Premessa: per capire cosa sia un "bene pubblico" (non un bene comune), occorre riportarsi ad un paradigma istituzionale: la normatività suprema della Costituzione non può essere scissa dalla concreta definizione del concetto stesso di fallimento del mercato. E questa normatività non può essere soppressa da alcun trattato internazionale, a pena di violazione dei principi fondamentali della Costituzione che andremo ad esaminare.
1. Abbiamo di recente visto come è negli anni '70 del '900, (qui, pp. 2-3), che si colloca l'inizio della fase operativa della strategia cosmopolita (tanto quanto lo può essere la Trilateral, cioè, comunque, su basi gerarchiche al cui vertice si colloca la super-elite USA; sempre qui, pp.4-6), per distruggere la democrazia sociale: quest'ultima, infatti, perseguendo anzitutto la temuta piena occupazione, era considerata un intollerabile ostacolo al pieno ripristino della democrazia "liberale" (qui, p.4), cioè di quel simulacro di Stato di diritto che garantisce la libertà a pochi oligarchi timocrati, mentre considera assurdo privilegio e corruzione legalizzata ogni concessione fatta dai parlamenti alle "plebi poverissime e ignoranti" (qui, pp.4.1.-7). Che devono ridiventare tali il più presto possibile.
Non a caso, questo lungo ma inarrestabile processo di restaurazione fu autodenominato, dai suoi stessi promotori e propagandisti, "rivoluzione liberale", per sottolinearne la radicalità del cambiamento di assetto sociale rispetto agli ordinamenti costituzional-democratici instauratisi (variamente) in Europa dopo la seconda guerra mondiale.
Non a caso, questo lungo ma inarrestabile processo di restaurazione fu autodenominato, dai suoi stessi promotori e propagandisti, "rivoluzione liberale", per sottolinearne la radicalità del cambiamento di assetto sociale rispetto agli ordinamenti costituzional-democratici instauratisi (variamente) in Europa dopo la seconda guerra mondiale.
2. Negli anni '70, appunto, si colloca l'episodio che scandalizza il console USA nel suo report all'ambasciatore dopo un incontro con l'allora presidente dell'ENI (qui, p.3):
"Il presidente dell'ENI scandalizza gli interlocutori USA (console a Milano che scrive all'ambasciatore del tempo) "osando" (went so far) dirgli che la "profittabilità" a cui sono orientate le industrie pubbliche, significava solo che dovessero ottenere piccoli margini di profitto o, in alcuni casi, il pareggio. "Gli obblighi sociali (ndQ; in realtà legali-costituzionali) di fornire occupazione, fare investimenti in aree depresse, e mantenere operative le industrie strategiche, costituivano anche finalità importanti".
"Il presidente dell'ENI scandalizza gli interlocutori USA (console a Milano che scrive all'ambasciatore del tempo) "osando" (went so far) dirgli che la "profittabilità" a cui sono orientate le industrie pubbliche, significava solo che dovessero ottenere piccoli margini di profitto o, in alcuni casi, il pareggio. "Gli obblighi sociali (ndQ; in realtà legali-costituzionali) di fornire occupazione, fare investimenti in aree depresse, e mantenere operative le industrie strategiche, costituivano anche finalità importanti".
3. Ci pare necessario sottolineare perché questi obblighi sociali fossero di natura "legale-costituzionale": in una chiave di lettura "immediata", si tratta evidentemente dell'attuazione della c.d. Costituzione economica (artt. 35-47 Cost.), che può sintetizzare il suo "statuto" nell'art.41 Cost. e non secondariamente nel "finale" art.47 (che gettano luce sugli articoli precedenti e anticipa armonicamente quelli seguenti).
Ma mantenere la piena occupazione, indirizzare gli investimenti delle aree depresse e mantenere operative le industrie strategiche, e ovviamente, garantire attraverso il welfare la "dignità" dell'elemento centrale del lavoro, diviene meglio significativo su un piano interprertativo sistematico, che implica l'armonia complessa dell'ordito costituzionale richiamato da Basso.
Si tratta in sostanza della diretta e effettiva attuazione della norma più importante dell'intera Costituzione, quella dell'art. 3, comma 2, indicata come tale sia da Basso (qui, p.8), che da Calamandrei (qui, p.2) che da Mortati (qui, p.1).
4. A titolo esemplificativo, rammentiamo le fondamentali dichiarazioni in Costituente di Cevolotto e Ruini (ritrovate il tutto esposto sistematicamente e commentato ne "La Costituzione nella palude").
Cevolotto indica, rispetto all'art. 3, comma 2, come propulsore della effettività del diritto al lavoro (art. 4 Cost.), e come presupposto necessario e sufficiente dell'attribuzione di significativi poteri d'intervento statale funzionali a tale effettività, i punti di riferimento entro cui si sta muovendo l'ampio accordo raggiunto tra le forze politiche presenti in Assemblea:
"...quando il relatore, nel primo capoverso del suo articolo, vuol dire come lo Stato garantirà al cittadino questo diritto al lavoro, usa una formula che introduce un altro concetto sul quale bisogna bene meditare. Allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini — si dichiara nell'articolo — lo Stato interverrà per coordinare e dirigere l'attività produttiva dei singoli e di tutta la Nazione secondo un piano che dia il massimo rendimento per la collettività. Quindi, intervento dello Stato nella produzione, intervento cui si arriva attraverso la garanzia del diritto al lavoro.
Fa presente in proposito che mentre un ritorno in
materia economica al liberismo sarebbe una proposizione assolutamente superata,
è da domandarsi se una regolamentazione totalitaria dell'attività produttiva sia
veramente utile e scevra di pericoli in una economia come quella italiana.
Ricorda che si sono già avuti esempi di questo intervento dello Stato nel
dirigere tutta la produzione: intervento che trovò il dissenso immediato anche
di economisti socialisti".
5. In sostanza, ciò ci indica che la direzione prescelta dai Costituenti non è affatto il "collettivismo", ma il ripudio del "liberismo" attraverso una disciplina di poteri strumentali dello Stato che consentano di perseguire l'effettività del diritto al lavoro prevenendo e correggendo i "fallimenti" del mercato. Essenzialmente riassumibili nelle distorsioni, di prezzo e di distribuzione del reddito prodotto, ma prima ancora del gioco democratico, derivanti dalla constatata tendenza alla formazione di monopoli, e oligopoli dominanti, privati (con il che l'art.41 Cost. si riconnette agli artt. 42 e, più ancora, 43 Cost.), nonché nelle c.d. esternalità la cui "disutilità sociale" l'art.41 Cost, infatti, intende come un epifenomeno della formazione di poteri economici di fatto oligopolistici privati.
6. La mancata prevenzione e sanzione, nell'interesse generale, dei fallimenti del mercato, è un fatto politico, la cui rilevazione, da parte dei Costituenti, procede dall'esperienza storica: le esternalità (inquinamento delle acque e dell'aria, consumazione illegale del territorio, lo stesso sottosviluppo degli investimenti e del livello di occupazione dovuti alla creazione de facto di barriere all'entrata nei vari settori produttivi), sono realmente eludenti e quindi dannose, in quanto i poteri economici privati, per la loro dimensione, siano in grado di imporsi con la forza politica che inevitabilmente deriva da essa, potendo quindi puntare al condizionamento istituzionale ed alla "omissione di intervento" del Legislatore; insomma, autoorganizzandosi nel controllo delle istituzioni - naturalmente "al riparo dal processo elettorale"- per farla franca nel riversare i costi dell'attività produttiva sulla collettività.
7. La clausola chiave del non contrasto con l'utilità sociale (art. 41, comma 2), dunque, lungi dall'essere un'evocazione del "collettivismo" è, prima di tutto, una garanzia della effettiva libertà dell'iniziativa economica privata (art. 41 comma 1).
Questa libertà deve essere garantita a tutti modificando il presente, e la sua ingiustizia, e per il futuro, senza che lo Stato rimanga inerte a ratificare i rapporti di forza politici ed economici già instauratisi.
La libertà economica varrà effettivamente per tutti in quanto non ostacolata dalle varie barriere all'entrata (comprese quelle tecnologiche che tendono a diventare inefficienti in assenza dell'indirizzo statale che corregga il monopolio privato, e che, essenzialmente, si compendia nella stessa attività industriale strategica dello Stato medesimo; art. 43 Cost.).
I Costituenti tengono esplicitamente conto del fenomeno per cui le posizioni di forza monopolistica privata, fanno leva su vantaggi indebiti di costo (cioè sull'imposizione di rendite, essendosi price-maker, fuori da un efficiente gioco concorrenziale e non price-taker), sulle asimmetrie informative, sull'esenzione dal sopportare i costi delle esternalità, riversati sulla comunità sociale, sull'accesso privilegiato e discriminatorio al credito etc.
8. Questo quadro spiega concretamente ciò che Ruini (sempre qui, infine) aveva ben presente nel replicare a Einaudi ed al suo tentativo di ripristinare, in sede Costituente, la supremazia della forza economica come "fatto compiuto", inibendo ogni intervento correttivo dello Stato, in nome del nostalgico e fantomatico "libero mercato", che, già allora, tentava la via cosmetica della restaurazione denominandosi neo-liberismo, ordoliberismo e "terza via" (la parola chiave, non enunciata, ma sottintesa per come emersa nel corso del precedente dibattito costituente è "rentiers"):
Sono cieche le correnti degli imprenditori che non rivendicano — se sono ancora in tempo lo dirà la storia — la loro vera funzione ed il titolo glorioso di lavoratori.
"Gli economisti — i
migliori — riconoscono che il loro edificio teorico, la scienza creata
dall'Ottocento, non regge più sul presupposto di una economia di mercato e di
libera concorrenza, che è venuto meno, non soltanto per gli interventi dello
Stato, ma in maggior scala per lo sviluppo di tendenze e di monopoli delle
imprese private.
Quando vedo i neo liberisti, come l'amico Einaudi, proporre
tale serie di interventi per assicurare la concorrenza, che qualche volta
possono equivalere agli interventi di pianificazione, debbo pur ammettere che
molto è mutato.
Non pochi vanno affannosamente alla ricerca della terza strada.
La troveranno? Non lo so. Questo so: che si avanza la forza storica del lavoro.
Non potevamo rifiutarci a questa affermazione.
Mazzini diceva che noi tutti un
giorno saremo operai; i cattolici hanno il codice di Malines e quello di
Camaldoli, dove sono stati stabiliti i principî d'una economia del lavoro.
Ho
sentito da questa parte (Accenna a destra) chi pur faceva vive critiche:
«Se per socialismo si intende un rinnovamento sociale, anche noi siamo
socialisti».
Allora, perché avremmo dovuto rifiutarci a riconoscere che la nuova
Costituzione è basata sul lavoro e sui lavoratori?
Parlando di lavoratori, noi
intendiamo questo termine nel senso più ampio, cioè comprendente il lavoratore
intellettuale, il professionista, lo stesso imprenditore, in quanto è un
lavoratore qualificato che organizza la produzione, e non vive, senza lavorare,
di monopolî e di privilegi. Sono cieche le correnti degli imprenditori che non rivendicano — se sono ancora in tempo lo dirà la storia — la loro vera funzione ed il titolo glorioso di lavoratori.
9. La Costituzione dunque, indicava una linea di evoluzione democratica della stessa attività d'impresa, attraverso questa garanzia della effettiva libertà d'iniziativa economica privata, una garanzia apprestata dallo Stato che, perseguendo la piena occupazione, assume contemporaneamente un concetto di "diritto al lavoro" che includeva gli "imprenditori", assicurando che il divenire tali potesse essere una scelta concretamente possibile per TUTTI - e non un'opzione meramente teorica MA DI FATTO PRECLUSA, come nella società classista fondata sui poteri economici di fatto, oggi sempre più spesso stranieri.
10. Lo stesso Lelio Basso, spiega i vantaggi generali, di crescita e di benessere diffuso, del modello costituzionale, specificando la direzione che avrebbe potuto assumere la gestione dell'industria pubblica (naturalmente in assenza del crescente ed instrusivo "vincolo esterno" €uropeo, esplicitamente inteso a neutralizzare la Costituzione economica).
Vi riporto, come segnalataci da Francesco, la sua lunga locuzione (del 1958) che vale la pena di comprendere in profondità oggi più che mai, perché si rivela un programma per il presente di straordinaria attualità:
“E.N.I., I.R.I., partecipazioni statali, Sturzo, Mattei, Bo, liberismo, statalismo, capitalismo di Stato: ecco dei nomi e delle sigle che popolano ogni giorno di più la polemica politica, senza che il grande pubblico abbia ancora potuto formarsi una idea chiara della natura e dell’importanza vitale dei problemi che si dibattono e degli interessi che sono in gioco.
E probabilmente neppure tutti i compagni
socialisti hanno idee chiare in proposito, anche perché il Partito non
ha fino ad oggi sufficientemente delineato e precisato la sua politica.
Certo, su due punti esso ha avuto una posizione chiara ed efficace: ha
appoggiato vigorosamente la azienda di Stato contro i monopoli privati e
il rapace capitalismo straniero in materia di idrocarburi, e ha
condotto in Parlamento e fuori una lotta tenace per lo sganciamento
delle aziende I.R.I. dalla Confindustria. Ma questo non basta a
delineare una politica, e opportunamente quindi la Direzione del Partito
ha deciso di convocare prossimamente a Roma un convegno nazionale che
investa tutto il complesso problema delle partecipazioni.
Perché i socialisti hanno dimostrato questo favore all’iniziativa pubblica?
Perché i socialisti hanno dimostrato questo favore all’iniziativa pubblica?
Perché hanno voluto la separazione anche organizzativa e sindacale
dall’iniziativa privata?
E come è accaduto che su queste richieste
si incontrasse anche il consenso della D.C. o di una parte di essa, una
parte essendo invece apertamente rimasta legata agli interessi privati?
Credo che, partendo da queste domande, si possa arrivare ad alcune
conclusioni in ordine ai temi che saranno trattati al prossimo convegno.
Diciamo subito, anche per rispondere a certe obiezioni che ci sono venute pure dall’interno del Partito, che noi non abbiamo difeso l’iniziativa pubblica perché siamo ingenuamente tratti a confondere le attuali forme di capitalismo di Stato con forme di proprietà socialista, o perché ignoriamo che cosa l’azienda di Stato possa diventare, e stia diventando, nelle mani degli attuali governanti.
Diciamo subito, anche per rispondere a certe obiezioni che ci sono venute pure dall’interno del Partito, che noi non abbiamo difeso l’iniziativa pubblica perché siamo ingenuamente tratti a confondere le attuali forme di capitalismo di Stato con forme di proprietà socialista, o perché ignoriamo che cosa l’azienda di Stato possa diventare, e stia diventando, nelle mani degli attuali governanti.
Al contrario, sappiamo benissimo che se la D.C. ha fatto sua la
proposta dello sganciamento delle aziende I.R.I. e della creazione di un
ministero delle Partecipazioni, è proprio perché essa mira a fare del
vastissimo settore delle imprese pubbliche un suo hortus conclusus, un
campo chiuso del proprio dominio, mettendo alla testa delle aziende
uomini di stretta osservanza, praticando una politica di discriminazione
nelle assunzioni, servendosene in ogni modo per scopi elettorali e per
il consolidamento del proprio potere, accentuando la presa clericale sul
Paese.
Non solo, ma sappiamo altresì che nelle mani della D.C. le imprese pubbliche, anche sganciate dalla Confindustria, non romperanno mai i loro legami di interessi con i monopoli privati, perché conosciamo bene la partecipazione che al capitale e alla direzione dei monopoli dà il Vaticano nella sua funzione di holding; e sappiamo che il Vaticano fungerà da tramite per accordi e collusioni di interessi al fine di sottoporre al suo controllo tutta la vita economica nazionale.
Non solo, ma sappiamo altresì che nelle mani della D.C. le imprese pubbliche, anche sganciate dalla Confindustria, non romperanno mai i loro legami di interessi con i monopoli privati, perché conosciamo bene la partecipazione che al capitale e alla direzione dei monopoli dà il Vaticano nella sua funzione di holding; e sappiamo che il Vaticano fungerà da tramite per accordi e collusioni di interessi al fine di sottoporre al suo controllo tutta la vita economica nazionale.
Sappiamo tutto questo e sappiamo quindi che, nonostante lo sganciamento
e nonostante il ministero, la battaglia per una seria politica delle
imprese statali è appena agli inizi. Quali debbono esserne gli sviluppi?
In proposito, ecco, in rapidissima sintesi, il mio pensiero...
L’economia italiana, sotto la guida del capitalismo privato, si è
sviluppata in modo abnorme, creando la situazione ormai a tutti nota di
alcune grandi imprese o gruppi di imprese ad alto sviluppo tecnico, con
larghi sovrapprofitti, con un grande potere economico sul mercato, e,
per contro, di una vasta zona di sottosviluppo, caratterizzata da scarsa
produttività, da metodi precapitalistici, da disoccupazione e
sottoccupazione, che non si limita soltanto al Mezzogiorno, ma,
geograficamente, tocca anche l’Italia del Nord (si pensi per esempio al
Delta padano o all’Arco alpino), e, economicamente, investe come settori
di produzione, come gran parte dell’agricoltura, del commercio e, più
in generale, dei settore terziario.
Se lo sviluppo dell’economia italiana continua ad essere abbandonato alla cosiddetta spontaneità del mercato, e cioè in pratica alla forza predominante dei monopoli, questa situazione permarrà e si aggraveranno anzi gli squilibri fra regione e regione, fra settore e settore, fra ceto e ceto: l’arretratezza con tutte le sue conseguenze (fra cui appunto disoccupazione e sottoccupazione, miseria, analfabetismo e semianalfabetismo, ecc.) continuerà a caratterizzare la vita italiana, impedendo la formazione di un Paese moderno e democratico, e il dominio dei monopoli si accentuerà anche nella vita politica, con le sue inevitabili tendenze all’esercizio di un potere totalitario.
Solo un intervento cosciente e programmato nell’economia del paese può invertire la tendenza, creando le condizioni dello sviluppo economico: investimenti industriali non soltanto e non prevalentemente nell’ambito delle aziende già fortemente sviluppate, MA AL CONTRARIO CON SCOPI ESTENSIVI DELL’OCCUPAZIONE, e in settori propulsivi dell’economia e capaci di effetti moltiplicati; industrializzazione del Mezzogiorno per dare a questa vasta zona d’Italia, finora abbandonata alla politica paternalistica delle opere pubbliche, uno strumento automatico di sviluppo; riforma agraria, ecc.
QUESTO INTERVENTO COSCIENTE E PROGRAMMATO PUÒ ESSERE OPERATO DALLO STATO SOLO SE ESSO DISPONE DI STRUMENTI ECONOMICI EFFICACI, E, PER RICONOSCIMENTO GENERALE, non sono oggi più sufficienti, anche se molto importanti, gli strumenti classici della fiscalità, della manovra monetaria e del controllo del credito, adoperati, a seconda dei casi, come freno o come incentivo, e quindi agenti in forma indiretta: SONO NECESSARI ANCHE STRUMENTI DI INTERVENTO DIRETTO, QUALI APPUNTO LE IMPRESE PUBBLICHE, che possono effettuare esse stesse i necessari investimenti, promuovere le industrie in base agli opportuni criteri di scelta economica e geografica, praticare direttamente la necessaria politica dei prezzi, ecc.
Le partecipazioni statali sono quindi oggi necessarie a una politica di sviluppo, ma possono operare utilmente soltanto se sono libere da qualsiasi interferenza di interessi privati: infatti una politica di sviluppo non è possibile, se non entrando in conflitto con gli interessi dei monopoli, sia per quanto riguarda l’acquisizione del capitale e la scelta degli investimenti, sia per quanto riguarda la politica dei prezzi e l’allargamento del mercato>.
Se lo sviluppo dell’economia italiana continua ad essere abbandonato alla cosiddetta spontaneità del mercato, e cioè in pratica alla forza predominante dei monopoli, questa situazione permarrà e si aggraveranno anzi gli squilibri fra regione e regione, fra settore e settore, fra ceto e ceto: l’arretratezza con tutte le sue conseguenze (fra cui appunto disoccupazione e sottoccupazione, miseria, analfabetismo e semianalfabetismo, ecc.) continuerà a caratterizzare la vita italiana, impedendo la formazione di un Paese moderno e democratico, e il dominio dei monopoli si accentuerà anche nella vita politica, con le sue inevitabili tendenze all’esercizio di un potere totalitario.
Solo un intervento cosciente e programmato nell’economia del paese può invertire la tendenza, creando le condizioni dello sviluppo economico: investimenti industriali non soltanto e non prevalentemente nell’ambito delle aziende già fortemente sviluppate, MA AL CONTRARIO CON SCOPI ESTENSIVI DELL’OCCUPAZIONE, e in settori propulsivi dell’economia e capaci di effetti moltiplicati; industrializzazione del Mezzogiorno per dare a questa vasta zona d’Italia, finora abbandonata alla politica paternalistica delle opere pubbliche, uno strumento automatico di sviluppo; riforma agraria, ecc.
QUESTO INTERVENTO COSCIENTE E PROGRAMMATO PUÒ ESSERE OPERATO DALLO STATO SOLO SE ESSO DISPONE DI STRUMENTI ECONOMICI EFFICACI, E, PER RICONOSCIMENTO GENERALE, non sono oggi più sufficienti, anche se molto importanti, gli strumenti classici della fiscalità, della manovra monetaria e del controllo del credito, adoperati, a seconda dei casi, come freno o come incentivo, e quindi agenti in forma indiretta: SONO NECESSARI ANCHE STRUMENTI DI INTERVENTO DIRETTO, QUALI APPUNTO LE IMPRESE PUBBLICHE, che possono effettuare esse stesse i necessari investimenti, promuovere le industrie in base agli opportuni criteri di scelta economica e geografica, praticare direttamente la necessaria politica dei prezzi, ecc.
Le partecipazioni statali sono quindi oggi necessarie a una politica di sviluppo, ma possono operare utilmente soltanto se sono libere da qualsiasi interferenza di interessi privati: infatti una politica di sviluppo non è possibile, se non entrando in conflitto con gli interessi dei monopoli, sia per quanto riguarda l’acquisizione del capitale e la scelta degli investimenti, sia per quanto riguarda la politica dei prezzi e l’allargamento del mercato>.
Come potrebbe seriamente concepirsi una politica di sviluppo che non rompesse le strozzature dei prezzi imposti dal monopolio in materia p. es. di tariffe elettriche, di concimi chimici, di cemento, e via discorrendo? Perciò lo sganciamento dalla Confindustria non deve significare soltanto una separazione puramente organizzativa, ma dev’essere il primo passo per una totale indipendenza di direzione, che permetta alla industria di Stato di assolvere i suoi compiti, che sono di aperta competizione con gli interessi del monopolio.
Un’impostazione di questa natura porta necessariamente con sé la conseguenza che la politica delle partecipazioni statali, appunto perché diretta essenzialmente a finalità di interesse pubblico (che, si badi bene, non sono affatto in contrasto con l’economicità, purché l’economicità sia riferita non al semplice bilancio aziendale annuale, ma all’utile generale che si vuole perseguire) , dev’essere sottoposta continuamente al controllo democratico della collettività, controllo diretto soprattutto a garantire la corrispondenza dell’attività svolta al fini assegnati e a impedire conseguentemente ogni ulteriore collusione con gli interessi privati, non soltanto a livello aziendale ma, che è più importante, sul piano della politica generale.
Quali siano
oggi le forme più efficaci di controllo, è, a mio giudizio, problema
arduo, che sfugge alle troppo facili formulazioni: parlare di controllo
operaio o di controllo parlamentare non significa ancora uscire da
formule generiche e da formule che, fino ad oggi, non hanno rivelato una
particolare efficacia.
Ma, appunto per questa difficoltà, è necessario che il problema di un controllo democratico sia bene al centro delle nostre preoccupazioni, non solo perché è problema inscindibile da quello dello indirizzo generale di politica economica, ma perché è attraverso il controllo democratico che si esercita la vigilanza e la pressione delle masse.
Ora il significato più specificamente socialista di questa politica non sta nella famosa e fumosa “socialità” di cui parlano i cattolici, non sta neppure in possibili vantaggi sindacali cui potrebbero aspirare i lavoratori di queste aziende, ma sta nel fatto che ATTRAVERSO QUESTA POLITICA È LA COLLETTIVITÀ STESSA, SONO I LAVORATORI ORGANIZZATI E COSCIENTI CHE ASSUMONO L’INIZIATIVA POLITICA ANCHE IN CAMPO ECONOMICO, strappandola dalle mani dei gruppi dirigenti che con il loro chiuso egoismo hanno avvilito tutta la vita della Nazione.
In questo senso questa politica è parte viva di una alternativa democratica, che non può esaurirsi soltanto in un mutamento di leggi e in un rinnovamento di istituti, ma ha per scopo essenziale, attraverso una più forte presa di coscienza e una maggiore acquisizione di potere e quindi una più attiva presenza dei lavoratori nella direzione della cosa pubblica, di dare un nuovo protagonista alla vita nazionale, nel che sono contenute in nuce ulteriori possibilità di democratizzazione e di socialismo” [L. BASSO, I socialisti e le partecipazioni statali, Avanti!, 26 febbraio 1958].
Ma, appunto per questa difficoltà, è necessario che il problema di un controllo democratico sia bene al centro delle nostre preoccupazioni, non solo perché è problema inscindibile da quello dello indirizzo generale di politica economica, ma perché è attraverso il controllo democratico che si esercita la vigilanza e la pressione delle masse.
Ora il significato più specificamente socialista di questa politica non sta nella famosa e fumosa “socialità” di cui parlano i cattolici, non sta neppure in possibili vantaggi sindacali cui potrebbero aspirare i lavoratori di queste aziende, ma sta nel fatto che ATTRAVERSO QUESTA POLITICA È LA COLLETTIVITÀ STESSA, SONO I LAVORATORI ORGANIZZATI E COSCIENTI CHE ASSUMONO L’INIZIATIVA POLITICA ANCHE IN CAMPO ECONOMICO, strappandola dalle mani dei gruppi dirigenti che con il loro chiuso egoismo hanno avvilito tutta la vita della Nazione.
In questo senso questa politica è parte viva di una alternativa democratica, che non può esaurirsi soltanto in un mutamento di leggi e in un rinnovamento di istituti, ma ha per scopo essenziale, attraverso una più forte presa di coscienza e una maggiore acquisizione di potere e quindi una più attiva presenza dei lavoratori nella direzione della cosa pubblica, di dare un nuovo protagonista alla vita nazionale, nel che sono contenute in nuce ulteriori possibilità di democratizzazione e di socialismo” [L. BASSO, I socialisti e le partecipazioni statali, Avanti!, 26 febbraio 1958].
Ho provato a riflettere sui beni misti (cioè che non siano sia escludibili che non rivali) e per i quali quindi è senz'altro auspicabile la coesistenza di pubblico e privato.
RispondiEliminaTra i tantissimi beni rivali, ma che dovrebbero però essere non escludibili, figura la casa di abitazione. La casa di abitazione viene tipicamente edificata su un terreno ed il terreno è il bene rivale per eccellenza, che risulta generalmente non escludibile solo se appartiene al demanio pubblico.
Fino alla metà degli anni ottanta lo stato ancora si occupava in maniera significativa di edilizia pubblica residenziale ed i terreni su cui veniva edificata l'edilizia pubblica, in gran parte appartenenti al pubblico demanio, statale o comunale, non venivano alienati in sempiterno, ma concessi in 'proprietà superficiaria' con la clausola dei 99 anni, eventualmente rinnovabili di soli altri 99 anni.
A Roma più della metà del patrimonio immobiliare ricade in questa casistica (perché un tempo tutti i terreni erano della Chiesa e passarono al Comune con il passaggio al Regno d'Italia).
Per esempio la tenuta della Marcigliana, tra Nomentana e Salaria (miracolosamente scampata al sacco dei costruttori privati), dove e' stata scoperta (e subito abbandonata per mancanza di fondi) l'antica città rivale di Roma, CRUSTUMERIUM, meta notturna di ignoti tombaroli, è ancora oggi bellissima perchè il capostipite dei pecorari che fornivano latte e formaggi al Papa fu ricompensato per i suoi servigi da quest'ultimo con la concessione del diritto di proprietà (dei terreni prima concessi a mezzadria), e perchè i discendenti ancora oggi ci tengono a preservare i luoghi. (1 di 2)
(2 di 2)
RispondiEliminaAl termine dei circa 200 anni teorici il terreno concesso in proprietà superficiaria, con tutto ciò che vi insisterà a quella data, dovrebbe ritornare nella disponibilità del pubblico demanio (come accade per il loculo al cimitero, per cui il termine dei 99 anni risulta pure sovrabbondante e quindi è stato ridotto a 35 anni o anche meno), affinchè nel futuro si possa valutare un nuovo utilizzo volto al bene pubblico.
In realtà i 99/188 anni sono teorici, perchè la vita di progetto di un edificio in cemento armato è di soli 70 anni e dubito che trascorsi 100 anni siano ancora sicuri...
Comunque, per gran parte dei terreni dei Castelli intorno a Roma, che vennero inizialmente assegnati ai reduci della Grande Guerra, i 99 anni sono quasi scaduti, e nel frattempo quei terreni sono stati lottizzati/edificati/compravenduti innumerevoli volte. Non credo però che la clausola dei 99 anni verrà mai fatta rispettare...
Perchè? Perchè temo che tutto verrà inesorabilmente ed indubitabilmente privatizzato...
Infatti nel settembre 2015 la Corte di Cassazione ha stabilito che la libera compravendita degli immobili edificati in regime di proprietà superficiaria non è proprio più possibile (quindi tutte le compravendite antecedenti sono, secondo i giudici di Cassazione, parzialmente nulle).
Dal settembre 2015 per compravendere una proprietà superficiaria occorre prima procedere all'affrancazione (trasformazione in proprietà ‘normale’) tramite un cospicuo versamento (diciamo indicativamente 30 mila euro per un appartamento di 80 mq).
L'affrancazione è una sorta di indennizzo allo stato a titolo di restituzione dei presunti benefici goduti dal lavoratore all'atto dell'acquisto di un immobile popolare.
La furie ideologica di ESSI non conosce limiti…
Però io mi domando come sia stato possibile per la Cassazione ignorare il fatto che una volta affrancato il bene risulta irreversibilmente privatizzato e che quindi tutte le proprietà superficiarie dopo l'affrancazione (necessaria anche dopo la successione) non torneranno mai più nel pubblico demanio!
Uno stato che non dispone più del suo territorio (perchè in gran parte privatizzato in maniera più o meno occulta) è uno stato a misura di ESSI.
Quando ne parlo come di un problema mi pigliano generalmente per matto e mi sembra di essere come il paziente che, guardando fuori della cancellata del manicomio, apostrofa un passante dicendo: "Ma che ci fate così tanti là fuori? Venite dentro!".
Degli argomenti trattati nel post riferirono in III^ Sottocommissione gli on.li A. Pesenti e F. Dominedò nelle loro Relazioni che quindi vanno lette insieme.
RispondiEliminaPesenti affermò “La Costituzione… definisce principi generali che regolano rapporti e situazioni sociali già esistenti. Però in tempo di rapida trasformazione sociale e di creazione di un nuovo assetto quale è il caso del nostro Paese… si può, senza cadere nella astrattezza e mantenendo alla formulazione delle norme costituzionali il carattere proprio di obbligo giuridico, sancire dei principî che anticipino la realtà sociale che si sta creando.
Prendiamo come esempio l'affermazione del diritto al lavoro, come diritto soggettivo…Da un punto di vista di fatto è chiaro che soltanto un'organizzazione sociale basata sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e su di un piano economico dell'investimento e della produzione può assicurare la realizzazione di tale principio, inteso appunto non come affermazione morale ma come obbligo giuridico dello Stato a procurare lavoro al cittadino…
Ciò premesso…è indubbio che, alla base di ogni formulazione di carattere economico, deve stare una chiara definizione del principio di proprietà. Io credo che tutti convengano nella formulazione di una norma che, riconoscendo il principio della proprietà privata, non lo esprima secondo la vecchia formulazione del diritto romano, ma ponga delle limitazioni diverse e che appaiono più o meno delle Carte costituzionali moderne…Quali sono i limiti sostanziali alla proprietà privata che esistono di fatto nella società contemporanea e che corrispondono, oltre che ad una esigenza economica dell'interesse nazionale, anche ad una esigenza della coscienza popolare?
La prima limitazione effettiva è che oggi tutta la proprietà…deve sottostare alle limitazioni poste dalla politica economica nazionale, si esplichi essa in un piano organico di produzione cioè in un piano economico oppure soltanto in piani di intervento parziali. Essa potrebbe affermarsi con una formulazione positiva «nella sua funzione sociale la proprietà deve uniformarsi alle direttive della politica economica nazionale stabilita dallo Stato, ai piani economici fissati dagli organi statali» o negativa «... non può sottrarsi, ecc.», o in modo ancora più forte: «la vita economica del Paese è regolata dallo Stato nell'interesse della Nazione mediante UN PIANO ECONOMICO DI PRODUZIONE A CUI DEVONO UNIFORMARSI I SINGOLI SOGGETTI ECONOMICI»…” [A. PESENTI, Relazione presentata in III Sottocommissione su “L’impresa economica nella rilevanza costituzionale”]. (segue)
Dominedò, a sua volta, ebbe a specificare quanto segue: “Il tema dell'impresa costituisce un angolo visuale di singolare rilievo per determinare l'impronta che una Carta costituzionale è atta a lasciare nella storia di un popolo. PROPRIETÀ E IMPRESA SI PONGONO COME DUE ASPETTI DI UN SOLO FATTO SOCIALE, la prima rappresentando il momento statico della disponibilità dei beni, la seconda il momento dinamico. E i vari atteggiamenti che l'una e l'altra concretamente possono assumere, dalla proprietà privata a quella nazionalizzata, dall'impresa individuale a quella collettiva, stanno a significare il riflesso che l'evoluzione sociale è destinata ad esercitare nell'ambito della Costituzione, specchio naturale del progresso di un ordinamento.
RispondiElimina… l'ordinamento dell'impresa dovrebbe snodarsi attraverso la naturale trafila della sua evoluzione, movendo dalla considerazione della tradizionale impresa individualistica, da armonizzare nella nuova struttura dell'aggregato sociale, per giungere sino alle ultime ipotesi di impresa collettivista, che possono esercitare una forza di suggestione nel mondo contemporaneo.
Punto di partenza di ogni disciplina appare pertanto il riconoscimento di un'esigenza essenziale: la libertà dell'iniziativa economica. Se è vero che l'uomo sta al centro della vita associata, come causa prima e scopo ultimo, ne deriva che lo Stato, necessario tutore del diritto, non può di regola trasformarsi in assuntore dell'economia, SE NON IN QUANTO LA INIZIATIVA PRIVATA RISULTI INADEGUATA AL FINE O NON RISPONDENTE ALL'INTERESSE PUBBLICO.
Ma sino a tale limite, ed entro queste rigorose condizioni, risponde a legge di natura porre come regola l'opera dell'uomo, fonte di energia e molla di progresso. Non si disconoscono con ciò gli aspetti corali della civiltà moderna, ma si rivendica alla personalità umana il titolo di protagonista della storia… non v'è sufficiente motivo per impedire che l'intrapresa privata faccia fin che può, a vantaggio di tutti: il riconoscimento della capacità creativa della persona è segno di libertà civile, dal momento che l'uomo porta in se stesso il crisma della socialità.
Non siamo dunque dinanzi ad un problema di principio, BENSÌ DI LIMITI. Come il riconoscimento della proprietà privata, espressione insopprimibile della personalità umana, trova il proprio presupposto nella funzione sociale che l'uso dei beni è chiamato ad assolvere, così il diritto all'impresa incontra un limite invalicabile nella funzione di utilità generale che anche la gestione individuale è tenuta ad attuare.
Se è vero, come la stessa relazione Pesenti riconosce, che LA PRODUZIONE SERVE ALL'UOMO E NON L'UOMO ALLA PRODUZIONE, ne deriva sì la legittima pretesa dell'uomo di gestire la produzione, ma a patto che ciò risponda ad un tempo al benessere sociale, senza ledere il diritto naturale di altri uomini, utenti o lavoratori, la cui sicurezza libertà e dignità va costituzionalmente garantita.
Ecco i limiti in atto: onde il discorso qui si dilata in quello del CONTROLLO SOCIALE SULLA VITA ECONOMICA. A proposito del quale conviene osservare fin d'ora che nella società moderna non si tratta né di irrigidirsi in un incontrollato regime di iniziativa, né di tendere verso un livellatore sistema di interventi: posizioni che, per il loro stesso estremismo, impedirebbero di mirare al vero obbiettivo del domani, consistente probabilmente nel trarre il massimo di vantaggio sociale così dall'iniziativa privata come dall'intervento pubblico, quella sorreggendo con questo, in una nuova sintesi della tradizionale antitesi, composta in una visione organica. (segue)
Giungiamo quindi all'ipotesi in cui UN'IMPRESA A CARATTERE PUBBLICO, GESTITA DIRETTAMENTE O INDIRETTAMENTE DALLA COLLETTIVITÀ OVVERO SOTTOPOSTA A CONTROLLO, possa sovrapporsi all'impresa privata.
RispondiEliminaNon si esclude, né si paventa questa eventualità: la si invoca anzi come rispondente a giustizia, tutte le volte che, in difetto di altra soluzione, le esigenze impongano che la collettività richiami a sé quelle funzioni cui il singolo non riesca da solo con vantaggio a rispondere. In tal caso la regola dell'iniziativa non può non subire eccezioni profonde. Al soggetto di diritto privato è destinato a subentrare un soggetto di diritto pubblico. All'interesse immediato del singolo succede una finalità nuova, per cui il processo produttivo e distributivo di beni o servigi, andando a beneficio diretto della stessa collettività cui l'impresa è devoluta, esclude uno scopo lucrativo dell'individuo [F. DOMINEDO’, Relazione presentata in III Sottocommissione su “L’ordinamento dell’impresa”].
Nonostante la chiarezza del discorso, in Assemblea i liberisti – trainati dall’allarmismo della stampa (che anche allora faceva bene il proprio mestiere) – ebbero qualcosa da ridire in particolare sul tema della “programmazione”. Toccò a G. C. Pajetta ribadire i concetti agli “ultimi dei mohicani”:
“… Non è senza un senso di stupore che questa mattina ho percorso la stampa quotidiana, e credo che la stessa meraviglia abbiano provato molti colleghi. In alcuni giornali si è parlato di colpi di mano e persino di atmosfera di sbigottimento.
Un certo Erasmo che su un giornale di Roma preferisce tessere l'elogio del liberalismo, considerando forse che oggi sarebbe assai meno originale tessere quello della pazzia, ci racconta come quattro deputati comunisti hanno tentato, alla vigilia della chiusura della discussione, un colpo di mano, intendendo introdurre in Italia i principî dell'economia totalitaria. E un altro giornale ci invita a giocare finalmente a carte scoperte…
Colpo di scena non direi: abbiamo ripresentato la proposta che avevamo presentato in Commissione. La nostra linea in materia costituzionale è chiarissima… Sorpresa no, e, tanto meno, motivo di allarmismo. Crediamo di aver dato più di una prova che consideriamo la Costituzione come una cosa seria. Crediamo che nessuno dubiti, qua dentro, che consideriamo come una cosa seria anche il socialismo. E nessuno dei comunisti crede che il socialismo si possa istituire o introdurre di soppiatto attraverso un emendamento nella Costituzione italiana. La questione è molto più semplice.
Noi abbiamo ieri insieme deciso che questa nuova Repubblica DEVE GARANTIRE IL DIRITTO AL LAVORO. Ebbene, abbiamo voluto che si precisasse, che si dicesse che c'era soltanto l'intenzione, ma che ci fosse una indicazione sul modo come può essere garantito il diritto al lavoro. C'è il problema dell'intervento dello Stato, che ha spaventato tanta parte della nostra stampa e che pare abbia spaventato qualche collega. Ma non è una cosa nuova: se ne parla anche in altri articoli. E a questo proposito non vale certo dire che la Costituzione non è un programma perché l'intervento dello Stato nella vita economica è la prassi di ogni giorno. (segue)
È la prassi italiana e di altri Paesi, dove l'intervento è più efficace, più coordinato, più diretto. E questo non è solo dei paesi socialisti, ma di tutti i Paesi democratici che hanno sentito e sentono il bisogno di realizzare una politica economica con gli strumenti che sono a disposizione dello Stato, e di non farla giorno per giorno, ma di farla secondo un programma, secondo un piano. Forse questa parola può spaventare, ma quando un liberale inglese ha proposto un piano perché fosse data ai lavoratori una assistenza sociale, c'è stato chi si è opposto ed ha votato contro; ma nessuno si è scandalizzato del fatto che nel Parlamento inglese un liberale presentasse un piano, e lo chiamasse piano. In quasi tutti i Paesi ci sono piani di ricostruzione, piani periodici di coordinamento, di attività. Noi dovremmo augurarci di seguire i paesi che hanno questi piani e che coordinano le loro azioni economiche, piuttosto che spaventarcene.
RispondiEliminaLa posizione dell'onorevole Corbino è spiegabile: è quella di un romantico del liberismo, è l'ultimo dei «moihani». Ma non vedrei, per altri banchi dove questi principî di intervento e regolamentazione sono accettati, che cosa possa esserci, che faccia paura ai colleghi, in questa nostra richiesta che non nasconde nessuna intenzione socialista.
Perché vogliamo allora questo emendamento? Vogliamo specificare e sottolineare che su un problema essenziale come questo noi intendiamo andare più in là di una semplice affermazione e vogliamo dimostrare almeno la nostra decisa volontà che sia realizzato ciò che proponiamo. Non è un emendamento socialista o comunista il nostro, non è un emendamento di partito, e perciò preghiamo l'Assemblea di accettare e comprendere lo spirito con il quale lo abbiamo formulato” [Assemblea Costituente, 9 maggio 1947, discussione sul futuro art. 41 Cost., intervento di G. C. PAJETTA].
Proprietà ed impresa pubbliche, quindi, per dar seguito al principio di effettività (art.3, comma II, Cost.; proprietà e impresa privata riconosciute, ma controllate e coordinate nell’interesse collettivo attraverso una “programmazione per gli uomini comuni” (F. Caffè).
Ed era del tutto ovvio che, a tal fine, bisognava anche controllare il governo della moneta e dei flussi finanziari (l’art. 47, in tal senso, si pone rispetto all’art. 41 in rapporto di naturale svolgimento e di conferma):
“… un controllo sociale nel momento produttivo ed in quello distributivo sarebbe vano ove non fosse esteso anche al momento circolatorio…qualsiasi misura in materia di produzione, di distribuzione, di risparmio, di proprietà può risolversi in niente o dare risultati contrari a quelli sperati, ove non sia accompagnata da un’adeguata disciplina in materia monetaria e creditizia… Un’appropriata politica monetaria deve incoraggiare la formazione del risparmio e deve favorire gli impieghi più vantaggiosi per il progresso sociale. Anche in questo campo confidare nel fiuto del banchiere non si può…” [A. FANFANI, Relatore in terza commissione “controllo sociale dell’attività economica”, riportato in G. PUCCINI, L’autonomia della Banca d’Italia, Milano, 1978, 114-115].
E quindi una Banca Centrale tesoriere del Sovrano, ragione per cui Togliatti sostenne che bisognava “… mutare la direzione della Banca d’Italia in modo da FARVI ACCEDERE I RAPPRESENTANTI DI TUTTE LE FORZE PRODUTTIVE, quindi anche i rappresentanti delle classi lavoratrici perché siano tenuti in considerazione gli interessi di tutta la nazione…” [Così P. TOGLIATTI, riportato in G. PUCCINI, cit., 122].
(Ringrazio Arturo per aver segnalato il libro di G. Puccini, già da lui citato in un altro suo commento).
E il cerchio coerentemente si chiude. Ma chi glielo va a spiegare alla Corte Costituzionale? :-)
Quand'anche fosse, non ascolterebbero...
EliminaCom’è accaduto che la CC si sia ridotta cosí?! C’è un post di riferimento?
EliminaSe un monopolio diviene un monopolio di Stato, lo Stato dirige quella impresa. Ma nell’interesse di chi? Lenin risponde:
Elimina«O nell’interesse dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti, e allora non avremo uno Stato democratico rivoluzionario, ma burocratico reazionario, una repubblica imperialistica;
o nell’interesse della democrazia rivoluzionaria, e questo sarà allora un passo verso il socialismo.
Perché il socialismo non è altro che il passo avanti che segue immediatamente il capitalismo monopolistico di Stato. O, in altre parole: il socialismo non è altro che il monopolio capitalistico di Stato messo al servizio di tutto il popolo e che, in quanto tale, ha cessato di essere monopolio capitalistico».
Dall'ottimo lavoro di Vladimiro Giacché mi permetto di segnalare questo passo, in cui secondo me si descrive compiutamente quel moto "verso il Socialismo" posto in essere nel trentennio glorioso in Italia, seppur con molte resistenze e qualche fallimento.
Cosa voleva infatti significare la colossale partecipazione dello Stato- direttamente o attraverso la galassia IRI- se non porre a servizio del popolo italiano il monopolio capitalistico (penso all'ENEL, ma gli esempi sono innumerevoli)?
Ma noi stiamo comunque qui a ricordarglielo. Sempre a futura memoria
RispondiEliminaOT - In caso fosse sfuggito, i nostri partner atlantici (ed EU), in larghissima maggioranza almeno, non lo hanno voluto fare.
RispondiEliminahttp://www.ansa.it/english/news/2018/03/19/shared-solutions-dialogue-with-eu-mattarella-putin-3_4fb28582-f432-4346-9b20-6f683ae9a693.html