martedì 16 aprile 2013

MONOPOLI E OLIGOPOLI. DALLE PRIVATIZZAZIONI ALL'INFORMAZIONE

Sofia ci regala un altro dei suoi post di accurata ricostruzione dei problemi. Qui vengono affrontati vari problemi, partendo da definizioni e tendenze immancabili del mercato che è bene ricordare ab imis. La esposizione è necessariamente lunga, ma (al contrario della mia :-)), scorrevole; e consente di capire o di "ripassare" concetti che ci pongono in grado costantemente di decifrare la realtà, al di là della melassa mediatica che, - è questo è il tema della seconda parte-, tende costantemente a manipolare e a "orientare" la nostra opinione. Per consolidare il potere di fatto di grandi interessi economici.
I quali tendono e tenderanno sempre a controllare le Istituzioni democratiche; e quando queste non sono ben piegabili ai loro fini, a MODIFICARLE. Questa è la nuova frontiera della difesa della democrazia: non prestarsi a manipolazioni che vogliano farci accettare, come una ennesima necessità, il mutamento della Costituzione. 
E' bene ricordare sempre che qualsiasi mutamento costituzionale, nelle condizioni ben illustrate nel post, risponderà IMMANCABILMENTE solo agli interessi di queste forze. E noi dobbiamo resistere, per preservare quello che rimane del valore della democrazia.
Il punto che però mi piace sottolineare è un meccanismo psicologico di massa che gli influencers usano a mani basse. Nel post si dice: "Nel documento (UNCTAD ndr.) si critica il monopolio sulle notizie esercitato dalle agenzie di stampa occidentali e, più in generale, il flusso unidirezionale dell’informazione - dai paesi industrializzati verso quelli in via di sviluppo, nonché l’approccio stereotipato agli avvenimenti, focalizzato in particolare su fatti drammatici, come guerre, catastrofi naturali e instabilità politica."
Ora il meccanismo è questo: se "noi" (monopolisti dell'informazione, controllati dai poteri economico-finanziari a caccia di istituzionalizzazione autoritaria del potere) siamo così sensibili da preoccuparci di tutte queste disgrazie, di questi "problemi umanitari", come potremmo NON volere il vostro bene quando vi imponiamo delle riforme socio-economiche?
1)   TENDENZA ALLA FORMAZIONE DI MONOPOLI/OLIGOPOLI
Hermann Levy, uno storico economico tedesco ha evidenziato [1] come, nell'industria moderna, si sia passati da una fase in cui sono prevalse piccole formazioni monopolistiche, ad uno stadio concorrenziale, ad una fase in cui si è affermata la concentrazione industriale e in cui sono prevalsi grandi formazioni produttive con situazioni di monopolio/oligopolio. Queste formazioni monopolistiche al di là dei casi in cui si sono formate per effetto di specifiche politiche statali, soprattutto negli ultimi anni si sono formate ad opera di potenti coalizioni d'interessi economici privati (non è un caso che si siano formati anche in paesi molto diversi tra loro e perfino in paesi che avevano antiche tradizioni liberistiche, a dimostrazione che non si tratta di trasformazioni accidentali, bensì, di un processo).
Levy ha spiegato le ragioni per cui si è arrivati a tali concentrazioni (progresso tecnologico, incremento dei mezzi di trasporto, aumento del volume di capitale minimo necessario per avviare la produzione[2] ecc) ed ha  chiarito che quando in molte industrie la concentrazione tecnica e quella economica sono divenute molto elevate, sono sorte le premesse per la concentrazione finanziaria, non solo fra imprese dello stesso ramo, ma anche fra imprese di rami diversi, con collegamenti che necessariamente comportano un coordinamento nella politica dei prezzi[3] e degli investimenti delle diverse imprese.
E’ importante anche evidenziare che quando la concentrazione, in un determinato ramo produttivo, ha raggiunto un livello molto elevato, importa poco stabilire se essa sia andata aumentando o diminuendo: se le imprese grandissime, da quattro che erano in un certo momento, diventano tre, ovvero cinque, la situazione e la forma del mercato in sostanza non mutano: in esso praticamente si e raggiunto il limite della concentrazione.
L'oligopolio, dunque, non appare come un caso teorico particolare, ma come la forma di mercato più frequente, se pure variamente configurata, nella moderna realtà economica[4].
In particolare è l’oligopolio concentrato a rappresentare la nuova forma di mercato e sebbene questo si presenta soprattutto nell'industria manifatturiera, nei paesi evoluti, nel periodo più recente, si è verificato pure nel commercio-distribuzione di prodotti di largo consumo (grazie anche allo sviluppo dei mezzi di pubblicità).
L’Oligopolio[5], quindi, vede la presenza di un numero assai limitato di imprese, ciascuna delle quali controlla una quantità considerevole di produzione, di vendita di consumo di un bene (imprese petrolifere, automobilistiche, aeronautiche, assicurative, telefoniche, informatiche).
La concentrazione su pochi soggetti porta a un significativo potere di mercato con ampia capacità di determinazione o influenza sul prezzo, spesso espresso dall’impresa considerata leader; il contesto economico può essere considerato calmierabile solo parzialmente in virtù della possibile concorrenza da parte di altre imprese già presenti o comunque desiderose di entrare nel lucroso mercato. Ma la strategia seguita da queste imprese per controllare la concorrenza (o mantenerla all’interno della cerchia degli oligopolisti presenti e non accrescerne il numero) è quella di concordare tra gli interessati, in modo collusivo, un prezzo superiore a quello marginale in danno del consumatore.
L’oligopolio tende quindi a trasformarsi in una forma di "cartello", che equivale, negli effetti economici, alla più insidiosa forma di monopolio: quello ragginto attraverso intese occultate ai consumatori.
Oltre ai casi di oligopolio (al cui opposto si trova la diversa forma di mercato della concorrenza perfetta, che vede la presenza di innumerevoli compratori e venditori i quali agiscono con la massima libertà di movimento e la piena conoscenza della situazione economica e che permette di ottenere i risultati economici migliori perché i prezzi, le quantità di beni e i costi sono ottimizzati proprio dall’opera attiva dell’antagonismo tra i soggetti presenti sul mercato) si possono verificare anche ulteriori casi di concentrazione sul mercato, ossia  i monopoli.
In questi casi si tratta di un mercato in cui opera un solo produttore o consumatore (acquirente: monopsomio) e non vi sono per altri possibilità di entrare nel settore di mercato, a causa di vincoli oggettivamente presenti in termini di tecnologia, prezzi o barriere di ingresso.
Il monopolista ha la massima libertà di esprimere il prezzo o in alternativa di decidere la quantità di beni da acquistare o vendere ottenendo il massimo potere di mercato. Il monopolio è quello che da i maggiori vantaggi a colui che dispone di questo privilegio perché questi sarà vincolato solo al perseguimento del suo massimo guadagno, ossia al maggior scarto assoluto tra i costi totali di produzione e i ricavi totali. Questi ultimi a loro volta sono collegati all’importo che scaturisce dal risultato dato dal prodotto della massima quantità di beni che il monopolista potrà vendere o acquistare, moltiplicato per il massimo prezzo unitario che vorrà o potrà praticare in funzione del massimo profitto totale raggiungibile.
È evidente come questa sia la forma che più penalizza il consumatore.
Al  monopolio puro si affianca la concorrenza monopolistica, caratterizzata dalla presenza sul mercato, in genere accanto a un operatore di maggiori dimensioni (c.d. "incumbent"), di un numero elevato di imprese (ma non illimitato come nella libera concorrenza) che vendono prodotti pressoché uguali ma distinguibili dagli altri in ragione di particolari qualità, vere o presunte, adeguatamente pubblicizzate ed esaltate con particolari strategie di marketing che ovviamente finisce per influenzare il prezzo di vendita. Il potere di mercato, quindi, viene determinato da questa presunta unicità, ed il produttore viene a godere di spazi di ricavo superiori ai costi marginali di produzione nei confronti di quelli previsti e ottenibili in regime di libera concorrenza (potendo tutta l'offerta adeguare i prezzi intorno a quelli fissati dall'operatore maggiore).
In conclusione, quindi, emerge, da un lato, che la formazione di forme di concentrazione è un processo naturale e ciclico e, dall’altro, che queste forme sono estremamente svantaggiose per gli utenti-consumatori-cittadini.

Già questo ultimo dato, da solo, deve portare a considerare una forma di democrazia effettiva, cioè caratterizzata dalla presenza dell'intervento pubblico correttivo delle "iniefficienze" del mercato (a danno dei cittadini-utenti), quella di resistere alla privatizzazione imposta dall’ideologia della globalizzazione economica e non certo una forma di demagogia, né di complottismo.
Le multinazionali che finiscono per operare in regime monopolistico-oligopolistico al posto degli enti pubblici esponenziali degli interessi generali, concepiscono il mondo in termini di mero possesso e il mercato in termini di mero profitto, operando, come si è visto, in modi che consentono di privilegiare una rendita di posizione che influisce sui prezzi, la cui fissazione non corrisponde affatto al libero gioco di domanda e offerta; anziché generare abbondanza, queste privatizzazioni subordinate al profitto producono nuove esclusioni, espulsioni e maggiore povertà e trasformando ogni cosa in merce e  in merce ogni risorsa, privando i popoli dei propri fondamentali diritti  dietro slogan a favore del benessere e della "efficienza", ma al solo fine di monopolizzare ogni risorsa.
Queste forme di concentrazione generano  esclusione e l’esclusione è il prezzo che la globalizzazione economica cerca di occultare proprio perché gli accordi economici che promuovono la globalizzazione non vengono decisi democraticamente, ma sono sanciti e imposti da organizzazioni come la Banca mondiale, il WTO o il Fondo monetario internazionale a prescindere dalla volontà delle comunità e dei paesi direttamente coinvolti.

Le multinazionali che controllano la globalizzazione economica indeboliscono le istituzioni democratiche dei paesi in cui operano, perché le loro decisioni vengono prese scavalcando le istituzioni parlamentari  (costrette ad approvare una serie di riforme economiche di stampo neoliberista) e i singoli cittadini, determinando nuove forme di  dittatura (quella economica, appunto).
Inoltre, con il pretesto di favorire gli interessi della collettività, finiscono per determinare una grande trasformazione del modo di concepire i diritti e le risorse: tutto viene imposto come un modello di sviluppo inevitabile, nascondendosi la realtà del potere di mercato abusivo che invariabilmente si accompagna a queste forme economiche private, in grado di condizionare sia il salario corrisposto ai dipendenti sia di ampliare le conseguenti rendite, senza alcuna comprovata maggior efficienza.
Quest'ultima, infatti, non è propria dell'operatore in posizione dominante, che può raggiungere un superprofitto anche senza l'innovazione tecnologica, e i presupposti della ricerca e dell'investimento .
Ovviamente non è contro il commercio internazionale che si punta il dito, ma contro specifiche forme di  colonialismo, il quale è nato proprio dal desiderio di dominare i mercati. Sono in molti ormai ad accorgersi che decisioni e strategie politiche ed economiche che riguardano direttamente la qualità della vita di miliardi di essere umani vengono prese e sviluppate senza possibilità di contestazione da potentati di una nuovo tipo di feudalesimo finanziario.
Gli stati-nazione mascherano la loro impotenza continuando a rappresentare lo spettacolo e i riti di una sovranità ormai decaduta, col solo effetto di fungere da paravento al potere reale dei nuovi feudatari e di aggravare il peso di un castello burocratico sempre più vessatorio nei confronti dei cittadini, anche essi spogliati di fatto della sovranità insieme agli Stati e ridotti alla mera funzione di sudditi.
Il dato stupefacente è che mentre combattiamo, sappiamo della nostra guerra molto meno di quanto non ne abbiano mai saputo i popoli in ognuna delle innumerevoli occasioni in cui hanno avuto a che fare con strumenti e logiche di guerra.
Oggi, al massimo di informazione sembra corrispondere il minimo di verità. Tra informazione e verità si è aperta una divaricazione:tutti sanno, anzi, tutti vedono (credono, si illudono di vedere) tutto; ma quel tutto è sempre spostato di qualche grado rispetto al vero centro del problema (Alberto Asor Rosa, La Guerra. Sulle forme attuali della convivenza umana).
La diffusione del senso comune di vivere nella globalizzazione è dovuta anzitutto dal contemporaneo incremento dell’offerta e utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa.  Però se comunicazione e informazione si fanno potenzialmente globali, significa che anche il controllo dell’informazione si fa potenzialmente tale. E ciò per due ordini di ragioni.
Da un lato, perché coloro che operano in situazioni di concentrazione hanno bisogno dello strumento informazione per continuare a mantenere la loro situazione di monopolio/oligopolio e tenderanno, quindi, ad avere il controllo delle imprese che si occupano dell’informazione.
In secondo luogo perché l’informazione non è solo potere, ma anche un bene da gestire; essa diventa innanzitutto PRODOTTO.
Esistono quindi multinazionali dell’informazione esattamente come per altri prodotti che, come le altre multinazionali, tendono a fusioni e concentrazioni (vedere dati del 2000 rapporto UNCTAD) che tagliano fuori i concorrenti.
Se l’informazione è una merce appetitosa, è ragionevole aspettarsi che le fonti dell’informazione e i canali di distribuzione siano destinati al controllo di pochi, con buona pace dei teorici della rivoluzione via internet (anche internet è un prodotto e come tale riproduce alcuni caratteri dominanti del mercato globale).
 Così come sarà inevitabile che le grandi multinazionali o comunque  tutte le forme di concentrazione o di monopolio (nell’ambito delle quali l’informazione è il principale strumento per continuare a detenere situazioni di potere privilegiate) tenderanno ad acquisire, controllare, strumentalizzare le industrie della rete che sfruttano  l’informazione come merce/prodotto da sfruttare economicamente.

2)   I MONOPOLI DELL’INFORMAZIONE
Come funzionano e come si reggono i monopoli dell’informazione?
Concentrandosi prevalentemente sulla rete (e quindi su internet) Evgeny Morozov, un ricercatore di Stanford che da tempo studia la rete ed il suo funzionamento, chiarisce che Internet ha al suo interno delle gerarchie solidissime ma, appunto, spesso occulte. Alcune fra queste disuguaglianze sono il risultato del funzionamento segreto di siti come Google, Twitter o Facebook.
Questi siti sono delle Black box, di cui non conosciamo gli algoritmi che ci consegnano risultati di ricerca o ci suggeriscono nuovi amici o profili da seguire. Meccanismi che influenzano enormemente il nostro modo di fruire internet e, attraverso l’uso della rete, il mondo.
Non pare ci siano dubbi, egli sostiene, che quali che siano i meccanismi di funzionamento di questi brand multinazionali essi debbano seguire la logica dell’aumento del profitto e non certo quella della libera circolazione d’idee.
Internet 2.0 è insomma un luogo profondamente segnato dalle logiche mercato, dalle gerarchie che derivano da esso o che vengono importate dal mondo extra rete. Tutto il contrario di un piano orizzontale su cui costruire la tanto mitizzata, democrazia diretta. Oltre ad essere occultamente e massicciamente gerarchicizzato l’ambiente internet ha anche un’altra fondamentale caratteristica “politica” (non è certo un caso che il movimento 5 stelle generi tanto entusiasmo negli operatori finanziari come Goldman Sachs, presso gli imprenditori come Del Vecchio o scaldi gli animi dell’ambasciata americana, certo non un covo di attivisti antisistema).
E queste multinazionali dell’informazione, come mantengono le loro situazioni di monopolio/oligopolio una volta che le hanno acquisite? Ma ovviamente alla maniera di qualunque altro grosso imprenditore o operatore economico: cercando di non pagare le imposte  (una delle tecniche più di di moda è il c.d. sandwich olandese) ma soprattutto cercando di sfruttare il lavoro per abbassare i costi. Il quotidiano The Morning Call, ha pubblicato una lunga e dettagliata inchiesta – intitolata Inside Amazon’s Warehouse – sulle terribili condizioni di lavoro nei magazzini Amazon della Lehigh Valley .
Senza trascurare anche il controllo politico. Si legge qua che: Il social network ha deciso di seguire le orme dei concorrenti - Google e Microsoft in pole position - per avere voce in capitolo con una sua "lobby". Costituito il Political Action Commitee: fornirà appoggio economico a partiti e candidati in vista delle prossime elezioni americane”.
Il problema riguarda molte compagnie associate a Internet in modo tanto stretto da essere identificate con la rete stessa.
Un altro caso da manuale è Apple, così come situazioni di lavoro precarie sono state registrate anche nella Foxconn, multinazionale cinese nelle cui fabbriche si assemblano iPad, iPhone e iPod.
In tutti questi casi, neppure ci si accorge del fenomeno, come se la rete e la tecnologia funzionassero di forza autonoma, una realtà che si evolve da sola, spontaneamente e teleologicamente. Ed invece così non è: solo che sono accuratamente occultati i rapporti di classe, di proprietà, di produzione, e difficile è comprendere chi ne sia proprietario, chi detenga il controllo reale dei nodi, delle infrastrutture, dell’hardware. 
Il fenomeno è talmente poco evidente che nonostante ci siano multinazionali che tutti i giorni (in rete) espropriano ricchezza sociale e (dietro le quinte) vessano maestranze, sono considerate “meno multinazionali” delle altre. Ed invece non vi è differenza tra una grossa impresa petrolifera ed una Apple o un  Google.
In tutti i casi a fenomeni liberalizzanti, di conquista di autonomia o libertà, conseguono anche fenomeni di assoggettamento: la rete è utilizzata per manifestare liberamente il pensiero, per la maggiore diffusione delle idee e delle notizie, per favorire la circolazione dei beni superando ogni tipo di barriera, ma nel contempo è anche usata per sfruttare e sottopagare il lavoro intellettuale, per controllare e imprigionare le persone, per imporre nuovi idoli e feticci alimentando nuovi conformismi,  per veicolare l’ideologia dominante, per gli scambi del finanzcapitalismo.
Ciò detto, comunque, la questione non è se la rete produca liberazione o assoggettamento (produce entrambe le cose), ma è avere ben chiaro che la rete è la forma che prende oggi il capitalismo (il quale si affermò liberando le masse dai vincoli feudali, da antiche servitù e al tempo stesso imponendo nuovi assoggettamenti).
E non si tratta di un concetto nuovo. Marx nel Capitolo VI del Capitale (pagg. 57-58) sosteneva che  «L’incremento delle forze produttive sociali del lavoro, o delle forze produttive del lavoro direttamente sociale,socializzato (reso collettivo) mediante la cooperazione, la divisione del lavoro all’interno della fabbrica, l’impiego delle macchine e in genere, la trasformazione del processo di produzione in cosciente impiego delle scienze naturali, della meccanica, della chimica ecc. e della tecnologia per dati scopi, come ogni lavoro su grande scala a tutto ciò corrispondente [...] questo incremento, dicevamo, della forza produttiva del lavoro socializzato in confronto al lavoro più o meno isolato e disperso dell’individuo singolo, e con esso l’applicazione della scienza – questo prodotto generale dello sviluppo sociale – processo di produzione immediato, si rappresentano ora come forza produttiva del capitale anziché come forza produttiva del lavoro, o solo come forza produttiva del lavoro in quanto identico al capitale; in ogni caso, non come forza produttiva del lavoratore isolato e neppure dei lavoratori cooperanti nel processo di produzione.
Quindi l’informazione è un prodotto, ed è un prodotto che viene utilizzato per acquisire potere e rendite economiche attraverso lo sfruttamento del lavoro. E la rete  ed i social media sono forse la prima forma di profitto che utilizza la tendenza umana alla cooperazione e alla condivisione di informazioni.
Ad esempio Facebook (tanto per citare il più rilevante)  si muove come se volesse inglobare tutta la rete e sostituirsi ad essa.  Ognuno dei milioni di utenti che usa Facebook,  ogni giorno produce contenuti per il network: contenuti di ogni genere, non ultimo contenuti affettivi e relazionali, sono  parte del general intellect di Facebook. Ognuno su Facebook di fatto lavora senza accorgersene e senza essere pagato, produce valore anche se non si traduce in salario, ma in profitto per altri (i proprietari dei mezzi di produzione che vendono i dati sensibili, i pattern della navigazione ecc) ossia coloro che fanno soldi col il  lavoro dei primi.
L’informazione, abbiamo visto, è merce. La comunità che usa Facebook produce informazione (sui gusti, sui modelli di consumo, sui trend di mercato) che il capitalista impacchetta in forma di statistiche e vende a soggetti terzi e/o usa per personalizzare pubblicità, offerte e transazioni di vario genere.
Ovviamente ciò è possibile solo grazie ad un monopolio di dati che vengono accumulati attraverso particolari  algoritmi ed in base ad un nuovo modello di egemonia cognitiva che si basa sulla rendita cognitiva, ossia  sullo sfruttamento di una nuova mediascape per l'intelligenza collettiva che è solo apparentemente libero e aperto. Google, ad esempio, è definito come un parassita del datascape digitale perché, da un lato, fornisce servizi gratuiti benevoli ma, d'altro canto, accumula valore attraverso una piattaforma diffusa di pubblicità web (Adsense e Adwords). E riesce, inoltre a stabilisce la propria gerarchia di proprietà di valore per ogni nodo di Internet e diventa quindi la prima rentier globale sistematica dell'intelletto comune.
Google, quindi, è a tutti gli effetti una azienda in situazione monopolistica, così come  Facebook, in quanto la rappresentazione della più estesa rete di relazioni sul pianeta, è una merce. L’azienda Facebook può  vendere informazione solo se, al contempo e senza sosta, vende quella rappresentazione di se stessa. Facebook, Google, Amazon ed Apple sono giganteschi monopoli che hanno affossato il sogno di quelle startup che, secondo i guru della New Economy, avrebbero dovuto competere alla pari con i colossi della IT, mentre oggi possono solo aspirare a farsi comprare.

3)   LA TENDENZA DELLE MULTINAZIONALI O DELLE ALTRE IMPRESE IN SITUAZIONE DI MONOPOLIO/OLIGOPOLIO AD ACQUISIRE IL CONTROLLO DEI MONOPOLI DELL’INFORMAZIONE.
Occorre considerare che quasi il 48% delle maggiori imprese e banche del mondo è statunitense, il 30% europeo e il 10% giapponese. Il potere economico si trova concentrato su sole tre grandi aree. In questo sistema imperiale, vediamo un  potere economico dominante  contrastato da altrettanti poli imperialisti. I settori chiave interessati da grosse forme di concentrazione sono banche, farmaceutica e biotecnologia, telecomunicazioni, informatica, gas e petrolio, software, assicurazione.
Dagli studi delle realtà produttive dei vari paesi è risultato che gli investimenti diretti esteri crescono con il commercio internazionale e che in sostanza i due fenomeni sono intrecciati fra loro.
La crescita delle imprese multinazionali all’estero contribuisce alla conoscenza dei mercati ed accelera quei processi che senza il commercio internazionale sarebbero più lenti. L’economia mondiale è sottoposta ad un processo di competizione globale e mondializzazione dei mercati e della concorrenza a carattere delocatizzativo tramite imprese-rete multinazionali e filiere produttive internazionali;  contemporaneamente si assiste a forti e continui processi di concentrazione della proprietà di impresa, il tutto in un contesto di speculazione finanziaria.
La filiera internazionale è quindi costituita da una rete di connessioni sia economiche sia tecnologiche che consentono di attuare delle strategie di partenrship in ambiti nazionali diversi.
Tale fenomeno con processi di concentrazione accelerata che stanno attraversando tutti i maggiori poli capitalisti significa una economia mondiale sempre più nelle mani di poche multinazionali che dispongono di un dominio illimitato capace di controllare il mondo.
La concentrazione del potere economico mondiale nelle maggiori imprese e banche significa che i mercati mondiali non sono competitivi ma che sono in gran parte modellati dai monopoli.
Questa concentrazione di potere economico è ciò che definisce la natura imperiale dell’economia, assieme ai mercati che esse controllano, le materie prime che saccheggiano, il lavoro che sfruttano. Si parla di ACCUMULAZIONE FLESSIBILE  dell’era post-fordista basata sui processi di finanziarizzazione dell’economia e sull’uso massiccio, in termini di accumulazione valoriale, del capotale intangibile, delle risorse immateriali, quali la conoscenza, l’informazione, la comunicazione, che si modellano intorno ad un mercato del lavoro sempre più flessibile e precario e basse garanzie.
Come sottolinea Jeremy Rifkin, la multinazionale è “un’istituzione quasi politica che esercita un enorme potere sulle persone e sui luoghi per mezzo del controllo sull’informazione e la comunicazione.
L’infowar si sovrappone alla guerra economica, sostenuta dalle multinazionali con le nuove tecnologie d’informazione e di comunicazione ed Internet, le imprese per dominare lo scambio economico devono dominare le reti. Ciò avviene con il controllo dell’informazione. Così il controllo dell’informazione diventa elemento chiave del potere economico-politico.
Tanto che pure di fronte ad una enorme mole di informazioni il cittadino medio spesso non è in grado di comprendere dove arriva la verità ed il problema e dove l’esigenza della multinazionale.
D’altra parte i grossi monopoli per rimanere tali, devono trasformare qualunque cosa in strumento di ricchezza e in bene di consumo. E riescono a farlo attraverso la strumentalizzazione di dati e lo sfruttamento delle fonti di informazione.
Per mantenere la propria egemonia economica creano bisogni nei consumatori al fine di generare e/o incrementare la domanda di beni e quindi la produzione. Per vendere su larga scala un prodotto, le multinazionali devono creare o estendere un dato tipo di domanda. A tale scopo, utilizzano strumenti “incentivanti” finalizzati a creare un certo tipo di gusto ed a far nascere nei consumatori quei desideri che porteranno all’acquisto del bene prodotto.
Così, con l’obiettivo di ottenere un risultato commerciale, le multinazionali “giocano” su fattori psicologici e sociali, modificando radicalmente i comportamenti, le abitudini di vita e quindi l’intero tessuto socio culturale.
E questo avviene attraverso i media, la pubblicità, internet, propaganda e sponsorizzazioni sociali e attraverso questi strumenti diventano  “ingegneri” dei cambiamenti sociali, politici e culturali. Basano la propria strategia pubblicitaria sulla sensibilità sociale, utilizzano l’immagine, spesso quella  di un’impresa grande, forte, “pulita”, dalla parte dei più deboli, per assume una valenza strategica verso ogni tipo di interlocutore, e spesso legano il loro nome e la loro immagine a quella di associazioni ed organizzazioni umanitarie, di beneficenza e ambientaliste.
Insomma maggiori sono le insane concentrazioni, maggiore  è il conseguente controllo sulla diffusione dell’informazione: sia a livello internazionale, per via del potere delle agenzie multinazionali, la mancanza di controlli e le forme eclatanti di emarginazione e sia all’interno dei paesi, dove si sono consolidati monopoli, oligopoli e ambigui conflitti di interesse.
E non si tratta di complottismo. L’entità del fenomeno si è percepita da tempo.
Nel ’46, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite affermava che “tutti gli stati dovrebbero proclamare politiche che proteggano il libero flusso dell’informazione all’interno dei paesi e attraverso le frontiere”, come ribadito due anni più tardi dall’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani.
Nel 1976 si riconosce che “un Nuovo ordine mondiale dell’Informazione e della comunicazione di massa è tanto vitale quanto un Nuovo Ordine Economico internazionale”. Una prima denuncia di questo fenomeno  è stata lanciata nel 1980 nella ricerca "Many Voices, One World", sviluppata dalla Commissione internazionale per lo studio nel campo delle comunicazioni dell’Unesco; http://www.unesco.org/new/en/communication-and-information/.
Nel documento si critica il monopolio sulle notizie esercitato dalle agenzie di stampa occidentali e, più in generale, il flusso unidirezionale dell’informazione - dai paesi industrializzati verso quelli in via di sviluppo, nonché l’approccio stereotipato agli avvenimenti, focalizzato in particolare su fatti drammatici, come guerre, catastrofi naturali e instabilità politica.
Negli anni ’90 mentre le multinazionali si espandono e le disuguaglianze continuano a esistere, alcuni studiosi delle comunicazioni, come Gornman e McLean, mettono in discussione il concetto di imperialismo culturale o mediatico: “quando i pubblici non sono rinchiusi dentro confini nazionali e le frontiere geografiche sembrano non contare più nulla per le comunità “virtuali” o “immaginarie”, diventa difficile accettare modi di ricezione dei prodotti mediatici e dunque l’influenza reale di chi ne elabora i contenuti: il modello semplice dell’imperialismo statunitense non è più pertinente nel mondo attuale, dove il settore dei media comprende da una parte i giganti globali e dall’altra diverse industrie nazionali”.
Eppure i condizionamenti rimangono: come digital divide e censure illustrano in maniera eclatante. Essere in grado di comunicare ed essere informati rimangono aspirazioni non facilmente raggiungibili per buona parte dell’umanità http://www.unimondo.org/Guide/Informazione-e-Cultura/Mass-media/(desc)/show.
Nonostante tali denunce e a distanza di anni la situazione non è mutata: il 95% delle notizie che circolano ogni giorno tramite i vari media proviene da otto grandi agenzie stampa del Nord: CNN, BBC, AP, Reuter, AFP, DPA, EPE, ANSA e anche nel settore di diffusione delle immagini televisive esiste un primato occidentale, così come nel mercato radiofonico internazionale, ed infine, quanto al mondo di internet si è già ampiamente detto.
Le imprese monopolistiche e gli oligopoli, d’altra parte, per riconfigurarsi al meglio di fronte alle dinamiche politiche finanziarie o sociali non faranno mai a meno di questo sistema complesso di captazione e controllo che dev’essere anch’esso continuamente regolato, gerarchizzato, messo a punto. E lo fanno attraverso  i mezzi finanziari, organizzativi e tecnologici, attraverso l’esercizio del biopotere,  la finanziarizzazione indotta dal Cloud Computing[6], l’aggiramento dei diritti nazionali del lavoro, e le tecniche di persuasione Marketing. Riescono così a mantenere le traiettorie di distruzione e privatizzazione dei servizi collettivi. E grazie alle ambiguità che circondano il Capitalismo 2.0[7],  che i vari Google, Apple o Facebook riescono anche a darsi un’immagine contemporanea.




[1] inThe New Industrial System, Routledge, London 1936, pp. 270-71 nonchè in Monopole, Kartelle und Trusts, tradotta e pubblicata in inglese nel 1911Monopoly and Competition, Macmillan, London
[2] Come del resto chiarito anche da Marx ne il Capitale, libro I, cap. XXIII, 2.
[3] Lo aveva detto a suo tempo anche Adamo Smith in Ricchezza delle Nazioni, libro I, cap. VIII
[4] http://dspace.unitus.it/bitstream/2067/609/1/OLIGOPOLIO-1967.pdf
[5] Per un approfondimento delle forme di mercato vedere  http://dspace.unitus.it/bitstream/2067/609/1/OLIGOPOLIO-1967.pdf

[6] consiste nell’affidare ad un’impresa privata, detta Fornitore di servizi, le proprie applicazioni, i propri dati per farli “girare” su una nuvola, un’infrastruttura (servers, reti etc.) virtuale, opaca e poco controllabile. Molti la denunciano come un’operazione marketing, ma si tratta innanzitutto d’un gigantesco filone di “affari” che implica l’espulsione di manodopera dei servizi IT delle imprese per accellerare i processi d’esternalizzazione (Outsoursing) e l’eliminazione fisisca di milioni di servers e centri informatici pubblici o privati per trasferirne la potenza di calcolo nelle immense, nascoste ed antiecologiche “servers farms” di Google, Amazon o Microsoft
[7] Giorgio Griziotti[1] Capitalismo digitale e bioproduzione cognitiva: l’esile linea fra controllo, captazione ed opportunita’ d’autonomia, in Uninomade, 2011,

46 commenti:

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    1. :-) In realtà negli USA tutte le rappresentazioni del futuro riflettono questa distopia che risale Philip K. Dick (intuizioni "allucinate" ma profetiche), finendo per gli attuali Flash Forward e passando per Scandal e tanti altri ancora (c'è solo da scegliere in pratica). Cioè l'idea dell'inevitabilità del governo mondiale delle multinazionali detentrici delle tecnologie - e prima ancora dei volumi di capitale per fare ricerca avanzata- in un futuro distopico, di apparente democrazia

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    2. Mi viene in mente anche il film "quinto potere", e la profetica frase (il mondo come "un'unica, vasta, comunità finanziaria"), rivolta dal magnate al giornalista pazzo.......

      Veramente un bel pezzo, complimenti a Sofia!

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    3. Oh, e comunque: il poema aforistico è fantastico...

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  2. grazie Lorenzo. E se ci si vuole divertire con qualche citazione, meritano quelle del film Wall Street (http://it.wikiquote.org/wiki/Wall_Street) : "Non sarai tanto ingenuo da credere che viviamo in una democrazia, vero Buddy? È il libero mercato". (Gordon Gekko)

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    1. Il problema con gli italiani è che neanche una distopia si sa come verrebbe fuori: magari ci sguazzano benissimo oppure finiscono serenamente nella "atavica miseria" e...cantano (versione citrulla degli italiani visti dall'estero) :-)

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  3. Visto che si parla di distopia. Fra le deviazioni operate dall'informazione si può annoverare il termine meritocrazia, che trova origine in un romanzo distopico. Lo avevo già segnalato qui e qui (speriamo che ecodellarete risolva coi commenti che per ora non si vedono).

    Non mi ripeto ma aggiungo il link all'articolo di Michael Young, quasi un ultimo grido di dolore circa sei mesi prima di spegnersi.

    La manipolazione dell'informazione ha trasformato un termine negativo in positivo. Provate a parlare in giro di meritocrazia, diranno tutti che ce ne vorrebbe di più.

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    1. "It is hard indeed in a society that makes so much of merit to be judged as having none. No underclass has ever been left as morally naked as that.
      They have been deprived by educational selection of many of those who would have been their natural leaders, the able spokesmen and spokeswomen from the working class who continued to identify with the class from which they came"

      Eh, una volta c'erano i laburisti che avevano visto il nazismo e lo stalinismo. Poi venne Tony Blair e in Italia ancora lo acclamano...o quantomeno ne pappagallano gli slogan

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    1. Grazie: ennesima barzelletta neo-classica. E vengono pure qui a "cercare il dialogo"!
      Mentre nel frattempo Panizza faceva il lavoro serio:
      http://ideas.repec.org/p/anc/wmofir/65.html;
      http://goofynomics.blogspot.it/2012/07/too-much-finance-panizza-sul-fq.html

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  5. INFORMAZIONE E PROPAGANDA (Prima parte)

    Già negli anni settanta, l'antropologo Marvin Harris, nel suo saggio divulgativo “Cannibali e re. Le origini delle culture”, puntualizzava come non ci fosse stato nessun periodo della storia dell'umanità in cui le risorse fondamentali fossero così accentrate in pochissime mani.
    E come il cammino dell'uomo fosse stato un regresso dalle società egualitarie e libere dei cacciatori raccoglitori, fino alla schiavitù della odierna civiltà industriale (a questo proposito un testo molto interessante è “Economia dell'età della pietra” di Marshall Sahlins)
    Ma ciò che maggiormente lo stupiva era il fatto che l'uomo così facilmente si facesse comandare, asservire e soggiogare.
    Per chi abbia un po' di dimestichezza con alcuni dei maggiori e più brillanti esperimenti della psicologia sociale, ciò non desta, invece, alcuna meraviglia. Parlo degli esperimenti di Solomon Acsh sul conformismo o quelli di Stanley Milgram sull'obbedienza all'autorità. Entrambi dimostrano in modo inequivocabile la dipendenza dell'uomo dal gruppo e dal potere gerarchico.

    Ora, noi possiamo dire che l'essenza del potere sia il controllo delle risorse fondamentali.
    E,tra queste, senz'altro, oltre all'energia, il denaro, il cibo, c'è l'informazione; ecco perché, essa al pari delle altre, si trova sotto il controllo dell'oligopolio dominante.
    Nei post si parla spesso di “disinformazione”, ma si tratta di un errore, prima che terminologico, concettuale.
    Non è informazione, né disinformazione, bensì propaganda.
    Durante la seconda guerra mondiale, infatti, le tecniche di manipolazione del consenso sviluppate dai nazisti (le più evolute conosciute allora), furono fatte proprie dagli americani.
    Le facoltà di comunicazione americane ricevettero ingenti finanziamenti a partire dalla fine degli anni quaranta e trasformarono la comunicazione, tutta la comunicazione, in manipolazione, studiandola e applicandola secondo il paradigma di Lasswell, che studia, appunto. gli effetti di una fonte di comunicazione su un target prestabilito.
    E', quindi, la stessa impostazione della disciplina a livello accademico ad essere funzionale al mantenimento degli interessi del controllo e del dominio. (Un testo dove approfondire quanto appena esposto è “Science of Coercion” di Christopher Simpson)
    Chiarito questo, parlare di “disinformazione” fa sorridere, come anche denunciarne l'accentramento in pochissime mani, o l'omologazione.

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    1. Suvvia Frank, non mortificare lo sforzo di Sofia: il concetto sostanziale è quello, al di là delle definizioni noominalistiche, tanto che l'introduzione (strettamente conseguenziale al contenuto del post) dice:
      "al di là della melassa mediatica che, - è questo è il tema della seconda parte-, tende costantemente a MANIPOLARE e a "orientare" la nostra opinione. Per consolidare il potere di fatto di grandi interessi economici."
      Qui il punto era più la naturale strutturazione del mercato del "prodotto informazione" secondo le stesse dinamiche necessitate degli altri "prodotti": la situazione di monopolio-oligopolio. Senza che alcun "libero mercato" sia mai effettivo in nessun campo, se non come mito neo-liberista (appunto mediatizzato manipolativamente).

      Cioè il mercato dell'informazione è il collante generale che consente, dissimulandola e mimandola, la stessa struttura di mercato che dà luogo ai poteri di fatto. Che si impadroniscono delle istituzioni alterandole. Senza incontrare così una vera resistenza...
      Su questo spero ci siamo capiti :-)

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  6. INFORMAZIONE E PROPAGANDA (Seconda parte)
    Ma, siccome si è parlato anche di tecnologia, un breve accenno anche ad internet.
    Internet, al di là della favoletta dello studentello americano che l'avrebbe creato nella sua cameretta,
    è un prodotto della Cia.
    Nasce con l'intento di ottenere, spontaneamente e gratuitamente, i dati sensibili e personali di centinaia di milioni di persone (pensiamo soltanto ai social network) a scopo di controllo politico e di sfruttamento commerciale.
    Navigazione, dopo navigazione, vengono, infatti, prodotti e archiviati profili riguardanti ognuno di noi, con dati dettagliati che vanno dai gusti politici, ai comportamenti di acquisto, agli orientamenti sessuali.
    I dati personali, poi, oltre che finire nelle mani dei servizi segreti e di organismi politici, sono rivenduti a fini commerciali a vari soggetti.
    Come farebbero, altrimenti, siti che offrono servizi gratuiti (ad esempio telefonare), a sopravvivere, senza nemmeno fare raccolta pubblicitaria?
    E come potrebbero, infine, passare di proprietà a prezzi così esorbitanti?

    Ma l'intento di internet è ancora più vasto e di portata culturale.
    Internet ha aperto di fatto la via ad un immenso marketplace virtuale, che azzera le barriere di spazio e tempo, e omologa il mondo secondo le linee guida della globalizzazione voluta dal grande capitale oligopolistico dominante.
    Un mondo interconnesso, senza barriere geografiche e fisiche, dove la moneta elettronica, anch'essa smaterializzata, possa liberamente circolare assieme alle merci.
    (Per approfondire, segnalo un altro libro: “Il potere segreto dei matematici” di Stephen Baker)
    Che poi si tratti di sistemi di controllo e di falsa libertà lo dimostra anche il fatto che ad alcuni video di contenuto politicamente “pericoloso”, siano applicate forme sottili e subdole di censura come il blocco dei “preferiti” ad impedire che gli stessi scalino le classifiche di gradimento e, quindi, di visibilità.

    L'informazione è la prima arma di contro-potere e di libertà. Ma essa, come già ho detto diverse volte, deve essere organizzata in modo scientifico.
    Soltanto creando organismi dal basso, che utilizzino le tecniche di comunicazione scientifica, si potrà ottenere qualche risultato.

    F.M.

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  7. Tra "i settori chiave interessati da grosse forme di concentrazione" , oltre a quelli da te citati, l' industria alimentare, ecco "l' ampia scelta" che si apre a noi "consumatori":
    http://oamarchitecture.files.wordpress.com/2012/05/403521_10150918375817527_63796842526_12131388_699181983_n1.jpg

    tra i media diffusori di "immaginari collettivi" hai dimenticato quelli secondo me piu' importanti: La musica e sopprattutto il cinema.
    Non esiste un ministero della cultura negli USA, le veci di tale ministero sono svolte da Hollywood.
    E qui, apro una corposa parentesi, perchè l' argomento secondo me è molto importante, molto piu' di quanto non si pensi.
    Io credo che, si venda un idea, un immagine, sempre col/con/nel prodotto, la merce in vendita è solo un contenitore, molto spesso.
    Ma il prodotto non è solo l' automobile (agghiacciante l' ultima pubblicità della mercedes, in cui un ragazzotto dopo aver provato una mercedes, dice al padre: "ho capito cosa voglio dalla vita" -o- "dove voglio arrivare" , non ricordo), il vestito (indossato da questa o quella diva), ecc. ; è anche IL COME SI DEVE PENSARE (gli economisti direbbero: la creazione della domanda).

    il "prodotto" è lo stile di vita americano, l' efficienza tedesca.
    il "prodotto" è il "comune sentire" imposto dall' alto in un orgia di luoghi comuni e politicamente corretto.
    il "prodotto" è e deve essere L' "EGEMONIA CULTURALE".


    Ora, l' imposizione di una cultura su di un popolo significa eliminare quella precedente, schiacciarla, screditarla.

    Pensiamo ai termini con cui i nostri pennivendoli descrivono , che so' gli anglosassoni, e -o i tedeschi; tipo "i popoli seri" , quelli "culturalmente avanzati" , "le formiche" , i "civili" , da contrapporsi ovviamente a noi "italioti" "poco seri" , "culturalmente arretrati" , "cicale" "incivili".
    La cosa incrdibile è che se si andasse ad osservare i dati veri, reali aggregati, scopriremmo che molto spesso i vari "parametri" ci dicono che è vero l' esatto opposto. ...Ma vallo a spiegare al piddino...

    Tra le eccellenze del nostro stile di vita non mi dilungo ma la demolizione / delegittimazione del nostro stile di vita (E L' ANNESSA PERDITA DI FIDUCIA NELLA NOSTRA COMUNITA' E IN NOI STESSI) è propedeutico all' assoggettamento ad altre culture "pubblicizzate" per migliori, piu' evolute, ecc.

    E' esattamente quello che è successo in tutti i paesi/colonia del terzo mondo, giu' giu' fino alla Russia degli anni '90 e all' Argentina della fine di quegli anni.
    Leggendo in giro per blog, mi sono imbattuto in alcuni post di una ragazza argentina che descriveva quella che accadeva in quel paese poco piu' di 10 anni fa. Ovvero , quali erano i messaggi veicolati dai media:
    "abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità"
    "siamo un popolo corrotto"
    "non siamo produttivi perchè -sostanzialmente- pigri"

    e poi, il dato che piu' mi ha fatto riflettere, e dire, è chiaro che il sistema è pilotato esattamente nella stessa maniera ovunque.
    Raccontava questa ragazza che a cavallo degli anni '90-00 si erano diffuse enormemente teorie "malthusiane".....Vi ricorda qualcosa?

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    1. Esatto. Infatti il cinema americano è sempre stato un cinema di stato, un cinema di propaganda.
      Alla fine degli anni quaranta, furono esclusi dalla produzione hollywoodiana film di ambientazione realistica che denunciassero malessere e che contenessero valori considerati antitetici alla glorificazione del sistema (di vita, sociale e politico) americano.

      F.M-

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    2. D'accordo al 100%. Specie su Hollywood-cinema-musica (pensa ai video-clip). E' tutto un discorso implicito che prosegue e estende, all'infinito, il lavorio del marketing: che utilizza sia l'informazione che si presenza come tale, sia il modello esposto che assume una suggestione imitativa prima e, poi, simbolica (cioè si fissa come vincolo emozionale profondo).
      Ma come ho detto a Frank, qui il punto era evidenziare la struttura dello specifico mercato dell'informazione: che è demiurgo e al tempo stesso "riflesso" della struttura di potere monopolistica.
      E' ovvio che i poteri "di fatto", con TUTTE le loro espressioni "comunicative", svuotano i MODELLI ISTITUZIONALI DEMOCRATICI: dovuti in fondo a rari momenti di consapevolezza della libertà e della solidarietà cooperativa orizzontale, che si tenta di stabilizzare organizzandola nelle Costituzioni.
      La "funzione di pubblico interesse", cioè l'agire di una parte specializzata della comunità per curare l'interesse di quella intera, nota M.S. Giannini, è una attitudine "innaturale" nell'essere umano.
      Per questo la vigilanza e la tensione sulla democrazia devono essere continue e inflessibili...

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    3. Il sistema di propaganda americano è sempre stato (e tutt'ora è) molto più pervasivo di quanto si creda. Ad esempio, investendo non solo la cosiddetta "informazione", ma anche la cosiddetta "cultura", l'arte e l'intrattenimento. Ad esempio, negli anni cinquanta e sessanta furono messi a libro paga molti cosiddetti "intellettuali", giornalisti, scrittori, registi, artisti, uomini di "cultura" in senso lato, che furono accompagnati nella loro carriera o guidati al successo a patto che propagandassero valori culturali americani. La penetrazione fu capillare nella "sinistra" che doveva abbandonare impostazioni marxiste e allinearsi per divenire esattamente ciò che è diventata oggi.
      I libri che tutti dovrebbero leggere al riguardo sono: "Il golpe inglese" e "La guerra fredda culturale - la Cia e il mondo delle lettere e delle arti".
      F.M.

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    4. Ma sì. Poi l'osmosi simbolica (cioè non più di cosciente comunicazione intenzionale) tra influencer hollywoodiano e comportamenti comunicativi "derivati" la possiamo constatare tutti i giorni: pensate a Renzi (...!?) che va dalla de Filippi in giubbotto di pelle nero.
      L'archetipo (dell'inconscio collettivo, ormai) è quello di James Dean e di Marlon Brando de "Il selvaggio": ma la stampa ha citato...Fonzie, che era già a sua volta metasimbolico, cioè una citazione cosciente.
      Senza mettersi a richiamare Andy Warhol, basti dire, che, un tempo, gli anticorpi erano intrinseci alla cultura italiana, forte della sua radice identitaria e, in fondo, autopreservatrice della democrazia (e senza dover tirare in gioco il cattolicesimo): pensate alla risposta destrutturante al mito primario hollywoodiano data dall'"Americano a Roma" di Alberto Sordi

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    5. Pochi lo sanno, ma non dimentichiamo mai che Renzi partecipò a "La Ruota della fortuna". E ho detto tutto.

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    6. gli anticorpi ci sono ancora 48...abbi fede...gli italiani sanno vivere troppo bene per farsi imporre "mammelada" e "mostarda"....ecco il Nando Mericoni del terzo millennio; tieni, fatti quattro risate che -come dite voi a Roma- "n' avemo bisogno":

      http://www.youtube.com/watch?v=C_3cOAOopHQ

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    7. Oggi esiste ancora un'identità culturale italiana? I Rivoluzionari alla fine possono solo rifarsi ai classici, perché di veri intellettuali (l'ultimo è stato Pasolini) visionari e controcorrente non ne vedo. Tutti gli pseudo intellettuali sono funzionali al pensiero egemone, c'è un'omologazione che fa spavento , che si propaga poi ad ogni livello.

      E questo oltre ad essere pericoloso è anche profondamente noioso.
      E comunque Fonzie a me stava simpatico, la sua iperbolica figura era già una parodia , Renzi vestito da Fonzie non saprei neppure commentarlo.

      Un Americano a Roma è un capolavoro e verrebbe spontaneo un bel : Renzi facce Tarzan...
      Scusate , sono laconica, Sofia ho apprezzato molto il post, è che questo immobilismo culturale e sociale mi deprime, forse è soltanto la primavera, o forse è soltanto vedere il mio paese devastato e sentire un forte senso di frustrazione.

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    8. Sandrina c'hai ragione: "A Renzi facce Tarzan!" E invece lo prendono sul serio: almeno i media (d'altra parte persino Giannino se ripresenta senza essere coperto da pernacchie!). Una cosa che è forse il punto più basso della parabola. Decisamente, se ti può consolare, il 25 luglio si avvicina...

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    9. :) e che sia il crepuscolo dei falsi dei... il 25 Luglio .
      E c'è pure il topolin sottile tra i papabili...non so se posso farcela:)

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    10. Eppure PdR o primo ministro, la sua presenza agevola il quadro del 25 luglio: perchè talmente è forte il suo legame con l'europa-austerità che "comunicherà" le sue mosse come un continuo segno dell'oppressione fallimentare cui ci sottopone l'UE. In fondo solo lui può innescare una crisi di rigetto abbastanza forte da risvegliare gli italiani :-)

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    11. Si lo abbiamo sempre detto che lui poteva essere fra i protagonisti dell'ipotesi frattalica:) ma un conto è ipotizzare e un conto è constatare: ora fa impressione.
      Che gli deve fare ancora a questi italiani perché si sveglino ? Un prelievo di sangue nottetempo come i vampiri...

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    12. Cara Sandra, gli italiani non si sveglieranno mai.
      F.M.

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    13. Frank, mi dispiace riconoscerlo ma neppure questa crisi epocale li ha destati...

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    14. Se ci fosse più visibilità su giornali o sulle tv di articoli come questo di Lops apparso oggi nel suo blog all'interno del Sole, anche gli italiani (in linea generale) inizierebbero a capire...il problema è appunto lo "spazio" che a tali informazioni viene concesso e CHI decide se, come e dove pubblicare...

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  8. Il problema "culturale" è centrale. Il sintomo più evidente della distruzione della cultura di un popolo è la colonizzazione e progressiva distruzione della lingua. Basta guardarsi in giro: non esiste più una pubblicità che non contenga - quando non è composta esclusivamente da - termini inglesi. Molto presto i film americani non verranno nemmeno più doppiati, già i primi esperimenti con audio originale (per ora sottotitolato) stanno dando un buon riscontro di pubblico, specie presso le giovani generazioni ormai costrette a studi universitari che cominciano ad essere erogati soltanto in inglese. Molti giovani, in modo orrendo, addirittura non si definiscono più italiani, ma europei.
    Se un popolo perde la sua cultura, come sarà mai possibile che la difenda attraverso il diritto, che è a sua volta un'espressione culturale?
    L'americanizzazione - globalizzazione ha proceduto di pari passo con l'intenzionale distruzione della cultura italiana, di cui un punto di svolta fu "The Italians" di Barzini (leggere in proposito, sempre "Il golpe inglese".
    Ormai, siamo in ritardo. E' terribile dirlo, ma è così.
    F.M.

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    1. Come diceva Petrolini "Io nun ce l''ho con te: Ma con quelli che te stanno vicini e che ancora nun t'hanno buttato de sotto" (nel caso gli italiani che non sono più capaci di dire "parla come magni: anzi se so' inventati lo slow-food, per farsi vedere fedeli alla tradizione gastronomica: ma ce la vedi una di quelle belle signore grasse di una volta che cucinavano da Dio dalla mattina presto che je dici che fa "slow food"? Te menava cor mattarello!
      Insomma, personalmente i film USA non doppiati li prediligo: sono attori fantastici se si sanno apprezzare toni e sfumature linguistiche...certo migliori dello stereotipo un pò meccanico costruito da doppiatori "seriali"- e non scevri da familismo dinastico- che, normalmente, non conoscono l'inglese "reale", lo street talk, specie americano.

      Il problema sono quelli che di definiscono "europei"e inglesizzano per sentirsi "tecnici" e sentirsi parte di un'elite al di sopra delle "masse": dei provincialotti in cerca di esaltarsi in una dimensione che li respinge, a meno che non si presentino come schiavi o lacchè (Prodi: "I was shy"... e ce lo dice pure!).
      E, allora, è da questa debolezza psicologica che nasce l'inglesizzazione dell'italiano.
      Una forma di politically correct (appunto): la nuova religione dei "diritti cosmetici", che come nel messaggio insidioso evidenziato nella introduzione al post, dipingono la faccia suadente dell'autoritarismo paternalistico; quello che contraddistingue il revanchismo del liberismo neo-classico (certo anche negli USA).
      Immancabilmente condotto dai nuovi "liberal", da Clinton e Blair, ai nostri ben noti esemplari (che peraltro eccellono nell'inglese approssimativo: "visit Italy, auar biutiful villiges").
      E, in genere, si tratta di persone, specie se si dicono europei, che odiano gli "americani", a cui imputerebbero...il liberismo.
      Esattamente come i tedeschi, che sono i primi che lamentano come "alterazione culturale" l'eccessivo uso della lingua inglese. Ma hanno tutta l'elite bundesbank che ha studiato alla Scuola di Chicago.

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    2. http://orizzonte48.blogspot.it/2013/03/ccostituzionalita-delle-manovre.html

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    5. Il link riguardava la domanda posta da ultimo "Ci teniamo una modifica costituzionale...?"
      Quell'articolo, finora, è l'unica voce, nel panorama scientifico italiano, che sostenga le cose ivi contenute sul piano tecnico-giuridico legato ad un'esatta analisi economica.

      Ed è anche l'unico articolo scientifico, pubblicato su una rivista quotata, che riprenda la teoria del "sindacato interno" alla Costituzione per respingere la stessa norma costituzionale del pareggio di bilancio.

      A onor del vero in quell'articolo, richiamandosi l'andamento dei saldi settoriali, era anche confutata la questione dell'efficacia causale del debito come fattore di mancata crescita. E, d'altra parte, questa regola basata sui saldi settoriali è quella in base a cui gli economisti seri (a partire da...keynes, Godley e per finire a Bagnai, in Italia) hanno sempre tutti ritenuto una panzana lo studio in questione.
      Cosa diffusa anche su questo blog, in vari post, direttamente o indirettamente, fin dall'inizio.

      Nessuno ha polemizzato con te in questa serie di commenti. E non vedo alcuna derisione in alcun passaggio.
      Solo che questo è un blog di analisi economica del diritto: il post in commento può apparire una digressione, parlando di tecniche dell'informazione, ma lo fa sul presupposto della identificazione della reale struttura di mercato, in generale e dell'informazione, per confermare quello che spesso si dimentica: che la libera concorrenza a cui sarebbe funzionale la "stabilità dei prezzi" non esiste. Caduta la prima, la seconda è un'ipocrita restaurazione del capitalismo ante '29.
      Questo è il succo del discorso.
      Ma per comprenderlo occorre non dare per scontati i dati tecnici (giuridici ed economici in congiunzione)che offre questo blog nel suo complesso.
      E, quindi, al di là della libertà di espressione nei commenti ampiamente consentita, occorre avere il desiderio di leggerlo per informarsi su questioni che nessun altro blog consente di acquisire e che non si limitano a opinioni generiche personali, ma si inseriscono nella letteratura scientifca.

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    7. Svissero, se tu avessi recepito buona parte del materiale del blog, non diresti che le cose dette nel post linkato sono per te scontate. E d'altra parte, peraltro, non vedo nulla di sbagliato nelle tue opinioni personali sulla questione qui in commento.
      Quello che infatti ti ho sottolineato è che nessuno le ha contraddette.
      Hai dato il tuo contributo; ti è stata data una direzione di informazione, perchè si rispondeva a un tuo quesito e quindi poteva risultarti di arricchimento. Se lo desideri.
      Qua non siamo su goofynomics dove se uno si mette troppo a replicare e a polemizzare viene annichilito.
      Però, non si può dialogare all'infinito se non c'è un contrasto neppure su quello che hai potuto esprimere liberamente. OK?

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    9. "E d'altra parte, peraltro, non vedo nulla di sbagliato nelle tue opinioni personali sulla questione qui in commento.
      Quello che infatti ti ho sottolineato è che nessuno le ha contraddette.
      ...ti è stata data una direzione di informazione, perchè si rispondeva a un tuo quesito e quindi poteva risultarti di arricchimento. Se lo desideri.
      Qua NON siamo su goofynomics dove se uno si mette troppo a replicare e a polemizzare viene annichilito."

      Quanto al troll del PUD€, ognuno usa il suo tempo a polemizzare come crede.
      Devo dire che sei il primo caso di troll che ha polemizzato sul nulla, cioè in assenza di contraddizione. Un caso di incipiente ipersensibilità?

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  11. OT, ma non tanto....Certe informazioni non le leggiamo certamente sui giornaloni dei poteri forti.....Siamo ormai al limite dell'associazione a delinquere!

    http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2013/4/10/FINANZA-Il-trucco-di-Francia-e-Germania-per-fare-soldi-con-Cipro/3/381468/

    ...e forse oltre...

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  12. Buongiorno,

    credo utile segnalare su questo blog il documento del professor Guarino intitolato "Euro: 20 anni di depressione" perchè l'analisi dei trattati, la illiceità del fiscal compact e le conseguenze sulla sovranità dei singoli stati, ma soprattutto il punto 19 del documento sull'uscita dell'euro ovvero sul carattere facoltativo di aderirvi e quindi sulla facoltà degli Stati di uscirne, è spiegato in modo talmente chiaro da essere comprensibile anche a me. Sono cose che a chi segue questo blog e quello di Bagnai sono note e quindi vi troverà molte conferme, ma anche molte novità credo.

    P.S.: e dopo tante """"""novità"""""" politiche, ci mancava di dover leggere una tale analisi sul sito della...... D.C. !

    PP.SS.: il documento è stato segnalato da Undiemi su twitter.

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    1. In effetti l'articolo ha una enorme pecca: dichiara di voler essere essclusivamente "giuridico" ma accredita risultati e scientificità economica a una serie di presupposti economici dei trattati che si sono rivelati del tutto fallaci.
      E fa continuamente affermazioni che dimostrano non solo di ignorare la teoria delle aree valutarie ottimali, ma anche la stessa natura scientificamente controversa e fallimentare della neo-macroeconomia classica.
      Alla fine la cosa buona è che accoglie l'idea che la crescita sotto l'euro è indebolita e che l'adesione ad esso è meramente facoltativa...

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  13. Pare che oggi basti affermare che esistono poteri o influenze informali per guadagnarsi la qualifica di complottista: posizione risibile che delegittima consolidati filoni di studi, neanche di segno necessariamente granché progressista, come la capture theory (per dire: Stiglitz nel suo ultimo libro afferma che i banchieri centrali "indipendenti" sono catturati dal settore bancario privato. Un altro complottista). Discutendo con un piddino mi son trovato a chiedergli: "Quando Marx diceva che lo Stato era il comitato d'affari della borghesia era un complottista?".

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