Come sapete, il 20 e 21
settembre si svolgerà un referendum confermativo ex art. 138
della Costituzione sulla legge costituzionale concernente "Modifiche agli
articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei
parlamentari".
Posto che votare è un
dovere civico (art. 48 Cost.), vi ricordo che non c’è quorum, quindi
l’astensione è irrilevante ai fini del risultato.
Credo possa essere interessante
un esame molto semplice ma – speriamo – preciso degli argomenti pro e contro più
direttamente attinenti al taglio del blog (per gli altri, vi rimando
all’articolo della Algostino linkato al n. 5), alla luce di un approccio alla
Costituzione che intenda “prenderla sul serio”, come dice Dworkin.
1. In primo luogo un
riferimento temporale: come si legge su Wikipedia, fu dagli anni Settanta che
cominciò ad essere agitato l’auspicio di una riduzione del numero dei
parlamentari. Difficile non lasciar correre il pensiero al paradigma della
governabilità lanciato dalla Trilaterale (qui, addendum) e da allora dominante nei
salotti, buoni o meno buoni
che siano.
Questo
scambio in Costituente fra Einaudi, ovviamente
favorevole alla riduzione, e Terracini tende ad avvalorare molto i sospetti circa
la matrice antidemocratica, e specificamente neo-liberale, del provvedimento
oggetto del referendum:
“EINAUDI: è d'accordo con l'onorevole Conti sulla opportunità di ridurre il numero dei membri, sia della prima Camera che della seconda, anche per ragioni, che crede evidenti, di tecnica legislativa. Difatti, quanto più è grande il numero dei componenti un'Assemblea, tanto più essa diventa incapace ad attendere all'opera legislativa che le è demandata.PRESIDENTE TERRACINI: la diminuzione del numero dei componenti (per) la prima Camera repubblicana sarebbe in Italia interpretata come un atteggiamento antidemocratico, visto che, in effetti, quando si vuole diminuire l'importanza di un organo rappresentativo s'incomincia sempre col limitarne il numero dei componenti, oltre che le funzioni. Quindi, se nella Costituzione si stabilisse la elezione di un Deputato per ogni 150 mila abitanti, ogni cittadino considererebbe questo atto di chirurgia come una manifestazione di sfiducia nell'ordinamento parlamentare.”
2. Questa citazione contiene
un’osservazione molto importante: il riferimento alle funzioni.
Benché essa sia
dirimente, e in fondo banale, mi pare che nel dibattito referendario, as usual,
la questione abbia fatto capolino solo sporadicamente: è chiaro che la
riduzione del numero di voci che possono accedere al Parlamento, ovviamente per
prime resterebbero alla porta quelle fuori dal coro, qualifica la qualità della
rappresentanza, ma uno svuotamento delle competenze dell’organo rappresentativo
ne costituisce un vulnus esiziale.
Detto nel modo più semplice possibile: di che rappresentanza parliamo se il Parlamento non decide più niente
di importante perché c’è il vincolo esterno? Soprattutto nella
lettura delle norme procedurali si rischia di perdere il nesso ermeneutico fra
la disposizione e i principi generali (ricordo il sempre prezioso insegnamento di Esser), che ci sono e non
possono non esserci *sempre*, siano essi esplicitati o meno.
Si capisce bene che un
conto è leggere le norme sulla rappresentanza come se il loro scopo fosse,
poniamo, assicurare la semplice rimozione pacifica dei governanti (Popper) – quasi
che il cambiamento degli attori a copione invariato costituisse chissà quale
meta ambita - o decisioni rapide o un aumento dell’“efficienza”, qualsiasi cosa
possa voler dire in questo contesto (ci torno sopra dopo parlando della teoria
delle scelte collettive); ben diverso l’atteggiamento di chi individui la ratio
nell’esigenza di garantire la sovranità popolare “fondata sul lavoro”.
Per esempio un vecchio Maestro
considerava corollario delle funzioni riconducibili alla rappresentanza
l’esigenza che il Parlamento avesse “la disponibilità-controllo delle
risorse finanziarie senza vincoli
esterni od interni che non siano quelli derivanti dal riconoscimento dei
diritti costituzionalmente garantiti.” (G. Ferrara, Le forme di
governo in G. Azzariti (a cura di), Quale riforma della Costituzione?,
Giappichelli, Torino, 1999, pagg. 15-16).
Né dovrebbe essere mai dimenticato
che all’epoca del Trattato di Roma, quando certi scenari erano ancora
impensabili, o almeno inconfessabili, fu solennemente promesso che “niente
di sostanziale può sfuggire al controllo dei Parlamenti nazionali” (qui, n. 5.1.).
2.1. Inutile dire quanto
il processo di integrazione abbia proceduto in direzione esattamente contraria
alle promesse e alle direttive costituzionali, come viene, o almeno veniva,
placidamente ammesso anche su manuali istituzionali:
“il trasferimento alle istituzioni comunitarie dei numerosi e importanti
poteri di cui si è sin qui discusso finisce col trasferire alle istanze
intergovernative che danno corpo a quelle istituzioni la stessa funzione
d’indirizzo politico generale, rendendo poi in buona parte vincolate le
conseguenti determinazioni nazionali.
In
questa prospettiva la separazione (ideale) tra il piano
governativo comunitario e quello interno finisce col rappresentare lo schermo,
posto dai governi nazionali, non solo ai controlli giuridico-costituzionali, ma
anche a quelli più strettamente politici nei confronti del loro operato.”
(F. Sorrentino, Profili costituzionali dell’integrazione comunitaria,
Giappichelli, Torino, 1996, pag. 55).
Uno stato patologico la
cui normalizzazione, a ben guardare, costituisce la vera ratio di tutto il
controriformismo costituzionale degli ultimi decenni.
La finalità è quella di “ratificare,
cristallizzandola in Costituzione, la sottomissione dei massimi organi di
decisione politica, cioè le Camere elettive (il nuovo Senato tra l'altro perde
questa connotazione) ad un indirizzo politico, quello €uropeo, che non
solo si forma al di fuori del territorio e della volontà del popolo italiano,
ma che diviene vincolante al di là di qualsiasi esito elettorale (rendendolo
per sempre irrilevante, finché fosse in vigore questa riforma della
Costituzione).” come dicemmo in occasione dello scorso referendum costituzionale
(qui, n. 3).
Mutatis mutandis, ossia
in forma un po’ più indiretta, il ragionamento di allora resta del tutto
pertinente per capire il senso profondo dell’odierna riforma, il cui esito
immediato sarebbe di ratificare “il
caciquismo del sistema politico italiano”, come ha detto efficacemente Mangia.
I restanti argomenti del
SI valgono poco, ma per completezza dedicherò loro un minimo di attenzione.
3. La corruzione. Un evergreen che solo la sempre più premeditata ignoranza della storia può consentire di
proporre.
Come ricorda Nadia Urbinati (Rapresentative Democracy, The University of Chicago Press,
Chicago e Londra, 2006, pag. 220), che, al netto del suo europeismo, dice
parecchie cose sensate, “gli Ateniesi, le
cui giurie popolari erano così numerose
che neanche il cittadino più ricco poteva realisticamente comprarsi un verdetto
favorevole, erano ben consapevoli della funzione preventiva del numero.”
Una delle poche ad aver
ricordato questa lezione storica è stata M. C. Pievatolo, a cui rendo
volentieri merito:
Un parlamento numeroso è collettivamente più forte, perfino se alcuni parlamentari sono disposti a farsi comprare e a lasciarsi intimorire. È più difficile - si sapeva già ad Atene 2500 anni fa - corrompere o spaventare i molti, anche se mediocri, che i pochi, perfino se migliori https://t.co/s8pi3uhI30— M.Chiara Pievatolo (@MCPievatolo) August 30, 2020
4. Il risparmio. In termini monetari si parla
di spiccioli (Infodata, una fonte direi insospettabile di
populismo, quantifica la favolosa somma in 81,
6 milioni l’anno, ben lo 0, 01% del PIL), ma il problema sta nel manico: non
solo perché è insensato e orribilmente ideologico pensare di poter dare un
prezzo alla rappresentanza, ma anche perché sembra impossibile far comprendere
– anche se naturalmente pure la stupidità è un fatto sociale, come diceva
Costanzo Preve - la banale realtà che la spesa pubblica, compresi ovviamente i
vituperati stipendi dei parlamentari, è una componente positiva del PIL, quindi
una sua riduzione, sia pure solo dello 0, 01% del PIL, produrrebbe effetti di
segno negativo. Ovvero termini pertinenti se riferiti alla contabilità privata
risultano fuorvianti se trasferiti in quella pubblica senza adeguati caveat (se
interessa un semplice ripasso, ex multis vi consiglio questo post).
4.1. Meno puerile, anche
se non necessariamente meno ideologica, un’argomentazione basata sulle nozioni
di efficienza e costo delle decisioni della teoria delle scelte collettive (Buchanan e
Tullock): decidere richiede tempo e risorse che potrebbero essere impiegati
altrimenti, rappresenta quindi un costo.
E’ evidente che considerare
l’esercizio della libertà collettiva un costo implica che il massimo di
risparmio lo si conseguirebbe con un’autocrazia: l’aberrazione utilitarista di
considerare la libertà priva di valore intrinseco, su cui in tanti hanno attirato
l’attenzione, a partire da Kant per arrivare a Rawls e Sen, colpisce ancora.
Per
non parlare del tipo umano presupposto da modellizzazioni che ritengono di
poter ridurre ogni scelta a un calcolo
utilitaristico, anche se “imparziale”: che cosa penseremmo della serietà morale
di Anna Karenina, si domanda Scruton (On Human Nature, Princeton University
Press, Princeton e Oxford, 2017, pag. 96), se la trovassimo intenta a risolvere
il dilemma della scelta fra Vronskij e Karenin attraverso un calcolo di utilità
di questo tipo: “meglio soddisfare due persone giovani e sane, io e Vronskij,
che una più anziana per un fattore 2.5 a 1: quindi vado.”?
Di queste ed altre
assurdità che aleggiano attorno al concetto di efficienza così come impiegato
dall’economia ho fatto cenno qui, ma se non altro il rigore formale dei
modelli li rende talvolta refrattari a un rozzo impiego apologetico della
situazione specifica. Sì perché l’altra posta negativa contemplata dalla teoria,
quella dallo scambio con la quale dipende l’efficienza dell’assetto
decisionale, sono i c.d. “costi esterni”,
ossia i costi che la decisione impone ai membri della società.
Qui bisogna essere molto chiari.
Se ve lo state domandando, la risposta è sì: un (fantomatico) autocrate
illuminato incarnerebbe l’opzione ottimale della teoria: azzererebbe i costi
della decisione e massimizzerebbe la funzione di utilità dei sottoposti. Tanto
più si afferma che il benessere dei cittadini, pardon: sudditi, dipende dalle inevitabili, ancorché impopolari, riforme,
tanto più si può sostenere che costi della decisione e costi esterni si
alimentano gli uni con gli altri “bloccando” il paese in una situazione di
letale “inefficienza” del sistema rappresentativo. (Non credo che questa
intelaiatura retorica suoni familiare solo a me…).
Non è un caso che
Salvati, il neoriformista gallonato, affacciasse anni fa l’esigenza se non di un
dittatore illuminato almeno di un suo equivalente funzionale (evidentemente la
strada da Blair a Schmitt è molto più breve di quanto possa sembrare): “Il dittatore illuminato è una figura mitica,
una finzione. Ai tanti ingeneri istituzionali che si affannano al capezzale
della seconda repubblica l’arduo compito di inventare un equivalente
democratico del benevolent dictator,
che renda possibile la formazione di governi autorevoli, capaci di affrontare
misure impopolari e di sostenerle nel lungo periodo.”
Come sanno, o almeno
potrebbero sapere, ormai anche i sassi, questo equivalente funzionale, sia pure
con qualche frizione che le riforme costituzionali e legislative di segno
decisionista sono appunto chiamate ad appianare, c’è già, ed è il vincolo
esterno (qui l’inequivocabile testimonianza di
Carli); se tuttavia vogliamo osare insinuare che, per usare un delicato
eufemismo, tanto benefico per i cittadini italiani esso non si sia rivelato, anche
senza scomodare Platone (ma perché no?), ecco che i termini della
questione si prestano ad essere rovesciati e le fantasie autocratiche dei
novelli Grandi Inquisitori ribaltate.
Ovvero, se ci troviamo
nella situazione descritta da questo tweet di Bankitalia:
The emergency of #COVID19 hit the Italian economy profoundly: by mid-2020, #GDP had returned to the level observed in early 1993. In per capita terms, GDP dropped down to values recorded in the late 1980s. #Bankitalia Governor Ignazio #Visco https://t.co/HS9uSIjUuD @ESOF_eu pic.twitter.com/fpgeSCRCf4— Banca d'Italia (@bancaditalia) September 4, 2020
ossia con un PIL tornato al livello del ’93 e un PIL
pro-capite a quello degli anni Ottanta (!), tante cose si possono dire
delle decisioni politiche a monte di questi straordinari risultati, dal
divorzio Tesoro – Banca d’Italia all’unione bancaria (qui un eloquente regesto redatto da
Giacchè), ma certo non che se ne sia discusso *troppo*.
Lo stiamo vedendo oggi
col MES: se non è filato via sul velluto more solito, è stato grazie ad alcune
voci fuori dal coro che hanno imposto un minimo di pubblica discussione. Quindi
tutto si può dire della rappresentanza meno che al suo alleggerimento
funzionale si sia accompagnato quello dei costi esterni: esattamente il
contrario.
(Naturalmente, sia detto
en passant, se passassimo il sistema decisionale comunitario al pettine delle
teoria delle scelte pubbliche ne uscirebbe come Kojak, come potete verificare
leggendo il libro di Majone. Ovvero l’intermittenza
e strumentalità dell’appello alla scienza e ai suoi tecnicismi giustifica una
volta in più l’osservazione che stiamo assistendo non alla rivolta degli
ignoranti antiscientifici, ma al manifestarsi “di un autoritarismo gerarchico
che non sarebbe altrimenti possibile esprimere in modo esplicito con il
vocabolario della politica”,
come ha detto il Pedante).
Più nello specifico,
Alberto ci ha fornito un vivace quadro di prima mano delle
presunte lungaggini parlamentari: “l'opposizione non può far
perdere tempo alla maggioranza, e in particolare non lo ha fatto col Cura
Italia, tant'è che il provvedimento è andato in Assemblea col relatore (su
quello che è successo dopo taccio per carità di Patria).”
5. Ultimo, anche per
ordine di importanza, il facciamocome.
Qui la Algostino, al cui articolo vi rinvio
anche per altre questioni tecniche, è stata impeccabile, quindi mi limito a
citare lei: “L’Italia ha una percentuale di numero dei deputati (camera bassa)
ogni 100.000 abitanti pari a 1, identica al Regno Unito (1) e simile alla
Francia (0.9)[10], alla Germania (0.9)[11], ai Paesi Bassi (0.9), alla Polonia
(1.2), al Belgio (1.3)[12]. Non mancano Paesi che presentano una percentuale
decisamente più alta, quali, per limitarsi a qualche esempio: Austria (2.1),
Danimarca (3.1), Grecia (2.8), Portogallo (2.2), Svezia (3.4); per non citare
Stati con popolazioni e territorio di dimensioni assai ridotte, come Slovenia
(4.4), Lussemburgo (10), Malta (14.3)[13].
In caso di approvazione
definitiva della riforma[14], l’Italia
si troverebbe ad avere una percentuale pari a 0.7, la percentuale più bassa fra
gli Stati membri dell’Unione europea (seguita dalla Spagna, con 0.8).
Ora, fermo restando che i
dati devono essere letti senza misconoscere il ruolo giocato dalla loro
contestualizzazione e, quindi, alla luce di variabili “istituzionali”, come la
forma di governo e il sistema elettorale, così come di elementi di fatto, quali
la popolazione totale o le dimensioni del territorio, quanto detto smentisce
la vulgata che dipinge l’Italia come un Paese anomalo per la eccessiva
numerosità dei suoi parlamentari.”
6. Insomma, e per
concludere, la riforma non serve ai fini indicati dai suoi proponenti ma ad
altri. Ho già detto quali ma lo ripeto con un’osservazione in termini più
generali: la cifra caratteristica di questo cupo inizio secolo è quello di una
sempre più pronunciata “regressione oligarchica”,
nel senso di uno “spostamento verso l’alto dei rilevanti centri decisionali, in forza del
quale le decisioni politiche scivolano via dalle sedi più ampie e partecipate e
si ritirano in luoghi meno accessibili, per lo più riservati a ristretti gruppi
oligarchici” (S. Petrucciani, Democrazia, Einaudi, Torino, 2014, s. p.).
Una regressione che va facendosi ogni giorno più apertamente autoritaria e distopica.
Votare NO significa, se non altro, non rendersi complici di chi sta forgiando
le nostre catene.