1. Corre l'obbligo di cercare di capire le ragioni della pronuncia di inammissibilità del quesito sull'art.18, appena adottata dalla Corte costituzionale.
Quello che, allo stato, è riportato sui media si riassume in alcuni fatti e orientamenti "trapelati".
Anzitutto, com'era preannunciato, si è svolta una dura discussione in camera di consiglio: la maggioranza di 8 a 5, peraltro, mostra un certo compattamento su una visione progressivamente (sempre più) restrittiva dei quesiti ammissibili, tanto più rilevante, per la vita democratica dei cittadini, quanto più tale orientamento incide sulla sostanza (ormai residuale) e sul ruolo della sovranità popolare: e lo abbiamo visto in questo post, anticipatore dei problemi di rappresentatività che le stesse istituzioni di governo si trovano a fronteggiare, essenzialmente a seguito del "vincolo esterno" €uropeo, di fronte a una restrizione della sovranità prevista dall'art.1 Cost.
Si potrebbe dire che interpretazioni, della varie Corti, che, progressivamente, sottraggono questa portata precettiva alle clausole sociali contenute nelle previsioni più importanti e caratterizzanti della nostra Costituzione, sono esse stesse "manipolative" e, con molta più efficacia del referendum (il cui esito è sempre neutralizzabile da un nuovo intervento normativo del Parlamento), "introduttive", di nuove norme costituzionali estranee alla volontà dei Legislatori primigenii della Costituente.
3. Molte fonti autorevoli della scienza giuridica e molti dati economici, tanto significativi quanto ignorati (dalle Corti, intente a ridisegnare de facto le norme fondamentali della Costituzione) potrebbero essere citati: in questa sede ci limitiamo ad alcune annotazioni salienti.
La prima è l'argomentazione clou della relatrice designata alla Corte per trattare l'ammissibilità dei quesiti: la prof. Sciarra, non a caso, ha compiuto la scelta forte, di dissenso, passando al vice-presidente la redazione della pronuncia, e lasciando la seguente "dissenting opinion" secondo le attuali "cronache":
"Per la Sciarra il riferimento per l’ammissibilità è la sentenza numero
41 del 2003 che dichiarò ammissibile il referendum che ampliava
l’applicabilità della tutela dell’articolo 18 al di sotto dei 16
dipendenti e lo estendeva addirittura all’impresa con un solo
dipendente.
Identica per materia al quesito del 2016.
Non solo. Entrando
ancora di più nel dettaglio. Tradizionalmente l’articolo 18, ovvero la
reintegra per licenziamento ingiustificato, si fermava di fronte a due
soglie: quella dei 15 dipendenti per le imprese commerciali e
industriali e quella inferiore a cinque per le imprese agricole.
Il
quesito del referendum (ammesso) nel 2003 proponeva di abolire entrambe
le soglie cosicché tutte le imprese – commerciali, industriali ed
agricole – anche con un solo dipendente sarebbero divenute soggette
all’articolo 18.
Il quesito discusso oggi fa saltare solo un limite,
quello dei 15 dipendenti per le imprese commerciali e industriali, e
dunque il limite sarebbe solo di 5 dipendenti come per le agricole. Ecco
l’argomentazione della relatrice, finita in minoranza: che senso ha
dire che quello del 2003 era abrogativo - infatti il referendum si
celebrò - e questo è manipolativo? E ancora: se la Corte ha ritenuto
ammissibile nel 2003 un quesito che abrogava tutti i limiti, perché non
ammettere un quesito che ne elimina solo uno? Sarebbe come se la Corte
smentisse se stessa".
4. E invece, come sappiamo, il quesito è stato ritenuto inammissibile sulla scorta della giurisprudenza sulla "manipolatività" e sulla conseguente sua natura introduttiva di una nuova norma.
Ora, questo indirizzo della Corte, come abbiamo appena visto, diviene altamente incerto e soggetto ad una rivedibilità "caso per caso" che lascia la possibilità di espletamento dei referendum, stranamente proprio nei casi più rilevanti per l'affermazione del programma costituzionale, alla imprevedibile discrezionalità della Corte.
La stessa "discrezionalità", che nei giudizi di costituzionalità delle leggi, la Corte attribuisce al Legislatore quando preferisce arrivare a un sostanziale "non liquet" (cioè "non mi spetta di pronunciarmi") sui profili che coinvolgono maggiormente la portata precettiva della clausole di "socialità" e di realizzazione dell'eguaglianza sostanziale (art.3, comma 2, Cost.: secondo Basso, Mortati, Caffè, Calamandrei, - ma anche, oggi, secondo Luciani, forse il più autorevole costituzionalista italiano-, la disposizione più importante di tutta la Costituzione).
5. L'eguaglianza sostanziale, almeno un tempo, era concepita come oggetto di un obbligo attuale di "intervento" di Parlamento e governo, come legislatori e amministratori, ed andava promossa perciò attraverso un'attivazione dello Stato.
Un obbligo che, però, è ormai divenuto privo di concreto significato: e, quasi immancabilmente, per "superiori" ragioni di "vincolo assunto con l'UE", o per le sue proiezioni immediate.
Tra queste "ragioni vincolanti" indubbiamente, (v.p.3.1.), figura lo stesso jobs act, richiesto insistentemente, col riferimento ossessivo alle "riforme strutturali", dalla Commissione UE, dalla lettera Draghi-Trichet del 2011, e tante altre pressioni sovranazionali, di OCSE, FMI, BCE (a cui l'art.130 del TFUE vieterebbe queste "sollecitazioni", nonché dai cancellierati della Germania e dei suoi satelliti.
6. Il prof. Valerio Onida (presidente emerito della Corte costituzionale), non certo propenso a forti interpretazioni "sociali". ma rigoroso nel concepire l'effettività della clausola (art.1 Cost.!) sull'attribuzione della sovranità al "popolo", si era già espresso sul connesso problema dell'ammissibilità dei quesiti referendari e della giurisprudenza della Corte cost., creativa di limiti ulteriori rispetto a quelli, già ragguardevoli, contenuti nella previsione costituzionale.
Il referendum ex art.75 Cost., naturalmente, realizzando una forma di democrazia diretta, correttiva e di "verifica" dell'operato e dell'attuale rappresentatività "popolare" del parlamento, è una diretta espressione del potere dell'elettorato di sindacare, come gli spetta, l'omissione o la distorsione de "l'obbligo di attivazione" posto dall'art.3, comma 2: in questa prospettiva di rigore interpretativo, Onida aveva detto (nel 1995):
"A mio parere i passaggi «fatali» di questa giurisprudenza, che hanno
contribuito più di ogni altra cosa alla distorsione dell'istituto
referendario, sono stati due.
Il primo è quello con cui la Corte,
apparentemente (ma solo apparentemente) sviluppando il requisito della
«omogeneità» del quesito, a tutela della libertà di voto che sarebbe
compromessa dalla proposizione in unico quesito di più domande diverse,
ha affermato che il quesito deve essere anche «chiaro» e «coerente», e
che a tale fine deve risultare palese il risultato che i promotori si
propongono di raggiungere.
Ora, il referendum abrogativo, previsto dalla
Costituzione, tende di per sé ad un unico risultato, che è la
cancellazione di una o più norme.
Quel che succede nell'ordinamento a
seguito di tale cancellazione è vicenda ulteriore, che non riguarda se
non indirettamente i promotori del referendum...
Pretendendo invece dai
promotori l'univocità in ordine agli scopi dell'abrogazione, la Corte ha
avallato ed anzi ha indotto o addirittura reso necessaria la
formulazione di quesiti complessi ed elaborati, e ha incentivato la
tendenza a fare dei quesiti referendari uno strumento di proposta
legislativa positiva.
Il secondo passaggio è quello con cui la Corte, di
fronte a quesiti referendari relativi a leggi che disciplinavano la
formazione di organi costituzionali... ha affermato che l'ammissibilità è
condizionata al fatto che la proposta abrogazione lasci in vita una
normativa «autosufficiente». Dunque non solo il quesito deve rendere
esplicito a che cosa esso tende, ma deve proprio tendere a dar vita,
come normativa «di risulta», ad un a legge in grado di essere
applicata...A questo punto, come si vede, la strada dei referendum
«manipolativi» non solo si è aperta, ma si è spalancata, e addirittura è
divenuta talvolta un percorso obbligato..."
7. Ma v'è ben di più, a questo punto della vicenda, date tutte le premesse finora svolte.
Abbiamo visto come la relatrice Sciarra abbia enfatizzato la contraddittorietà della inammissibilità in relazione a un precedente che più specifico non poteva essere (un caso di referendum abrogativo ammesso dalla Corte, proprio sull'art.18 e in senso egualmente "resecativo-manipolativo", referendum il cui esito era stato vanificato dal mancato raggiungimento del "quorum" dei votanti).
In proposito, ci soccorre quanto aveva fatto presente, - dall'esterno e in controtendenza rispetto al mainstream politico-mediatico, che prima ha "premuto" per la inammissibilità e oggi, naturalmente, l'acclama a gran voce-, il costituzionalista prof. Pallante, in raccordo con quanto osservato anche dal prof. Azzariti (altro autorevole costituzionalista..inascoltato).
7.1. Questi i passaggi salienti:
"Nessun dubbio, dunque, che quello del 2003 fosse un referendum
manipolativo, vale a dire un referendum volto in ultima istanza non a
eliminare norme, ma a introdurne di nuove. La consultazione poi fallì,
per il mancato raggiungimento del quorum.
Ma, resta il precedente
dell'ammissione del quesito, nonostante il suo contenuto
manipolativo-propositivo. Per quale motivo allora, almeno stando alle
indiscrezioni giornalistiche, l'Avvocatura dello Stato avrebbe chiesto
l'inammissibilità del referendum odierno denunciandone la natura
manipolativa? E, soprattutto, per quale motivo, sempre stando ai
giornali, tale argomentazione avrebbe addirittura fatto breccia in
alcuni dei giudici costituzionali in carica? Davvero è possibile che la
Corte intenda rimangiarsi i propri precedenti? O il giudizio di
ammissibilità sta perdendo la sua connotazione squisitamente
costituzionale per assumerne una marcatamente politica?
...
In definitiva: nel 2003 la tutela reale era prevista solo per i
lavoratori dipendenti da datori di lavoro con più di 15 dipendenti e si
trattava di estenderla ad altri lavoratori (anche se non a tutti:
restavano infatti esclusi i lavoratori appartenenti a determinate
categorie "speciali"); oggi la tutela reale è prevista solo per i
lavoratori dipendenti da datori di lavoro con più di 15 dipendenti
assunti prima dell'entrata in vigore del Jobs Act e si tratta di
estenderla ad altri lavoratori (anche se non a tutti: resterebbero
infatti esclusi i lavoratori dipendenti da datori di lavoro con meno di 5
dipendenti, i dipendenti da datori di lavoro svolgenti senza fini di
lucro attività «di tendenza», i lavoratori appartenenti a determinate
categorie "speciali"). Dov'è la differenza? Perché il referendum del
2003 era ammissibile e quello del 2017, che peraltro avrebbe una portata
estensiva ben minore, non lo sarebbe? La logica non ci insegna che dove
sta il più necessariamente sta anche il meno (ciò che gli studiosi
dell'argomentazione giuridica chiamano ragionamento a fortiori)?
La
sentenza n. 41 del 2003 si chiudeva rilevando che la domanda rivolta
agli elettori «si presenta chiara e univoca nella sua struttura e nei
suoi effetti», dal momento che «propone al corpo elettorale
un'alternativa netta» (punto 3.5 del Considerato in diritto).
Proprio le
tensioni odierne dimostrano che la situazione non è cambiata.
Di nuovo,
l'alternativa è netta: da una parte stanno coloro per i quali il lavoro
è oramai solo uno dei costi che l'impresa deve minimizzare; dall'altra
stanno coloro per i quali il lavoro è insostituibile requisito perché
l'esistenza di ciascuna persona sia realmente «libera e dignitosa». La
prima, è l'idea di lavoro propria del finanz-capitalismo imperante; la
seconda, è l'idea di lavoro prevista dalla Costituzione. Da che parte
sta la Corte costituzionale, lo scopriremo l'11 gennaio".
8. Va anche precisato un ulteriore aspetto.
Non è che basterebbe, dunque, che il quesito sia manipolativo-propositivo per escluderne l'ammissibilità.
Occorre anche che sia che esso NON "realizzi una "saldatura di frammenti lessicali eterogenei", sostituendo una previsione di legge con un'altra che "figura in tutt'altro contesto normativo".
8.1. Come (peraltro) attesta il precedente del 2003, era ben difficile ravvisare, anche in questo quesito sull'art.18, la saldatura di frammenti lessicali etetogenei e la sostituzione di una norma con un'altra ascrivibile a "tutt'altro contesto normativo".
L'alternativa per l'elettorato, come abbiamo visto, era "netta", cioè ben chiara nella sua sostanza agevolmente spiegabile: non meno agevolmente che in tutti gli altri casi di quesito abrogativo, che - a causa della complessità, (se non "voluta" oscurità), del lessico dell'attuale Legislatore (in genere ricettivo delle "incredibili" direttive e fonti UE).
Ed infatti, il contesto normativo era manifestamente "unitario", trattandosi di un comma di un singolo articolato ad oggetto omogeneo (disciplina dei presupposti di applicazione di una certa procedura o "fattispecie complessa", e delle possibili misure di tutela applicabili dal giudice nel processo), ancorché incidentalmente, ma in modo irrilevante ai fini della chiara ratio dell'art.75 Cost. (qui, p.2.2.), derivante storicamente dalla sovrapposizione di più fonti nel tempo.
Per tutto quanto appena detto, non si verificava nessuna possibile saldatura di frammenti eterogenei per introdurre una norma riferita a "tutt'altro contesto normativo": la norma sui presupposti procedurali della tutela era unitaria, e quest'ultima contenuta in una disciplina organica e concentrata, sebbene frutto di un processo di stratificazione di successivi interventi, tutti ascrivibili alla volontà del Legislatore di realizzare le riforme strutturali, sotto la sferza incessante degli "obblighi assunti in sede €uropea".
9. Ma l'aspetto più grave, per la preservazione dell'impianto della stessa sovranità democratico-sostanziale delineata dalla Costituzione, concerne la natura, e l'importanza, degli interessi che ne sono coinvolti alla stregua delle priorità assunte dalla Carta del 1948.
Si trattava infatti di ammettere, o meno, la verifica del popolo sovrano su una disciplina legislativa che coinvolgeva la stessa natura, funzionalità ed efficacia nel tempo del contratto di lavoro; cioè, di quello che la Costituzione, (e non altri, non l'UE), considera, evitando ogni ipocrisia "liberal-liberista" sulla rispettiva posizione di forza contrattuale delle sue parti tipiche, un negozio bilaterale non riconducibile al mero, "classico" contratto tra parti poste in condizioni di parità.
Torniamo, quindi, ancora a Luciani, - di cui, per una più ampia comprensione del problema, consigliamo la lettura di questo, veramente notevole, recente saggio sul "livello essenziale" delle prestazioni corrispondenti ai "diritti sociali"- che, in uno scritto del 1983 (grazie Arturo), ci spiega molto bene il modo in cui la "libertà negoziale", fondata nel nostro ordinamento sull'art.41 Cost., si atteggia in questa specifica materia:
“L'elemento-chiave in possesso dell’interprete della prima parte
dell'art. 41, 2° co., Cost., è la qualificazione fatta dalla norma della
utilità che vuole raggiungere: utilità sociale.”
“Questo aspetto dall'art. 41, questo suo collegamento strettissimo con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3, 2° co., è ormai tanto noto da non dover essere ancora sottolineato: il progetto dell’art. 3 è realizzabile solo se ne esistono le condizioni economiche, e il governo della struttura economia è regolato (per quanto riguarda le situazioni soggettive di vantaggio) dagli artt. 41 sgg. Cost.
“Questo aspetto dall'art. 41, questo suo collegamento strettissimo con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3, 2° co., è ormai tanto noto da non dover essere ancora sottolineato: il progetto dell’art. 3 è realizzabile solo se ne esistono le condizioni economiche, e il governo della struttura economia è regolato (per quanto riguarda le situazioni soggettive di vantaggio) dagli artt. 41 sgg. Cost.
Il punto va incidentalmente sottolineato con vigore: non tutti i Wertbegriffe [concetti di valore] presenti in Costituzione godono di questo collegamento privilegiato con l’art. 3, 2° co., ma solo quelli, come l'utilità sociale, che esprimono valori assolutamente funzionali al compimento del progetto ivi previsto […]. (La produzione economica privata nel sistema costituzionale, Cedam, Padova, 1983, pagg. 123-4, 125 e 129)”.
10. Ma in un tempo passato, che pare diventato inconcepibilmente lontano e europeisticamente "alieno", lo stesso, ben noto, Commentario alla Costituzione di "G. Branca", nelle parole del prof. Mancini, rapportava tutto questo al contratto di lavoro e alla tutela costituzionalmente "vincolata" della parte debole nel rapporto che ne nasceva.
Questa (al tempo) assolutamente prevalente lettura logico-sistematica, era condivisa come "interpretazione naturale" che, sul piano letterale, sistematico, storico e della ratio, non pareva poter essere scalfita se non da vicende politiche che provocassero un mutamento costituzionale extraordinem, visto che gli artt. 1 e 4 della Costituzione sono ritenuti (per ora) unanimemente non assoggettabili a revisione, cioè a "riforma" costituzionale:
“Non v’è dubbio che il diritto a conservare il posto divenga «
effettivo », come esige l’art. in esame, solo quando i limiti al potere
di recesso abbiano carattere reale [ndr: essendo cioè sanzionati col ripristino del contratto mediante la "reintegra]; in altri termini, solo quando l'atto
posto in essere senza tenerne conto sia colpito di invalidità.
Ora, si
può comprendere che, perseguendo quel che la Corte ha chiamato
«l’indirizzo politico di progressiva garanzia del diritto al lavoro», il
Parlamento abbia nel '66 sancito limiti unicamente obbligatori; anche
se, agli occhi di alcuni giuristi di sinistra, la protezione così
accordata ai lavoratori finisse per essere meno intensa della tutela
che, già in precedenza, avrebbe potuto fornire un'interpretazione
evolutiva dell’art. 2118.
Assai meno comprensibile, comunque, sarebbe un suo ritorno a tali limiti oggi o domani.
Salire dal niente al poco avendo di mira il tutto o il quasi tutto è una cosa (saggia, aggiungerebbe un gradualista).
Scendere
dal tutto — che corrisponde alla direttiva politica contenuta nella
norma — al poco, specie se questo, com’è nel caso in esame, somiglia più
al niente che al tutto (i limiti obbligatori non intaccano
l’efficacia del licenziamento; aumentano solo il costo del suo
esercizio), è una cosa affatto diversa. E, a mio avviso, contestabile
sul piano della correttezza costituzionale.”
11. Non era dunque in gioco, nella vicenda della referendum sull'art.41 Cost., un diritto alla "libera" organizzazione dell'impresa, e di conseguenza, il "diritto" ad ogni possibile livello di profitto (diritto che, a quanto pare, la Cassazione ora ritiene incondizionabile e prevalente su ogni aspetto dell'utilità sociale, svincolandosi dagli artt. 1, 4 e 35 Cost. e da ogni obbligo della legge statale di garantire la previsione sulla "effettività" del diritto al lavoro).
Dunque la contraddizione tra il precedente del 2003, e la stessa coerente e "intelleggibile" applicazione del criterio (già fortemente controverso di per sé, secondo la limpida analisi, "a monte", compiuta a suo tempo da Onida), relativo ai quesiti, sulla "saldatura di frammenti lessicali eterogenei", sostituendo una
previsione di legge con un'altra che "figura in tutt'altro contesto
normativo", finiscono per pesare come un macigno, una "pietra tombale" sulla stessa preservazione dei principi fondamentalissimi della Costituzione.
11.1. E sullo sfondo di questo schiacciamento si staglia l'ombra dell'UE, della moneta unica, della sua inesorabile funzione di sostituire, alla svalutazione dei cambi in regime flessibile, la ben nota, "svalutazione (c.d. "interna") del lavoro".
Con costi sociali che, a questo punto, volendo addossarli solo a carico del mercato del lavoro e della dilagante disoccupazione, portano la comunità sociale (de-sovranizzata) ad un livello crescente di "compressione": fino a volerne fare una "pentola a pressione" che avrà il suo punto di rottura in un'esplosione.
Qualcuno dovrà assumersene la responsabilità, prima o poi.
Temo che la tremenda responsabilità se la sia assunta la Corte Costituzionale preceduta di poco dalla Cassazione con la sua degradante rilettura dell'art. 41, di fatto subordinato alla ricostruzione sistematica della legislazione ordinaria. Che proprio oggi (forse ad un passo dal cambio di passo) le supreme magistrature rileggano i loro consolidati indirizzi giurisprudenziali stravolgendoli in senso conservatore di uno statu quo sempre più instabile è estremamente pericoloso, poiché oltre a connotarsi di palese politicità, con sentenze inattendibil,i data la loro indubbia imprevedibilità alla luce dei precedenti, rischiano, a pentola a pressione scoppiata, di essere additate come uniche responsabili dello scoppio.
RispondiEliminaCerto, c'è il pericolo di questa quasi "auto-beffarda" autoinvestitura di responsabilità politiche del legislatore.
EliminaE del dover inopinatamente sopportare il costo legato alla non compresa evoluzione della stessa struttura dei rapporti economici internazionali (di cui è un sintomo, ignorato, la degenerazione dei rapporti produttivi e sociali nazionali).
Il potere "liberale" (ossia del "privato", stando con Schmitt) è potere di non prendersi responsabilità.
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