce nelle istanze di quel particolare
partito politico.
A
differenza di ciò che è stato
fatto oggetto di critica nel post precedente, l'analisi sul fascismo che ivi è stata proposta non è
«esplicitamente derivata dal pensiero di Lelio Basso»:
semplicemente, il grande democratico e tra i massimi socialisti marxisti del XX
secolo, insieme ad Antonio Gramsci, supporta filologicamente insieme a tanti
altri influenti pensatori – anche di matrice reazionaria e neoliberale – la tesi proposta dall’origine in questi spazi di
discussione: la nostra Carta è antifascista in quanto antiliberista,
ovvero keynesiana E socialista (v. capoverso art.3 Cost.).
Date
queste premesse prendiamo le
mosse per sostenere che tutte le forze democratiche che si richiamino
alla Costituzione e, in genere, le istanze politiche internazionali che si
rifacciano al suo modello “archetipizzato” nonché agli strumenti di
politica economica che ne rendono effettivi i Principi fondamentalissimi, sono
– per il semplice fatto di portare nei propri programmi almeno parte di tali
rivendicazioni – essenziali interlocutori.
Inoltre,
sosteniamo che la difesa della sovranità sia il punto fondamentale – la
linea del Piave – la Resistenza all'imperialismo europeista, alla “dottrina
Monroe" del grande capitale atlantista, all'oppressione eversiva e collaborazionista
del cosmopolitismo borghese e al federalismo neocoloniale propugnato dalle classi
egemoni. In assenza di sovranità,
risulta infatti inutile ogni altra disquisizione.
1.1 Metodo e dialettica: una riflessione ad
ampio respiro
Esistono oramai generazioni intere radicate – consapevolmente o
meno – nel «mito fondativo» del “Sessantotto” e impantanate nella sua
ideologia totalitaristicamente liberale dove lo slogan «vietato
vietare» diviene il simbolo della distruzione di quelle norme etiche
che regolano la convivenza sociale, che permettono la sindacalizzazione
dei ceti subalterni e, in definitiva, lo sviluppo di coscienza di classe.
Quella coscienza a cui è propedeutica la coscienza
nazionale.
Il
relativismo dell'opinione è lo strumento principe per l'atomizzazione
delle masse lavoratrici e per la conseguente tirannia dei valori del più
forte: ovvero quella del capitale industriale e finanziario che tutto mercifica
e monopolisticamente prezza.
Il
socialismo storico ricordava che i valori di libertà, uguaglianza e fraternità
dei liberali rimanevano relativi (formali) fintanto che non fossero posti
sulla sostanza materiale – “derelativizzante” – della giustizia
economica e sociale. Della giustizia distributiva.
L'idealismo
elitario dietro a questi proclami enfatici tipicamente borghesi doveva, per i
socialisti, essere abbattuto portando questi concetti ideali e meramente
formali sul piano materiale, empirico, in cui i fenomeni si sarebbero dovuti
manifestare come emancipazione dalla miseria e dallo sfruttamento. Progresso
sociale che avrebbe significato il contestuale sviluppo spirituale della
persona umana, in un percorso volto all’autocoscienza annichilita da
questa struttura sociale alienante chiamata capitalismo.
Il
materialismo storico prende quindi forma grazie a Marx ed Engels
che intuiscono che è la struttura sociale ad essere l'agente primo della
Storia, e che questa è conformata dalla lotta politica tra le classi che
vengono definite in base ai rapporti di produzione.
Poiché
il modo di produzione capitalistico è tecnicamente avanzato, si sviluppa una
scienza che prova a descriverlo: l'economia politica.
Nasce
così nell'Ottocento, in ottica progressiva e rivoluzionaria, il socialismo scientifico
che si contrappone all'economia politica liberale.
Perché
mai Karl Marx chiama la sua via al socialismo “scientifica”?
1.2 I fondamenti
epistemologici
Il
metodo rigidamente seguito da questo gruppo di studio, oltre al metodo
marxiano ed alle categorie dell’idealismo classico tedesco per l’analisi della totalità con focus
nell’analisi economica del diritto, fonda ed integra tale metodo grazie agli
strumenti di filosofia cognitiva tipici dell’atteggiamento fenomenologico
della scuola husserliana.
Cosa
significa?
Innanzitutto significa che si è consapevoli che «la teoria è già prassi».
Ovvero,
in quest'ambito di discussione, la mancanza di solide basi teoriche implica con
un certo grado di certezza una prassi inana o contropruducente; lo sforzo
divulgativo in sé stesso diventa quindi una consapevole assunzione di responsabilità
morale.
In secondo luogo, ed in modo
estremamente riduzionistico, l’analisi segue circolarmente prima l’intuizione logica e, in un secondo
momento, si riscontra l’esistenza di un supporto filologico o meno: la citazione
non è quindi mera “appendice”, “abbellimento”, “virtuosismo” in un convegno di radical
chic o di europeisti semicolti (pleonasmo): è parte dell’essenza stessa
della dialettica, tra idealismo ed empirismo, tra hegelismo ed
ermeneutica, che formano un tutt’uno nella totalità della Storia e nel
microcosmo del cognitivismo.
Metodo
scientifico ed ermeneutica.
Si
evidenzia che il punto di incontro tra Husserl e Marx potrebbe
consistere proprio nel restituire un senso all’empirismo e al
positivismo tramite la filosofia classica, ossia quella profonda e significante
attività di critica e di pensiero volta ad indagare il reale. Indagine leninianamente
propedeutica alla prassi!
La
più grande opera di Marx consiste – ricordando il suo “socialismo
scientifico” – nello sviluppare una critica all’economia politica,
un’opera immane che ha tentato di dare un significato all’economia
politica borghese, opera che fornisce strumenti d’analisi che vanno oltre
l’economia politica il cui “garbuglio economicistico”, però – con sconsolazione del pensatore di Treviri che ne
aveva sottovalutato la complessità – rimarrà in gran parte irrisolto
fino alla sua morte.
Tale
“garbuglio” – com'è noto – verrà districato da Kalecki
e poi da Keynes, in una convergenza non stupefacente tra socialismo
ortodosso e liberalismo sociale. (Quando i principi morali
convergono, convergono anche gli intenti come risultato dalla dialettica che
può svincolare l’individuo dagli immediati interessi di classe)
A
proposito di epistemologia, in un recente articolo possiamo leggere
intorno allo sviluppo al pensiero marxiano:
«nell’incompleto
superamento della versione economicista del marxismo, versione che
aveva iniziato ad essere efficacemente criticata negli anni ’70 ed ’80
dello scorso secolo, grazie ad un lavoro teorico che si è però di fatto
interrotto con il crollo dell’esperienza del socialismo reale e con la connessa
crisi del movimento operaio occidentale.
Estremizzando
(ma non troppo) i tratti fondamentali dell’economicismo marxista, diremo che
esso è caratterizzato dalle seguenti tesi:
–
la dinamica sociale del capitalismo è mossa dallo sviluppo delle forze
produttive;
–
tale sviluppo è lineare e progressivo e determina univocamente le forme
culturali e politiche che gli corrispondono e che da esso dipendono in maniera
meccanica;
–
lo sviluppo delle forze produttive ha un contenuto sostanzialmente “neutrale”,
perché dà luogo ad una socializzazione della produzione che costituisce la base
della società socialista;
–
esso peraltro produce anche il soggetto della rivoluzione socialista, perché
generalizza il lavoro salariato e lo concentra in masse sempre più grandi,
aumentandone la forza sociale e la consapevolezza politica, cosicché il punto
più alto di sviluppo del capitalismo diviene anche il punto del suo
rovesciamento radicale. »
Quest’analisi
sarebbe anche corretta, tant’è che Gramsci chiamava questo adialettico
determinismo storicista un «materialismo infantile».
Ora,
di cosa possa essere stato criticato “efficacemente” negli anni ‘70 e ‘80 del
‘900 – considerando quale sia stato il risultato materiale e coscienziale negli Stati nazionali a
maggior sviluppo economico – ci sarebbe da discutere a lungo.
E,
forse, sta proprio qui il problema che si prova a sviscerare.
Se
la critica sulle orme di Gramsci fosse volta ad approfondire l’economia
politica E – contestualmente – ad unirla indissolubilmente
al metodo dialettico e alla filosofia che questo sottende-, potremmo essere
pacificamente d’accordo. Purtroppo, ci pare che – poiché non ci sono ulteriori
riscontri sull’importanza dell’economia politica e del metodo scientifico –
abbiamo di conseguenza a che fare con quel tipo di «relativismo
dell’opinione », ossia del «fatti una tua personale opinione sulle
cose », «usa la tua testa! », che si propaga a macchia d’olio nel
mondo della cultura “di sinistra” tra gli anni ‘60 e ‘70. Ossia ai tempi della
grande controffensiva neoliberista.
La
domanda è: sono riflessioni “metodologicamente fondate”? I pensatori di
“sinistra” hanno smarrito tra le barricate dei Settanta gli ultimi scampoli di filologia?
Certo,
«il positivismo è assurdo», siamo d’accordo come con noi è
d’accordo Husserl: «nel positivismo, consapevolmente o meno, ci sta
dello scetticismo; e lo scetticismo è assurdo ». Tanto che Husserl
parla proprio di «fallimento della scienza » in quanto «Galileo tanto
scopre quanto ricopre».
Ma tutto ciò, a livello cognitivo e nell’ottica di una
riflessione più ampia, non significa prosasticamente «ok,
la scienza è fallita, liberi tutti, diamoci all’astrologia, alla rivoluzione
interiore e a chi le spa… al “pluralismo dell’opinione” ». Significa che, oltre
a poggiare i
piedi sul solido terreno della scienza che nasce proprio per
“oggettivare”, rendere “intersoggettiva” l’esperienza anche a distanza di
spazio e di tempo, cercare un linguaggio comune e – quindi! – una dialettica,
è altresì necessario “fondarla”, “significarla
epistemologicamente”, ossia passare dalle verità scientifiche a delle opinioni
coscienti.
Non
passare, come dal Sessantotto in avanti, da insensate verità scientifiche ad
ancora più insensate opinioni individuali. Il pensiero collettivo, critico,
essendo generato per definizione da un flusso dialettico, deve essere
scientificamente, empiricamente fondato.
Cosa
passava a fare ore e ore Marx nelle biblioteche britanniche studiando le opere di Smith e Ricardo? È possibile rendersi conto che
il linguaggio della “struttura”, primum agens della storia e della
coscienza, è il linguaggio dell’economia politica? È possibile comprendere che la locuzione rapporto di produzione
sottende contemporaneamente almeno un concetto economico, sociologico e
giuridico? E queste, non a caso, sono tutte e tre scienze sociali.
1.3 Comunicazione e responsabilità
Tornando
nel merito: la tesi che proponiamo è che «mai con» a prescindere è
risultato di ciò che sembra proprio un paralogismo. Una precomprensione
delle fondamenta stesse del grande pensiero marxiano e, in definitiva – come
sottolineava Marx – falsa coscienza di natura ideologica e
paramorale. Sovrastrutture di ciò che oggi è il capitale neoliberale.
Per
farlo porteremo a sostegno citazioni di chi, seguendo il metodo proposto, ha
potuto dare un grande contributo nella storia della lotta per l’emancipazione
delle masse.
2. Quando i socialisti erano “sovranisti”…
(ringraziando Arturo per la citazione)
«Il
compagno Parabellum [o, se si vuole, “Toni Negri”...] (nei nn. 252-253
della Berner Tagwacht) dichiara “illusoria” la “lotta per
l’inesistente diritto di autodecisione” e ad essa contrappone la “lotta
rivoluzionaria di massa del proletariato contro il capitalismo”, assicurando
nello stesso tempo che “noi siamo contro le annessioni” (questa
affermazione è ripetuta cinque volte nell’articolo di Parabellum) e contro ogni
specie di violenza ai danni delle nazioni.
Gli argomenti di Parabellum si riducono a questo: oggi tutti i
problemi nazionali (Alsazia-Lorena, Armenia, ecc.) sono in sostanza problemi
dell’imperialismo; il capitale ha superato i limiti degli Stati nazionali; non è possibile “girare all’indietro la ruota della storia” verso
l’ideale ormai sorpassato degli Stati nazionali, ecc. »
Ci
pare di averla già sentita….
«Innanzitutto
proprio Parabellum guarda indietro invece di guardare avanti, quando, scendendo
in campo contro l’accettazione dell’ “ideale dello Stato nazionale” da
parte della classe operaia, volge i propri sguardi all’Inghilterra, alla
Francia, all’Italia, alla Germania, cioè ai paesi in cui il movimento di
liberazione nazionale appartiene al passato, e non all’Oriente, all’Asia,
all’Africa, alle colonie dove questo movimento appartiene al presente e
all’avvenire. Basta nominare l’India, la Cina, la Persia, l’Egitto. »
O
la Grecia, aggiungiamo noi.
«Proseguiamo.
Imperialismo significa superamento dei limiti degli Stati nazionali da parte
del capitale, significa estensione e aggravamento dell’oppressione
nazionale su una nuova base storica. Di qui, malgrado le opinioni di
Parabellum, deriva precisamente che noi
dobbiamo legare la lotta rivoluzionaria per il socialismo al programma
rivoluzionario nella questione nazionale. Dal ragionamento di
Parabellum risulta che egli, in nome della rivoluzione socialista, respinge
sdegnosamente il programma rivoluzionario coerente nel campo democratico.
Questo non è giusto. Il proletariato non può
vincere se non attraverso la democrazia, cioè realizzando completamente la
democrazia e presentando, ad ogni passo della sua lotta, rivendicazioni
democratiche nella formulazione più precisa. È assurdo contrapporre la rivoluzione socialista e la lotta
rivoluzionaria contro il capitalismo ad una delle questioni della democrazia,
nel nostro caso alla questione nazionale. Dobbiamo unire la lotta rivoluzionaria contro il capitalismo al
programma rivoluzionario e alla tattica rivoluzionaria per tutte le
rivendicazioni democratiche: repubblica, milizia, elezione dei
funzionari da parte del popolo, parità di diritti per le donne, autodecisione
dei popoli, ecc. Finché esiste il capitalismo, tutte queste rivendicazioni
sono realizzabili soltanto in via d'eccezione e sempre in forma incompleta,
snaturata. Appoggiandoci alla democrazia già attuata, rivelando che essa è
incompleta in regime capitalista, noi rivendichiamo l'abbattimento del
capitalismo, l'espropriazione della borghesia, come base indispensabile per
l'eliminazione della miseria delle masse e per l'introduzione completa e
generale di tutte le trasformazioni democratiche».
Pare
proprio che il leninismo abbia poco a che fare con Lenin… il quale pare
aver molto più a che fare con la Luxemburg.
«L'imperialismo
è l’oppressione sempre maggiore dei popoli del mondo da parte di un pugno di
grandi potenze, è un periodo di guerre tra queste potenze per
l'estensione e il consolidamento dell’oppressione delle nazioni, è un
periodo di inganno delle masse popolari da parte dei socialpatrioti ipocriti,
di coloro i quali – col pretesto della “libertà dei popoli”, del “diritto delle
nazioni all’autodecisione” e della “difesa della patria” – giustificano e
difendono l’oppressione della maggioranza dei popoli del mondo da parte delle
grandi potenze. »
Questa è la descrizione dell’imperialismo fascista camuffato
da umanitarismo irenico. Pare proprio quello che attualmente sta opprimendo le
masse lavoratrici.
«Perciò,
nel programma dei socialdemocratici, il punto centrale dev’essere precisamente
quella divisione delle nazioni in dominanti e oppresse, che rappresenta
l'essenza dell’imperialismo e alla quale sfuggono mentendo i socialsciovinisti
e Kautsky.
Questa divisione non è sostanziale dal punto di vista del pacifismo borghese o dell’utopia piccolo-borghese della concorrenza pacifica tra nazioni indipendenti in regime capitalista, ma essa è indiscutibilmente sostanziale dal punto di vista della lotta rivoluzionaria contro l’imperialismo. E da questa divisione deve scaturire la nostra definizione – coerentemente democratica, rivoluzionaria e corrispondente al compito generale della lotta immediata per il socialismo – del “diritto delle nazioni all’autodecisione”.
In nome di questo diritto, lottando per il suo riconoscimento non ipocrita, i socialdemocratici delle nazioni dominanti debbono rivendicare la libertà di separazione per le nazioni oppresse, perché altrimenti il riconoscimento dell’eguaglianza di diritti delle nazioni e della solidarietà internazionale degli operai sarebbe in pratica soltanto una parola vuota, soltanto un’ipocrisia. »
Questa divisione non è sostanziale dal punto di vista del pacifismo borghese o dell’utopia piccolo-borghese della concorrenza pacifica tra nazioni indipendenti in regime capitalista, ma essa è indiscutibilmente sostanziale dal punto di vista della lotta rivoluzionaria contro l’imperialismo. E da questa divisione deve scaturire la nostra definizione – coerentemente democratica, rivoluzionaria e corrispondente al compito generale della lotta immediata per il socialismo – del “diritto delle nazioni all’autodecisione”.
In nome di questo diritto, lottando per il suo riconoscimento non ipocrita, i socialdemocratici delle nazioni dominanti debbono rivendicare la libertà di separazione per le nazioni oppresse, perché altrimenti il riconoscimento dell’eguaglianza di diritti delle nazioni e della solidarietà internazionale degli operai sarebbe in pratica soltanto una parola vuota, soltanto un’ipocrisia. »
Proprio
come, a livello nazionale, lo sono i diritti nelle democrazie borghesi.
«Come
esempio istruttivo può servire l’impostazione che ricevette la questione
nazionale verso la fine del decennio 1860-1870. I democratici piccolo-borghesi,
estranei a ogni idea di lotta di classe e di rivoluzione socialista, avevano
immaginato l’utopia della concorrenza pacifica, in regime capitalista, tra
nazioni libere e aventi eguali diritti. I proudhoniani “negavano” addirittura
la questione nazionale e il diritto di autodecisione delle nazioni dal punto di
vista dei compiti immediati della rivoluzione sociale.
Marx scherniva il proudhonismo francese, mostrava la sua affinità con lo sciovinismo francese. (“Tutta l’Europa può e deve restare tranquillamente seduta sul suo deretano, fino a quando i signori non aboliranno in Francia la miseria”... “Per negazione delle nazionalità, essi, a quanto pare, intendono inconsapevolmente l’assorbimento di nazionalità da parte della nazione francese modello”).
Marx chiedeva la separazione dell’Irlanda dall’Inghilterra, “anche se dopo la separazione si dovesse giungere alla federazione” e lo chiedeva non dal punto di vista dell’utopia piccolo-borghese del capitalismo pacifico, non per motivi di “giustizia verso l’Irlanda”, ma dal punto di vista degli interessi della lotta rivoluzionaria del proletariato della nazione dominante, cioè inglese , contro il capitalismo. La libertà di questa nazione era ostacolata e mutilata dal fatto che essa opprimeva un’altra nazione. L’internazionalismo del proletariato inglese sarebbe stato una frase ipocrita se il proletariato inglese non avesse chiesto la separazione dell’Irlanda. »
Marx scherniva il proudhonismo francese, mostrava la sua affinità con lo sciovinismo francese. (“Tutta l’Europa può e deve restare tranquillamente seduta sul suo deretano, fino a quando i signori non aboliranno in Francia la miseria”... “Per negazione delle nazionalità, essi, a quanto pare, intendono inconsapevolmente l’assorbimento di nazionalità da parte della nazione francese modello”).
Marx chiedeva la separazione dell’Irlanda dall’Inghilterra, “anche se dopo la separazione si dovesse giungere alla federazione” e lo chiedeva non dal punto di vista dell’utopia piccolo-borghese del capitalismo pacifico, non per motivi di “giustizia verso l’Irlanda”, ma dal punto di vista degli interessi della lotta rivoluzionaria del proletariato della nazione dominante, cioè inglese , contro il capitalismo. La libertà di questa nazione era ostacolata e mutilata dal fatto che essa opprimeva un’altra nazione. L’internazionalismo del proletariato inglese sarebbe stato una frase ipocrita se il proletariato inglese non avesse chiesto la separazione dell’Irlanda. »
Lenin, “Il proletariato
rivoluzionario e il diritto di autodecisione delle nazioni”, ottobre 1915
Chi
usa gli strumenti analitici forniti dal materialismo storico non si può
stupire dell’attualità di questa analisi di Lenin: l’UE e l’euro,
fondati “sull’utopia della concorrenza pacifica” (cfr. art.3 comma 3, TUE), devono quindi essere
abbattuti perché sono istituzioni volte alla reciproca oppressione delle
nazioni: l’Italia è oppressa dalla Germania e dalla Francia, ma ne è complice
quando si tratta di opprimere la Grecia (La Germania e la Francia sono oppresse
dagli Stati Uniti). E tutto ciò a vantaggio dello sfruttamento.
Autodeterminazione
versus imperialismo, che, come ricorda Lenin, non pare proprio
essere “internazionalismo” come gli europeisti e gli “altreuropeisti” provano a
spacciarlo, ma, ovviamente, proprio la sua negazione.
2.1 Prima riflessione
Che
conseguenze ha avuto l’analisi di Parabellum poi ripresa dagli eurocomunisti
in piena controrivoluzione neoliberista?
3. Analisi marxista sul tema delle alleanze:
Lelio Basso cita Marx, 1947
3.1 «Dall’unità antifascista all’unità
democratica»
«[…] Per intendere il significato degli avvenimenti
politici che hanno caratterizzato la storia del nostro Paese in questi ultimi
anni e fare, ove occorra, una seria critica dei nostri stessi atteggiamenti,
non sarà inopportuno rammentarci i principi
fondamentali della dialettica delle classi e gli insegnamenti della categoria
proletaria che Marx ci ha dato, oltre che nel Manifesto, in quel mirabile
indirizzo del 1850 scritto a nome del Comitato Centrale della Lega dei
Comunisti.
a) il partito operaio rivoluzionario [...] non si distingue
dagli altri operai in quanto sia depositario di verità particolari scoperte da
qualche ideologo, o perché voglia realizzare un ideale precostituito di mondo
migliore, ma solo perché esso è l’elemento più
cosciente della classe operaia [...] e pertanto è in grado di spiegare agli
altri operai le ragioni per cui essi veramente combattono e guidarli verso
delle finalità vere di classe;
b) funzione precipua dei militanti rivoluzionari è pertanto
quella di contribuire a creare nella classe
operaia questa coscienza di classe, cioè dare unità al movimento operaio
e indirizzarlo verso obiettivi rivoluzionari;
c) a tal fine è necessario adoperarsi perché gli operai
partecipino, in unione con tutte le forze democratiche e progressiste della borghesia,
alle lotte contro i regimi reazionari, ma mantenendo sempre ed
accentuando anzi in ogni momento le proprie caratteristiche di classe e di
partito autonomo, cioè ponendo in ogni fase della lotta le rivendicazioni
proprie del proletariato che dovranno costituire il tema della fase successiva; […]
Su questo problema della inserzione del proletariato nei
conflitti interni delle diverse frazioni della borghesia, e delle alleanze che
ne derivano, l’insegnamento di Marx è
estremamente preciso.
Sforzarsi di unire tutti i partiti democratici contro i regimi reazionari, essere presenti in tutte le lotte e battersi decisamente anche per delle rivendicazioni immediate o per delle conquiste parziali; questo è certamente dovere dei proletari e dei militanti rivoluzionari che si pongono alla loro testa. Ogni passo in avanti sulla via del progresso democratico, ogni sconfitta delle forze reazionarie, è sempre anche un successo del proletariato, è un passo avanti verso il socialismo, ma non è ancora la battaglia per il socialismo.
Sforzarsi di unire tutti i partiti democratici contro i regimi reazionari, essere presenti in tutte le lotte e battersi decisamente anche per delle rivendicazioni immediate o per delle conquiste parziali; questo è certamente dovere dei proletari e dei militanti rivoluzionari che si pongono alla loro testa. Ogni passo in avanti sulla via del progresso democratico, ogni sconfitta delle forze reazionarie, è sempre anche un successo del proletariato, è un passo avanti verso il socialismo, ma non è ancora la battaglia per il socialismo.
Bisogna sempre sapere discernere, fra le frazioni della
borghesia che lottano contro il regime dominante, quelle che lottano veramente
in vista di un sostanziale progresso e quelle con finalità essenzialmente
reazionarie; ma soprattutto bisogna
sapere quali sono i limiti dell’azione di ciascuna di queste frazioni borghesi,
cioè quali sono i suoi interessi fondamentali di classe che le impongono a un
certo momento di fermarsi e, magari, di mutar fronte, denunciando le sue
vecchie alleanze con i ceti più avanzati per allearsi invece con i ceti
sconfitti. […]
Ora non v’è
dubbio che, alla base della lotta antifascista sostenuta sotto l’insegna
dell’“unità nazionale”, non vi fu un’impostazione di classe in questo senso.
Se è vero che era necessario che il proletariato partecipasse in unione con tutte le forze borghesi e democratiche alla lotta contro il nazifascismo, e vi partecipasse in prima fila, è lecito domandarsi se la forma di tale partecipazione non avrebbe dovuto essere diversa da quella che fu, se in luogo di un’alleanza non solo formale ma tale da fare sparire addirittura ogni differenza nella valutazione dei problemi e nell’impostazione della lotta, come fu quella dei C.L.N., non sarebbe stato più opportuno stringere quel tanto di alleanza che nasceva dalle comuni finalità, mantenendo però la propria autonomia non soltanto organizzativa di partito, ma politica di classe, ponendo risolutamente sul tappeto le istanza delle riforme di struttura; se cioè in luogo di combattere la battaglia in nome di una generica democrazia e di un più generico patriottismo contro la facciata soltanto del fascismo, non sarebbe stato necessario impostare subito i temi della lotta contro le cause del fascismo, e cioè le forze stesse reazionarie che, in previsione della sconfitta del regime fascista, si annidavano già in seno alla Resistenza. […]
Se è vero che era necessario che il proletariato partecipasse in unione con tutte le forze borghesi e democratiche alla lotta contro il nazifascismo, e vi partecipasse in prima fila, è lecito domandarsi se la forma di tale partecipazione non avrebbe dovuto essere diversa da quella che fu, se in luogo di un’alleanza non solo formale ma tale da fare sparire addirittura ogni differenza nella valutazione dei problemi e nell’impostazione della lotta, come fu quella dei C.L.N., non sarebbe stato più opportuno stringere quel tanto di alleanza che nasceva dalle comuni finalità, mantenendo però la propria autonomia non soltanto organizzativa di partito, ma politica di classe, ponendo risolutamente sul tappeto le istanza delle riforme di struttura; se cioè in luogo di combattere la battaglia in nome di una generica democrazia e di un più generico patriottismo contro la facciata soltanto del fascismo, non sarebbe stato necessario impostare subito i temi della lotta contro le cause del fascismo, e cioè le forze stesse reazionarie che, in previsione della sconfitta del regime fascista, si annidavano già in seno alla Resistenza. […]
Inoltre la mancanza di un programma di rivendicazioni
sociali che caratterizzasse i partiti proletari e sulle quali si sarebbe forse
potuto, nel clima della Resistenza, ottenere il consenso anche dei partiti
borghesi, svuotò di ogni contenuto il movimento
di liberazione all’indomani del 25 aprile, quando, per il solo fatto della
caduta del fascismo, apparvero raggiunte le mete che il movimento si era
prefisso […]
In sostanza, vi fu, alla base di questa
politica, un abbandono dei principi strategici del marxismo, e la logica della
lotta di classe si rivolse contro di noi, mettendoci dopo il 2 Giugno in
condizioni di evidente inferiorità di fronte alla maggioranza democristiana. […]
Questa lunga analisi ci permette di concludere che il Fronte
che nasce adesso, sulla base dell’unità democratica, è in realtà qualche cosa
di diverso dall’unità semplicemente antifascista che dominò fino alla scorsa
primavera la politica delle sinistre, perché le parole d’ordine attorno a cui
l’unità si realizza escono finalmente dal
terreno generico, puramente formale e politico dell’antifascismo, su cui si
possono incontrare anche movimenti e partiti profondamente diversi, per
investire finalmente i problemi economico-sociali che sono la vera pietra di
paragone della democrazia, al di là di tutte le etichette e di tutti i
programmi elettorali. […]
Si rende così possibile trasportare la lotta del
diseducatore compromesso di vertici o dallo spontaneo ed episodico moto
popolare alla grande mobilitazione di masse in vista di una conquista
sostanziale ed organica.
È in questo senso che io ho parlato di risuscitare lo spirito della
Resistenza, essendo bene inteso che dopo tre anni carichi di delusioni ma di
esperienze, dopo una lotta politica confusa e tortuosa, ma alla fine
sufficientemente chiarificatrice, quello spirito si è arricchito di altri
motivi e di altro contenuto, e dal tono di vaga speranza di rinnovamento assume
oggi quello di matura e cosciente volontà.
[…]
Che di questo vasto schieramento democratico, che abbraccia operai e
contadini, ceti medi intellettuali e borghesia progressista, la classe operaia,
o almeno la sua avanguardia più costante e più matura, sia l’elemento
propulsore, è indubbiamente condizione del suo successo »
[L. BASSO, “Dall’unità antifascista
all’unità democratica”, in Socialismo, luglio-dicembre 1947, n. 7/12,
139-144]
Per
Marx, come per i grandi marxisti pare non ci fosse dubbio: prima le
riforme strutturali in senso progressista,
poi tutto il resto.
E, per far le riforme di struttura, id est., ritorno alla Costituzione – ora sovranità monetaria, fiscale, dipendenza della banca centrale dalle istituzioni democratiche, obbligo istituzionale alle politiche economiche keynesiane, ecc. – qualsiasi alleanza doveva essere presa in considerazione.
E, per far le riforme di struttura, id est., ritorno alla Costituzione – ora sovranità monetaria, fiscale, dipendenza della banca centrale dalle istituzioni democratiche, obbligo istituzionale alle politiche economiche keynesiane, ecc. – qualsiasi alleanza doveva essere presa in considerazione.
Chiunque
nel merito può farsi un’opinione diversa, rispettabile o meno, strutturata e
profonda oppure superficiale, ma – filologicamente – è
improbabile che possa essere considerata marxiana.
(E qui si potrebbe fare un’altra riflessione sul perché Marx
non sopportasse che si parlasse di “marxismo”, sul perché Lenin non ne voleva
sapere del “leninismo”, né Trotskij del “trotskijsmo”; mentre a Stalin parlare
di “stalinismo” andava benissimo… ma questo è solo un po’ di colore nel nero
che si addensa sempre più all’orizzonte)
D'accordo con l'idea di allearsi sempre e comunque col 'nemico del proprio nemico', ma i rapporti di forza sono quelli che sono (l'elite transnazionale finanziaria, costituita dai membri piu' o meno occulti della Banca Mondiale, 'the squid', e' cosi' potente da sembrare in alcuni momenti quasi onnipotente).
RispondiEliminaLa considerazione dei rapporti di forza ormai esistenti da almeno un secolo porta quindi necessariamente a dover fissare le priorita'.
Tra l'altro il problema della sovranita' monetaria e del controllo democratico della banca centrale e' comune a molti stati imperiali, anche aventi lo status di superpotenza con 'triade nucleare', come la Federazione Russa (fuori dall'IMF per decisione di Stalin e membro dell'analoga istituzione recentemente creata insieme a Cina/India ed altri), gli USA (Paese egemone dell'IMF) e la Cina (membro dell'IMF e co-fondatore insieme alla Russia etc. etc.).
Della FED e delle oscure circostanze in cui fu creata ai tempi della I GM non credo ci sia nulla da dire, intelligenti pauca.
Ma per esempio basta dare una semplice occhiata all'articolo della costituzione russa, quello in cui si istituisce la Banca Centrale, per capire (rammento che la Costituzione Russa fu scritta, in occasione del dissolvimento dell'Unione Sovietica, cosi' come gia' accaduto per il Giappone e la Germania Ovest, dalla finanza USA, quella che decide in seno all'IMF ed alla Banca Mondiale).
https://www.cbr.ru/Eng/today/
https://www.cbr.ru/Eng/DKP/
Quindi anche la banca centrale di quello che fu il faro del comunismo mondiale oggi ha la 'limitata' missione di garantire la stabilita' del cambio $/rublo (i.e. garantire gli investimenti in Russia della finanza transnazionale) e di tenere bassa l'inflazione (che e' il caposaldo dell'ordoliberismo)!
Segnalo che lo stesso Stalin riusci' a licenziare Litvinov (ma senza poterlo uccidere perche' comunque troppo potenti erano i suoi pupari, https://en.wikipedia.org/wiki/Maxim_Litvinov), che era il plenipotenziario in seno al governo comunista della finanza anglosassone, per nominare Molotov al suo posto, solo dopo aver sterminato tutti quelli che all'interno del partito credeva collusi con lui, e dopo ben 16 anni dalla fine della guerra civile.
Anche Vladimir Putin, che da 15 anni sta pazientemente perseguendo la politica del recupero delle sovranita' perdute (ai tempi della caduta dell'URSS era rimasta solo la sovranita' territoriale), ancora non si puo' permettere di fare l'analoga mossa di Stalin e dopo aver domato gli oligarchi solo quest'anno ha cominciato a pensionare gli emissari dell'elite finanziaria transnazionale (e' il motivo delle sanzioni).
Probabilmente quando si vedra' partire (se mai) Anatoly Chubais (https://en.wikipedia.org/wiki/Anatoly_Chubais), il Litvinov dei primi anni 90, quello sara' il segno del cambio imminente della costituzione russa e del completo recupero della sovranita' (III GM permettendo).
Venendo all'Italia, che come diceva il Marchese del Grillo 'non conta un cazzo', tanto che ci permisero di scriverci da soli la Costituzione Repubblicana, direi che conviene concentrarsi primariamente sulla uscita dall'eurozona e rimandare a tempi piu' propizi la cacciata dei Litvinov/Chubais che infestano la Repubblica (certe cose si fanno quando mutano i rapporti di forza).
Per il ripristino della legalita' costituzionale, la democrazia sostanziale, il recupero delle sovranita' cedute e le politiche Keynesiane temo che ci vorra' una generazione (III GM permettendo).
Si tratta di cose che si fanno ma non si dicono ed oggi siamo ancora nella fase in cui si dicono le cose che non si fanno!
Noto una certa sufficienza liquidatoria...Ma non mi pare il caso.
EliminaDell'indipendenza della banca centrale e delle condizioni che la legano, nell'Europa occidentale, al federalismo europeo, anzitutto sul piano normativo, qui si parla da anni.
Tra l'altro, l'uscita dall'eurozona implica che l'obbigo dello statuto di indipendenza "pura" della BC (un caso che istituzionalmente è un unicum), viene automaticamente meno per via della mancanza di una sanzione prevista dai trattati per i paesi estranei all'UEM (c.d. in deroga...uno status che abbiamo visto essere solo nominalmente transitorio).
Il mero ripristino dell'applicabilità dell'art.47 Cost (rammentiamo che l'Unione bancaria e il fiscal compact riguardano solo i paesi dell'eurozona), e il venir meno di limiti effettivamente sanzionabili (dall'UE) all'indebitamento annuale, rendono praticabili politiche espansive (sempre nei limiti del vincolo esterno quali illustrati da Kaldor e Cffè) che sono nella convenienza di qualsiasi maggioranza di governo.
Se poi i governi di una fase post-euro prenderanno lo stesso le linee "suggerite" dall'ordine internazionale dei mercati, dipenderà dalle condizioni effettive in cui si verificherà l'uscita - rectius "la fine" - dalla moneta unica.
Ma non sarebbero governi destinati a sopravvivere a lungo, date certe condizioni tecniche, e più che altro programmatiche, che dovrebbero garantire per essere eletti.
L'euro è molto di più di "una moneta".
E non credevo che se ne dovesse ancora discutere (se si segue il blog e i post dedicati al tema da anni).
Quindi "concentrarsi sull'uscita dall'eurozona" presenta per necessità lo stesso grado di difficoltà politica del ripristino della legalità costituzionale: anzi, le due cose coincidono, almeno per il grado di legalità costituzionale "mediamente" fisiologico che risulta dal pregresso stato di attuazione della Costituzione.
Ovviamente "per quelli che credono nelle Costituzioni" e non pensano di cambiare quella del 1948 "perché è sorpassata" pur dopo un'eventuale eurexit.
L'uscita dall'euro è prioritaria per il ripristino della legalità costituzionale, ma credo lo sia allo stesso modo se non di più il ripristino pieno della sovranità monetaria, senza la quale le classi dominanti manterranno il conflitto distributivo a loro favore, utilizando il dogma della spesa publica, potranno perseguire sulla rotta attuale forse anche ripudiando l'euro ma continuando comunque un persorso ordoliberista.
EliminaComunque, Luca, il tema delle "alleanze" è un "pretesto", un tema che era stato dibattuto recentemente ma, di base, il tentativo fatto da Francesco e me era proprio di provare a riflettere "dalle basi": sono spunti di riflessione non così ambiziosi da voler dare indicazioni "pratiche" nell'agire politico attuale, ma - se si vuole - ancora "più ambiziosi".
EliminaOssia portare l'attenzione a ciò che tutti danno per scontato. Parte dell'atteggiamento fenomenologico consiste proprio di non dar per scontato proprio ciò che si ritiene più ovvio e banale. Come, appunto, il metodo. La dialettica, ossia il nucleo fondativo della coscienza individuale e sociale, ossia della coscienza critica stessa.
Il problema è che mancano proprio le basi minime per formulare un pensiero che non sia, come diceva Preve, una "stronzata".
Che chi non abbia il tempo e le risorse per riflettere pensi col pensiero di altri ("sovrastruttura", la chiamava Marx) è un conto: il problema è che manca proprio una "leniniana" élite intellettuale in grado di formulare un pensiero coerente, autonomo, dialettico e progressivo. Solo aporie e paralogismi: stronzate.
Che poi è il lavoro che fa anche Bagnai in via pedagogica, praticamente tramite "parabole": qua si prova invece a renderlo "metodo", ad oggettivarlo. A fornire quelle che poi, in realtà, sono sempre state le categorie usate da chi è riuscito nella prassi a contrastare l'oppressione e lo sfruttamento nonostante lo sbilanciamento dei rapporti di forza.
Se l'empirismo dei "neocomunisti" della scuola di Cambridge a la Keynes è stato geniale, va ricordato tutto l'idealismo pratico (vero e non kalergico) della scuola classica comunista continentale: russa, tedesca, italiana, ecc.
È una cosa seria: tutta l'erudizione, lo studio, di una persona socialmente impegnata è nulla se non viene coltivata tramite l'uso delle categorie, degli strumenti cognitivi messi a disposizione dei grandi autori. L'importanza della filologia!
Bisogna ricordare come si fa a ragionare, a discutere: l'importanza della scienza nella dialettica politica e, al contempo, delle categorie filosofiche che hanno gestito e dato al meglio un senso allo sviluppo tecnico occidentale rendendolo - eccezionalmente - strumentale allo sviluppo spirituale.
Basta guardare un Caravaggio o ascoltare un Corelli per capire che il TINA degli usurai è un aberrante prestigio.
Brr 48, brr.
RispondiEliminaLa tua testa è immansa, lo sappiamo.
Ma certi vasi non si scoperchiano mai invano.
Specialmente quando si vorrebbero travestire da cio' che non sono.
Buona ... fortuna.
http://orizzonte48.blogspot.it/2016/06/colonizzazione-mediatica-senza.html?spref=tw
EliminaVolevo scrivere "immensa" :/
EliminaOra ti leggo.
Questo articolo stimola per me la seguente riflessione, in proposito a quanto si osserva nel confronto intellettuale e politico attuale.
RispondiEliminaPerchè fino ad un po' di anni fa per votare contava essenzialmente il concetto politico "conservatore o progressista" ed ora invece chi non ha basi di macroeconomia pare essere inetto (o subdolamente spinto a pensarlo) a poter avere la minima comprensione necessaria per il semplice diritto di voto, il quale avrebbe come caratteristica l'universalità?
Penso che nell'ambito del principio di rappresentanza, valesse un tempo nella sostanza il presupposto per cui un partito una volta al governo con i suoi economisti facesse "quanto serva" e avesse le leve necessarie a rispettare il mandato politico ricevuto.
Se oggi i governi non possono più agire così nella sostanza, causa sovrasistemi esterni in chiave economica, allora che la distinzione tra destra e sinistra abbia perso valore e che vi sia un problema di democrazia diventa una conseguenza naturale, riflettendosi anche nella pregiudiziale delle competenze macroeconomiche che pervade il dibattito politico e intellettuale.
Anzi l'argomentazione della mancanza di una minima competenza macroeconomica (dove “minima” è facilmente usato poi in modo strumentale contro l’interlocutore), come requisito base addotto per la dignità uomo moderno, pena l'intolleranza intellettuale e come elettore, è un'ammissione di colpevolezza in senso antidemocratico e discriminatoria.
Questo concetto risulta soprattutto aggravato dall’uso strumentale dei dati macroeconomici da parte degli stessi esperti sempre più in chiave politica. Quindi si fa il gioco di porre gli argomenti macroeconomici come fondamentali per la lettura politica e poi se ne presenta la facciata voluta, spesso con deduzioni opposte a seconda degli schieramenti di riferimento, rendendo di fatto impossibile la comprensione ed ogni critica democratica da parte della platea.
Innanzitutto in questi spazi si ragione in ottica democratico-costituzionale: destra e sinistra vengono interpretati "secondo la costituzione" che è e rimane progressiva, fondata sul lavoro.
EliminaUn'altra cosa sono i ceti che materialmente lottano per la conservazione o meno dell'assetto sociale.
La macroeconomia, l'economia politica - ossia l'economia tout court - va compresa nei suoi fondamentali: per chi si propone di rappresentare gli interessi del popolo sovrano è necessario conoscerne i fondamentali "tecnici", mentre il popolo lavoratore dovrebbe almeno sapere che "i soldi" sono la prima e unica cosa reale che conta da gestire in politica. Tutto il resto viene a cascata.
Le costituzioni nascono, in primis, per gestire ab origine il conflitto distributivo: le istituzioni che dalle carte liberali nascono per favorire gli interessi economici dei vari ceti borghesi in conflitto ma al riparo parimenti dalle pretese autocratiche e democratiche; le carte delle democrazie sociali moderne nascono per regolare il conflitto distributivo tra capitale e lavoro tutelando quest'ultimo, la parte più debole ma più numerosa ed estendibile ad ogni attività e funzione: poiché tutti dovrebbero lavorare e contribuire con la loro opera alla crescita materiale e spirituale della società, le Istituzioni provvedono a far sì che il potere politico sia socializzato tramite la socializzazione del potere economico.
Il suffragio universale diventa quindi effettivamente strumento di democrazia partecipata da tutto il popolo sovrano, senza alcuna distinzione, a partire da quelle di censo, di classe.
La socializzazione dell'istruzione ne è strumentale, ma non significa che tutto il popolo sovrano deve imparare a cercare, estrapolare ed interpretare secondo i migliori modelli teorici (in funzione dei loro interessi) i dati dai repository ufficiali.
Ciò che sta accadendo è eversivo, progettato ingegneristicamente by stealth, da interessi miopi di ceti e dinastie che per fare gli interessi nella loro breve, miserabile e inutile vita, godono del pensiero di progettare un futuro per chi rimarrà (se rimarrà) anche dopo di loro.
Un progetto a lunghissimo termine finanziato da chi non ha mai neanche veramente vissuto. Così, per l'ebbrezza del potere spacciata mafiosamente come "responsabilità" di chi "prende le decisioni che contano".
Tutto ciò è permesso dalla struttura.
E la struttura è sempre in primis da studiare tramite l'economia politica, nei suoi risvolti economicistici quanto sociologici e giuridici.
La risposta è quindi produrre coscienza di tutto ciò: manca una classe dirigente - che sia politica, intellettuale o imprenditoriale - in grado di produrre coscienza e, dialetticamente, in grado di prendersi vantaggio materiale ed ideale dal supporto che ne deriverebbe da questi ceti coscienti.
In breve: manca una "scuola" che formi un'avanguardia in grado di agire nel chiarire e rendere consapevole la massa lavoratrice e dei disoccupati.
@Dave von Richter
EliminaIl “confronto intellettuale e politico attuale” è solo una penosa parodia mediaticamente data in pasto agli italiani mentre il governo sovranazionale dei mercati fa i suoi porci comodi, da almeno 35 anni.
Il fatto che “valesse un tempo il presupposto per cui un partito una volta al governo con i suoi economisti facesse "quanto serva" e avesse le leve necessarie a rispettare il mandato politico ricevuto” è un altro falso mito che non tiene conto del fatto che esiste una Costituzione rigida di chiara ispirazione keynesiana la quale detta come necessari i fini ed indica gli strumenti per raggiungere gli stessi. Si può calibrare il “dosaggio” delle politiche keynesiane a seconda del ciclo economico, ma non si può decidere di resecarle come ormai avviene in modo reazionario da troppi anni.
A prescindere dalle competenze macroeconomiche – e su questo bisogna essere estremamente chiari – è quindi necessario cominciare a comprendere che non esiste “l’economia” in astratto, ma esiste “l’economia politica”, cioè esistono delle scelte. E si dà il caso che le scelte non sono e non possono essere veicolate di volta in volta a proprio piacimento dall’economista del partito di turno che va al governo, ma sono fissate in modo giuridico ed inderogabile dalla Costituzione italiana (a saperne intendere la sostanza) che – vedi Bazaar – nella volontà dei Costituenti è stata congegnata già come intrinsecamente progressiva.
Occultata la Costituzione e la legalità che dalla stessa promana (di cui ci si guarda bene dal parlare in quella fossa biologica che è il circuito mediatico, o raramente e del tutto a sproposito in manifestazioni benignesche e pseudo-intellettualistiche) e disattivata di fatto la stessa attraverso “vincolo esterno” (=sottrazione della sovranità monetaria, ma non solo), qualunque ricetta economica (cioè sempre liberista) e qualunque dato macroeconomico può essere manipolato ed utilizzato a piacimento per intortare i cittadini che si lasciano intortare.
Sovranità democratica (alla quale quella monetaria è di necessità consustanziale)=democrazia sostanziale=realizzazione incondizionata dei diritti sociali (con il diritto al lavoro in primis)=vita dignitosa della comunità
Dovrebbe pertanto essere chiaro come la sovranità democratica non abbia assolutamente nulla di retorico, ma semmai di viscerale e vitale per le sorti di una comunità nazionale (almeno per chi ha ancora un istinto di sopravvivenza). Ed ecco anche perché è così basilare e pregiudiziale recuperarla.
(chiedo venia al Presidente per il banalissimo schematismo riguardante concetti che trovano nel blog ampio ed esaustivo approfondimento)
“ … Quale fu allora il metro della nostra politica? Quello che a decidere il giudizio da darsi sugli uomini, sui gruppi, sulle scelte da farsi, dovesse essere la condotta effettiva della guerra contro i fascisti e i tedeschi. Tutto quello che poteva farsi che fossero inferti colpi più forti e più rapidamente possibile contro i fascisti ed i tedeschi, doveva passare in primo piano. Questo era il criterio, secondo il quale operavamo, e per questo l'unità ci pareva essenziale: l'unità operaia, perché pensavamo che la classe operaia avesse una funzione d'avanguardia, l'unita democratica, perché non ci poteva essere ribellione nazionale che non fosse una grande rivolta antifascista di massa, e l'unità nazionale. Per questo ponemmo questo problema al centro e combattemmo per realizzare questa unità.
EliminaLa cosa non fu facile né semplice; combattemmo nel nostro partito, contro le resistenze settarie, contro le incomprensioni… combattemmo per conquistare gli elementi antifascisti e antitedeschi degli altri partiti e della popolazione senza partito a questa politica. Doveva essere, e fu, la politica di tutta la nazione. In quegli anni questo concetto diventò fondamentale, mentre la democrazia italiana riprendeva a vivere articolandosi in partiti, esprimendo la diversità degli interessi, delle opinioni, delle correnti, nel superare ogni forma di qualunquismo o di patriottismo anonimo. Nello stesso tempo ogni partito antifascista andava acquistando in un modo più o meno chiaro, più o meno duraturo, la coscienza che questa articolazione non impediva l'unità nazionale.
E voglio ricordare come ad opporsi al tentativo di rompere l'unità, cercando di isolare i comunisti, non fosse soltanto la nostra azione, ma anche l'intervento di elementi lontani da noi ideologicamente, che però capivano il valore dell'unità e sapevano come il nostro apporto fosse essenziale. E nel gennaio del 1944 una dichiarazione del Comitato di Liberazione Altitalia che faceva la constatazione che si manifestavano dei tentativi di scissione, che si iniziava da parte di forze che cominciavano a dirsi antifasciste dopo essere state vicino al fascismo, un'azione anticomunista. Il Comitato di Liberazione Altitalia, nel suo insieme, dichiarava allora che l'anticomunismo, come un elemento negativo dell'unità, era da considerarsi come un pericolo per la democrazia e per lo sforzo nazionale, e concludeva il suo ammonimento dicendo: "Vogliamo mettere in guardia coloro che fanno questi tentativi e ci rivolgiamo in modo particolare a certi ambienti finanziari e industriali", caratterizzando così non soltanto di quell'azione l'origine della manovra anticomunista, ma anche di un tentativo scissionistico nel confronto del movimento nazionale.
Questo criterio unitario dettò la nostra condotta nei confronti degli altri partiti.
Prima, anche in ordine cronologico, fu l'unità con i socialisti, che risale al periodo dell'emigrazione, al periodo del Fronte Popolare in Francia, e che trova i socialisti ed i comunisti già convinti che, affermando la loro unità, possono riconoscere e fare riconoscere nella riscossa nazionale una funzione di avanguardia alla classe operaia. Ma già nell'emigrazione l'unità dei socialisti e dei comunisti si era estesa ai compagni di "Giustizia e Libertà" costituendo un'alleanza che non fu mai considerata come esclusiva nel confronto degli altri gruppi antifascisti, ma bensí come un nucleo che aveva la sua base nella classe operaia e che doveva rappresentare un elemento capace di un'unità democratica e di un'unità nazionale più larga. (segue)
Noi non vogliamo ricordare soltanto la fatica fatta nel confronto degli altri, perché, se il nostro partito aveva considerato la politica unitaria come un elemento fondamentale della sua azione, i gruppi sparsi di comunisti, gli elementi isolati del paese, gli elementi che avevano vissuto la vita difficile della clandestinità - e spesso non erano gli elementi più adatti per ritessere le fila di un'azione che superasse vecchi pregiudizi, vecchi rancori, vecchie incomprensioni - l'unità non fu un risultato naturale degli avvenimenti, ma la coscienza che gli avvenimenti avrebbero potuto essere quello che poi furono, soltanto attraverso questo processo politico.
EliminaSi poneva un altro problema: questa maggiore unità che si articolava, doveva vedere all'interno del fronte nazionale, del movimento dei comitati di liberazione, un'unità delle sinistre, oppure, oltre all'unità dei socialisti e dei comunisti, un'altra unità poteva rappresentare la base fondamentale del movimento popolare? C'era un'unità di sinistra, socialisti, comunisti e partito d'azione, o c'era un'unità dei partiti di massa, comunisti, socialisti e democrazia cristiana?
Questo fu sempre un elemento presente, e il problema si presentò in un modo vario in diversi momenti, in diversi momenti l'accento fu posto su un aspetto o sull'altro, ma fondamentalmente fu risolto nel senso che nessuna parte del movimento di liberazione avrebbe dovuto isolarsi. Non volemmo mai contrapporre i rapporti fra i partiti di sinistra ai rapporti che pensammo doveva stabilire il movimento di massa diretto dai socialisti e dai comunisti, con il movimento di massa animato e ispirato dai cattolici.
Anche qui, a distanza di anni ormai, quando sento mormorare nella sala per il nome di Sturzo o per il nome di Sforza… mentre stiamo ricordando un clima in cui l'uno e l'altro erano due esuli antifascisti e dettero l'uno e l'altro la loro parte alla lotta antifascista, dopo tanti anni, quando è ancora difficile fare la storia, pare difficile intendere appieno come si è posto il problema dell'unità coi cattolici. Ebbene, se ci sono tante cose difficili da comprendere e anche da rivedere, io credo che non possiamo aver dubbi sul fatto che la politica di unità nei confronti del partito che li rappresentava, e che per i suoi rapporti con la Chiesa li avrebbe ufficialmente rappresentati, fu un elemento fondamentale di una politica giusta, e la soluzione che fu data in quegli anni fu una soluzione positiva. Abbiamo nutrito delle illusioni sulla democrazia cristiana? Non abbiamo capito quello che c'era di composito in questo partito, come sarebbe stato riconquistato o sarebbe stato possibile oggetto di riconquista da parte di elementi reazionari? ...
Certo abbiamo visto allora questi pericoli; nel contatto quotidiano con la vita del paese abbiamo sentito tutto questo: ma forse che questo ci doveva impedire di essere convinti, o di dover realizzare TUTTO QUELLO DI UNITARIO CHE ERA POSSIBILE? … C'era un problema storico in Italia: quello di combattere per la prima volta una guerra nazionale davvero.
Abbiamo dovuto fare allora un'opera di conquista, di orientamento del nostro partito e dobbiamo oggi ricordarlo a noi stessi e a coloro che a volte considerano questa nostra mania dell'unità come un accorgimento machiavellico anziché come una convinzione profonda, dettata da una passione politica accesa, e maturatasi durante un lungo periodo. Noi pensiamo che l'unita di classe, L'UNITÀ DEMOCRATICA, L'UNITÀ NAZIONALE NON FURONO MAI DELLE ILLUSIONI VANE, e siamo fermamente convinti che la guerra nazionale non avrebbe potuto realizzarsi altrimenti. (segue)
Dobbiamo certo anche ricordare che l'unità non fu mai un idillio…CHE COSA VOLEVA DIRE L’UNITA’? ANDARE TUTTI D’ACCORDO? Non poteva dire semplicemente questo: PER NOI VOLEVA DIRE ANDARE TUTTI D'ACCORDO NEL COMBATTERE I TEDESCHI ED I FASCISTI. Quindi l'unità non fu mai vista come un obiettivo, ma invece come una base per condurre la lotta. Ecco perché abbiamo condotto un'accesa polemica sulla funzione dei comitati di liberazione nazionale, sugli organismi di massa…Noi pensavamo che la creazione di organismi di massa, non di partito, dopo che l'organizzazione di partito si era realizzata già nel CLN, rappresentava il riconoscimento di una realtà, e che cioè le donne italiane, o i giovani italiani, o i lavoratori italiani non avevano ancora tutti preso partito e non si poteva pretendere che ognuno di loro cristallizzasse in un partito la sua volontà antifascista e nazionale. Ecco perché anche qui l'elemento di unità e di articolazione fu un elemento di polemica, un elemento di lotta, e noi esprimemmo anche in questo la nostra fiducia negli italiani e nella democrazia del nostro paese.
EliminaOgnuno è sempre stato giudicato soltanto per quello che era come soldato, come combattente dell'esercito antifascista… Ogni combattente partigiano, e ogni italiano nei confronti dei partigiani, sentiva che non aveva a che fare con una parte della nazione, con un partito, con dei comunisti, con dei socialisti o dei cattolici, ma che quello era l'esercito di tutti gli italiani e che tutti gli italiani avevano in un modo o nell'altro il dovere di tenerne conto…
Ecco che tutta la politica unitaria, legata alla lotta e avendo la lotta come metodo e come scopo, è la linea direttiva di un'azione che non fu soltanto di noi comunisti, ma fu del movimento di liberazione nel suo complesso. Noi non abbiamo nascosto il nostro partito allora: questo dimostra che non considerammo mai l’unità come una copertura, non avevamo bisogno di coprirci, di nasconderci, di avere un paravento. Noi ne abbiamo fatto, anzi, crediamo, per quell’orgoglio che ciascuno ha per il partito in cui milita, un elemento essenziale della resistenza italiana. Un partito dimostra di essere un elemento vivo della nazione quando dimostra di voler essere un’avanguardia, soltanto se è capace di operare per qualcosa che sta al di là della sua organizzazione e dei suoi obiettivi di parte…
Sono lieto di concludere con le parole di Max Salvadori: Oggi noi abbiamo dei risultati. Non saremmo qui se non pensassimo che bisogna andare avanti, perché si interessano di politica, di storia politica soltanto quelli che credono nell’avvenire. MA NOI CREDIAMO IN UN AVVENIRE CHE È FATTO ANCHE DI QUEL PASSATO, DI QUELL’UNITÀ, DI QUELLA PRESENZA DI TUTTI I PARTITI ANTIFASCISTI” [G. PAJETTA, I partiti e la Resistenza, in Fascismo e Antifascismo (1936-1948), Lezioni e testimonianze, Feltrinelli, 1962, 507-518].
Testimonianza per niente banale
Il post merita sicuramente più di una lettura.
RispondiEliminaAltrettanto sicuramente, almeno a mio parere, il comportamento della classe imprenditoriale e capitalista italiana è stato suicida. Il ricorrere allo strumento del vincolo esterno per disciplinare i lavoratori è paragonabile all'utilizzo di una bomba atomica per liberare una città occupata: il nemico viene distrutto, ma anche la città da liberare. Vale a dire: i lavoratori sono disciplinati al prezzo di un contesto economico che non permette alle imprese di sopravvivere. E desta molta preoccupazione che all'interno della classe imprenditoriale italiana non ci sia una presa di coscienza in tal senso. O almeno così mi sembra.
Allo stesso tempo, è innegabile, a mio avviso, il capolavoro del movimento radicale post-sessantottino nel disarticolare, o meglio, nell'annichilire la coscienza politica della società: ormai ci si preoccupa più dei cani che dei barboni, i veri problemi sono le colonnine per le auto elettriche in centro ed i semafori a led, i 'diritti' sono ridotti a quelli civili ed alle droghe libere e le 'tensioni sociali' si esauriscono nelle cosiddette 'ideologie di secondo livello' (veganesimo, salutismo, animalismo etc..) e nei movimenti 'nati dal basso' (ossia 'non politici' per dirla con Pasolini), di cui il M5S è l'espressione più schetta.
Su queste basi, nutro istintivamente un forte dubbio che il corpo sociale possa ancora comprendere la reale valenza della sovranità come base per la dialettica democratica pluriclasse e del valore della democrazia come unica forma in grado di garantire un leale confronto tra le parti sociali. Contro, va detto che il risultato del referendum del 4 dicembre scorso potrebbe essere invece indice di una coscienza residua ancora forte (ma non in grado di dar vita a un qualcosa di politico).
Rileva l'ultimo commento di Bazaar: "manca un'avanguardia di pensiero", la cui nascita, credo, è però resa difficile proprio dal successo del pensiero radicale nato dal '68 nello 'spoliticizzare' la società.
Mala tempora.....
Posso pensare che alla grande impresa (quella votata all'export, cioè la parte minoritaria del tessuto produttivo italiano) sia convenuto il vincolo esterno per "mettere in riga" la forza lavoro.
RispondiEliminaIl dato più drammatico ha a che fare con le PMI ed i commercianti. Cosa c'entrano costoro con l'€uro? Sostenere le politiche €uropeiste è come segare il ramo sul quale si è seduti!
Vuol dire che (schizzinoso che non sei altro) non hai mai dovuto lavorare in una delle millemila PMI dei servizi che si sono ingrassate applicando contratti parasubordinati, per lavori qualificati o non, molto spesso grazie a contratti con enti pubblici rimasti senza dipendenti e senza concorsi (e senza alcun vincolo per quanto riguarda i contratti da applicare al personale impiegato dagli appaltanti per fare spesso lo stesso lavoro dei suoi funzionari). Quale lungimiranza credi avessero costoro, o quale interesse per la carne da macello, anzi per il vuoto a perdere che chi li' dentro entrava rappresentava ai loro occhi?
EliminaE quando parlo di contratti parasubordinati parlo quasi di un'aristocrazia.
Lasciamo perdere la retorica della piccola impresa e dell'individuo imprenditore di sé stesso che la accompagna, o quella del lavoro inteso come progetto da concludere ogni volta, esattamente come un prodotto da lanciare e abbandonare per il successivo, anziché come svolgimento di funzioni strategiche di lunga durata.
Cose che datano da quegli anni '90 che siccome esportavamo e i salari alti crescevano in alcuni settori tecnici sono visti tuttoggi come una sorta di paradiso cui dovremmo tornare.
Non metto in dubbio la necessità di uscire dall'euro e dall'economia liberista che esso rappresenta, ma c'è una favola che va svelata anch'essa, purtroppo. L'abbassamento dei salari medio bassi preconizzato dal libro Delors (peraltro già in atto da un po') comincia subito a farsi selvaggio, con i tagli alla spesa pubblica e con la precarietà e il lavoro nero tollerati e incoraggiati per tutti gli anni'90, dentro o fuori che fossimo dallo SME.
Il pacchetto Prodi Treu del '97 non inventa la precarizzazione (né quella forma di evasione contributiva legalizzata che è il parasubordinato): la ufficializza soltanto, fa capire che quello è il "futuro", dà via libera alle amministrazioni e alle imprese delle regioni "rosse" o meglio più decenti per poterla sfruttare anch'esse senza remore. Sono imposte le esternalizzazioni.
Peggio farà Biagi nel 2000 e Renzi compirà l'opera sotto dettatura.
Ma Treu lo puo' fare perché la cosa è stata lasciata svilupparsi da molto prima, in primo luogo creando disoccupazione.
E’ vero, non ho mai avuto il “piacere” di lavorare “in una delle millemila PMI dei servizi”, anche se non metto limiti all’ordoliberismo.
EliminaMi sono bastati i periodi estivi, durante l’università, a lavorare in una fabbrica della Germagna per 600 DM al mese, poi due anni di praticantato (=volontariato, anche se il codice deontologico direbbe cose diverse) ed un anno e ½ di lavoro a 450 € al mese in uno di quegli studi legali orgogliosi rappresentanti di quel ceto medio sempre in mezzo alle palle (il copyright è di Bazaar). Poi, come una sorta di nemesi familiare, dopo mio padre operaio emigrante a 19 anni, ho preso la valigia anch’io e dal profondo sud sono approdato sotto le Alpi a sbarcare il lunario. Senza scialacquare.
Il mio commento era ben lungi dal tessere le lodi degli appartenenti alla Terza Forza, come se prima dell’€uro i rappresentanti della stessa fossero stinchi di santo. Contestualizzato il discorso all’attuale frangente storico, ed in stretta connessione a quanto evidenziato da Lorenzo, facevo solo notare che l’endorsement al sistema della moneta unica da parte delle PMI è veramente inspiegabile ed autodistruttivo.
Detto ciò, bisogna chiedersi quali siano le ragioni del fenomeno che tu evidenzi. Può anche darsi che quelle PMI avessero piacere a trattare i lavoratori come carne da macello, non escludendo a priori sacche di sadismo tipicamente italico, anche se propenderei di più per individuare il problema a livello di “struttura”, come peraltro mi pare che tu abbia in parte evidenziato. Alla fine degli anni ’70, come saprai, il capitale aveva sostanzialmente già vinto (se è vero che i salari reali si sono arrestati al crescere della produttività. Il prof. Bagnai ha analizzato molto bene il fenomeno) e la macchina ideologica dell’ingegneria sociale ordoliberista (con la sua visione tipicamente microeconomica) era operativa già negli anni ‘80 , se è vero che il concetto di “occupabilità” sostituiva quello di “occupazione” (il libro Bianco di Delors, infatti, arriva solo nel 1993).
Non sottovaluterei, peraltro, la “retorica dell’individuo imprenditore di sé stesso” di matrice einaudiana come superfetazione dell’individualismo metodologico se, come si è cercato più volte di dimostrare, il neo-ordoliberismo tende ad una ristrutturazione totalitaria. Che il pacchetto Treu, la riforma Biagi e seguenti siano la ratifica formale di una certa ideologia mi sembra persin scontato .
Di fronte al sabotaggio della Costituzione, accompagnato (sarebbe più corretto dire più spesso “anticipato") dal vento ideologico ordoliberista, le PMI (già caratterizzate per essere storicamente Terza Forza) si sono adeguate (cosa pensavi che facessero o avessero il potere di fare?) tenendo il gioco al capitale oligopolistico così come continuano tuttora a fare. Come dici tu, non hanno avuto e non hanno lungimiranza.
Ed allora ecco perché “la necessità di uscire dall'euro e dall'economia liberista”, ovvero ecco perché sono necessarie le “riforme di struttura, id est., ritorno alla Costituzione”. Che avvantaggiano proprio tutti (anche le PMI, anche se probabilmente non lo capiranno mai)
Il link a "inspiegabile è http://orizzonte48.blogspot.it/2015/01/pmi-sveglia-non-e-uno-stato-vampiro-e.html. Mi scuso per l'errore
Eliminaennesimo post magistrale, ma bando alle stucchevolezze...
RispondiEliminaSarà senz'altro una constatazione banale, ma Lenin e Gramsci (e Pajetta) - e in misura diversa anche Marx e Basso - parlavano a un partito politico, e non a un interlocutore virtuale. Lenin, prima dell'Ottobre, aveva dedicato vent'anni della sua vita a curare minuziosamente e con ferrea determinazione il partito. Ma oggi il partito non c'è, perché è stato buttato nel cestino dei rifiuti della storia nel 1989 da quella stessa élite eurocomunista liberal che avrebbe poi distrutto il paese (come, più e peggio di berlusconi).
La seconda constatazione banale, è che se il partito non c'è, non si va da nessuna parte.
Ne segue, allora, una conclusione ancor più banale: se si vuole andare da qualche parte (e magari verso l'applicazione della Costituzione del '48) bisogna fare il partito.
Che non è il "famoerpartitismo" giustamente stigmatizzato da Bagnai, ma è proprio una mera constatazione logica. E la logica non si può arrestare alle soglie della prassi, direi.
L'intelletualità variamente cosmopolita (vedi Tomaso Montanari e Falcone), i micro-burocrati e i borghesi "liberi&giusti" sono dei "famoerpartitisti". La necessità di cui parlo è una cosa seria. Del resto per parlare di alleanze bisogna prima esistere in un'espressione fenomenologica compatibile col concetto di "alleanza", credo...
Data l'inesistenza del partito nel panorama attuale - ivi compresi i 5S verso i quali ho albergato qualche pia illusione - la questione si pone. Credo anzi che snobbarla o allontanarla in nome del "non-maturismo" o del "benaltrismo" non sia né saggio, né morale.
Non c'è bisogno di sforzi titanici per cominciare. Per proseguire sicuramente sì, ma quello è un altro discorso...
Ero d'accordo su tutto, ma poi mi hai messo la frase finale :-)
EliminaL'accesso al mercato della politica, cioè un nuovo partito, è del tutto assimilabile all'accesso al mercato oligopolistico di certi settori di utilities o di beni di consumo durevoli; e, ancor più direttamente, al mercato dei "quotidiani" nazionali (di carta stampata).
Non elaboro oltre perché mi ripeterei su dimostrazioni logico-analogiche già fatte.
Questo per dire che l'accesso esige lo stesso volume di investimento da cui dipende la (incerta) possibilità di proseguire.
METAFORE
Elimina(otc)
Gli ultimi banchi dell'aula – nei quali siedo - sono da sempre tumultuosi, irriverenti, svogliati che, a volta, giocondano con metafore (ndr, μεταφορά, figure retoriche del transpondere in immagini, colori, figure e suoni – oltre il Caravaggio e il Corelli - i significati nella speranzosa speranza che, magari, zia TINA, meno inebriata da pscicotropi di natura varia, torni in sé).
“Io m'affrettavo qui con la tregua per te.
Ma la fiutarono certi vecchi solidi, duri, cocciuti, eroi tutti d'un pezzo, e subito:
“Ah, canaglia, le vigne nostre son tagliate, e tu porti la tregua!”
Ma oltre il Paflàgone – il cuoiaio ipocrita della democrazia ateniense dopo Pericle – c'è Agoracrito - il salsicciaio ancora più rozzo, ignorante e cinico .. molto adatto allo scopo – che con il coro dei cavalieri (la classe agiata, la seconda tra le quattro) entra in un duello d'insulti, vanterie e aggressioni che lo proclama vincitore.
Al Popolo – cioè il sovrano della democrazia - viene presentata una bella fanciulla (la Tregua) con la quale il salsicciaio vivrà ricco di giusti e demagogici propositi.
ps: senza più parole e, ringraziando l'opra CERTA dei filologi Francesco e Baazar, la commedia Hippeis di Aristofane (424 a.C)
ma la frase finale era una "trappola", eh eh
RispondiEliminaora, il M5S è quel che è; per onestà intellettuale ammetto di aver continuato a volermi illudere sino al post di ieri intitolato "ius europaeum". La schiena dell'asino ha ceduto. Amen.
Una cosa, però, il M5S l'ha fatta sicuramente molto buona, anche se, ne sono arciconvinto, in modo sostanzialmente involontario.
Il M5S, e in particolare lo scomparso Gianroberto Casaleggio, hanno (inconsapevolmente) creato il partito in franchising. Questa rivoluzione politologica è passata del tutto inosservata, perché tutto ciò che viene dal M5S, naturalmente, è "rozzo, "ignorante", "ridicolo" ecc.
Non credo ci sia da dilungarsi più di tanto sul franchising in sé: il franchising è nato negli USA e ha consentito, per esempio, a McDonald's di passare da rosticceria di successo a mostro planetario... a costi ridicoli. La cosa geniale del franchising è che sono i "dipendenti" a fare l'investimento: il franchiser deve "solo" creare e tutelare un marchio e un know-how, poi apre le porte a chiunque voglia diventare franchisee, prevedendo procedure e obblighi legali molto stringenti. Il bello è che il franchiser mantiene sempre il potere il ritirare la franchise a ogni franchisee che violi i patti.
Credo davvero che la perfettissima compatibilità tra franchising e sua applicazione in politica non possa sfuggire a nessuno.
E' sufficiente che un gruppo relativamente ristretto di persone decida di diventare franchisers, stabilendo le regole (statuto) e il know-how (programma politico), e avvii poi una campagna di adesione aperta a chiunque accetti la franchise: starà a queste persone sottoscrivere un patto vincolante e darsi da fare per fare "proselitismo", organizzare eventi, diffondere altri "punti vendita" ecc ecc. Il bello è che il franchising è sommamente leniniano, perché mantiene intatti certi principi di funzionamento codificati da V.I. e che, francamente, hanno sempre dimostrato di funzionare (mi riferisco alla disciplina e al centralismo democratico, ovviamente, tra gli altri). Considerando la disoccupazione intellettuale (e operaia) esistente in Italia, il mercato di persone disposte a diventare franchisees credo sia persino eccessivo. Questo tipo di organizzazione, oltre a costare poco, in termini di spese vive, consente di evitare il "dibattitismo" dei gruppettari, e il "consociativismo di classe" dei gruppi dirigenti. Perché la franchise è una sorta di Costituzione, un atto politico-legale supremo cui tutti sono sottomessi, sebbene con ruoli e obblighi diversi. Il franchiser, in particolare, ha l'obbligo di "fare la rivoluzione" (banalizzando, ovviamente), i franchisee di eseguire le direttive del centro e di operare autonomamente (ma entro confini fissati nella franchise) a livello locale. Il gruppo dirigente (i franchisers), poi, verrà rinnovato e rinsanguato secondo le regole della franchise. E lo stesso know-how verrà rinnovato sempre in base alle norme della franchise.
Quindi, per tornare alla sua metafora, sì, è vero: con "tecnologie commerciali" tradizionali la creazione di un partito è uno sforzo titanico e assolutamente al di fuori della portata di chiunque non sia multi-milionario. Ma il franchising, invece, consente di farlo a costi sostanzialmente irrisori.
Cosa vogliamo fare?
Ti rispondo col prossimo post.
EliminaSu questo aspetto 5* ha fatto evolvere quello che aveva iniziato a fare Forza Italia che ne costituisce l'embrione e il prototipo. FI voleva fare e in parte ha fatto proprio una serie di riforme destabilizzanti, a partire dalle pensioni (mettendosi in concorrenza col PD ma è un'altra storia).
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