1. L'amico Alessandro Lelli, in questo post su Scenarieconomici.it, lamenta giustamente l'insoluta (in tutti i sensi) questione dei crediti delle imprese verso la p.a., - di cui mancano all'appello 35 miliardi rispetto alla scadenza di pagamento"promessa" (entro fine settembre), mentre si riaccumulano i ritardi su quelli venuti a scadenza successivamente alla stima del 2013, - cui si aggiunge l'ulteriore inasprimento dello split-payment dell'IVA fatturata per le prestazioni alla stessa pubblica amministrazione, che determina un ritardo di 5 mesi (circa) tra il momento del mancato flusso di cassa relativo all'IVA (non più incassata) e la possibilità di compensazione con l'IVA "a credito" (esposta nelle fatture emesse verso i propri fornitori).
2. Il problema di "cassa" delle imprese (che è poi di solvibilità minima rispetto ai fisiologici "atti d'impresa), rispetto a beni e servizi comunque prodotti e già forniti alla p.a., è allarmante per la stessa sopravvivenza delle imprese "in un momento in cui, oltre allo Stato che non paga, anche il sistema bancario sta erogando sempre meno credito".
Già ma per quali imprese?
Non per tutte: solo per le piccole e medie imprese e solo per quelle che si fondano sulla domanda interna, nella quale rientra per eccellenza la domanda pubblica.
Lo Stato che non paga e limita gli incassi che danno il flusso di sopravvivenza pone un problema solo a chi non ha accesso al credito e a chi produce (prevalentemente) per vendere in Italia.
Basti dire che a non avere accesso al credito sono proprio quelle imprese (appunto PMI fondate sulla domanda interna) che non danno luogo agli "incagli" che pesano sul sistema bancario nazionale.
3. Perchè, a dirla tutta, la gran parte delle sofferenze, (secondo i calcoli della CGIA di Mestre), è attribuibile alle grandi imprese, cioè al primo 10%, per dimensioni, dei debitori bancari:
"...quasi l’80% dei prestiti bancari va alle grandi imprese che, nonostante
siano ridotte numericamente al lumicino, possono contare su un rapporto privilegiato
nei confronti degli istituti di credito del Paese."
Dice Bortolussi, segretario della stessa CGIA:
“Appare evidente, salvo forse qualche
rara eccezione – prosegue Giuseppe Bortolussi della CGIA di Mestre – che
questo 10% di maggiori affidati non sono certo piccoli imprenditori o famiglie
o lavoratori autonomi, ma quasi esclusivamente grandi società o gruppi
industriali. E visto che il trend delle sofferenze a carico dei maggiori
affidati degli ultimi anni è passato dal 72,8% del 2000 al 78,8% del primo
trimestre di quest’anno, possiamo dire che le banche italiane ormai sono molto
condizionate dalle grandi imprese. Queste ultime sono quelle che ricevono i
maggiori finanziamenti e per contro presentano i tassi di insolvenza più
elevati. Non vorremmo che questa anomalia fosse dovuta al fatto che nella
grande maggioranza dei casi nei Consigli di Amministrazione dei più importanti
istituti di credito italiani sono presenti proprio questi grandi imprenditori o
manager a loro molto vicini”.
4. Questa, offerta da Rischio Calcolato, la situazione delle sofferenze a luglio 2014, aggravatasi nei mesi successivi, con una crescita che, secondo l'ABI, sfiorava a ottobre i 180 miliardi:
Per le grandi imprese e per le imprese esportatrici, - spesso (o prevalentemente) integrate in un sistema che vede fasi prevalenti di produzione delocalizzate-, dunque il problema non si pone negli stessi termini.
Anzi, per queste lo Stato non è affatto "vampiro", assumendosi i costi della disoccupazione da "delocalizzazione" con una crescente spesa pubblica in ammortizzatori sociali.
Anzi, per queste lo Stato non è affatto "vampiro", assumendosi i costi della disoccupazione da "delocalizzazione" con una crescente spesa pubblica in ammortizzatori sociali.
Sensibile alla pressione dell'euro sistema, infatti, lo Stato concede i favori delle sue politiche a questo sistema industriale "eletto", - sempre più peraltro in mani estere, anzi, di cui si auspica, da parte dei governi, il crescente controllo non nazionale mediante i famosi "investitori esteri"-, e per questo si mette in scena la ristrutturazione sociale delle "riforme".
Il jobs act, con il suo via libera al ricatto del demansionamento e della accelerata espulsione dei baby-boomers dal mercato del lavoro, rischia di essere il punto finale di una crisi irreversibile di domanda, rafforzata dalla "opportuna" incentivazione delle nuove assunzioni decontribuite e ulteriormente precarizzate.
E' chiaro che quei pochi "forti" che hanno accesso al credito e...determinano le sofferenze - precludendolo a chi, invece, fa ogni sforzo per essere solvibile-, si trovano o a delocalizzare (divenendo imprese estere) o a cedere il controllo agli investitori esteri. Ed il quadro normativo determinato delle riforme rende ora ancora più appetibile per le mani estere ("forti" e concorrenti!) acquisirlo, questo controllo, avendo di fronte aziende depatrimonializzate, a prezzi di "saldo", e finalmente anche un mercato del lavoro che, col jobs act, diviene uno dei più flessibili al mondo.
5. E questo, dato che il licenziamento senza reintegra generalizzato e il livello retributivo incentivato verso il demansionamento-dequalificazione non può che avere un effetto di ulteriore scalata italiana nel ranking OCSE dei mercati del lavoro più flessibilizzato (notare l'accelerazione "decrementale" italiana, verso il basso pari solo a quella registrata dalla Grecia: e sono dati che non scontano, per l'appunto, il jobs act) :
6. Ribadiamo quanto detto in precedenza per capire che lo scenario non è solo quello di uno Stato vampiro, definizione che, in definitiva si addice alla strategia che vuole la competitività come processo di ristrutturazione dell'offerta, sacrificando la domanda ed espellendo lo stesso odiato sistema delle PMI dalla struttura produttiva auspicata, meglio ancora se "colonizzata" dai grandi investitori esteri:
"Questa è appunto una crisi da domanda, che, tra l'altro, essendo praticamente in corso dal 2008 -con double dip "rigenerato" dalle cure Monti del 2011-2012-, implica una strutturale deindustrializzazione che fa a pugni con ogni tipo di correzione dal lato dell'offerta:
non ha senso cercare di abbassare, per via fiscale, i costi delle
imprese (ad es; tagliando l'IRAP nella parte in cui include il costo del
lavoro o con modeste decontribuzioni per i nuovi assunti) se le imprese producono per una domanda interna che non c'è più e non deve esserci, altrimenti i consumi in ripresa si dirigono prevalentemente verso prodotti importati.
La legge di stabilità, così com'è, corrisponde a questa visione supply-side, con qualche contraddittoria concessione.
Vediamola in sintesi estrema sui saldi...
...Dunque: si propongono presunti "nuovi" 18 miliardi di sgravi fiscali sul lavoro e i costi di impresa, così ripartiti (per voci principali meglio stimate):
a) circa 10 per la conferma degli 80 euro di sgravio: questa misura è praticamente ad effetto crescita zero: il PIL 2014 l'ha già sostanzialmente scontata ed ha semmai impedito una recessione più ampia. Confermarla significa quindi solo evitare l'effetto recessivo di una riespansione della pressione fiscale sui
redditi da lavoro per il 2015 col relativo effetto depressivo (per
circa 10 miliardi con un moltiplicatore FMI di 0,6-0,7, evitando un
effetto recessivo di circa 0,4 punti di PIL);
b) decontribuzione per i nuovi assunti:
il suo effetto di riduzione del carico fiscale vale nella misura
limitata ipotizzata: 1,9 miliardi. I commentatori mainstream si
affrettano ad evidenziarne la limitazione dando per scontato che sia
tutta fruibile dal sistema datoriale. Ma ipotizzare i "soli" 200.000
nuovi assunti cui porrebbe capo è una scommessa del tutto irrealistica, a
fronte di uno stimolo alla domanda in cui nella legge di stabilità non
v'è traccia. Effetto su PIL, riguardando nuovi assunti in situazione di
ricercata deflazione salariale e di limitatissima influenza della misura in sè sugli investimenti: indeterminabile (nella più ottimistica delle ipotesi, sarebbe di poco più di 0,1 punti di PIL."
7. Insomma, per le PMI non c'è scampo: l'idea dominante delle politiche €uropee, è quella della ristrutturazione competitiva, preferibilmente a controllo estero, di settori industriali selezionati, con l'abbandono di tutta la produzione che viene considerata irrimediabilmente "inefficiente" (nella logica free-trade dei vantaggi comparati).
Ma non è uno Stato-vampiro: è un non-Stato privo di sovranità che esegue i diktat dei controllori dell'economia globale.
Un disegno che in Europa ha il potente catalizzatore dell'euro e di un assetto istituzionale che disattiva la Costituzione e le previsioni degli artt.45 e 47 Cost. (quelle che dovrebbero tutelare in primo luogo proprio le PMI in raccordo con le politiche dell'art.41 Cost.).
8. Mentre va in scena il rabbioso tramonto dell'euro, nelle sue proiezioni preannunziate dal QE senza nè arte nè parte - in termini di interessi nazionali e quindi delle nostre PMI-, la massa "critica" degli stessi medio-piccoli imprenditori se ne dovrebbe rammentare: il problema è l'euro e l'assetto finanzario-internazionalizzato dell'Europa.
L'INTERESSE DELLE IMPRESE ITALIANE NON UNICO E OMOGENEO: capirlo in tempo, è questione di sopravvivenza per il sistema delle PMI!
L'INTERESSE DELLE IMPRESE ITALIANE NON UNICO E OMOGENEO: capirlo in tempo, è questione di sopravvivenza per il sistema delle PMI!
E quindi...
Prendersela con questo fantasma evanescente di Stato, esecutore di diktat (che partono da poche mani molto private e, ormai, poco italiane), non è che una battaglia di retroguardia: se non comprendono la vera manovra in atto, finiranno per affondare in blocco senza aver compreso neppure di aver sbagliato rotta e di aver impattato l'iceberg.
ADDENDUM: amici del mondo delle medie e piccole imprese mi hanno scritto ponendomi il (a mio parere prevedibile e ragionevole) quesito: "ma cosa potrebbero aver fatto di diverso le stesse PMI, essendo alle prese con un "quotidiano" in cui lo Stato, nel suo volto fiscale più punitivo, le pone alle strette senza che esse possano influire non solo sulla scelta della moneta unica, ma anche sulle inefficienze burocratiche e sulla loro stessa capacità, perduta, di reagire alla sfida della competizione internazionale?"
Questa la mia risposta:
"Siamo d'accordo su certe tendenze.
Ma il punto sono:
a) le politiche industriali, impedite d'autorità dall'UE (esigono politiche fiscali anche sul lato della domanda e anticicliche, ormai in soffitta) e
b) la conservazione dell'alta tecnologia ancorata al territorio, che può essere consentita solo dalla grande industria PUBBLICA. Ciò, coincide con la privatizzazione selvaggia di quel settore industriale pubblico che è il volano delle PMI (storicamente e funzionalmente; su questo credo di aver imparato da un gigante degli economisti italiani, e, a mio parere, non solo, come Cesare Pozzi).
Infatti non ho parlato solo di cambio flessibile -anzi non ne ho parlato affatto- ma di un intero modello produttivo, anzi, "sociale", creato dal free-trade, e quindi export-led, secondo il paradigma specializzato dei vantaggi comparati ricardiani: questo inevitabilmente distrugge intere filiere, in nome della competitività-deflazione salariale, e senza che le PMI possano rimproverarsi vere o presunte incapacità di competere (anche leggersi "Bad Samaritans" di Chang è illuminante)..
Questa è l'UE-UEM è infatti ho proprio detto che l'euro è un potente "catalizzatore" cioè un innesco strumentale di tutta la faccenda.
La responsabilità delle PMI è culturale e politica: non arrivano a comprendere cosa significhi il free-trade imposto per trattato, credendo che la globalizzazione istituzionalizzata (WTO-UEM-FMI) sia un fenomeno inevitabile, mentre invece è una creazione umana, molto ideologica e accettata passivamente contro limiti insormontabili della Costituzione (credendo che questa si limiti a tutelare il sindacato e cadendo nella trappola della rincorsa alla distruzione della domanda interna, tramite l'ostilità indistinta e poco meditata verso la spesa pubblica).
Invece, tutt'ora le PMI
- votano per i partiti del free-trade-internazionalisti (magari con inconsapevolezza sia degli eletti che degli elettori: problema di "risorse culturali" non da poco);
- si colpevolizzano per il "non saper competere" (quando il fenomeno dell'apertura dei mercati è comunque un colpo imparabile, programmato);
- esaltano il "tea-party" (limitare il perimetro dello Stato, cioè esattamente l'opposto di quello che gli ha consentito di nascere e di prosperare in passato);
- disprezzano la Costituzione, credendo che sia "comunista". Quando invece il suo ripristino è l'unica protezione che gli è rimasta...
Prendersela con questo fantasma evanescente di Stato, esecutore di diktat (che partono da poche mani molto private e, ormai, poco italiane), non è che una battaglia di retroguardia: se non comprendono la vera manovra in atto, finiranno per affondare in blocco senza aver compreso neppure di aver sbagliato rotta e di aver impattato l'iceberg.
ADDENDUM: amici del mondo delle medie e piccole imprese mi hanno scritto ponendomi il (a mio parere prevedibile e ragionevole) quesito: "ma cosa potrebbero aver fatto di diverso le stesse PMI, essendo alle prese con un "quotidiano" in cui lo Stato, nel suo volto fiscale più punitivo, le pone alle strette senza che esse possano influire non solo sulla scelta della moneta unica, ma anche sulle inefficienze burocratiche e sulla loro stessa capacità, perduta, di reagire alla sfida della competizione internazionale?"
Questa la mia risposta:
"Siamo d'accordo su certe tendenze.
Ma il punto sono:
a) le politiche industriali, impedite d'autorità dall'UE (esigono politiche fiscali anche sul lato della domanda e anticicliche, ormai in soffitta) e
b) la conservazione dell'alta tecnologia ancorata al territorio, che può essere consentita solo dalla grande industria PUBBLICA. Ciò, coincide con la privatizzazione selvaggia di quel settore industriale pubblico che è il volano delle PMI (storicamente e funzionalmente; su questo credo di aver imparato da un gigante degli economisti italiani, e, a mio parere, non solo, come Cesare Pozzi).
Infatti non ho parlato solo di cambio flessibile -anzi non ne ho parlato affatto- ma di un intero modello produttivo, anzi, "sociale", creato dal free-trade, e quindi export-led, secondo il paradigma specializzato dei vantaggi comparati ricardiani: questo inevitabilmente distrugge intere filiere, in nome della competitività-deflazione salariale, e senza che le PMI possano rimproverarsi vere o presunte incapacità di competere (anche leggersi "Bad Samaritans" di Chang è illuminante)..
Questa è l'UE-UEM è infatti ho proprio detto che l'euro è un potente "catalizzatore" cioè un innesco strumentale di tutta la faccenda.
La responsabilità delle PMI è culturale e politica: non arrivano a comprendere cosa significhi il free-trade imposto per trattato, credendo che la globalizzazione istituzionalizzata (WTO-UEM-FMI) sia un fenomeno inevitabile, mentre invece è una creazione umana, molto ideologica e accettata passivamente contro limiti insormontabili della Costituzione (credendo che questa si limiti a tutelare il sindacato e cadendo nella trappola della rincorsa alla distruzione della domanda interna, tramite l'ostilità indistinta e poco meditata verso la spesa pubblica).
Invece, tutt'ora le PMI
- votano per i partiti del free-trade-internazionalisti (magari con inconsapevolezza sia degli eletti che degli elettori: problema di "risorse culturali" non da poco);
- si colpevolizzano per il "non saper competere" (quando il fenomeno dell'apertura dei mercati è comunque un colpo imparabile, programmato);
- esaltano il "tea-party" (limitare il perimetro dello Stato, cioè esattamente l'opposto di quello che gli ha consentito di nascere e di prosperare in passato);
- disprezzano la Costituzione, credendo che sia "comunista". Quando invece il suo ripristino è l'unica protezione che gli è rimasta...
FINO ALLA NOIA
RispondiEliminaIl credito delle PMI non corrisposto dal NON-STATO e la destinazione è rappresentato nei grafici del Supplemento n. 3 del 15/01/2015 della BdI ..
https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/finanza-pubblica/2015-finanza-pubblica/suppl_3_15.pdf
C'è però anche da capirli...
RispondiEliminaCome si fa ad avere un orientamento politico e culturale consapevole (nel fare i propri interessi), quando il paniere a disposizione è quello che si vede da quarant'anni in tutto il mondo?
Abbiamo una Costituzione che fonda la Repubblica sul lavoro (non sui lavoratori...) e non esiste una scuola di partito che abbia dato origine ad un vasto movimento di pensiero di tipo "centrista", aconfessionale e trasversale a tutta la classe produttiva (PMI + PIVA + salariati). Il partito della sovranità e della domanda aggregata.
Ad ora, fuori dagli "iniziati della moneta", di politica nessuno capisce un beato nulla.
Tutti gli archetipi sono fuorvianti: se si parla di "New Deal" l'imprenditore penserà allo statalismo, non a Keynes. Se si parla di "conflitto di classe", l'imprenditore penserà a un tovarish invasato e baffuto che vorrebbe prendere a martellate tutti i "piccoli borghesi", non a Sapir. Se si parla di "socialismo", l'imprenditore pensa ai soviet, non alla diffusione dei diritti sociali.
O si lavora o si studia, bisogna aver l'onestà intellettuale di ammetterlo: un imprenditore che lavora venti ore al giorno per dar da mangiare a enne famiglie non può - "statisticamente" - leggersi Caffé e Graziani, è troppo occupato a rincorrere crediti, debiti e cause civili...
È troppo elaborato per coloro che - sic - credono di sapere («sono quarant'anni che faccio impresa! vuoi saperlo meglio di me?») farsi una nuova coscienza "di classe", poggiata sull'istruzione e su razionale solidarietà con la classe salariata.
Hanno sempre fatto dei gran soldi, dato lavoro, è han dovuto combattere solo contro lo Stato e il fisco. E ora come fai a dirgli che non han mai capito un'óstreghéta di nulla? I danni che ha fatto il Bruno Leoni tramite la Lega, FI e il M5S sono ormai più che trentennali.
Se a ciò ci unisci che cosa sono stati i rappresentanti di chi avrebbe dovuto difendere il lavoro... non esistono proprio punti di riferimento.
Come possono costoro capire che sono i delocalizzatori/importatori il loro peggior nemico (che magari hanno l'ufficio affianco al loro...) e non lo Stato (di cui invece "dovrebbero riprendersi possesso") e i dipendenti (che poi sono i loro clienti)?
Che il volano dell'economia italiana siano state le partecipate a cui è seguita a ruota la PMI è ancor oggi insegnato in "storia economica" e non solo. E il grande successo è da attribuirsi al fatto che questo modello non auspicava alla massimizzazione degli "utili", ma alla massimizzazione della "patrimonializzazione" che comportava l'impegno della libera impresa ad influenzare la "politica" aumentando al massimo il numero dei dipendenti assunti piuttosto che usare "in modo indicibile" gli eccessi di capitale (come, in particolare, nel mondo anglosassone).
Ovvero il "ruolo sociale" delle PMI e la centralità della persona umana nel modello imprenditoriale italiano (che è qualcosa che va oltre al modello di Adriano Olivetti).
A differenze delle imprese pubbliche francesi, il modello di intervento pubblico in economia tramite le "partecipate statali", era incredibilmente efficiente: la motivazione manageriale e imprenditoriale del privato con azionista lo Stato democratico.
Certo, poi con i vincoli monetari e il modello "Tea Party", tutto questo bel modello è andato a farsi friggere....
Mi hai tolto le parole di bocca...Questa "estrinsecazione" storico-economica è praticamente il complemento inscindibile dell'ADDENDUM.
EliminaHai fatto bene a farla: lo psicodramma altrimenti vedrebbe tutta una serie di vittime "innocenti" e nessun colpevole.
Rimane l'interrogativo: ora che lo abbiamo spiegato, il "problemino" è risolvibile?
O svuotare il mare (mediatico) con un cucchiaio è "leggermente" improbabile?
La democrazia (keynesiana) è sempre stata così profondamente incompresa da chi ne fruiva a piene mani?
Sospetto di sì.
Più che un recupero si tratterebbe ormai di una "illuminazione" collettiva, cioè roba per un Buddha, un Bodhisttava con infinite risorse culturali da profondere nella Samsara (un ossimoro?)
Mi sa che è proprio finita a taralluci e vino (nella migliore delle ipotesi)...
Oddio, io credo solo che non ci possiamo dannare l'anima, e studiare e scrivere giorno e notte... sperando di incidere immediatamente sul corso della Storia... (giustamente il termine "titanismo" lo associasti a questa forma di "speranza")
EliminaNon siamo (purtroppo) i medici del nostro secolo, anche se, effettivamente, saremmo dei buoni "consulenti".
Alla fine ho trovato molto interessante leggere i dibattiti dei socialisti di inizio secolo che analizzavano il sorgere "dell'imperialismo del capitale".
Certo, costoro erano dei giganti che vinsero importanti battaglie (erano consapevoli che erano in guerra in una battaglia all'ultimo sangue con la "plutocrazia"), e sicuramente avevano dalla loro parte un "socialismo scientifico".
Ad oggi, invece, ci troviamo a combattere di fronte all'impersonalità di un "capitalismo scientifico": quella che chiamiamo tecnocrazia. Un robot programmato a edificare un modello di società in modo dispotico: modello che scientificamente tiene conto della "resistenza" e della complessità sociale.
È un modello che a parer mio - a differenza dell'irrazionalità finanziaria dei tempi di Keynes - è qualcosa di diverso dalla reazione ancora "immatura" della prima metà del secolo breve: questa a cui stiamo assistendo è una forma "totalitaria" del capitalismo.
Lo stesso ordoliberismo ne è la miglior dimostrazione tenendo conto sia degli aspetti economici che di quelli giuridici.
Questo sembra proprio un nuovo stalinismo, in cui invece di usare sola la forza bruta di Pinochet, si usa il totalitarismo ideologico, nell'espressione puramente orwelliana del termine.
Ma dal punto di vista della Storia, tutta la prospettiva diventa meno angosciante: alla fine anche l'ipotesi frattalica si deve muovere nella metafisica hegeliana e, questa, inevitabilmente ci dice che il capitalismo - nella sua estrema finanziarizzazione dell'economia - porta in sé le stesse inevitabili contraddizioni che ne porteranno la sua morte.
E credo che ci siamo vicini.
Il capitalismo, a parer mio, potrebbe non sopravvivere alla prossima crisi: ma non do così per scontato che si realizzerà l'utopia marxiana. Potrebbe benissimo realizzarsi la distopia orwelliana. (In un'ottica storica credo che Röpke abbia ragione a dire che ci sono solo due modelli di società: quella socialista e quella del "totalitarismo hayekiano").
Ciò implica una necessità per cui qualcosa cambi, e non do per scontato che con un cambiamento traumatico degli assetti sociali, chi gioca a fare il burattinaio riesca a condurre la transizione verso il nuovo modello.
Ciò che non si vede ora, potrebbe benissimo già essere in fermento nella dissidenza USA o in quella cinorussa, indocinese o sudamericana.
Quando si verrà alla resa dei conti - perché ci dovrà essere, lo vuole la Storia - sarà necessario confrontarsi sulle "linee guida": e queste devono già essere pronte e scritte.
Il trend dell'Uomo è progressivo: la reazione ha sempre rallentato l'evoluzione, non l'ha mai bloccata. È una necessità.
Voglio dire, nessuno - a parte i soliti noti - ha capito nulla del nostro modello costituzionale: probabilmente neanche molti Padri costituenti lo avevano compreso fino in fondo.
Ciò non toglie che c'è stato chi aveva già studiato - che ha potuto fornire la "consulenza" durante l'Assemblea - e che ha potuto imprimere la "rotta" all'evoluzione della nostra comunità sociale senza che nessuno lo abbia mai coscientemente colto. Quando i tempi sono stati maturi, c'è stato il retroterra umano e culturale per dare lo "spin". (E se siamo qui oggi, è proprio perché questo "spin" - almeno culturale - c'è ancora e, in modo imperscrutabile, agisce ancora sulla Storia).
Tutto ciò che ha valore prima o poi genererà i suoi frutti. Sono molto ottimista.
Ergo, sei perfettamente guarito dalla influenza? :-)
EliminaPerfettamente no, ma siamo di nuovo operativi... Deve essere passata qualche circolare del ministero della sanità tra i medici di base... Dal 2015 si preferiscono le pandemie alla spesa pubblica improduttiva.
EliminaBazaar non so chi Lei sia, ma complimenti.
RispondiEliminaUn grazie al padrone di casa per quello che in questo luogo si apprende.
Anche io voglio associarmi a Bazaar e provare ad essere ottimista.
RispondiEliminaL'ordoliberismo è un'ideologia. A mio modo di vedere, l'ultimo prodotto, l'ultimo sciagurato "ismo" del '900, che ne raccoglie la peggiore eredità.
Ma -al pari degli "ismi" che lo hanno preceduto- non credo che sopravviverà alle dure risposte della Storia.
Mi preoccupa, come dire, l'eredità del fallimento ordoliberista. Quello che serve (e che auspico), infatti, è un nuovo "new deal" democratico, fondato su un nuovo patto sociale, dove si confuti il (molto), che va confutato ma si riaffermi ciò che va riaffermato.
Ma ho paura, altresì, che l'esasperazione popolare causata dalle politiche del regime ordoliberista e dai suoi media schizofenici possa dar luogo anche ad una (fisiologica) "contro-reazione" con una nuova (e forse violenta) affermazione di politiche a sfondo etnico e tradizionalistico (che sono, ad esempio, sempre più "alimentate" dalla concezione distorta e strumentale della -pur giusta, in principio- tutela delle minoranze perpetrato dalla pseudo-sinistra attuale), associate a regimi comunque non democratici. Un'ulteriore eredità, si potrebbe dire, del defunto mostro ordoliberista che si collocherebbe come una prosecuzione della fase involutiva oggi in corso, o comunque che ritarderebbe l'auspicata rinascita democratica. Ed all'interno della quale gli ordoliberisti stessi potrebbero perfino riuscire a sopravvivere, come sopravvissero durante il ventennio fascista.
Insomma, la gestione del "dopo" sarà una fase di delicatezza estrema e di estreme incertezze.