martedì 8 settembre 2020

REFERENDUM COSTITUZIONALE: TRA NORMALIZZAZIONE DEL VINCOLO ESTERNO E EFFICIENZA...NELLA RIDUZIONE DEL PIL

Post di Arturo, che ringraziamo per il contributo.



Come sapete, il 20 e 21 settembre si svolgerà un referendum confermativo ex art. 138 della Costituzione sulla legge costituzionale concernente "Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari".
Posto che votare è un dovere civico (art. 48 Cost.), vi ricordo che non c’è quorum, quindi l’astensione è irrilevante ai fini del risultato.

Credo possa essere interessante un esame molto semplice ma – speriamo – preciso degli argomenti pro e contro più direttamente attinenti al taglio del blog (per gli altri, vi rimando all’articolo della Algostino linkato al n. 5), alla luce di un approccio alla Costituzione che intenda “prenderla sul serio”, come dice Dworkin.

1. In primo luogo un riferimento temporale: come si legge su Wikipedia, fu dagli anni Settanta che cominciò ad essere agitato l’auspicio di una riduzione del numero dei parlamentari. Difficile non lasciar correre il pensiero al paradigma della governabilità lanciato dalla Trilaterale (qui, addendum) e da allora dominante nei salotti, buoni o meno buoni che siano.

Questo scambio in Costituente fra Einaudi, ovviamente favorevole alla riduzione, e Terracini tende ad avvalorare molto i sospetti circa la matrice antidemocratica, e specificamente neo-liberale, del provvedimento oggetto del referendum:
“EINAUDI: è d'accordo con l'onorevole Conti sulla opportunità di ridurre il numero dei membri, sia della prima Camera che della seconda, anche per ragioni, che crede evidenti, di tecnica legislativa. Difatti, quanto più è grande il numero dei componenti un'Assemblea, tanto più essa diventa incapace ad attendere all'opera legislativa che le è demandata.PRESIDENTE TERRACINI: la diminuzione del numero dei componenti (per) la prima Camera repubblicana sarebbe in Italia interpretata come un atteggiamento antidemocratico, visto che, in effetti, quando si vuole diminuire l'importanza di un organo rappresentativo s'incomincia sempre col limitarne il numero dei componenti, oltre che le funzioni. Quindi, se nella Costituzione si stabilisse la elezione di un Deputato per ogni 150 mila abitanti, ogni cittadino considererebbe questo atto di chirurgia come una manifestazione di sfiducia nell'ordinamento parlamentare.”

2. Questa citazione contiene un’osservazione molto importante: il riferimento alle funzioni. 
Benché essa sia dirimente, e in fondo banale, mi pare che nel dibattito referendario, as usual, la questione abbia fatto capolino solo sporadicamente: è chiaro che la riduzione del numero di voci che possono accedere al Parlamento, ovviamente per prime resterebbero alla porta quelle fuori dal coro, qualifica la qualità della rappresentanza, ma uno svuotamento delle competenze dell’organo rappresentativo ne costituisce un vulnus esiziale. 
Detto nel modo più semplice possibile: di che rappresentanza parliamo se il Parlamento non decide più niente di importante perché c’è il vincolo esterno? Soprattutto nella lettura delle norme procedurali si rischia di perdere il nesso ermeneutico fra la disposizione e i principi generali (ricordo il sempre prezioso insegnamento di Esser), che ci sono e non possono non esserci *sempre*, siano essi esplicitati o meno.
Si capisce bene che un conto è leggere le norme sulla rappresentanza come se il loro scopo fosse, poniamo, assicurare la semplice rimozione pacifica dei governanti (Popper) – quasi che il cambiamento degli attori a copione invariato costituisse chissà quale meta ambita - o decisioni rapide o un aumento dell’“efficienza”, qualsiasi cosa possa voler dire in questo contesto (ci torno sopra dopo parlando della teoria delle scelte collettive); ben diverso l’atteggiamento di chi individui la ratio nell’esigenza di garantire la sovranità popolare “fondata sul lavoro”.   
Per esempio un vecchio Maestro considerava corollario delle funzioni riconducibili alla rappresentanza l’esigenza che il Parlamento avesse “la disponibilità-controllo delle risorse finanziarie senza vincoli esterni od interni che non siano quelli derivanti dal riconoscimento dei diritti costituzionalmente garantiti.” (G. Ferrara, Le forme di governo in G. Azzariti (a cura di), Quale riforma della Costituzione?, Giappichelli, Torino, 1999, pagg. 15-16).
Né dovrebbe essere mai dimenticato che all’epoca del Trattato di Roma, quando certi scenari erano ancora impensabili, o almeno inconfessabili, fu solennemente promesso che “niente di sostanziale può sfuggire al controllo dei Parlamenti nazionali” (qui, n. 5.1.).
  
2.1. Inutile dire quanto il processo di integrazione abbia proceduto in direzione esattamente contraria alle promesse e alle direttive costituzionali, come viene, o almeno veniva, placidamente ammesso anche su manuali istituzionali:
il trasferimento alle istituzioni comunitarie dei numerosi e importanti poteri di cui si è sin qui discusso finisce col trasferire alle istanze intergovernative che danno corpo a quelle istituzioni la stessa funzione d’indirizzo politico generale, rendendo poi in buona parte vincolate le conseguenti determinazioni nazionali.
In questa prospettiva la separazione (ideale) tra il piano governativo comunitario e quello interno finisce col rappresentare lo schermo, posto dai governi nazionali, non solo ai controlli giuridico-costituzionali, ma anche a quelli più strettamente politici nei confronti del loro operato.” (F. Sorrentino, Profili costituzionali dell’integrazione comunitaria, Giappichelli, Torino, 1996, pag. 55).

Uno stato patologico la cui normalizzazione, a ben guardare, costituisce la vera ratio di tutto il controriformismo costituzionale degli ultimi decenni
La finalità è quella di “ratificare, cristallizzandola in Costituzione, la sottomissione dei massimi organi di decisione politica, cioè le Camere elettive (il nuovo Senato tra l'altro perde questa connotazione) ad un indirizzo politico, quello €uropeo, che non solo si forma al di fuori del territorio e della volontà del popolo italiano, ma che diviene vincolante al di là di qualsiasi esito elettorale (rendendolo per sempre irrilevante, finché fosse in vigore questa riforma della Costituzione).” come dicemmo in occasione dello scorso referendum costituzionale (qui, n. 3).
Mutatis mutandis, ossia in forma un po’ più indiretta, il ragionamento di allora resta del tutto pertinente per capire il senso profondo dell’odierna riforma, il cui esito immediato sarebbe di ratificare “il caciquismo del sistema politico italiano”, come ha detto efficacemente Mangia.  

I restanti argomenti del SI valgono poco, ma per completezza dedicherò loro un minimo di attenzione.

3. La corruzione. Un evergreen che solo la sempre più premeditata ignoranza della storia può consentire di proporre. 
Come ricorda Nadia Urbinati (Rapresentative Democracy, The University of Chicago Press, Chicago e Londra, 2006, pag. 220), che, al netto del suo europeismo, dice parecchie cose sensate, “gli Ateniesi, le cui  giurie popolari erano così numerose che neanche il cittadino più ricco poteva realisticamente comprarsi un verdetto favorevole, erano ben consapevoli della funzione preventiva del numero.”
Una delle poche ad aver ricordato questa lezione storica è stata M. C. Pievatolo, a cui rendo volentieri merito:
 

4. Il risparmio. In termini monetari si parla di spiccioli (Infodata, una fonte direi insospettabile di populismo, quantifica la favolosa somma in 81, 6 milioni l’anno, ben lo 0, 01% del PIL), ma il problema sta nel manico: non solo perché è insensato e orribilmente ideologico pensare di poter dare un prezzo alla rappresentanza, ma anche perché sembra impossibile far comprendere – anche se naturalmente pure la stupidità è un fatto sociale, come diceva Costanzo Preve - la banale realtà che la spesa pubblica, compresi ovviamente i vituperati stipendi dei parlamentari, è una componente positiva del PIL, quindi una sua riduzione, sia pure solo dello 0, 01% del PIL, produrrebbe effetti di segno negativo. Ovvero termini pertinenti se riferiti alla contabilità privata risultano fuorvianti se trasferiti in quella pubblica senza adeguati caveat (se interessa un semplice ripasso, ex multis vi consiglio questo post).


4.1. Meno puerile, anche se non necessariamente meno ideologica, un’argomentazione basata sulle nozioni di efficienza e costo delle decisioni della teoria delle scelte collettive (Buchanan e Tullock): decidere richiede tempo e risorse che potrebbero essere impiegati altrimenti, rappresenta quindi un costo. 
E’ evidente che considerare l’esercizio della libertà collettiva un costo implica che il massimo di risparmio lo si conseguirebbe con un’autocrazia: l’aberrazione utilitarista di considerare la libertà priva di valore intrinseco, su cui in tanti hanno attirato l’attenzione, a partire da Kant per arrivare a Rawls e Sen, colpisce ancora. 
Per non parlare del tipo umano presupposto da modellizzazioni che ritengono di poter ridurre  ogni scelta a un calcolo utilitaristico, anche se “imparziale”: che cosa penseremmo della serietà morale di Anna Karenina, si domanda Scruton (On Human Nature, Princeton University Press, Princeton e Oxford, 2017, pag. 96), se la trovassimo intenta a risolvere il dilemma della scelta fra Vronskij e Karenin attraverso un calcolo di utilità di questo tipo: “meglio soddisfare due persone giovani e sane, io e Vronskij, che una più anziana per un fattore 2.5 a 1: quindi vado.”?  
Di queste ed altre assurdità che aleggiano attorno al concetto di efficienza così come impiegato dall’economia ho fatto cenno qui, ma se non altro il rigore formale dei modelli li rende talvolta refrattari a un rozzo impiego apologetico della situazione specifica. Sì perché l’altra posta negativa contemplata dalla teoria, quella dallo scambio con la quale dipende l’efficienza dell’assetto decisionale, sono i c.d. “costi esterni”, ossia i costi che la decisione impone ai membri della società.
Qui bisogna essere molto chiari. Se ve lo state domandando, la risposta è sì: un (fantomatico) autocrate illuminato incarnerebbe l’opzione ottimale della teoria: azzererebbe i costi della decisione e massimizzerebbe la funzione di utilità dei sottoposti. Tanto più si afferma che il benessere dei cittadini, pardon: sudditi, dipende dalle inevitabili, ancorché impopolari, riforme, tanto più si può sostenere che costi della decisione e costi esterni si alimentano gli uni con gli altri “bloccando” il paese in una situazione di letale “inefficienza” del sistema rappresentativo. (Non credo che questa intelaiatura retorica suoni familiare solo a me…).
Non è un caso che Salvati, il neoriformista gallonato, affacciasse anni fa l’esigenza se non di un dittatore illuminato almeno di un suo equivalente funzionale (evidentemente la strada da Blair a Schmitt è molto più breve di quanto possa sembrare): “Il dittatore illuminato è una figura mitica, una finzione. Ai tanti ingeneri istituzionali che si affannano al capezzale della seconda repubblica l’arduo compito di inventare un equivalente democratico del benevolent dictator, che renda possibile la formazione di governi autorevoli, capaci di affrontare misure impopolari e di sostenerle nel lungo periodo.”
Come sanno, o almeno potrebbero sapere, ormai anche i sassi, questo equivalente funzionale, sia pure con qualche frizione che le riforme costituzionali e legislative di segno decisionista sono appunto chiamate ad appianare, c’è già, ed è il vincolo esterno (qui l’inequivocabile testimonianza di Carli); se tuttavia vogliamo osare insinuare che, per usare un delicato eufemismo, tanto benefico per i cittadini italiani esso non si sia rivelato, anche senza scomodare Platone (ma perché no?), ecco che i termini della questione si prestano ad essere rovesciati e le fantasie autocratiche dei novelli Grandi Inquisitori ribaltate.

Ovvero, se ci troviamo nella situazione descritta da questo tweet di Bankitalia:
ossia con un PIL tornato al livello del ’93 e un PIL pro-capite a quello degli anni Ottanta (!), tante cose si possono dire delle decisioni politiche a monte di questi straordinari risultati, dal divorzio Tesoro – Banca d’Italia all’unione bancaria (qui un eloquente regesto redatto da Giacchè), ma certo non che se ne sia discusso *troppo*. 

Lo stiamo vedendo oggi col MES: se non è filato via sul velluto more solito, è stato grazie ad alcune voci fuori dal coro che hanno imposto un minimo di pubblica discussione. Quindi tutto si può dire della rappresentanza meno che al suo alleggerimento funzionale si sia accompagnato quello dei costi esterni: esattamente il contrario.    
(Naturalmente, sia detto en passant, se passassimo il sistema decisionale comunitario al pettine delle teoria delle scelte pubbliche ne uscirebbe come Kojak, come potete verificare leggendo il libro di Majone. Ovvero l’intermittenza e strumentalità dell’appello alla scienza e ai suoi tecnicismi giustifica una volta in più l’osservazione che stiamo assistendo non alla rivolta degli ignoranti antiscientifici, ma al manifestarsi “di un autoritarismo gerarchico che non sarebbe altrimenti possibile esprimere in modo esplicito con il vocabolario della politica”, come ha detto il Pedante).
Più nello specifico, Alberto ci ha fornito un vivace quadro di prima mano delle presunte lungaggini parlamentari: “l'opposizione non può far perdere tempo alla maggioranza, e in particolare non lo ha fatto col Cura Italia, tant'è che il provvedimento è andato in Assemblea col relatore (su quello che è successo dopo taccio per carità di Patria).”

5. Ultimo, anche per ordine di importanza, il facciamocome
Qui la Algostino, al cui articolo vi rinvio anche per altre questioni tecniche, è stata impeccabile, quindi mi limito a citare lei: “L’Italia ha una percentuale di numero dei deputati (camera bassa) ogni 100.000 abitanti pari a 1, identica al Regno Unito (1) e simile alla Francia (0.9)[10], alla Germania (0.9)[11], ai Paesi Bassi (0.9), alla Polonia (1.2), al Belgio (1.3)[12]. Non mancano Paesi che presentano una percentuale decisamente più alta, quali, per limitarsi a qualche esempio: Austria (2.1), Danimarca (3.1), Grecia (2.8), Portogallo (2.2), Svezia (3.4); per non citare Stati con popolazioni e territorio di dimensioni assai ridotte, come Slovenia (4.4), Lussemburgo (10), Malta (14.3)[13].

In caso di approvazione definitiva della riforma[14], l’Italia si troverebbe ad avere una percentuale pari a 0.7, la percentuale più bassa fra gli Stati membri dell’Unione europea (seguita dalla Spagna, con 0.8).

Ora, fermo restando che i dati devono essere letti senza misconoscere il ruolo giocato dalla loro contestualizzazione e, quindi, alla luce di variabili “istituzionali”, come la forma di governo e il sistema elettorale, così come di elementi di fatto, quali la popolazione totale o le dimensioni del territorio, quanto detto smentisce la vulgata che dipinge l’Italia come un Paese anomalo per la eccessiva numerosità dei suoi parlamentari.”

6. Insomma, e per concludere, la riforma non serve ai fini indicati dai suoi proponenti ma ad altri. Ho già detto quali ma lo ripeto con un’osservazione in termini più generali: la cifra caratteristica di questo cupo inizio secolo è quello di una sempre più pronunciata “regressione oligarchica”, nel senso di uno “spostamento verso l’alto dei rilevanti centri decisionali, in forza del quale le decisioni politiche scivolano via dalle sedi più ampie e partecipate e si ritirano in luoghi meno accessibili, per lo più riservati a ristretti gruppi oligarchici” (S. Petrucciani, Democrazia, Einaudi, Torino, 2014, s. p.). 
Una regressione che va facendosi ogni giorno più apertamente autoritaria e distopica. Votare NO significa, se non altro, non rendersi complici di chi sta forgiando le nostre catene.