1. In questo momento storico-politico, dato il quadro di sintomi, spesso contraddittori, che offre il pubblico dibattito sulle "prospettive" dell'UE (e, ovviamente, della moneta unica), tra constatazione dei suoi effetti socio-economici in Italia e annunci (raggelanti) di una (grande?) riforma, è interessante ripercorrere gli antecedenti, appunto storico-politici, della vocazione nazionale alla restaurazione, a partire dal dopoguerra, del paradigma economico (neo)liberista.
Pur con fasi alterne di successo "politico" (soggetto a varie interpretazioni che, però, sono non casualmente ri-narrate ex post secondo precisi canoni culturali e mediatizzati), questo paradigma va inteso come quello nel quale si persegue la deflazione in nome dei conti con l'estero e della competitività, si assume la moneta come oggetto di una stabilità (di valore) che favorisca l'offerta di credito e, contemporaneamente, "vincoli" ad acquisire, tramite l'esportazione, la "valuta pregiata" estera, ponendo ogni onere di aggiustamento degli squilibri del sistema economico (quale che ne sia la causa) a carico dei livelli salariali e di occupazione, e quindi istituzionalizzando un mercato del lavoro caratterizzato da quella flessibilità del "prezzo" del lavoro (verso il basso) che costituisce l'ipotesi fondamentale del "riequilibrio" marshalliano.
Pur con fasi alterne di successo "politico" (soggetto a varie interpretazioni che, però, sono non casualmente ri-narrate ex post secondo precisi canoni culturali e mediatizzati), questo paradigma va inteso come quello nel quale si persegue la deflazione in nome dei conti con l'estero e della competitività, si assume la moneta come oggetto di una stabilità (di valore) che favorisca l'offerta di credito e, contemporaneamente, "vincoli" ad acquisire, tramite l'esportazione, la "valuta pregiata" estera, ponendo ogni onere di aggiustamento degli squilibri del sistema economico (quale che ne sia la causa) a carico dei livelli salariali e di occupazione, e quindi istituzionalizzando un mercato del lavoro caratterizzato da quella flessibilità del "prezzo" del lavoro (verso il basso) che costituisce l'ipotesi fondamentale del "riequilibrio" marshalliano.
2. L'esagerata enfasi sui saldi commerciali con l'estero - da cui l'ammonimento di Caffè sugli "esaltatori acritici dello sviluppo degli scambi internazionali" e sul connesso vizio del "seguire programmaticamente il ricatto dell'appello allo straniero"-, il credo implicito, quanto assoluto, nei ricardiani "vantaggi comparati" nonché nella Legge di Say, - cioè nell'idea che il fenomeno dell'economia si esaurisca nell'autosufficienza dell'offerta a creare la propria domanda (sempre qui, p.1)-, hanno da sempre caratterizzato la nostra classe dirigente e posto una costante schermatura sulle opzioni considerate possibili e "credibili" dalla nostra classe politica.
Va da sè che questa irresistibile impostazione politica e ideologica ha, altrettanto da sempre, minato la piena attuazione del modello costituzionale, organizzandosi in varie forme di sabotaggio sistemico della sua normatività, portate a perfezione, (ma non a costituire una "novità"), con l'adesione al "vincolo esterno", e cioè alla costruzione €uropea.
3. Ma, come vedremo nell'esposizione che segue, - che pure riguarda l'episodio per così dire "iniziale" che caratterizza questa tendenza- sarebbe riduttivo isolare gli effetti dell'attuale unione economica e monetaria, cioè il processo avviatosi col trattato di Maastricht, per attribuirgli il valore di causa efficiente principale, e unica, del modo in cui il conflitto sociale trova una sua risoluzione quantomeno "praeter constitutionem", in cui il popolo sovrano, nella democrazia fondata sul lavoro, si ritrova perdente nei confronti di una "timocrazia" de facto (qui, p.7).
Tantomeno, l'analisi storico-economica, e le stesse intenzioni espliticitate dai "grandi protagonisti" delle vicende politico-economiche del paese, consentono una reductio alla "Europa tedesca" di questo assetto; certo non sopravvenuto all'improvviso, ma coerente con il costante lavorio di forze interne alla Nazione, definite, già nell'Assemblea Costituente, come "quelli che non credono nelle costituzioni".
3. Ma, come vedremo nell'esposizione che segue, - che pure riguarda l'episodio per così dire "iniziale" che caratterizza questa tendenza- sarebbe riduttivo isolare gli effetti dell'attuale unione economica e monetaria, cioè il processo avviatosi col trattato di Maastricht, per attribuirgli il valore di causa efficiente principale, e unica, del modo in cui il conflitto sociale trova una sua risoluzione quantomeno "praeter constitutionem", in cui il popolo sovrano, nella democrazia fondata sul lavoro, si ritrova perdente nei confronti di una "timocrazia" de facto (qui, p.7).
Tantomeno, l'analisi storico-economica, e le stesse intenzioni espliticitate dai "grandi protagonisti" delle vicende politico-economiche del paese, consentono una reductio alla "Europa tedesca" di questo assetto; certo non sopravvenuto all'improvviso, ma coerente con il costante lavorio di forze interne alla Nazione, definite, già nell'Assemblea Costituente, come "quelli che non credono nelle costituzioni".
4. Prendiamo quindi le mosse dal famoso episodio della caduta del governo De Gasperi, di unità nazionale, nel 1947, con la celebre esternazione sull'esistenza e l'influenza decisiva del Quarto Partito nella vita politica del nostro paese.
L'episodio lo abbiamo visto qui rammentatoci da Arturo, e peraltro, Francesco ne aveva segnalato una (re)interpretazione storica compiuta da Napolitano ai nostri giorni, che si basa sul contesto ricostruito nella visione di Carli e che, quindi, tende ad attribuire una natura salvifica a quello sviluppo della politica italiana, esplicitamente connessa alla neutralizzazione della Costituzione economica (rectius della Costituzione tout-court, vista a priori e senza sfumature come "disconoscimento del mercato") e all'aspirazione verso il processo federalista europeo.
5. Vale perciò la pena di approfondire in cosa esattamente fosse consistita questa operazione preventiva di disapplicazione di quanto si andava deliberando in sede Costituente, facendo riemergere i commenti più importanti espressi in quella stessa sede e in quella del post immediatamente collegato.
Ve li ripropongo in una sequenza passabilmente organica (i vari sottoparagrafi sono attribuibili in linea di massima ai contributi di Arturo e, ove sia diversamente, è riportato il nome dell'ulteriore autore del commento).
L'episodio lo abbiamo visto qui rammentatoci da Arturo, e peraltro, Francesco ne aveva segnalato una (re)interpretazione storica compiuta da Napolitano ai nostri giorni, che si basa sul contesto ricostruito nella visione di Carli e che, quindi, tende ad attribuire una natura salvifica a quello sviluppo della politica italiana, esplicitamente connessa alla neutralizzazione della Costituzione economica (rectius della Costituzione tout-court, vista a priori e senza sfumature come "disconoscimento del mercato") e all'aspirazione verso il processo federalista europeo.
"Varrebbe certamente la pena di ricostruire più attentamente di quanto non si sia ancora fatto, il dibattito in Assemblea Costituente e i contributi di Einaudi, che peraltro abbracciarono campi importanti di interesse generale al di là dei "rapporti economici" (titolo III della prima parte della Carta) e del pur cruciale articolo 81. Interessante, e suggestiva, è l'interpretazione che in "Cinquant’anni di vita italiana" ci ha lasciato Guido Carli: secondo il quale «la parte economica della Costituzione risultò sbilanciata a favore delle due culture dominanti, cattolica e marxista», Ma nello stesso tempo, tra il 1946 e il 1947, «De Gasperi ed Einaudi avevano ricostruito in pochi mesi una sorta di "costituzione economica" che avevano posto però al sicuro, AL DI FUORI DELLA DISCUSSIONE IN SEDE DI ASSEMBLEA COSTITUENTE». Si trattò di una strategia «nata e gestita tra la Banca d'italia e il governo», mirata alla stabilizzazione, ancorata a una visione di "STATO MINIMO", e aperta alle regole e alle istituzioni monetarie internazionali." In effetti, benché, per usare le espressioni di Carli, quel che accomunava in Assemblea Costituente la concezione cattolica e la concezione marxista fosse «il disconoscimento del mercato», l'azione di governo fu già nei primi anni della Repubblica segnata da scelte di demolizione dell'autarchia, di liberalizzazione degli scambi e infine di collocazione dell'Italia nel processo di integrazione europea.
E con i Trattati di Roma del 1957 e la nascita del Mercato Comune, furono riconosciuti e assunti dall'Italia i fondamenti dell'economia di mercato, i principi della libera circolazione (merci, persone, servizi e capitali), le regole della concorrenza; quelle che ancor oggi vengono denunciate come omissioni o come chiusure sistematiche proprie della trattazione dei "Rapporti economici" nella Costituzione repubblicana, vennero superate nel crogiuolo della costruzione comunitaria e del diritto comunitario. Nell'accoglimento e nello sviluppo di quella costruzione, si riconobbe via via anche la sinistra, prima quella socialista e poi quella comunista (v. qui, per la integrale citazione del brano).
5. Vale perciò la pena di approfondire in cosa esattamente fosse consistita questa operazione preventiva di disapplicazione di quanto si andava deliberando in sede Costituente, facendo riemergere i commenti più importanti espressi in quella stessa sede e in quella del post immediatamente collegato.
Ve li ripropongo in una sequenza passabilmente organica (i vari sottoparagrafi sono attribuibili in linea di massima ai contributi di Arturo e, ove sia diversamente, è riportato il nome dell'ulteriore autore del commento).
E’
vero che la questione del ’47 è molto interessante. Vorrei provare a
sviscerarla nella sua dinamica essenziale. Mi scuso in anticipo per la
lunghezza, ma il vantaggio con la storia, ed è la ragione per cui l’ho
sempre amata, è che il fumo si è diradato, gli archivi sono aperti e
certe dinamiche non si possono nascondere.
La situazione che il terzo governo De Gasperi si trovava a fronteggiare era caratterizzata da un elevato livello di inflazione. Graziani ("Lo sviluppo dell’economia italiana", Torino, Bollati Boringhieri, 1998, pag. 40):
“Per combattere l'inflazione, si puntava a contenere la spesa pubblica, considerata per definizione inflazionistica, liberalizzando invece la spesa privata, considerata produttiva e quindi priva di effetti sul livello dei prezzi.
In questa convinzione, si proponeva l'eliminazione tempestiva di tutti i prezzi politici, a cominciare da quello del pane, la cui presenza gravava, sul bilancio dello Stato, e si lasciava privo di freni il credito bancario, con la sola accortezza di limitare i finanziamenti, tipicamente speculativi, accordati alle giacenze di merci in magazzino. In queste condizioni, era inevitabile che, nonostante la battaglia quotidiana che Einaudi, governatore della Banca d'Italia, conduceva contro l'espansione della spesa pubblica, l'inflazione continuasse come prima e più veloce di prima.”
5.2. A proposito delle “battaglie” di Einaudi, Graziani riporta il sarcastico giudizio di De Cecco secondo cui il governatore della Banca d’Italia combatteva sì, ma “in campo avversario”.
In effetti (ivi., pag. 40):
“Sul piano tecnico, è innegabile che essa [la manovra restrittiva sui tassi] valse a bloccare l'inflazione; ma resta da spiegare per quali ragioni si fosse consentito all'inflazione di procedere così avanti, quasi si fosse voluta predisporre una giustificazione per una manovra tanto violenta. Tanto più che quelle stesse persone, -ed Einaudi in prima linea-, che per anni avevano individuato le cause dell'inflazione nella spesa pubblica e avevano lasciato libero il sistema bancario di espandere il credito al settore privato, dovevano poi smentirsi clamorosamente quando, volendo combattere l'inflazione davvero, presero come primo provvedimento proprio quello di attuare una stretta creditizia.”
5.3. Qui userò un testo di storia diplomatica (G. Formigoni, "La Democrazia cristiana e l’alleanza occidentale (1943-1953)", Bologna, Il Mulino, 1996, pagg. 134-35):
Alla situazione di inflazione si aggiungeva una “bilancia dei pagamenti in condizioni di totale squilibrio”, “persistente stagnazione”, “alto livello di disoccupazione”, “serpeggiante tensione sindacale”:
“Rispetto alla gravità della situazione, l’impressione di inanità dei tentativi compiuti in termini di “pianificazione” e di controllo dell’economia era evidente.
L’azione governativa era ormai strettamente vincolata alla disponibilità americana a sostenere finanziariamente il paese. Diffusa era quindi la preoccupazione che non si compissero gesti che potessero metterla in discussione.
Nel Consiglio dei ministri del 27 marzo, dopo una lunga esposizione di Campilli sulla situazione del bilancio dello Stato, De Gasperi disse chiaramente: “Se noi diamo la sensazione di non poter reggere al Governo e contenere le continue richieste di aumenti, noi non otterremo dall’America i prestiti che assolutamente ci occorrono”.
De Gasperi nell'intervista rilasciata il 21 aprile all’United Press, di fronte al fatto che “la vera minaccia per la democrazia in Italia è la fame”, si riferiva positivamente al nuovo “interesse americano per le cose dell’Europa”. Con toni accorati, questa esigenza di un sostegno esterno, per un “periodo transitorio”, venne confermata in un messaggio personale e riservato, inviato a Truman il 28 aprile."
La situazione che il terzo governo De Gasperi si trovava a fronteggiare era caratterizzata da un elevato livello di inflazione. Graziani ("Lo sviluppo dell’economia italiana", Torino, Bollati Boringhieri, 1998, pag. 40):
“Per combattere l'inflazione, si puntava a contenere la spesa pubblica, considerata per definizione inflazionistica, liberalizzando invece la spesa privata, considerata produttiva e quindi priva di effetti sul livello dei prezzi.
In questa convinzione, si proponeva l'eliminazione tempestiva di tutti i prezzi politici, a cominciare da quello del pane, la cui presenza gravava, sul bilancio dello Stato, e si lasciava privo di freni il credito bancario, con la sola accortezza di limitare i finanziamenti, tipicamente speculativi, accordati alle giacenze di merci in magazzino. In queste condizioni, era inevitabile che, nonostante la battaglia quotidiana che Einaudi, governatore della Banca d'Italia, conduceva contro l'espansione della spesa pubblica, l'inflazione continuasse come prima e più veloce di prima.”
5.2. A proposito delle “battaglie” di Einaudi, Graziani riporta il sarcastico giudizio di De Cecco secondo cui il governatore della Banca d’Italia combatteva sì, ma “in campo avversario”.
In effetti (ivi., pag. 40):
“Sul piano tecnico, è innegabile che essa [la manovra restrittiva sui tassi] valse a bloccare l'inflazione; ma resta da spiegare per quali ragioni si fosse consentito all'inflazione di procedere così avanti, quasi si fosse voluta predisporre una giustificazione per una manovra tanto violenta. Tanto più che quelle stesse persone, -ed Einaudi in prima linea-, che per anni avevano individuato le cause dell'inflazione nella spesa pubblica e avevano lasciato libero il sistema bancario di espandere il credito al settore privato, dovevano poi smentirsi clamorosamente quando, volendo combattere l'inflazione davvero, presero come primo provvedimento proprio quello di attuare una stretta creditizia.”
5.3. Qui userò un testo di storia diplomatica (G. Formigoni, "La Democrazia cristiana e l’alleanza occidentale (1943-1953)", Bologna, Il Mulino, 1996, pagg. 134-35):
Alla situazione di inflazione si aggiungeva una “bilancia dei pagamenti in condizioni di totale squilibrio”, “persistente stagnazione”, “alto livello di disoccupazione”, “serpeggiante tensione sindacale”:
“Rispetto alla gravità della situazione, l’impressione di inanità dei tentativi compiuti in termini di “pianificazione” e di controllo dell’economia era evidente.
L’azione governativa era ormai strettamente vincolata alla disponibilità americana a sostenere finanziariamente il paese. Diffusa era quindi la preoccupazione che non si compissero gesti che potessero metterla in discussione.
Nel Consiglio dei ministri del 27 marzo, dopo una lunga esposizione di Campilli sulla situazione del bilancio dello Stato, De Gasperi disse chiaramente: “Se noi diamo la sensazione di non poter reggere al Governo e contenere le continue richieste di aumenti, noi non otterremo dall’America i prestiti che assolutamente ci occorrono”.
De Gasperi nell'intervista rilasciata il 21 aprile all’United Press, di fronte al fatto che “la vera minaccia per la democrazia in Italia è la fame”, si riferiva positivamente al nuovo “interesse americano per le cose dell’Europa”. Con toni accorati, questa esigenza di un sostegno esterno, per un “periodo transitorio”, venne confermata in un messaggio personale e riservato, inviato a Truman il 28 aprile."
"Chiarissima era comunque la consapevolezza di Gasperi che l’origine
delle difficoltà economiche e politiche del momento era tutta interna,
che essa stava cioè – per usare le sue stesse espressioni – nell’opera
disgregatrice del cosiddetto “quarto partito” (costituito nella sua
interpretazione sia dai detentori del potere economico che dagli
“sciocchi tremolanti”, cioè dai risparmiatori spaventati dall’inflazione
e dall’impasse ricostruttiva), e nella corrispondente impotenza di un
governo bersagliato da più parti, sostenuto da una solidarietà interna
relativamente fragile e sempre più criticato nel mondo cattolico.
Il presidente del Consiglio così inquadrava sinteticamente la situazione, in una riunione della Direzione del suo partito, convocata il 26 aprile per valutare l’azione di governo assieme ai ministri in carica: “Più che funzionamento tecnico deficiente si tratta di crisi di fiducia”. [nota mia: Kalecki docet].
Lo stesso tema appariva cruciale nella relazione sulla situazione finanziaria, tenuta dal sottosegretario alle Finanze, Giuseppe Pella, di fronte al gruppo democristiano dell’Assemblea Costituente l’8 maggio del 1947: “sul terreno delle cifre – sosteneva l’uomo politico piemontese – la situazione è salvabile”. Il problema era politico [appunto]: “far cessare ad ogni costo la speculazione” e “ristabilire la fiducia”. E concludeva: “per ottenere questo, è indispensabile l’adesione dei settori della “destra economica” verso l’attività di governo”.
Nel circolo vizioso che si era creato tra sfiducia interna e non ancora consolidata sfiducia internazionale rispetto al proprio governo, De Gasperi assunse quindi l’iniziativa di mutare le condizioni interne dell’equilibrio politico”.
5.4. Prosegue Arturo nelle sue citazioni:
"Tornando a Graziani (op. cit. , pag. 43):
“La grande ondata di inflazione, in questa ottica, sarebbe stata lasciata libera di gonfiarsi allo scopo di far apparire inaccettabile l'azione delle sinistre e renderne alla fine impossibile la permanenza al governo; la brusca deflazione, con la depressione che ne seguì, avrebbe avuto la funzione di stroncare l'azione sindacale, consentire una ondata di licenziamenti, favorire l'opera di ristrutturazione cui la grande industria era intenta, e avviare la ripresa all'insegna della pace sociale e della moderazione salariale. In questo quadro confluivano tutti gli elementi della scena internazionale. La stabilizzazione monetaria consentiva all'Italia di aderire alle prescrizioni del Fondo monetario internazionale, stabilizzando i cambi esteri. Ciò a sua volta consentiva al paese di avviare quell'inserimento nell'economia europea, che, in una prospettiva più ampia, rappresentava la sostanza economica e politica dell'intera operazione.”
Il presidente del Consiglio così inquadrava sinteticamente la situazione, in una riunione della Direzione del suo partito, convocata il 26 aprile per valutare l’azione di governo assieme ai ministri in carica: “Più che funzionamento tecnico deficiente si tratta di crisi di fiducia”. [nota mia: Kalecki docet].
Lo stesso tema appariva cruciale nella relazione sulla situazione finanziaria, tenuta dal sottosegretario alle Finanze, Giuseppe Pella, di fronte al gruppo democristiano dell’Assemblea Costituente l’8 maggio del 1947: “sul terreno delle cifre – sosteneva l’uomo politico piemontese – la situazione è salvabile”. Il problema era politico [appunto]: “far cessare ad ogni costo la speculazione” e “ristabilire la fiducia”. E concludeva: “per ottenere questo, è indispensabile l’adesione dei settori della “destra economica” verso l’attività di governo”.
Nel circolo vizioso che si era creato tra sfiducia interna e non ancora consolidata sfiducia internazionale rispetto al proprio governo, De Gasperi assunse quindi l’iniziativa di mutare le condizioni interne dell’equilibrio politico”.
5.4. Prosegue Arturo nelle sue citazioni:
"Tornando a Graziani (op. cit. , pag. 43):
“La grande ondata di inflazione, in questa ottica, sarebbe stata lasciata libera di gonfiarsi allo scopo di far apparire inaccettabile l'azione delle sinistre e renderne alla fine impossibile la permanenza al governo; la brusca deflazione, con la depressione che ne seguì, avrebbe avuto la funzione di stroncare l'azione sindacale, consentire una ondata di licenziamenti, favorire l'opera di ristrutturazione cui la grande industria era intenta, e avviare la ripresa all'insegna della pace sociale e della moderazione salariale. In questo quadro confluivano tutti gli elementi della scena internazionale. La stabilizzazione monetaria consentiva all'Italia di aderire alle prescrizioni del Fondo monetario internazionale, stabilizzando i cambi esteri. Ciò a sua volta consentiva al paese di avviare quell'inserimento nell'economia europea, che, in una prospettiva più ampia, rappresentava la sostanza economica e politica dell'intera operazione.”
Interessante
il punto di Graziani sulle prescrizioni del FMI: ciò induce a pensare
che esso non sia mai stato veramente operante all'interno dei principi
dell'art.55 della Carta NU (che pure vengono citati in Assemblea
Costituente).
La cosa lascia a sua volta trasparire uno iato "culturale" ancora più inquietante: dentro la Costituzione si riflette una visione, quand'anche enunciata a livello internazionale, che fu elaborata (tatticamente, sull'emozione della distruzione bellica e delle sue origini) per smontarla nei fatti, della dura politica, subito dopo.
La cosa lascia a sua volta trasparire uno iato "culturale" ancora più inquietante: dentro la Costituzione si riflette una visione, quand'anche enunciata a livello internazionale, che fu elaborata (tatticamente, sull'emozione della distruzione bellica e delle sue origini) per smontarla nei fatti, della dura politica, subito dopo.
La
dinamica interno/esterno mi pare talmente chiara da non aver bisogno di
particolari commenti.
Sottolineerei però che l’anello di congiunzione fra le due è, ancora una volta, la banca centrale, indipendente di fatto se non di diritto, che rema contro il governo lasciando che si crei la “crisi di fiducia” fino a che gli effetti politici desiderati non sono raggiunti e può realizzarsi quella che Caffè (in Crisi, occupazione, riconversione, «Quaderni di Fabbrica e Stato», n. 2, Cendes, sezione Economia e sindacato, Rosenberg & Sellier, Torino, 1977 ora in La dignità del lavoro, Roma, Lit, 2014), a cui lascio il commento finale, chiamava “restaurazione capitalistica”:
“Vi è ben noto che, in quell’epoca, prevalse una linea di moderazione che trovò il proprio slogan che fu: «ricostruire innanzitutto».
Sottolineerei però che l’anello di congiunzione fra le due è, ancora una volta, la banca centrale, indipendente di fatto se non di diritto, che rema contro il governo lasciando che si crei la “crisi di fiducia” fino a che gli effetti politici desiderati non sono raggiunti e può realizzarsi quella che Caffè (in Crisi, occupazione, riconversione, «Quaderni di Fabbrica e Stato», n. 2, Cendes, sezione Economia e sindacato, Rosenberg & Sellier, Torino, 1977 ora in La dignità del lavoro, Roma, Lit, 2014), a cui lascio il commento finale, chiamava “restaurazione capitalistica”:
“Vi è ben noto che, in quell’epoca, prevalse una linea di moderazione che trovò il proprio slogan che fu: «ricostruire innanzitutto».
Malgrado questa linea di
moderazione e malgrado questo slogan, il risultato che si ebbe fu quello
di una restaurazione capitalistica che fu, tra l’altro, del tutto
inintelligente.
Vale a dire, è ovviamente incontestabile che vi era
stata una divisione delle sfere di influenza politica nel mondo e che
l’Italia non poteva prospettarsi di dare una soluzione socialista ai
suoi problemi: ma ciò non significa che i condizionamenti internazionali
ci imponessero quelle politiche che furono effettivamente praticate.
Questo è bene tenerlo presente, perché anche il discorso dei
condizionamenti internazionali viene fatto in modo ricorrente. Anche a
questo riguardo è opportuno ricordare che nel 1947 il nostro Paese
veniva stimolato a praticare politiche d’intervento: il blocco dei
licenziamenti, ad esempio, fu attuato per iniziativa degli americani,
non delle autorità politiche italiane.
Ho detto che la restaurazione capitalistica allora attuata fu inintelligente, in quanto ha lasciato irrisolti tutti i problemi di fronte ai quali noi ci troviamo ancora oggi. Ora vi chiedo: è tanto diversa la situazione odierna rispetto a quella di trent’anni fa? [...]C’è anche oggi un chiaro disegno di restaurazione capitalistica, che è restaurazione in senso generale. Nessuno, forse, può dare testimonianza di questo intento di restaurazione più di chi vive, di questi tempi, la vita dell’università. Non credo che ci sia il desiderio di una svolta autoritaria, ma questo non ci fu nemmeno nel 1947. Fu sufficiente che ci fosse una svolta antisindacale, ed è quella cui si tende anche attualmente.”
Ho detto che la restaurazione capitalistica allora attuata fu inintelligente, in quanto ha lasciato irrisolti tutti i problemi di fronte ai quali noi ci troviamo ancora oggi. Ora vi chiedo: è tanto diversa la situazione odierna rispetto a quella di trent’anni fa? [...]C’è anche oggi un chiaro disegno di restaurazione capitalistica, che è restaurazione in senso generale. Nessuno, forse, può dare testimonianza di questo intento di restaurazione più di chi vive, di questi tempi, la vita dell’università. Non credo che ci sia il desiderio di una svolta autoritaria, ma questo non ci fu nemmeno nel 1947. Fu sufficiente che ci fosse una svolta antisindacale, ed è quella cui si tende anche attualmente.”
Grazie
Arturo, citazioni illuminanti che danno maggior peso al pensiero che
già "covavo"...
...
Che poi, sul credito bancario all'industria e suo "rientro" pare utile come sempre citare lo stesso Graziani qui:
"...Si parla molto del disavanzo nel settore pubblico e si osserva che questa offerta continua di titoli sui mercati finanziari, questo rastrellare di continuo liquidità dai risparmiatori per convogliarla verso i titoli pubblici e le casse dello Stato avrebbe spiazzato le imprese italiane dal mercato finanziario.
Si osserva inoltre che con un’offerta di titoli pubblici a tassi d’interesse così vantaggiosi, le imprese industriali si sarebbero trovate nell’impossibilità di competere con la conseguenza che se non riuscissero più a finanziarsi sul mercato, sarebbero state spiazzate. Sarà anche vero, ma è irrilevante, perché con l’immissione di liquidità derivante dal disavanzo dello Stato le imprese realizzano profitti tali per cui non hanno più alcun bisogno di ricorrere al mercato finanziario.
Saranno state spiazzate dal mercato finanziario, ma sono rimpiazzate sul mercato delle merci, dove realizzano dei profitti tali che consentono un comodo autofinanziamento.
Si è parlato giustamente di una crisi fiscale dello Stato. Questo è vero, però come il disavanzo della bilancia commerciale è un disavanzo voluto, così anche il disavanzo nel settore pubblico — non so dire se voluto o non voluto — certamente si armonizza in una manovra politica complessa e nel suo insieme coerente...Quindi, il disavanzo del settore pubblico italiano ha svolto la sua funzione, anche e soprattutto, nei confronti del settore industriale."
...
Che poi, sul credito bancario all'industria e suo "rientro" pare utile come sempre citare lo stesso Graziani qui:
"...Si parla molto del disavanzo nel settore pubblico e si osserva che questa offerta continua di titoli sui mercati finanziari, questo rastrellare di continuo liquidità dai risparmiatori per convogliarla verso i titoli pubblici e le casse dello Stato avrebbe spiazzato le imprese italiane dal mercato finanziario.
Si osserva inoltre che con un’offerta di titoli pubblici a tassi d’interesse così vantaggiosi, le imprese industriali si sarebbero trovate nell’impossibilità di competere con la conseguenza che se non riuscissero più a finanziarsi sul mercato, sarebbero state spiazzate. Sarà anche vero, ma è irrilevante, perché con l’immissione di liquidità derivante dal disavanzo dello Stato le imprese realizzano profitti tali per cui non hanno più alcun bisogno di ricorrere al mercato finanziario.
Saranno state spiazzate dal mercato finanziario, ma sono rimpiazzate sul mercato delle merci, dove realizzano dei profitti tali che consentono un comodo autofinanziamento.
Si è parlato giustamente di una crisi fiscale dello Stato. Questo è vero, però come il disavanzo della bilancia commerciale è un disavanzo voluto, così anche il disavanzo nel settore pubblico — non so dire se voluto o non voluto — certamente si armonizza in una manovra politica complessa e nel suo insieme coerente...Quindi, il disavanzo del settore pubblico italiano ha svolto la sua funzione, anche e soprattutto, nei confronti del settore industriale."
Visto
che le citazioni mi pare sian state gradite e si è parlato di mancata
costituzionalizzazione, aggiungiamo ancora un pezzo alla storia: son
dovuto andare a recuperare un libro che neanche mi ricordavo più di
avere (S. Battilossi, "L'Italia nel sistema economico internazionale",
Milano, Franco Angeli, 1996, pp. 91 e ss.) e che, almeno a me, ha
riservato qualche sorpresa. Non escludo ci siano inesattezze giuridiche
(l'autore d'altra parte è uno storico), ma le problematizzazioni
dell'indipendenza delle banche centrali sono così rare che mi pare
comunque un'aggiunta utile. Dunque, vediamo un po’:
“Stabilizzazione finanziaria, equilibrio della bilancia dei pagamenti, ricostituzione delle riserve valutarie, stabilità del cambio: queste le condizioni di fondo della reintegrazione dell’Italia nel sistema economico internazionale della seconda metà degli anni quaranta.
Ognuna di esse rimanda direttamente alla centralità della Banca d’Italia, l’istituzione che su questi aspetti della politica economica ha a lungo esercitato un potere, come vedremo, pressoché assoluto. [...] Dal nostro punto di vista, è necessario [...] sottolineare quanto il clima culturale negli anni più recenti si sia ripercosso in senso unilaterale sull'impostazione della questione.
Non a caso infatti, mentre un’attenzione assidua ha suscitato il tema dell’autonomia delle banche centrali nei confronti dei rispettivi governi (con una evidente propensione ad affermare la superiorità delle ragioni tecniche delle prime rispetto alle “interferenze” politiche dei secondi), nessuno spazio è riuscita a conquistare la riflessione – certo non meno pregnante – sulla più opportuna collocazione delle tecnostrutture finanziarie in un sistema democratico di controlli e di equilibrio dei poteri. [...]
Analisi comparate hanno efficacemente illustrato la singolare posizione istituzionale occupata nel dopoguerra dalla Banca d’Italia a confronto delle sue omologhe europee: singolarità che le derivava dal carattere per così dire anomalo della legge bancaria del 1936, che ha costituito per l’intero dopoguerra, e fino a tempi recentissimi, la fonte principale (seppure non unica) del suo potere nella costituzione materiale repubblicana.
La legge [...] aveva [...] lasciato indeterminate – come è stato ripetutamente sottolineato dagli studi più attenti – sia le forme di esercizio del credito bancario, sia la posizione della banca centrale dei confronti del governo, pur delineando un considerevole ampliamento dell’autonomia decisionale di via Nazionale dal Tesoro rispetto alla legislazione del 1910.
Limitandosi a riconoscere il principio della necessità di una regolamentazione esterna del sistema bancario, essa delegava alla discrezionalità della Banca d’Italia [...] non soltanto le funzioni di vigilanza ma i modi stessi del suo esercizio.
Tracciando (a differenza di altre legislazioni bancarie straniere) non una precisa configurazione, ma soltanto una “costituzione” del sistema creditizio, la legge del 1936 assegnava inoltre a via Nazionale una sorta di “regia” del sistema: ciò ne aveva ampliato le funzioni ben al di là del semplice governo della moneta (attributo tipico dell’istituto di emissione), conferendole il potere, eminentemente politico, di intervenire nella struttura finanziaria e consentendole dunque di “plasmare”, con piena discrezionalità, le fattezze del sistema finanziario e creditizio in vista della realizzazione di un modello di sviluppo dell’economia autonomamente elaborato.
“Stabilizzazione finanziaria, equilibrio della bilancia dei pagamenti, ricostituzione delle riserve valutarie, stabilità del cambio: queste le condizioni di fondo della reintegrazione dell’Italia nel sistema economico internazionale della seconda metà degli anni quaranta.
Ognuna di esse rimanda direttamente alla centralità della Banca d’Italia, l’istituzione che su questi aspetti della politica economica ha a lungo esercitato un potere, come vedremo, pressoché assoluto. [...] Dal nostro punto di vista, è necessario [...] sottolineare quanto il clima culturale negli anni più recenti si sia ripercosso in senso unilaterale sull'impostazione della questione.
Non a caso infatti, mentre un’attenzione assidua ha suscitato il tema dell’autonomia delle banche centrali nei confronti dei rispettivi governi (con una evidente propensione ad affermare la superiorità delle ragioni tecniche delle prime rispetto alle “interferenze” politiche dei secondi), nessuno spazio è riuscita a conquistare la riflessione – certo non meno pregnante – sulla più opportuna collocazione delle tecnostrutture finanziarie in un sistema democratico di controlli e di equilibrio dei poteri. [...]
Analisi comparate hanno efficacemente illustrato la singolare posizione istituzionale occupata nel dopoguerra dalla Banca d’Italia a confronto delle sue omologhe europee: singolarità che le derivava dal carattere per così dire anomalo della legge bancaria del 1936, che ha costituito per l’intero dopoguerra, e fino a tempi recentissimi, la fonte principale (seppure non unica) del suo potere nella costituzione materiale repubblicana.
La legge [...] aveva [...] lasciato indeterminate – come è stato ripetutamente sottolineato dagli studi più attenti – sia le forme di esercizio del credito bancario, sia la posizione della banca centrale dei confronti del governo, pur delineando un considerevole ampliamento dell’autonomia decisionale di via Nazionale dal Tesoro rispetto alla legislazione del 1910.
Limitandosi a riconoscere il principio della necessità di una regolamentazione esterna del sistema bancario, essa delegava alla discrezionalità della Banca d’Italia [...] non soltanto le funzioni di vigilanza ma i modi stessi del suo esercizio.
Tracciando (a differenza di altre legislazioni bancarie straniere) non una precisa configurazione, ma soltanto una “costituzione” del sistema creditizio, la legge del 1936 assegnava inoltre a via Nazionale una sorta di “regia” del sistema: ciò ne aveva ampliato le funzioni ben al di là del semplice governo della moneta (attributo tipico dell’istituto di emissione), conferendole il potere, eminentemente politico, di intervenire nella struttura finanziaria e consentendole dunque di “plasmare”, con piena discrezionalità, le fattezze del sistema finanziario e creditizio in vista della realizzazione di un modello di sviluppo dell’economia autonomamente elaborato.
Come è stato efficacemente scritto, la Banca d’Italia ha perciò da
allora goduto di una “delega” di fatto, che attribuiva alla tecnocrazia
di via Nazionale un ruolo di vera e propria supplenza nel quadro di una
struttura finanziaria caratterizzata dalla debolezza del mercato e
perciò storicamente polarizzata attorno allo Stato e al connubio grande
banca- grande industria: ciò che dunque le consentiva di fissare
autonomamente l’ambito dei propri interessi e interventi, decidendo di
volta in volta la propria collocazione nei confronti del governo e del
sistema finanziario.
Pur nella fondamentale continuità del quadro legislativo, tuttavia, spetta alla riflessione storiografica chiarire, nel passaggio dagli anni trenta al dopoguerra, i tempi e i modi dello scioglimento di quella “ambiguità” che faceva della legge del 1936, proprio in virtù della sua natura di legge delega, uno strumento utilizzabile tanto in chiave dirigista che in chiave liberista.
Il prevalere di questa seconda prospettiva va perciò considerato come il riflesso degli esiti dell’accesa battaglia politica combattuta negli anni della Costituente e della vittoria del fronte moderato nei mesi successivi alla rottura del tripartito. [...]
A proposito del mancato inserimento della banca centrale nell'ordinamento costituzionale [...] vari studi hanno sottolineato la rimozione pressoché completa subita dal problema nel corso dei lavori della Costituente in base a un patto tacito raggiunto all'interno della compagine moderata [nota 7: che dopo in parte riporto], e nonostante una raccomandazione in senso contrario fosse stata espressa ufficialmente dalla Commissione economica della Costituente.”
5.9. Nella nota 7: “Le scelte di aderire alle istituzioni economiche internazionali e di tracciare la “costituzione monetaria” del paese – ha recentemente scritto Guido Carli – furono “sapientemente” operate al di fuori di ogni contrattazione politica con la Costituente: dunque per Carli lo scavalcamento del legittimo potere politico costituisce il pregio, verrebbe da dire il merito storico, dell’élite che quella scelta compì. Ripetuti sono i riferimenti in Guido Carli, Cinquant’anni di vita italiana [che io ometto], tra i quali si noti il seguente passo:
[nota 9, che in parte riporto: “Leopoldo Elia [...] sottolinea il duro attacco di Togliatti a Einaudi in sede di Costituente, accompagnato dalla richiesta di una profonda riforma della direzione della Banca d’Italia” e “i riferimenti fatti nella stessa sede da Pesenti alla nazionalizzazione della Banque de France, oltre ai progetti di nazionalizzazione delle banche avanzate da Pci e Psiup.” Non ci sono più i comunisti di una volta, mi viene da dire. :-)]
Pur nella fondamentale continuità del quadro legislativo, tuttavia, spetta alla riflessione storiografica chiarire, nel passaggio dagli anni trenta al dopoguerra, i tempi e i modi dello scioglimento di quella “ambiguità” che faceva della legge del 1936, proprio in virtù della sua natura di legge delega, uno strumento utilizzabile tanto in chiave dirigista che in chiave liberista.
Il prevalere di questa seconda prospettiva va perciò considerato come il riflesso degli esiti dell’accesa battaglia politica combattuta negli anni della Costituente e della vittoria del fronte moderato nei mesi successivi alla rottura del tripartito. [...]
A proposito del mancato inserimento della banca centrale nell'ordinamento costituzionale [...] vari studi hanno sottolineato la rimozione pressoché completa subita dal problema nel corso dei lavori della Costituente in base a un patto tacito raggiunto all'interno della compagine moderata [nota 7: che dopo in parte riporto], e nonostante una raccomandazione in senso contrario fosse stata espressa ufficialmente dalla Commissione economica della Costituente.”
5.9. Nella nota 7: “Le scelte di aderire alle istituzioni economiche internazionali e di tracciare la “costituzione monetaria” del paese – ha recentemente scritto Guido Carli – furono “sapientemente” operate al di fuori di ogni contrattazione politica con la Costituente: dunque per Carli lo scavalcamento del legittimo potere politico costituisce il pregio, verrebbe da dire il merito storico, dell’élite che quella scelta compì. Ripetuti sono i riferimenti in Guido Carli, Cinquant’anni di vita italiana [che io ometto], tra i quali si noti il seguente passo:
“De Gasperi protesse Einaudi perché capì che questa linea [di restrizione creditizia] gli apriva le porte delle istituzioni internazionali che lui riteneva indispensabili per ancorare il paese alla democrazia parlamentare. Dopo la scissione di palazzo Barberini anche Saragat appoggiò la stretta monetaria di Einaudi. Ma entrambi scelsero di basare la “Costituzione monetaria” del paese su provvedimenti che non dovessero essere contrattati in sede di Assemblea Costituente”.5.10. Riprendo: “Un ruolo importante in questa decisione, secondo la verosimile ipotesi suggerita da Leopoldo Elia, svolse la preoccupazione che da una discussione formale alla Assemblea costituente lo status e i poteri della Banca d’Italia potessero risultare sminuiti anziché rafforzati: la “minaccia” più corposa sarebbe venuta in questo senso dai progetti di nazionalizzazione dell’istituto sostenuti (con scarsa convinzione, a dire il vero) dalle sinistre.
[nota 9, che in parte riporto: “Leopoldo Elia [...] sottolinea il duro attacco di Togliatti a Einaudi in sede di Costituente, accompagnato dalla richiesta di una profonda riforma della direzione della Banca d’Italia” e “i riferimenti fatti nella stessa sede da Pesenti alla nazionalizzazione della Banque de France, oltre ai progetti di nazionalizzazione delle banche avanzate da Pci e Psiup.” Non ci sono più i comunisti di una volta, mi viene da dire. :-)]
5.11.“Mentre dunque in quella sede era prevalsa sulla questione una sorta di
strategia del silenzio, da parte sua, il quarto governo De Gasperi
[quello costituitosi dopo la crisi del tripartito e l’abbandono della
guida della Banca d’Italia da parte di Einaudi] – con Einaudi
vicepresidente del Consiglio e ministro delle Finanze e del Tesoro, poi
del Bilancio – provvide tempestivamente a rafforzare ed estendere i
poteri della banca centrale.
Decisivo in questa direzione deve essere considerato il decreto del luglio 1947, fortemente voluto da Einaudi e dalla dirigenza della Banca d’Italia: provvedimento essenziale in quanto consentì di tamponare gli effetti politici dell’imminente giro di vite deflattivo, presentato all'opinione pubblica in veste di necessità tecnica di fronte all’appressarsi del famoso “momento critico dell’inflazione”, secondo una linea che consentiva di far passare in sottordine le responsabilità di via Nazionale per aver lasciato le briglie sciolte sul collo dell’attività speculativa delle banche (come è stato efficacemente scritto [da Bonifati e il mitico Vianello], “chi aveva alimentato le fiamme si fece ora avanti nelle vesti di pompiere”).
Il decreto, ponendo il ministro del Tesoro a capo del Comitato interministeriale per il credito e il risparmio (Cicr), agli attribuiva compiti di indirizzo e di coordinamento, con pieni poteri deliberativi (quegli stessi che la legge del 1936 attribuiva al capo del governo), sull'intera politica governativa in materia creditizia, riconoscendone dunque sia la qualifica di organo costituzionale incaricato di mantenere l’unità di indirizzo politico di tutti i ministri impegnati nella politica di settore (qualifica sottratta al presidente del Consiglio), sia l’organismo portatore dei poteri di indirizzo politico e di “promozione” in quell’ambito.
Questo potere del Tesoro trovava tuttavia una decisiva limitazione nell’attribuzione alla Banca d’Italia, ente pubblico posto in posizione di autonomia rispetto all’esecutivo, di veri e propri poteri di governo in materia di raccolta del risparmio ed esercizio del credito, in quanto unico organismo dotato della capacità tecnica necessaria al governo del settore (dopo la soppressione dell’Ispettorato).
L’assetto istituzionale scaturito da questa modifica apparentemente secondaria, svincolando la banca centrale da ogni vincolo gerarchico nei confronti sia del governo sia del complesso Tesoro-Cicr, affermava la decisa supremazia dell’istituto, pur lasciando al Tesoro un potere “di riserva” al quale la Banca d’Italia poteva comunque scegliere di non conformarsi; e nel contempo definiva indirettamente lo spazio della contrattazione informale tra Tesoro e Banca d’Italia nel quale sarebbe stata da allora in avanti elaborata tanta parte della politica economica governativa.
Per la prima volta si riconosceva dunque che una funzione di “interesse pubblico” [nota 13: “Tali erano definiti la raccolta del risparmio e l’esercizio del credito nella legge bancaria del 1936”] possedeva connotati tali di tecnicità da dover essere esercitata da un organismo istituzionalmente indipendente dal potere politico; non a caso nella pratica si sarebbe rapidamente affermata la tendenza a ridurre gli indirizzi del Cicr a semplici deleghe in bianco alla Banca d’Italia.
Questa evoluzione istituzionale, orientata ad affermare la supremazia della banca centrale, fu infine completata organicamente qualche mese dopo con il cosiddetto sganciamento dal Tesoro [nota 15: “Col dlcps. 24 settembre 1947, n. 1490, la concessione di anticipazioni straordinarie al Tesoro fu sottoposta al vincolo di riserva di legge; il dl. 7 maggio 1948, n. 133 ribadì la norma, fissando anche il limite massimo di scoperto di conto corrente aperto alla Banca centrale al Tesoro per il servizio di tesoreria provinciale, oltre il quale la Banca d’Italia era tenuta a sospendere i pagamenti], anch’esso ascrivibile al disegno einaudiano.”
Decisivo in questa direzione deve essere considerato il decreto del luglio 1947, fortemente voluto da Einaudi e dalla dirigenza della Banca d’Italia: provvedimento essenziale in quanto consentì di tamponare gli effetti politici dell’imminente giro di vite deflattivo, presentato all'opinione pubblica in veste di necessità tecnica di fronte all’appressarsi del famoso “momento critico dell’inflazione”, secondo una linea che consentiva di far passare in sottordine le responsabilità di via Nazionale per aver lasciato le briglie sciolte sul collo dell’attività speculativa delle banche (come è stato efficacemente scritto [da Bonifati e il mitico Vianello], “chi aveva alimentato le fiamme si fece ora avanti nelle vesti di pompiere”).
Il decreto, ponendo il ministro del Tesoro a capo del Comitato interministeriale per il credito e il risparmio (Cicr), agli attribuiva compiti di indirizzo e di coordinamento, con pieni poteri deliberativi (quegli stessi che la legge del 1936 attribuiva al capo del governo), sull'intera politica governativa in materia creditizia, riconoscendone dunque sia la qualifica di organo costituzionale incaricato di mantenere l’unità di indirizzo politico di tutti i ministri impegnati nella politica di settore (qualifica sottratta al presidente del Consiglio), sia l’organismo portatore dei poteri di indirizzo politico e di “promozione” in quell’ambito.
Questo potere del Tesoro trovava tuttavia una decisiva limitazione nell’attribuzione alla Banca d’Italia, ente pubblico posto in posizione di autonomia rispetto all’esecutivo, di veri e propri poteri di governo in materia di raccolta del risparmio ed esercizio del credito, in quanto unico organismo dotato della capacità tecnica necessaria al governo del settore (dopo la soppressione dell’Ispettorato).
L’assetto istituzionale scaturito da questa modifica apparentemente secondaria, svincolando la banca centrale da ogni vincolo gerarchico nei confronti sia del governo sia del complesso Tesoro-Cicr, affermava la decisa supremazia dell’istituto, pur lasciando al Tesoro un potere “di riserva” al quale la Banca d’Italia poteva comunque scegliere di non conformarsi; e nel contempo definiva indirettamente lo spazio della contrattazione informale tra Tesoro e Banca d’Italia nel quale sarebbe stata da allora in avanti elaborata tanta parte della politica economica governativa.
Per la prima volta si riconosceva dunque che una funzione di “interesse pubblico” [nota 13: “Tali erano definiti la raccolta del risparmio e l’esercizio del credito nella legge bancaria del 1936”] possedeva connotati tali di tecnicità da dover essere esercitata da un organismo istituzionalmente indipendente dal potere politico; non a caso nella pratica si sarebbe rapidamente affermata la tendenza a ridurre gli indirizzi del Cicr a semplici deleghe in bianco alla Banca d’Italia.
Questa evoluzione istituzionale, orientata ad affermare la supremazia della banca centrale, fu infine completata organicamente qualche mese dopo con il cosiddetto sganciamento dal Tesoro [nota 15: “Col dlcps. 24 settembre 1947, n. 1490, la concessione di anticipazioni straordinarie al Tesoro fu sottoposta al vincolo di riserva di legge; il dl. 7 maggio 1948, n. 133 ribadì la norma, fissando anche il limite massimo di scoperto di conto corrente aperto alla Banca centrale al Tesoro per il servizio di tesoreria provinciale, oltre il quale la Banca d’Italia era tenuta a sospendere i pagamenti], anch’esso ascrivibile al disegno einaudiano.”
Rimane
il fatto che la non costituzionalizzazione della Banca d'Italia, e il fondamentale sistema di garanzia insito nelle fonti gerarchizzate dal testo costituzionale, rendeva piuttosto
esile la stabilità di assetti fatti a colpi di d.lcps.
Infatti, la successiva elaborazione (fondamentalissima) del diritto amministrativo (qui, p.4), in cui rifluiva il tutto, in conseguenza di quanto appena detto, non poteva esimersi dal desumere che la funzione di vigilanza vedeva la BC come ente strumentale (certo, tecnico: in astratto non differente dall'Istat o, al più, dall'UIC) del governo, mentre quella creditizio-monetaria (appostando poteri valutativo-discrezionali più ampi) la vedeva come ente "ausiliario".
Date queste premesse, quando, appunto, il clima cambiò ci si rese conto che, per evitare colpi di mano "democratici" (cioè una coerenza con la Costituzione del '48), una qualche esigenza di costituzionalizzazione ci fosse.
La Bicamerale 'D'Alema infatti...(argomento già visitato dal blog).
Ma nel frattempo, l'urgenza di (contro)costituzionalizzare scemò: il trattato di Maastricht aveva già derubricato la Costituzione economica a principi implicitamente subordinati e pure abrogati dai trattati, scindendola dai principi fondamentali e facendone dei meri auspici a realizzazione storicamente connotabile: cioè dei principi sussidiari e non più fondamentali.
E' infine di questi mesi la ratifica ufficiale di tale meccanismo, affidato al "suicidio in diretta" della stessa Corte costituzionale...(NdQ: eravamo ancora nel 2015...).
Infatti, la successiva elaborazione (fondamentalissima) del diritto amministrativo (qui, p.4), in cui rifluiva il tutto, in conseguenza di quanto appena detto, non poteva esimersi dal desumere che la funzione di vigilanza vedeva la BC come ente strumentale (certo, tecnico: in astratto non differente dall'Istat o, al più, dall'UIC) del governo, mentre quella creditizio-monetaria (appostando poteri valutativo-discrezionali più ampi) la vedeva come ente "ausiliario".
Date queste premesse, quando, appunto, il clima cambiò ci si rese conto che, per evitare colpi di mano "democratici" (cioè una coerenza con la Costituzione del '48), una qualche esigenza di costituzionalizzazione ci fosse.
La Bicamerale 'D'Alema infatti...(argomento già visitato dal blog).
Ma nel frattempo, l'urgenza di (contro)costituzionalizzare scemò: il trattato di Maastricht aveva già derubricato la Costituzione economica a principi implicitamente subordinati e pure abrogati dai trattati, scindendola dai principi fondamentali e facendone dei meri auspici a realizzazione storicamente connotabile: cioè dei principi sussidiari e non più fondamentali.
E' infine di questi mesi la ratifica ufficiale di tale meccanismo, affidato al "suicidio in diretta" della stessa Corte costituzionale...(NdQ: eravamo ancora nel 2015...).
Ormai questo blog offre una ricostruzione della storia economica d'Italia sufficiente a far scomparire la quasi totalità dei cd. manuali universitari in materia...
RispondiEliminaAvendo tempo sarebbe interessante ricostruire, così come fatto per il 1947, gli anni 1963-1964, quando il centrosinistra venne praticamente sabotato dall'apparato del quarto partito più o meno con gli stessi metodi dell'immediato dopoguerra. La Storia è sempre la stessa, per questo dà fastidio.
Mai trascurare la "potenza di fuoco" del miglior filologo interdisciplinare mai apparso sulla scena: Arturo :-)
Elimina(Sarò un po’ lungo, ma credo ne valga la pena).
RispondiEliminaInfatti: se analizzato con attenzione, e accompagnato da un minimo di interpretazione sistematica, il dibattito in Costituente non può condurre che a risultati incompatibili con la teoria della costituzione monetarista nascosta.
Non è stato facile trovare un costituzionalista che andasse dritto al punto, ma eccovelo qui: Giusto Puccini, L’autonomia della Banca d’Italia, Giuffrè, Milano, 1978.
Andiamo con ordine. (Non inserirò grassetti per non alterare il testo).
Dopo aver dato conto della presenza, in commissione economica, delle classiche posizioni “ortodosse” (stabilità monetaria, assoluta priorità dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti, limiti (ma non eliminazione…) alla monetizzazione del fabbisogno, eccetera), l’autore rileva che il dibattito, sia nelle sottocommissioni che in Assemblea, pur non entrando nei dettagli tecnico-organizzativi, perviene a una linea incompatibile con le summenzionate posizioni.
Pag. 113: “Ebbene, l’esame dell'iter formativo dell’art. 47 della costituzione, e del dibattito svoltosi prima in seno alla «commissione per la costituzione » e successivamente in aula sul tema del credito e del risparmio, ci consente di osservare come, da un lato tale dibattito, in contrasto con l’ampiezza e la puntualità dell’analisi condotta dalla commissione economica, denunci un’attenzione assai scarsa verso le questioni giuridico-istituzionali inerenti al controllo del credito; dall’altro, cionondimeno, esso faccia emergere come maggioritarie, su questo tema, posizioni politico-ideologiche sensibilmente divergenti da quelle che avevano dominato la «relazione » della commissione economica.”
Pag. 114: “lungi dal ricalcare l’assoluta fiducia nelle leggi e nei meccanismi del mercato espressa dalla commissione economica ” in sede di dibattito politico si manifesta un’impostazione chiaramente interventista: “Tale impostazione è sicuramente presente nella relazione sul « controllo sociale dell’attività economica » presentata da Fanfani in seno alla terza sottocommissione (istituita nell’ambito della « commissione dei settantacinque »).
Qui, infatti, trattandosi (si noti) allo stesso modo tanto il « governo della moneta » quanto il « governo del credito », non si mancava di rilevare che « un controllo sociale nel momento produttivo ed in quello distributivo sarebbe vano, ove non fosse esteso anche al momento circolatorio », posto che « qualsiasi misura in materia di produzione, di distribuzione, di risparmio, di proprietà può risolversi in niente o dare risultati contrari a quelli sperati, ove non sia accompagnata da una adeguata disciplina in materia monetaria e creditizia», e che quindi «un intervento in questa materia condiziona il successo dell’intervento in materia produttiva e distributiva». E si affermava che, in definitiva, « un’appropriata politica monetaria deve incoraggiare la formazione dì risparmio, ed un accorto controllo degli investimenti deve favorire gli impieghi più vantaggiosi per il progresso sociale », dal momento che « anche in questo campo confidare solo nel fiuto del banchiere o nell’ardimento del privato imprenditore non si può »
Un’analoga ispirazione dirigistica è del resto rintracciabile anche nell’articolo sul controllo del credito, che l’on. Marinaro propone di inserire nel testo costituzionale, e che verrà approvato all’unanimità dalla terza sottocommissione: «Lo stato stimola, coordina e controlla il risparmio. L’esercizio del credito è parimenti sottoposto a controllo dello stato, al fine di disciplinarne la distribuzione con criteri funzionali e territoriali ».
E ciò non è confermato soltanto, in generale, dalle considerazioni con cui il Marinaro riassume il senso della propria proposta, affermando che « il risparmio ed il credito debbono essere armi in mano dello stato le quali, se manovrate bene, potranno giovare in grande misura alla ripresa economica»” (pagg. 114-5).
Pag. 117: “D’altro canto, gli interventi sulla proposta-Marinaro compiuti da Fanfani e da Pesenti, ovvero dai due più autorevoli protagonisti della discussione intervenuta in seno alla terza sottocommissione sul «controllo sociale dell’attività economica », fanno chiaramente intendere come da entrambe le parti, pur partendosi da modi diversi di concepire soggetti e strumenti del « governo » dell’economia, quella proposta venga accettata, solo in quanto non mette in discussione il principio della stretta compenetrazione fra direzione del credito e direzione dell’economia.”
RispondiEliminaNé questa impostazione viene alterata in sede di redazione dell’art. 44 (il futuro art. 47) del progetto, con la sostituzione di “tutela” a “stimola, controlla, coordina”: “In questo senso, essa non farebbe altro che recepire l’intonazione fondamentalmente personalistica di quelle formule che, nelle relazioni presentate in sede di prima sottocommissione su «i principi dei rapporti sociali (economici)», avevano coniugato il principio della difesa del risparmio con quelli della protezione del lavoro o della tutela della proprietà.” (pag. 119).
In nota 69 a pag. 119 si osserva infatti che formulazioni del tutto analoghe erano comparse anche in sottocommissione: “In particolare, nella relazione di Togliatti [!], si trova una norma così formulata: « la proprietà dei cittadini ed il risparmio sono tutelati dalla legge»”.
E per concludere: “Particolarmente significativo poi, a nostro avviso, si presenta il rifiuto opposto dalla maggioranza dell’Assemblea all’inserzione nella normativa dell’art. 44 del fine specifico della difesa della stabilità monetaria: inserzione proposta in termini espliciti nell’emendamento Quintieri Quinto (« La repubblica tutela il valore della moneta nazionale ed il risparmio»), e sottintesa dagli emendamenti Einaudi («A tal fine è garantito il rispetto della clausola oro »), e Nobile « (La repubblica tutela il piccolo risparmio, e a tal fine la legge emana i provvedimenti opportuni per riparare i danni ad esso causati da eventuali inflazioni monetarie»).”.
Quindi cosa concludere riguardo a una possibile “gestione della manovra monetaria operata secondo una logica distinta, potenzialmente confliggente, ed eventualmente prevalente rispetto a quella che ispira la politica economica del governo nel senso di scelta di indipendenza dal governo nella scelta degli obiettivi?”, cioè a un’indipendenza nella scelta degli obiettivi fondata sull’art. 47, come la dottrina “indipendentista” ha sempre proposto? Nel caso, “bisognerebbe allora arrivare ad ammettere che la formula normativa dell’art. 47 ha inteso disporre, per l’intervento pubblico nel settore del credito, sia sotto il profilo organizzatorio che sotto quello funzionale, un regime totalmente derogatorio, rispetto a quello disposto in generale dall’art. 41 per l’intervento pubblico nell’economia.” (pag. 130).
“Ora, un’ammissione del genere appare quanto meno azzardata, se si pensa che la disciplina costituzionale dell’intervento pubblico nell’economia tracciata dall’art. 41, non rappresenta altro che una puntuale e rigorosa specificazione ed applicazione alla materia dei rapporti economici del principio-cardine del nostro ordinamento costituzionale, ossia del principio democratico, scomposto nei suoi due essenziali ed inscindibili profili, formale (principio della democrazia politica) e sostanziale (principio della democrazia economica e sociale).” (pagg. 130-31).
Finalmente! :-)
Naturalmente c’è anche un’altra tesi volta a giustificare l’indipendenza della banca centrale, che fa appello a “un complesso di esigenze e di circostanze «oggettive» che, in parte si riallaccerebbero ad un modo di essere e di operare comune a tutte le banche centrali, in parte alla peculiare conformazione storicamente assunta dal nostro sistema economico e finanziario; e tende quindi a costruire tale posizione come un dato necessario ed immodificabile della costituzione economica materiale.”.
RispondiEliminaE allora: “In effetti, rinunciando qui ad approfondire il delicato e controverso problema dei rapporti fra costituzione formale e costituzione materiale nel vigente ordinamento costituzionale, ci sembra comunque opportuno far rilevare che l’eventuale prevalenza della costituzione materiale, quando travolge i principi-cardine della costituzione formale (i c.d. principi di regime), dovrebbe essere, quanto meno, riguardata con maggiore cautela: cautela che si rende, del resto, ancor più indispensabile, se si pensa che, nell’attuale ordinamento, in palese contraddizione con la tesi in esame, i principi della costituzione materiale vengono talora identificati, dalla dottrina giuscostituzionalistica, proprio con il « nucleo fondamentale » della costituzione formale.” (pag. 140).
E anche lo stravolgimento dell’espressione “costituzione materiale” l’abbiamo chiarito.
Naturalmente dietro tante contorsioni concettuali e strapazzamenti linguistici sta una corposa realtà sociale, ossia la pretesa intoccabilità di certi assetti e interessi. Un muro contro cui si è andati a sbattere negli anni Dieci-Venti (sui quali credo meriterà tornare ancora), e sul cui conto si può mettere una discreta fila di, diciamo così, infortuni: dalla trincee della prima guerra mondiale a Hiroshima e Auschwitz.
E' questa la dura roccia, la carne e il sangue, con cui deve fare i conti non dico nemmeno l’aspirazione alla democrazia ma temo semplicemente la possibilità della con-vivenza umana sotto il capitalismo nell’era atomica. Quanti se ne rendono conto?
Caro Arturo,
Eliminaquesto articolo, peraltro, risale al 1978: e quindi risente necessariamente di una "formazione" giuridico-sistemica antecedente al vincolo esterno "monetario" e, con ogni probabilità, si lega ad un estremo tentativo di resistenza al suo irrompere.
Ma conferma anche che:
a) l'interpretazione dell'art.47 Cost. fornita su questo blog è esatta secondo i canoni di una normale interpretazione non...esclusivamente extratestuale. Tale interpretazione è in vari post e linkata anche in questo, se ci hai fatto caso, nonché anticipata ne "La Costituzione nella palude". Ed infatti confuta la, POI divenuta, prevalente interpretazione giuspubblicistica;
b) la versione della rimozione/non trattazione del problema monetario e del credito in sede Costituente, è abbastanza immaginaria: cioè attribuisce, EX POST, a Einaudi& co. molto più peso deliberativo, ancorché "in negativo" (o di veto), di quanto non ebbero nella realtà.
Insomma, fa il paio con la versione di Carli sul cattocomunismo dell'intera Costituzione.
Una Costituzione materiale che rendesse, de facto o, peggio, in via di (pretesa) grund-norm consuetudinaria, "necessario & legittimo" lo Statuto della moneta di ciampiana memoria, non era mai esistita.
E' semmai vero il contrario: cioè che muovendo dall'atto sedizioso (duplice: prima lo SME, tutto in violazione dell'art.11 Cost., e poi il "divorzio", talmente illegittimo da non richiedere neppure di rinvenire il parametro costituzionale violato), si sia arrivati a poter sostenere il fatto compiuto dell'accumulo di tale e tanta legislazione contraria al modello costituzionale, da poter sostenere che, alla fine di tale processo, veramente esista "quella" costituzione materiale, a suo tempo immaginaria.
Ma, come abbiamo stradetto per anni, questo non toglie che nessuna fonte (in specie, i trattati come strumento della nuova costituzione materiale...che vuole farsi "formale") può mutare i principi non revisionabili della Costituzione.
Certo, la si può "fare franca" per decenni (e magari ottenere dei numerosi "non liquet" della Corte costituzionale sul punto).
Ma si tratta comunque di un illecito non prescrittibile (salvo un nuovo processo costituente sulle ceneri create dal protrarsi di questo illecito; cioè, sostanzialmente, un golpe).
Infatti. E quindi prima di dar per morta la Costituzione e brindare alla lunga vita delle istituzioni europee mi rileggerei questa paginetta del vecchio Santi Romano (Lo Stato moderno e la sua crisi, Giuffrè, Milano, 1969, pag. 5):
Elimina“Le previsioni poi, che sembrerebbero più ragionevoli, sono non di rado turbate dal rivelarsi di elementi nuovi, che, anche quando son preparati da processi secolari, si manifestano di improvviso; dall’incontro e dalla fusione di correnti già fra di loro lontanissime; da ricorsi storici insospettabili; da miraggi ingannevoli, per cui ci si imbatte di frequente in istituzioni, la cui vita è soltanto fittizia o la cui morte, viceversa, è soltanto apparente.”
A’ méditer, come direbbe Sapir.
Ciao Quarantotto, scusami ma ho difficoltà a comprendere, spero di riuscire a porti la domanda sotto forma di riflessione in maniera comprensibile.
RispondiEliminaRiassumendo possiamo affermare che prima ancora che la nostra Costituzione entrasse in vigore, il quarto partito strutturatosi intorno a Banca d'Italia e diventando uno Stato nello Stato, riuscì a neutralizzarla soprattutto in materia economica, portando il paese ad aprirsi alle regole e alle istituzioni monetarie internazionali, alla liberalizzazione degli scambi, per finire nel collocare l'Italia nel processo d'integrazione europea dove trionfavano i principi di libera circolazione delle merci dei servizi dei capitali e delle persone. Questo processo di liberalizzazione dell'economia, aperta alla concorrenza internazionale, vide l'Italia negli anni 50/60 prorompere nello scenario internazionale, fino al punto di divenire la quarta potenza industriale al mondo e la quinta potenza economica. Ma il miracolo economico Italiano, i gloriosi anni del Boom, secondo il mio modesto parere, ha un nome e cognome Enrico Mattei, sempre avversato dalla stampa del quarto partito, che Sacrificò la sua Vita sull'altare dell'Indipendenza Energetica. Ma nel 1947 questo disegno doveva ancora palesarsi, e allora che senso poteva avere per il quarto partito portare il nostro Paese nell'agone della concorrenza economica Internazionale in una situazione dove dipendevamo energeticamente dai nostri concorrenti? Cecità intellettuale o per essere benigni totale asservimento culturale alle Elites estere? Secondo me aveva ragione Togliatti nel suo discorso, riportato in questo blog da Arturo, al teatro Brancaccio nel giugno del 1944
"Per questo non abbiamo nessuno scrupolo di chiamarci nazionali; poiché in questo modo non facciamo altro che riconoscere una verità storica. Le vecchie classi dirigenti reazionarie italiane non sono mai state veramente, sinceramente nazionali. Si può dimostrare che al vero interesse della nazione esse hanno sempre sovrapposto un interesse egoistico di casta. Per questo l'Italia ha avuto per tanti secoli una sorte così disgraziata, e il fascismo, erede e incarnazione di tutte le tradizioni reazionarie del paese, ha potuto cosi facilmente trionfare. Oggi i rottami di queste caste reazionarie privilegiate ed egoiste, nel momento in cui temano risorgere coi travestimenti politici più svariati, non osano nemmeno più rifarsi a questo grande appellativo di «nazione» che fu, ricordiamolo, creazione del movimento rivoluzionario democratico borghese. Noi non siamo nazionali, essi dicono, noi siamo europei. E sotto questa maschera nuova riprendono nell'ombra a tessere i vecchi intrighi."
Il senso era quello di...Kalecky. Ed infatti, se ci fai caso, Arturo lo menziona commentando il passaggio di una delle fonti che riporta.
EliminaMi spiego: la questione era politica e consisteva, nel 1946-47, nel dimostrare che il controllo politico delle istituzioni non "potesse" andar perso e che, dunque il mercato del lavoro avrebbe dovuto rimanere entro i limiti desiderati di un'istituzione che garantisse la subalternità politica, prima ancora socio-economica, della classe lavoratrice.
La tutela dei (grandi) proprietari doveva così riaffermarsi come l'istanza estrema di coloro che, unici, potevano impedire che il Paese precipitasse nel caos (...della democrazia sociale).
Questa è la versione simmetrica e opposta a quella che appunto, correttamente, fornisce Togliatti nel 1944 (appunto, nel 1944).
Questo contrappeso preventivo al modello costituzionale sviluppò ciò che era, per così dire, familiare a quell'idea politica dei ceti proprietari-reazionari (appunto perché l'artefice principale fu Einaudi): dunque si scelse di evolvere un organo già esistente, la banca centrale, - secondo il miglior darwinismo sociale- per attribuirgli un ruolo meta-costituzionale che tenesse a bada la temuta attuazione della Costituzione.
Ciò non significa che questa complessiva linea sia poi risultata tributaria del merito del boom italiano: Mattei, ma anche il progressivo potenziamento del settore grandindustriale pubblico (rimasto al di fuori dell'orbita di Confindustria, nota bene), stabilizzando l'occupazione e facendo accrescere la quota salari, furono certamente i benefici responsabili del progresso sociale complessivo.
E anche, come abbiamo detto molte volte, di quello tecnologico (rammento il De Cecco sul ruolo fondamentale della ricerca compiuta dal settore industriale pubblico).
Dunque, nel complesso, responsabili della stessa dinamica accrescitiva della domanda interna (cioè dei redditi) che consentì la diffusione della piccola e media impresa.
E tutto questo fu reso possibile NONOSTANTE la struttura-ombra di protezione del capitalismo "liberale" che si era andata creando a ridosso del processo costituente.
EliminaMa mai fu accettato dalle "vecchie classi dirigenti" come un risultato che non fosse transitorio e, per loro, politicamente accettabile solo in forma "tattica".
Sappiamo pure "perché" questo compromesso "transitorio" (cioè crescita economica, finalmente legata a crescita sociale) fu accettato con malcelata "elasticità", che infatti riemerge, sia nell'episodio "chiave" (o "simbolo") della caduta del primo governo di centrosinistra, nel 1964, sia nella costante preparazione del "vincolo esterno" tramite l'adesione ad ogni progressiva forma di trattato economico europeo.
E questo perché si ritrova:
a) nell'aver ottenuto che il partito comunista non fosse (più) considerabile come forza di governo;
b) ma anche, ovviamente, nei "carri armati di Stalin", per cui si concesse ciò un certo grado di mobilità sociale che, in effetti, caratterizzò tutta la rinascita economica europea post-bellica (il trentennio d'oro).
Solo che in Italia, evidentemente, ciò ebbe risvolti costantemente conflittuali, sia perché non si risolse mai (a livello istituzionale) il problema di determinare veramente (come invece fece Basso) quali fossero state le forze che avevano determinato l'ascesa del fascismo, sia perché la "condanna" del comunismo a essere solo forza di opposizione, - in nome dello spettro artatamente evocato della violazione di Yalta-, condannò questa forza a distaccarsi progressivamente dalla "fede" nel modello socialista costituzionale; da Rosa Luxemburg, per capirsi.
E questo portò tutte le conseguenze di massimalismi sindacali (spesso pro-ciclici come denunziò Caffè), prima, e ribaltoni economico-ideologici, sempre più monetaristi e filo-europeisti, poi; ciò che tante volte abbiamo descritto su questo blog, appunto usando le analisi di Caffè e Basso.
Spero di aver dato risposta la tuo quesito. Nei limiti delle mie capacità...
Direi anzi che con la fine della stagione del centrosinistra "romantico" inizia il lento reflusso della reazione nazionale dalla clandestinità al... controllo tramite vassallaggio al vincolo esterno della pressoché totalità dello scenario politico.
EliminaBasti considerare la fine che faranno i protagonisti del centrosinistra: Fanfani non diverrà mai PdR e verrà "fatto bruciare" col referendum 1974; Moro finirà come sappiamo; il PSI verrà praticamente azzerato da scissioni e controscissioni perdendo sulla strada figure gigantesche come Basso, Foa, Lombardi e lo stesso Giolitti, aprendo la strada alla tragedia craxiana.
Da ciò germinano i presupposti della strategia della tensione, l'isolazionismo gattopardesco del PCI post-Togliattiano, le derive massimaliste e parolaie dell'ultrasinistra.
Di fronte alla trasformazione- morbida, dolce e tutto sommato controllata- dello Stato ottocentesco, clericale e fascista nelle strutture e nelle individualità, in una moderna Repubblica con ampie soluzioni socialiste e con una pianificazione democratica si scelse la via del sangue, della menzogna e della viltà.
Da Bava Beccaris a Einaudi e Carli il fil rouge è evidente, per chi vuol vedere...
(Re ArTooze...)
RispondiEliminaÈ evidente che l'ordine classista dopo l'Ancien Régime è stato mantenuto controllando le banche centrali: il nuovo sovrano, abbastanza codardo da non esporre il collo alla ghigliottina dopo le carestie artificiali chiamate "strette finanziarie", con tanto di guerre al seguito, ha gestito le vite di miliardi di persone tramite il controllo dei prezzi.
Se il prezzo è espressione del valore, e il valore è una qualità non intrinseca dei beni scambiati, il sistema internazionale che armonizza le politiche "indipendenti" delle banche centrali è un'istituzione vera e propria, una ghost institution.
Talmente fantasma che gli enti che la formano sono passati inosservati alla coscienza democratica per generazioni. Inosservati nella loro centralità nel conflitto tra classi
Il prossimo passo dei fantasmini sarà quello di far proprio sparire le banche centrali e rendere ancora più invisbile la mano del Grande Legislatore.
A Zugo il monoteismo del mercato guarda con entusiasmo a questo futuro.
(Sulle orme di Marx, la Moneta è un'Idea che ha lasciato l'Iperuranio per materializzarsi in questo mondo, a differenza del metro o del chilogrammo: l'assurdità è semplicemente risolvibile, con un po' di epistemologia, in quanto la moneta appare essere unità di conto senza unità di misura... ma perché? perché l'unità di misura non può essere presa per convenzione poiché la sua misura è semplicemente una scelta politica. In pratica, il "valore" stesso è il prodotto di un conflitto: è in pratica una proprietà del conflitto, non del bene. È quindi una misura relativa al potere [power], così come emerge più chiaramente quando si finisce di ragionare per pure unità di conto e si ragiona per rapporti, come quello tra valute in termini reali. Il passaggio dal conteggio alla misurazione è fondamentale nel tipo di intervento cognitivo di un osservatore sugli oggetti osservati.)
(Sinergicamente ai mezzi di comunicazione di massa - nella loro fisica materialità parte dei rapporti di proprietà e nel loro essere coinvolti nella produzione e nella diffusione di ideologia - la moneta è anche essa parte sia della struttura nei rapporti di proprietà, sia è istituzione direttamente sovrastrutturata a questi: in definitiva, chi controlla la moneta controlla le coscienze. Tutto.)
(Quando a Zugo avranno finito sarà più chiara la relazione tra moneta, chilojoule... e lavoro)
Mettendo in relazione controllo dei media e della moneta, si può chiosare su come la coscienza democratica racchiusa nella Costituzione materiale del '48 sia stata disattivata: con una guerra psicologica che ha abbracciato "tutto il campo del pensiero umano".
Elimina(Dedicata agli "anticomunisti" senza comunismo e ai metafascisti allergici allo studio...)
Stando con Marshall, che ne diverrà un grande oppositore, lo PSYCHOLOGICAL STRATEGY BOARD «prevede un «apparato» per la produzione di idee che presentino l’American way of life [aka capitalismo liberale, aka economia di mercato, aka "neoliberismo"] su « basi scientifiche e sistematiche» [aka, popperiana epistemologia], «anticipa una produzione dottrinale dipendente » da «un meccanismo di coordinamento». Stabilisce «la grande importanza di azioni rapide ed efficaci nel dare impulso alla creazione e diffusione delle idee», pronostica «un movimento intellettuale di lunga durata» [aka, la sinistra liberale che si sposa con gli anarcocapitalisti!] come risultato di queste iniziative, allo scopo non solo di contrastare il comunismo, ma anche di «spezzare, in tutto il mondo, gli schemi dottrinari di pensiero» che forniscono una base intellettuale a «dottrine ostili agli *obiettivi americani*» [aka capitalismo liberale, aka economia di mercato, aka "neoliberismo"].»
«Le sue conclusioni erano chiarissime: «È quanto di più ***totalitario*** si possa pensare».
[Chiaro? che il neoliberalismo fosse un progetto totalitario lo si sapeva da sempre: il liberalimo come via "democratica e moderata" tra gli opposti totalitarismi, tra Hitler e Stalin, era ab origine un progetto totalitario]
Marshall, inoltre, prendeva posizione contro il fatto che il documento del PSA si basasse su «teorie sociali non razionali», che enfatizzavano il ruolo delle élite «in un modo che ricorda Pareto, Sorel, Mussolini e così via»
«La presunta élite emerge come l’unico gruppo a contare davvero». L’élite è definita come quel «gruppo numericamente limitato, con interessi e capacità tali da manipolare le questioni dottrinali», gli ideologi che muovono i fili intellettuali «per formare, o quanto meno predisporre , gli atteggiamenti e le opinioni» di coloro che, di volta in volta, sono destinati a fungere da leader all’opinione pubblica.» [aka, spin doctor]
Charles Burton Marshall
Capito l'importanza della fenomenologia e dell'epistemologia per sviluppare la marxiana coscienza?
«Come può un governo adottare un proprio sistema dottrinale tanto esteso senza assumere lineamenti totalitari? - chiedeva Marshall – il documento non lo indica, in realtà propone uniformità al posto della diversità. Postula un sistema che prevede «un tipo particolare di concezione e struttura sociale», che comprende «un complesso di principi per le aspirazioni umane» e abbraccia «tutti i campi del pensiero umano», «tutti i campi d’interesse intellettuale, dall’antropologia alle creazioni artistiche alla sociologia, alla metodologia scientifica».
E ora venitemi a citare Voegelin, imbecilli...
Bellissimo post (sarà che anch'io amo la storia), lo prendo come un graditissimo regalo di Natale.
RispondiEliminaMi chiedo: esistono delle proposte concrete di "disciplina monetaria e creditizia"? Sono mai state attuate?
OT: mi trovo in ad ascoltare RNE5 (edizione Canarie) in cui si parla quasi esclusivamente di Catalogna; conosco molto poco la lingua, ma ho colto alcuni elementi costanti: interpretazione della Costituzione, sovranità monetaria, uscita unilaterale e Brexit, socialismo; penso che forse per qualcuno che conosce lo Spagnolo sarebbe interessante approfondire l'argomento, vista la vicinanza dei temi trattati con quelli di questo blog.
“Mattei, ma anche il progressivo potenziamento del settore grandindustriale pubblico (rimasto al di fuori dell'orbita di Confindustria, nota bene), stabilizzando l'occupazione e facendo accrescere la quota salari, furono certamente i benefici responsabili del progresso sociale complessivo.”
RispondiEliminaMa Presidente….. la corrruzzzzione… lo sa no?
Arturo3 gennaio 2017 15:31
Questo “generoso” impegno contro la corruzione ha trovato in Italia un terreno molto fertile: nelle memorie di Carli, per esempio, la corruzione è un refrain ossessivo, il fil rouge con cui interpretare tutti gli scostamenti dalla più stretta ortodossia liberista avvenuti durante la storia repubblicana.
Un esempio fra i tanti (G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Laterza, Roma-Bari, 1996 [1993], pagg. 132-3): “Risale infatti al Consiglio dei ministri del 9 aprile 1951 la relazione del ministro La Malfa su «La riorganizzazione delle partecipazioni economiche dello Stato». La Malfa, tra le proteste dell’opposizione, era stato nominato cinque giorni prima da De Gasperi ministro per il Commercio con l ’Estero, ruolo che svolse brillantemente, dopo aver lasciato l ’incarico di studiare la ristrutturazione dell’Iri, affidatogli quando era ancora ministro senza portafoglio.
De Gasperi ascoltò la relazione, accompagnata da uno studio commissionato alla società di consulenza Stanford Research Institute. Prese il progetto, lo mise nel cassetto e ve lo tenne chiuso per tutto il resto della sua presidenza del Consiglio. Nell’intervallo tra la presentazione del progetto La Malfa e il momento nel quale Segni lo tirò fuori dal cassetto e lo presentò alla Camera, l ’evento più significativo fu senza dubbio la legge del 10 febbraio 1953, n. 136, che istituiva l’Ente nazionale idrocarburi. Luigi Sturzo scrisse articoli durissimi contro quell’iniziativa nella quale vedeva la nascita di uno strumento di corruzione. Nei mesi che precedettero la sua morte, don Sturzo chiamava spessissimo la signora Berni per convocarmi nel convento delle orsoline sulla Tuscolana. Con gli occhi di oggi, posso dire che Sturzo aveva della società italiana, dei partiti, della Dc in particolare, una opinione assolutamente preveggente, direi profetica. Per lui Mattei, l’Eni erano il male assoluto, il demonio. Con gli occhi di allora, quelle sue prese di posizione apparivano reazionarie, contrarie al nuovo, al progresso. Non lo erano. Sturzo difendeva un modello di «Stato minimo» perché temeva che la corruzione da metodo limitato al reperimento di fondi per i partiti, evidente nell’Eni anche nel suo atto di nascita, si estendesse in tutta la società come una vera e propria epidemia, vincendo, con la seduzione, le forze che avrebbero potuto contrastare la corruzione.”
Quando le classi dirigenti di un paese considerano la democrazia sinonimo di corruzione, è un po’ difficile immaginarle pronte, o anche solo capaci, di arginare operazioni di spoliazione condotte sulla base di quello stesso presupposto di cui per anni hanno voluto che i media nazionali si facessero megafoni...
http://orizzonte48.blogspot.com/2017/01/la-lotta-alla-corruzione-la-mano.html?showComment=1483453913682#c4587099956004780035
Eh sì ci voleva questo memento, assolutamente complementare al tema del post.
EliminaSempre ringraziando Arturo...
sempre :)
Elimina